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Dic 1, 2016

II Domenica di Avvento – Anno A – “Preparate la via del Signore…” 4 dicembre 2016

La liturgia di questa seconda domenica di Avvento ci invita con la voce di Giovanni il Battista a “preparare la via al Signore”, annunciandone la venuta imminente.

Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Isaia, troviamo una delle più belle pagine poetiche divenuta poi uno dei più celebri canti messianici. Il profeta sembra disegnare simbolicamente la fisionomia di un erede di Davide e per farlo ricorre ad un immagine agricola: da un tronco tagliato e inaridito, spunta un germoglio, un inizio inaspettato di vita.

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nella sua lettera ai Romani, ci esorta ad accogliere la Parola di Dio per essere uomini e donne pieni di speranza che è dono dello Spirito Santo.

Il Vangelo di Matteo, ci presenta il Battista che in tono severo, minacciando anche castighi tremendi, invita alla conversione per preparare la strada al Messia. Giovanni Battista è colui che riassume in sé tutto l’Antico Testamento e lo unisce al Nuovo, è il precursore del Messia Gesù nella vita come nella morte, e Gesù stesso lo definisce “il più grande tra i nati di donna”.

Dal libro del profeta Isaia

Messaggio che Isaìa, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.

Alla fine dei giorni,

il monte del tempio del Signore

sarà saldo sulla cima dei monti

e si innalzerà sopra i colli,

e ad esso affluiranno tutte le genti.

Verranno molti popoli e diranno:

“Venite, saliamo sul monte del Signore,

al tempio del Dio di Giacobbe,

perché ci insegni le sue vie

e possiamo camminare per i suoi sentieri”.

Poiché da Sion uscirà la legge

e da Gerusalemme la parola del Signore.

Egli sarà giudice fra le genti

e arbitro fra molti popoli.

Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,

e delle loro lance faranno falci;

una nazione non alzerà più la spada

contro un’altra nazione,

non impareranno più l'arte della guerra.

Casa di Giacobbe, venite,

camminiamo nella luce del Signore.

Is 2,1-3

Il profeta Isaia (Primo Isaia) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C, quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal buon re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini.

La prima parte del libro che porta il suo nome (cc. 1-39) contiene in gran parte oracoli che con una certa sicurezza sono stati da lui composti,. Essa si apre con una serie di poemi composti nel 740-736, durante il periodo in cui Iotam era re di Giuda (Is 1-5). In essi, dopo una forte requisitoria contro il popolo ribelle, divenuto preda di una completa desolazione, il profeta prospetta la pace futura, a cui corrisponde l’abbassamento dei potenti di questo mondo. Vengono poi riportati altri oracoli riguardanti la situazione drammatica di Gerusalemme, con al termine l’annunzio della venuta di un “germoglio giusto”, che è messaggio tardivo di speranza per gli esuli in Babilonia (Is 3-4). Come conclusione della raccolta si trova il “canto della vigna”, seguito da una serie di minacce (Is 5).

Nel brano che abbiamo il profeta riporta una visione contenente un messaggio che riguarda Giuda e Gerusalemme. Nell’oracolo si prospetta per questo regno, in contrasto con la drammatica situazione descritta negli oracoli precedenti, un futuro meraviglioso: “Alla fine dei giorni,il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e si innalzerà sopra i colli,”. L’espressione “fine dei giorni “ indica un imprecisato momento della storia in cui il progetto divino giunge a compimento. Si tratta dunque di un evento che rappresenta la meta a cui è necessario orientarsi nel corso della storia. Esso giunge al termine di un processo di cui Dio è l’autore, ma che si attua progressivamente con la collaborazione umana.

Nell’ambiente siro-palestinese i tempietti delle divinità locali venivano costruiti sulle alture. Anche il Signore ha la Sua dimora sulla montagna di Sion, nel tempio costruito in Suo onore e il profeta immagina questa montagna come un luogo particolarmente saldo e decisamente più alto delle montagne circostanti.

“ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno:“Venite, saliamo sul monte del Signore,al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Tre volte all’anno tutti gli israeliti dovevano recarsi al Suo tempio portando i loro doni (Es 23,17; 34,23) e secondo questo oracolo chi si mette in cammino verso la montagna sono tutte le “genti” e molti “popoli”.

Nel testo parallelo del profeta Michea viene riportato che le nazioni sono identificate come “coloro che camminano con i propri dèi”, quindi anche i pagani(Mi 4,5). Lo scopo di questo pellegrinaggio viene colto nelle parole di coloro che si mettono in cammino. Essi vanno al “tempio del Dio di Giacobbe perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. La salita dei popoli ha una ragione: “Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli.” Il desiderio delle nazioni viene esaudito: da Sion ossia da Gerusalemme, dal luogo in cui si trova il santuario, escono sia la “la legge” che “la parola» del Signore.

L’incontro con il Signore provoca una trasformazione radicale nei rapporti fra i popoli: “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,e delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione,non impareranno più l'arte della guerra”. L’effetto del governo del Signore è la pace fra i popoli. Convertire le spade in aratri e le lance in falci è il risultato di un cambiamento di vita per tutti. In forza della parola del Signore le nazioni non solo rinunziano a farsi la guerra, ma trasformano le armi in strumenti con cui produrre ciò che è necessario per l’alimentazione della gente. La pace porta con sé un incremento del benessere anche materiale di tutti.

L’oracolo termina con un invito rivolto a Israele:”Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore”. Implicitamente si dice che la promessa di pace potrà realizzarsi solo se coloro che hanno cominciato ormai a imparare dal Signore a lasciarsi guidare da Lui prenderanno veramente a cuore il camminare nel Suo insegnamento.

Questo oracolo è ripreso in Giovanni 4,22 dove Gesù parlando con la samaritana afferma che” la salvezza viene dai Giudei”, e in Luca 24,47 dopo la Sua resurrezione dice ai suoi discepoli che “nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.”

Salmo 121 - Andiamo con gioia incontro al Signore.

Quale gioia, quando mi dissero:

“Andremo alla casa del Signore”.

Già sono fermi i nostri piedi

alle tue porte, Gerusalemme!

E’ là che salgono le tribù,

le tribù del Signore,

secondo la legge di Israele,

per lodare il nome del Signore.

Là sono posti i troni del giudizio,

i troni della casa di Davide.

Chiedete pace per Gerusalemme:

vivano insieme sicuri quelli che ti amano,

sia pace nelle tue mura,

sicurezza nei tuoi palazzi.

Per i miei fratelli e i miei amici

Io dirò: « Su di te sia pace!».

Per la casa del Signore nostro Dio,

Chiederò per te il bene.

Questo salmo era usato per i pellegrinaggi annuali a Gerusalemme. Probabilmente venne scritto dopo la ricostruzione del tempio e delle mura di Gerusalemme al tempo del ritorno dall'esilio; infatti la grande gioia alla notizia che “Andremo alla casa del Signore”, presuppone un fatto straordinario, lungamente atteso, e non uno dei tre pellegrinaggi annuali prescritti dalla legge (Es 23,17; 34,23).

Lo stupore di fronte alla compattezza che presenta la città si apre alla lode di Dio: “Gerusalemme è costruita come città unita e compatta”. La città viene celebrata come il centro dell'unità religiosa per la presenza del tempio e come centro del governo civile: “E' là che salgono le tribù, le tribù del Signore (...) per lodare il nome del Signore. Là sono posti i troni del giudizio, i troni della casa di Davide”: benché politicamente non autonoma Gerusalemme è retta dalle leggi di Israele; la menzione di Davide dice che per l'Israelita Gerusalemme rimane legata a Davide, e quindi al futuro Messia.

Il salmista non manca di rivolgersi ai pellegrini invitandoli a pregare: “Chiedete pace per Gerusalemme”; e invoca pace su quanti la amano, cioè su quanti credono nel disegno di Dio su Gerusalemme. La pace invocata è quella che verrà portata dal Principe della pace.

A Gerusalemme si è formata la prima Chiesa particolare, che è stata la madre delle altre Chiese particolari, poiché il Vangelo è partito dalla comunità di Gerusalemme. Ma tutte le Chiese particolari, compresa quella di Gerusalemme, formano e sussistono nell'unica Chiesa di Cristo, che ha come vincolo di unità il successore di Pietro. Il pellegrinaggio dei popoli, delle dodici tribù della terra, trova il suo gioioso approdo alle “porte” della Gerusalemme messianica, pronta ad accogliere tutte le genti. La Gerusalemme messianica è la “civitas cristiana”, che ha come costitutivo fondante la Chiesa (Cf. Ap 21,9s).

Per la “civitas cristiana”, o società dell'amore, bisogna sempre pregare perché tragga costantemente dal Cristo la sua pace e la diffonda estendendosi a tutta la terra.

Il pellegrinaggio, tuttavia, non è cessato perché terminerà solo con l'ingresso nella Gerusalemme celeste.

Lo stupore di potere andare nella “casa del Signore” i cristiani lo hanno avuto nell'erezione delle prime basiliche a Roma, dopo le ondate di persecuzione per annullare la Chiesa.

Il primo stupore di fronte alla Gerusalemme messianica, o civiltà dell'amore, i cristiani lo hanno avuto quanto hanno visto il potere politico di Roma aprirsi a Cristo e alla Chiesa.

Ora il potere politico delle nazioni si sta sempre più chiudendo alla Chiesa, ma non si annullerà il germe della “civitas cristiana”; verrà infatti il giorno in cui su tutta la terra fiorirà la civiltà della verità e dell'amore.

Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani

Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.

La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo

Rm 13,11-14a

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere istituiti a Gerusalemme. La Lettera ai Romani è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo perchè affronta grandi temi teologici: l'universalità e la gratuità del dono della salvezza che si ottiene per mezzo della fede in Cristo; la fedeltà di Dio; i rapporti tra giudaismo e cristianesimo; la libertà di aderire alla legge dello Spirito che dà vita.

In questo brano Paolo, dopo avere esortato a non avere altro debito se non quello dell’amore vicendevole, fa una considerazione riguardante i tempi della salvezza: “questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti”. Il credente deve praticare l’amore del prossimo consapevole del “momento speciale” (kairos) in cui sta vivendo. Come per chi dorme l’arrivo del mattino segna l’ora in cui deve ormai svegliarsi dal sonno, così per il credente il tempo attuale è quello in cui deve rendersi conto che la salvezza finale è ormai più vicina di quando ha aderito alla fede. Paolo si rifà qui alla convinzione, ampiamente diffusa tra i primi cristiani, secondo cui il ritorno del Signore fosse imminente (1Ts 4,13-18), e ogni momento che passava lo rendeva più vicino. Il confronto del mattino che si avvicina viene poi ulteriormente sviluppato: “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce”. Come coloro per i quali la notte sta ormai per passare devono disporsi alla giornata che comincia, così i credenti devono disfarsi delle “opere delle tenebre” e “rivestire le armi della luce”. Il paragone della notte che lascia il posto al giorno ispira a Paolo un’altra esortazione: “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie” .

Il credente deve “comportarsi” onestamente, come in pieno giorno. Ciò significa l’abbandono degli atteggiamenti negativi che caratterizzano quelli che operano nelle tenebre. Questo comportamento negativo viene delineato mediante un piccolo elenco che comprende tre abbinamenti di vizi, che hanno come ambito la mancanza di autocontrollo (orge e ubriachezze), i rapporti sessuali (lussurie e impurità), i rapporti vicendevoli (litigi e gelosie): ad essi Paolo si è richiamato all’inizio della lettera descrivendo il comportamento dell’umanità lontana da Cristo (Rm 1,29-30).

I credenti non devono cedere di fronte ad essi, ma reagire in modo deciso e coerente:“Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo”. Rivestirsi del Signore Gesù Cristo (Gal 3,27) significa diventare una sola cosa con Lui, cioè partecipare pienamente alla Sua esperienza di morte e di risurrezione assumendo il Suo modo di pensare e il Suo comportamento: è questo il modo migliore per resistere alle lusinghe del male.

Il credente non è uno che è già arrivato alla meta, ma uno che si dirige quotidianamente verso di essa, lottando coraggiosamente contro tutti gli ostacoli e le tentazioni che gli rendono difficile il cammino.

Dal vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti, così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà portata via e l'altra lasciata.

Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo”.

Mt 24, 37-44

E’ la prima domenica di Avvento del ciclo A e il Vangelo di Matteo (il secondo per lunghezza, dopo quello di Luca), ci condurrà per tutto il percorso dell’anno liturgico.

E’ il primo dei Vangeli, non tanto per l’antichità, attribuita oggi al Vangelo di Marco, quanto per il suo strettissimo legame con l’Antico Testamento. Riporta infatti 43 citazioni veterotestamentarie, e presenta Gesù come il vero Messia che adempie le Scritture, e la Chiesa come il vero Israele. Il Vangelo di Matteo, è il frutto della predicazione dell’apostolo, ma la composizione definitiva appartiene alla sua scuola e si fa risalire intorno agli anni 80. Ambiente di origine sembra una comunità cristiana composta in maggioranza di cristiani giudei-convertiti, che attraversava un momento di particolare crisi e difficoltà.

Questo brano fa parte del discorso escatologico di Gesù, che si trova anche negli altri due vangeli sinottici. La liturgia riporta solo i versetti nei quali Matteo insiste sulla necessità della vigilanza, prendendo a tal fine come esempio il diluvio universale e altre situazioni della vita quotidiana.

Il paragone del diluvio è utilizzato da Gesù, non in quanto castigo per la corruzione prevalente al tempo di Noè, ma soltanto per il suo carattere improvviso e inatteso. Gli uomini di allora, inconsapevoli della tragica sorte che li attendeva, si preoccupavano solo di ciò che riguardava la loro sopravvivenza in tempi normali: mangiavano e bevevano, e si sposavano. Improvvisamente però, quando Noè entrò nell’arca, furono spazzati via dal diluvio. Poi l’altro paragone :… due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà portata via e l'altra lasciata è tratto dalla realtà quotidiana, dove a volte capitano disgrazie che colpiscono una persona e non un’altra, che si trova nello stesso luogo e nelle stesse condizioni. (L’immagine del “giorno del Signore” è stata immortalata dal profeta Amos in una e propria sceneggiata piena di tensione: è come quando uno fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde.(Am5,19) Questo per far capire che il giorno del Signore è inevitabile: è il punto della storia in cui Dio entra in scena in modo decisivo e inaugura il suo regno di giustizia e di pace)

Gesù insiste poi dicendo: Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa.

Questo: “cercate di capire”, ci fa pensare quanto Gesù ha a cuore la nostra sorte.. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo. Per rafforzare quanto detto prima, Gesù dice che il Figlio dell’uomo verrà nel momento in cui non si pensa: Dio ha i Suoi tempi che non sono quelli dell’uomo e viene quando meno lo si aspetta.

L’ora di cui parla Matteo richiama il giorno e il tempo di cui Paolo parla nella seconda lettura, non un semplice tempo cronologico, ma un kairos, il tempo che appartiene a Dio e in cui Dio agisce, rimane all’uomo nella sua libertà riconoscerlo vivendo la sua vita con impegno, perché all’interno anche della sua storia personale, maturi il progetto di Dio.

…Iniziamo oggi, prima Domenica di Avvento, un nuovo anno liturgico, cioè un nuovo cammino del Popolo di Dio con Gesù Cristo, il nostro Pastore, che ci guida nella storia verso il compimento del Regno di Dio. Perciò questo giorno ha un fascino speciale, ci fa provare un sentimento profondo del senso della storia. Riscopriamo la bellezza di essere tutti in cammino: la Chiesa, con la sua vocazione e missione, e l’umanità intera, i popoli, le civiltà, le culture, tutti in cammino attraverso i sentieri del tempo.

Ma in cammino verso dove? C’è una mèta comune? E qual è questa mèta? Il Signore ci risponde attraverso il profeta Isaia, e dice così: «Alla fine dei giorni, / il monte del tempio del Signore / sarà saldo sulla cima dei monti / e s’innalzerà sopra i colli, / e ad esso affluiranno tutte le genti. / Verranno molti popoli e diranno: / “Venite, saliamo al monte del Signore, / al tempio del Dio di Giacobbe, / perché ci insegni le sue vie / e possiamo camminare per i suoi sentieri”» Questo è quello che dice Isaia sulla meta dove andiamo. E’ un pellegrinaggio universale verso una meta comune, che nell’Antico Testamento è Gerusalemme, dove sorge il tempio del Signore, perché da lì, da Gerusalemme, è venuta la rivelazione del volto di Dio e della sua legge. La rivelazione ha trovato in Gesù Cristo il suo compimento, e il “tempio del Signore” è diventato Lui stesso, il Verbo fatto carne: è Lui la guida ed insieme la meta del nostro pellegrinaggio, del pellegrinaggio di tutto il Popolo di Dio; e alla sua luce anche gli altri popoli possono camminare verso il Regno della giustizia, verso il Regno della pace. Dice ancora il profeta: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, / delle loro lance faranno falci; / una nazione non alzerà più la spada / contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra»

Mi permetto di ripetere questo che dice il Profeta, ascoltate bene: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, / delle loro lance faranno falci; / una nazione non alzerà più la spada / contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra». Ma quando accadrà questo? Che bel giorno sarà, nel quale le armi saranno smontate, per essere trasformate in strumenti di lavoro! Che bel giorno sarà quello! E questo è possibile! Scommettiamo sulla speranza, sulla speranza della pace, e sarà possibile!

Questo cammino non è mai concluso. Come nella vita di ognuno di noi c’è sempre bisogno di ripartire, di rialzarsi, di ritrovare il senso della mèta della propria esistenza, così per la grande famiglia umana è necessario rinnovare sempre l’orizzonte comune verso cui siamo incamminati. L’orizzonte della speranza! Questo è l’orizzonte per fare un buon cammino. Il tempo di Avvento, che oggi di nuovo incominciamo, ci restituisce l’orizzonte della speranza, una speranza che non delude perché è fondata sulla Parola di Dio. Una speranza che non delude, semplicemente perché il Signore non delude mai! Lui è fedele! Lui non delude! Pensiamo e sentiamo questa bellezza.

Il modello di questo atteggiamento spirituale, di questo modo di essere e di camminare nella vita, è la Vergine Maria. Una semplice ragazza di paese, che porta nel cuore tutta la speranza di Dio! Nel suo grembo, la speranza di Dio ha preso carne, si è fatta uomo, si è fatta storia: Gesù Cristo. Il suo Magnificat è il cantico del Popolo di Dio in cammino, e di tutti gli uomini e le donne che sperano in Dio, nella potenza della sua misericordia. Lasciamoci guidare da lei, che è madre, è mamma e sa come guidarci. Lasciamoci guidare da Lei in questo tempo di attesa e di vigilanza operosa.

Papa Francesco

Parte dell’Angelus del 1 dicembre 2013

1910

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