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Dic 17, 2016

IV Domenica di Avvento – Anno A – “L’Emmanuele, Dio con noi” 18 dicembre 2016

Siamo ormai vicini al Natale e la liturgia della IV domenica di Avvento ci porta a considerare il mistero dell’origine di Gesù.

Nella prima lettura, il profeta Isaia, volendo distogliere il re Acaz dai suoi propositi deliranti, gli propone di chiedere a Dio un segno della sua presenza. Ma Acaz manifestando una falsa religiosità, rifiuta, allora Dio annuncia ad Acaz il castigo, ma allo tesso tempo conferma la sua fedeltà a Davide con un segno: la nascita di un figlio da una vergine.

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nel prologo della lettera ai Romani, ha un chiaro aggancio con la 1^ lettura che, in questa luce, si presenta come parte di quel “Vangelo di Dio”, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nella sacre Scritture, riguardo al Figlio suo. Il Cristo, nato dalla stirpe di Davide, è quindi il segno tangibile della fedeltà di Dio. .

Il Vangelo di Matteo, citando alla lettera il testo di Isaia della prima lettura, dichiara che Gesù è nella linea delle promesse fatta a Davide e quindi figlio di Davide secondo la carne, anche se la sua nascita verginale esclude l’opera dell’uomo ed è giuridicamente figlio di Davide, solo attraverso Giuseppe, che fisicamente non è suo padre. Giuseppe, dopo l’intervento dell’angelo, riconosce Gesù come suo figlio e gli trasmette, dandogli il nome, tutti i diritti di un discendente di Davide. Questo dimostra come Dio agisce per la salvezza, ma anche come questa non si realizzi sulla terra senza la cooperazione dell’uomo.

Dal libro del profeta Isaia

In quei giorni, il Signore parlò ad Acaz:

“Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli ìnferi oppure dall’alto”.

Ma Acaz rispose: “Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore”.

Allora Isaìa disse:“Ascoltate, casa di Davide!

Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”.

Is 7,10-14

Per capire meglio questo brano dobbiamo risalire alla situazione storica che c’è dietro.

Acaz fu uno dei re di Giuda, (descritto nel secondo libro delle Cronache c.28 e nel secondo libro dei Re c.16, vissuto intorno al 740 a.C.) A causa della sua idolatria, il regno di Acaz fu conquistato prima da Razim, re della Siria, e poi da Oshea, re d'Israele. In seguito, Razin e Oshea strinsero un'alleanza con lo scopo di detronizzare la casa di Davide in Giudea e di far diventare re il figlio di Tabeèl, in impostore della corte di Damasco. La dinastia davidica, a cui sono legate le promesse, è dunque in pericolo! Acaz invece di chiedere aiuto a Dio, fa immolare agli idoli suo figlio (2Re 16,3) e cerca alleanze in Assiria.

Inizia qui il testo liturgico, nel quale si narra il secondo intervento di Isaia che propone ad Acaz di chiedere un segno, qualunque esso sia “dal profondo degli ìnferi oppure dall’alto” che gli garantisca l'assistenza divina. Il re però si rifiuta, con la scusa che così facendo tenterebbe Dio, dimostrando un’apparente religiosità, in realtà egli ha già deciso di chiedere l'aiuto dell'Assiria (v. 2Re 16,7-9), venendo meno così al rapporto di alleanza che lo lega al Signore.

Il profeta allora rimprovera Acaz per la sua infedeltà e ostinazione “e gli propone egli stesso un segno: «Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele” La bontà di Dio supera l’ipocrisia di Acaz e il segno è ugualmente donato sotto forma di questo oracolo-annunzio per la nascita di un eroe-salvatore.

Gli ascoltatori di Isaia di allora hanno cercato di identificare questo segno secondo le loro speranze umane: la dinastia davidica, luogo della presenza viva e storica di Dio, continuerà con la nascita di un nuovo re, il giusto, saggio e buon re Ezechia, figlio di Acaz (2 Cronache 29:1-34) che cercò di realizzare in modo più concreto la presenza dell’Emmanuele, cioè del Dio compagno di viaggio del suo popolo.

Ma il segno ha un’altra, più esaltante dimensione, quando si apre alla visione cristiana, e questo oracolo viene accostato al Vangelo di Matteo con il sogno di Giuseppe, che la liturgia di questa domenica ci presenta. E’ così che dietro il volto del re Ezechia, probabilmente pensato da Isaia, emerge la figura del Cristo Salvatore, presenza perfetta di Dio nella carne e nel tempo dell’uomo.

A differenza di Acaz, che ha rifiutato il segno di Dio, Giuseppe, accogliendo l’annunzio dell’angelo, attraverso la sua paternità legale, introduce Gesù nella stirpe di Davide, in sintonia con la profezia di Isaia, diventando così intimo collaboratore di Dio nel grande progetto dell’incarnazione.

Salmo 23/24

Del Signore è la terra e quanto contiene,

il mondo, con i suoi abitanti.

È lui che l'ha fondata sui mari,

e sui fiumi l'ha stabilito.

Chi potrà salire il monte del Signore?

Chi potrà stare nel suo luogo santo?

Chi ha mani innocenti e cuore puro,

chi non si rivolge agli idoli.

Egli otterrà benedizione dal Signore,

giustizia da Dio sua salvezza.

Ecco la generazione che lo cerca,

che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.

Il salmo presenta il momento in cui Israele ritorna dell’esilio. Ora è consapevole, dopo la distruzione di Gerusalemme e del tempio, che per salire al tempio e per abitare alla sua ombra bisogna essere puri di cuore; il tempio non salva nessuno se non c’è la fedeltà alla legge.
Il Signore è di maestà infinita, e sua “è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti”.

Dalla considerazione della grandezza e potenza di Dio parte l’esame delle qualità di chi andrà ad abitare all’ombra del tempio del Signore.
Il tempio è stato distrutto e un coro dice alle porte di ristabilire se stesse. Esse sono state distrutte, ma sono pure “eterne” (traduzione letterale), e perciò saranno rifatte.
Dalle porte del tempio, comprese quelle dell’atrio degli olocausti, entrerà il re della gloria a prendere dimora con la sua gloria nel tempio, nel santo dei santi.
E’ il Signore potente in battaglia, che vince i suoi nemici. “Il Signore degli eserciti” è il Signore delle schiere dei valorosi nella fede.

Il “sensus plenior" del salmo è per salire il monte santo, cioè giungere alla mensa Eucaristica, salire in un cammino d’iniziazione, alla partecipazione piena all’altare, e dimorare nella fede e nell’amore nella casa del Signore richiede rettitudine di vita. Occorre cercare colui che già si è fatto trovare; cercarlo per più conoscerlo e amarlo, in un tendere all’infinito a lui.
E i cieli sono aperti. Le porte del cielo ostruitesi per il peccato dell’uomo ora si sono riaperte. I cori angeli hanno proclamato: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria…”. Entri il “Signore valoroso in battaglia”, quella che ha condotto contro le tenebre lanciategli da Satana e i dolori della croce. “E’ il Signore degli eserciti il re della gloria”, il Signore delle schiere apostoliche della Chiesa, che porta la luce del vangelo ovunque.

Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani

Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio - che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dai morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l'obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome; e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo – a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.

Rm 1,1-7

In questo brano viene riportato il prescritto della lettera ai Romani, in cui Paolo si presenta e indicando chi sono i destinatari della sua lettera, porge loro i suoi saluti. Paolo si presenta subito come “servo di Cristo Gesù”, cioè una persona che gli appartiene e che gli è totalmente sottomessa.

In forza del carisma apostolico Paolo è “scelto per annunciare il vangelo di Dio”, cioè la buona notizia che Dio ha rivolto a tutta l’umanità. L’accenno al vangelo offre a Paolo l’occasione per spiegarne il significato e i contenuti. Anzitutto egli afferma che esso era già stato “promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture” e delinea poi i contenuti del vangelo che ha come tema centrale “il Figlio suo”. Nella seconda frase si afferma che lo stesso Figlio di Dio è stato “costituito Figlio di Dio con potenza”, cioè ha potuto esercitare in modo effettivo i suoi poteri, “secondo lo Spirito di santità”, ossia in forza di un dono speciale dello Spirito, nel quale si manifesta la potenza stessa e la santità di Dio. Ciò si è attuato in virtù della risurrezione dai morti.

Questa espressione può indicare, come altrove la risurrezione dai morti, oppure la risurrezione di Cristo in quanto modello e causa (1Cor 15,20 dove si parla di primizia) della risurrezione finale, con la quale giunge a compimento il piano salvifico di Dio.

Paolo conclude affermando che il Figlio di Dio di cui parla il vangelo è “Gesù Cristo nostro Signore”. Questo appellativo significa la piena partecipazione al potere stesso di Dio (V.Fil 2,6-11) e i due titoli sono uniti nell’espressione “Cristo è Signore”, che rappresenta la più incisiva professione di fede dei primi cristiani (V. Rm 10,9; 1Cor 12,3)

Il riferimento a “Gesù Cristo nostro Signore” offre a Paolo l’occasione per ritornare alla sua autopresentazione. Sottolinea infatti che per mezzo di questo Signore che egli ha ricevuto “la grazia di essere apostolo”, cioè quel dono speciale che consiste nell’essere l’inviato (apostolo) di Dio; egli è incaricato di “suscitare l'obbedienza della fede in tutte le genti” e proprio a costoro Paolo è stato inviato come apostolo con il compito di annunziare il vangelo.

Con il termine “fede” l’apostolo indica la piena fiducia in Dio che nel corso della sua lettera presenterà come la via maestra attraverso cui ogni essere umano può ottenere la giustificazione. Il compito che gli è affidato ha come scopo finale la “gloria del suo nome” cioè il riconoscimento di Dio come unica fonte di salvezza per tutta l’umanità.

L’accenno a “tutte le genti” dà a Paolo lo spunto per rivolgere la sua attenzione ai destinatari. Anch’essi appartengono infatti a questa categoria, ma sono stati “chiamati da Gesù“, cioè hanno aderito a Lui e al Suo messaggio.

A questo punto Paolo nomina espressamente i destinatari della lettera, “tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata” . Con queste due espressioni egli li designa come coloro che sono chiamati da Dio a formare il nuovo Israele, il popolo che Dio ha amato in modo speciale e che, in forza dell’alleanza, è diventato partecipe della sua stessa santità (Es 19,6). L’appellativo di “santi”, prerogativa speciale dei cristiani di Gerusalemme (V . At 9,13) è estesa anche a “tutti” i membri della comunità di Roma, che condividono la loro stessa vocazione.

A questi santi Paolo augura grazia ..e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo. In questa espressione egli unisce la formula greca di saluto (chaire) con quella ebraica (shalôm, eirênê), trasformandole però nell’augurio dei doni messianici (la grazia e la pace), già annunziati dai profeti ed espressi nella benedizione sacerdotale dell’AT (Nm 6,24-27). È sullo sfondo di questa stima che Paolo affronterà alla fine della lettera i loro problemi per aiutarli ad entrare in un’ottica evangelizzatrice e per essere aiutato da loro nel suo prossimo viaggio in Spagna. Tutta la lettera rappresenta così un contributo alla crescita nella fede di questi fratelli amati, anche se per lui ancora così lontani.

Dal vangelo secondo Matteo

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo: ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:

"Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio, a lui sarà dato il nome di Emmanuele ",

che significa "Dio con noi". Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

Mt 1, 18-24

L’evangelista Matteo presenta il racconto dell’infanzia di Gesù in quattro brani: la genealogia di Gesù (1,1-17), l’annunzio a Giuseppe (1,18-25); la visita dei magi (2,1-12), la fuga in Egitto (2,13-23.

Matteo comincia il suo racconto mettendo in luce un fatto imbarazzante: Maria, promessa sposa di Giuseppe, è incinta per opera dello Spirito Santo . Secondo i costumi dell’epoca, il matrimonio avveniva in due tempi. Dopo l’impegno scambievole che legava gli sposi legalmente, la sposa restava sotto il tetto paterno per circa un anno, fino al giorno in cui lo sposo la portava a casa sua per iniziare la vita comune. Durante l’anno in cui la sposa restava ancora sotto la tutela del padre, non erano, in genere, ammessi i rapporti sessuali, almeno in Galilea. E’ da tener presente che le ragazze si sposavano o piuttosto venivano promesse in matrimonio tra i 12 e i 15 anni e che i ragazzi non erano molto più anziani. Giuseppe doveva essere anche lui poco più che un ragazzo.

Il fatto che Maria, mentre stava ancora nella casa paterna, si trovasse incinta risultava quindi strano e Matteo esclude subito la paternità di Giuseppe attribuendo la gravidanza di Maria a un intervento speciale dello Spirito santo. Definisce Giuseppe “uomo giusto” e vediamo subito che la giustizia di Giuseppe non è quella "secondo la legge" che autorizza a ripudiare la propria moglie, ma quella "secondo la fede e l’amore" che chiede a Giuseppe di accettare in Maria l'opera di Dio, ma di sua iniziativa Giuseppe però non ritiene di poter prendere con sé una persona che Dio si è riservata.

La crisi di Giuseppe in un certo senso ha lo stesso significato dell'obiezione di Maria che era turbata perché non sapeva che cosa significasse il saluto dell'angelo. Giuseppe dunque è incerto perché non sa spiegarsi ciò che è avvenuto in Maria, che ha però potuto chiedere la spiegazione all'angelo, ma Giuseppe non sa a chi rivolgersi; per questo decide di mettersi in disparte aspettando che qualcuno venga a liberarlo dalle sue perplessità.

La difficoltà in cui si trovava Giuseppe poteva essere risolta solo da Dio, che in sogno gli manda un angelo che gli dice: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo: ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. L’assegnazione del nome appare spesso nei racconti di annunciazione. Anche il nome di Gesù è rivelato direttamente da Dio in quanto rivela un aspetto determinante della persona che lo porta. Il nome di Gesù (in ebraico Jehoshûa “Jahve salva”) contiene già nel significato stesso del nome la promessa di salvezza e viene presentata in termini spirituali come salvezza dai peccati.

Dopo l’annuncio divino, Matteo fa osservare che tutto ciò è avvenuto perché “si compisse” un’importante profezia messianica: "Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio, a lui sarà dato il nome di Emmanuele ", che significa "Dio con noi".

Dando la traduzione del nome Emmanuele, “Dio con noi”, l’evangelista vuole sottolineare l’importanza di questo appellativo che egli richiama alla fine del vangelo quando riferisce che Gesù, prima di lasciare per l’ultima volta i suoi discepoli, ha detto loro: io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (V 28,20). Tutto il vangelo appare così come la manifestazione in Cristo del Dio-con-noi.

Matteo conclude il racconto osservando che Giuseppe, destatosi dal sonno, “fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa”.

Con questa espressione Matteo vuol darci l'idea del compimento delle intenzioni di Dio contenute nella Scrittura, ed è importante notare che attraverso il profeta ha parlato Dio. Giuseppe, uomo giusto, destandosi dal sonno agisce e la sua azione testimonia la sua obbedienza.

In questa quarta domenica di Avvento, il Vangelo ci racconta i fatti che precedettero la nascita di Gesù, e l’evangelista Matteo li presenta dal punto di vista di san Giuseppe, il promesso sposo della Vergine Maria.

Giuseppe e Maria vivevano a Nazareth; non abitavano ancora insieme, perché il matrimonio non era ancora compiuto. In quel frattempo, Maria, dopo aver accolto l’annuncio dell’Angelo, divenne incinta per opera dello Spirito Santo. Quando Giuseppe si accorge di questo fatto, ne rimane sconcertato. Il Vangelo non spiega quali fossero i suoi pensieri, ma ci dice l’essenziale: egli cerca di fare la volontà di Dio ed è pronto alla rinuncia più radicale. Invece di difendersi e di far valere i propri diritti, Giuseppe sceglie una soluzione che per lui rappresenta un enorme sacrificio. E il Vangelo dice: «Poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (1,19).

Questa breve frase riassume un vero e proprio dramma interiore, se pensiamo all’amore che Giuseppe aveva per Maria! Ma anche in una tale circostanza, Giuseppe intende fare la volontà di Dio e decide, sicuramente con gran dolore, di congedare Maria in segreto. Bisogna meditare su queste parole, per capire quale sia stata la prova che Giuseppe ha dovuto sostenere nei giorni che hanno preceduto la nascita di Gesù. Una prova simile a quella del sacrificio di Abramo, quando Dio gli chiese il figlio Isacco (cfr Gen 22): rinunciare alla cosa più preziosa, alla persona più amata.

Ma, come nel caso di Abramo, il Signore interviene: ha trovato la fede che cercava e apre una via diversa, una via di amore e di felicità: «Giuseppe – gli dice – non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20).

Questo Vangelo ci mostra tutta la grandezza d’animo di san Giuseppe. Egli stava seguendo un buon progetto di vita, ma Dio riservava per lui un altro disegno, una missione più grande. Giuseppe era un uomo che dava sempre ascolto alla voce di Dio, profondamente sensibile al suo segreto volere, un uomo attento ai messaggi che gli giungevano dal profondo del cuore e dall’alto. Non si è ostinato a perseguire quel suo progetto di vita, non ha permesso che il rancore gli avvelenasse l’animo, ma è stato pronto a mettersi a disposizione della novità che, in modo sconcertante, gli veniva presentata. E’ così, era un uomo buono. Non odiava, e non ha permesso che il rancore gli avvelenasse l’animo.

Ma quante volte a noi l’odio, l’antipatia pure, il rancore ci avvelenano l’anima! E questo fa male. Non permetterlo mai: lui è un esempio di questo. E così, Giuseppe è diventato ancora più libero e grande. Accettandosi secondo il disegno del Signore, Giuseppe trova pienamente se stesso, al di là di sé. Questa sua libertà di rinunciare a ciò che è suo, al possesso sulla propria esistenza, e questa sua piena disponibilità interiore alla volontà di Dio, ci interpellano e ci mostrano la via.

Ci disponiamo allora a celebrare il Natale contemplando Maria e Giuseppe: Maria, la donna piena di grazia che ha avuto il coraggio di affidarsi totalmente alla Parola di Dio; Giuseppe, l’uomo fedele e giusto che ha preferito credere al Signore invece di ascoltare le voci del dubbio e dell’orgoglio umano. Con loro, camminiamo insieme verso Betlemme.

Papa Francesco

Parte dell’Angelus del 22 dicembre 2013

1504

Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
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