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KRZYZ

Gen 18, 2017

III Domenica –Anno A – 22 gennaio 2017

Le letture liturgiche di questa domenica ci presentano Gesù che inaugura il regno di Dio con la sua vita, con i suoi gesti e le sue parole. Giovanni il Battista chiamava a sé le folle, mentre Gesù, Figlio di Dio, andando verso la Galilea, va loro incontro.

Nella prima lettura, il profeta Isaia descrive il giubilo dei salvati poiché si è instaurato il regno della libertà e della pace, dopo il periodo oscuro dell’occupazione assira. Il Signore è fedele alle sue promesse realizzando la promessa fatta secoli prima, mandando il suo Messia che porterà la luce alle nazioni, insieme con la gioia e la liberazione da ogni schiavitù.

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo nella sua lettera ai Corinzi, che si erano divisi in gruppi che si richiamavano ad un maestro particolare, afferma che c’è un solo maestro: Gesù Cristo.

L’evangelista Matteo nel brano del suo Vangelo ci racconta di come Gesù, camminando lungo il mare di Galilea, inaugura la sua missione e lo fa scegliendo i suoi discepoli, persone incolte, umanamente non adatte, ma che Lui renderà capaci di tanto. E’ bastato solo che li guardasse e dicesse loro: “Seguitemi!” ed essi lasciarono cadere di mano le reti per imbarcarsi in un’avventura molto più misteriosa di quella che vivevano su quel lago. Nell’ultima sera della Sua vita terrena, nel Cenacolo, Gesù ricorderà loro: “Non siete stati voi a scegliere me, ma io ho scelto voi”. In ogni vocazione umana c’è alla radice una chiamata, una grazia, un amore, ma anche una risposta. Ricordiamo tutti l’espressione celebre di S.Agostino” Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposi in Te e la colleghiamo alla ricerca di Dio che impegna tutto il percorso di una vita.

Dal libro del profeta Isaia

In passato il Signore umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti.

Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce;

su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse.

Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia.

Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete

e come si esulta quando si divide la preda.

Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva,

la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino,

come nel giorno di Mádian.

Is 8,23.9,1-3

Il profeta Isaia (Primo Isaia autore dei capitoli 1-39) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C, quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal buon re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini. Isaia si è sempre scagliato contro i sacrifici umani (prevalentemente di bambini o ragazzi), i simboli sessuali, gli idoli di ogni forma e materiale. Altro bersaglio della riforma, e delle invettive di Isaia, furono le forme cultuali puramente esteriori, ridotte quasi a pratiche magiche

In questo brano si fa riferimento alle regioni nord della Palestina per le quali si profetizza un avvenire glorioso in contrapposizione ad un passato di umiliazioni e rovine, esperimentato probabilmente con l’invasione assira in Galilea (V: 2 Re 15,29) e viene descritta la futura felicità con le immagini proprie di una vittoriosa liberazione. Si intravede così una gioia salvifica cominciando dalla terra di Zabulon e Neftali, la Galilea dei gentili, la regione semipagana odiata dai giudei fin dalla devastazione dell’anno 734 operata da Tiglat-Pilezer III.

Tanto più profonde sono le tenebre, tanto più abbagliante è la luce ; tanto più ignominiosa l’umiliazione, tanto più grande è la gioia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda: la gioia è descritta con due immagini tradizionali: la mietitura del grano e la divisione del bottino dopo una battaglia vittoriosa.

Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Mádian: sono spezzati i tre simboli della schiavitù : il giogo, la sbarra, il bastone, come nella vittoria di Gedeone sopra gli oppressori Madianiti (Giud 7,15-25).

Nel brano (nei versetti 5-6 non riportati nel testo) questa luce che porta la liberazione viene dal bambino che nascerà (l’Emanuele di Is 7,14). Nella liturgia di oggi (seguendo la citazione in Mt 4,14) il testo di Isaia si ferma al v. 3, non parlando della nascita del bambino, ma mostrando come la luce che porta la liberazione si manifesta con l’inizio del ministero di Gesù in Galilea.

Salmo 27 (26) Il Signore è mia luce e mia salvezza.

Il Signore è mia luce e mia salvezza:

di chi avrò timore?

Il Signore è difesa della mia vita:

di chi avrò paura?

Una cosa ho chiesto al Signore,questa sola io cerco:

abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita,

per contemplare la bellezza del Signore

e ammirare il suo santuario.

Sono certo di contemplare la bontà del Signore

nella terra dei viventi.

Spera nel Signore, sii forte,

si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.

"Il Signore è mia luce”, dice il salmista. La luce è fonte di vita, fa vedere le cose, dona letizia e il salmista trova in Dio la sua luce, la sua sorgente di letizia, la sua conoscenza delle cose. E il Signore è pure sua salvezza assistendolo contro i nemici, che altrimenti prevarrebbero su di lui e gli strazierebbero la carne, tanto lo odiano. Ma col Signore non vede perché dovrebbe avere paura: “Di chi avrò timore;... di chi avrò paura?”.

E’ tanto sicuro nel Signore che se anche un esercito si accampasse contro di lui il suo cuore non temerebbe, e se si arrivasse alla battaglia e ne fosse nel folto anche allora avrebbe fiducia di vincere.

Egli non ha ambizioni di potere, di onori e ricchezze. Ha chiesto una sola cosa al Signore e questa sola cerca: “Abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Noi chiediamo di vivere sempre centrati nell’Eucaristia, nella viva appartenenza alla Chiesa, in ammirazione della sua bellezza di pace, di carità, di fede, di speranza, di sacrificio, di testimonianza, di operosità instancabile.

“La casa del Signore” è per il salmista il luogo di rifugio offertogli dal Signore nel giorno della sventura, quando c’è la prova, la tribolazione. In essa si sente protetto, come nascosto, dalla turba degli uomini, e nello stesso tempo come posto su di una rupe inattaccabile.

Confortato nella casa del Signore non è pavido, ma in pieno sole rialza la testa da vincente; ha il coraggio di lottare certo della vittoria, che celebrerà nell’esultanza: “Immolerò nella sua tenda sacrifici di vittoria”. Noi non immoleremo tori o capri, bensì faremo offerte dei risultati del superamento del giorno in cui eravamo prossimi alla rovina, e faremo banchetti con i fratelli poveri.

Il salmista ritorna sulla sua situazione di dolore, trovando sempre conforto nella fede.

Umile, non può che presentarsi come reo di molti peccati davanti al Signore e chiede di non essere respinto con ira da Signore.

Egli ha un programma: “Cercare il volto del Signore”, per conoscerlo sempre di più e così sempre di più amarlo. E, ancora, cerca il volto del Signore per riceverne la volontà e la benevolenza. Il salmista mostra le sue ferite passate, la sua storia di dolore: “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”.

Ora è saldo e sicuro, ma insidiato da falsi testimoni che lo vogliono trascinare in giudizio e per questo diffondono negli animi violenza contro di lui. Ma anche se costoro avessero da prevalere egli è certo di “contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”; nel cielo e poi un giorno nella risurrezione, nella creazione rinnovata.

Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P. Paolo Berti

Dalla 1^ lettera di S.Paolo aspostolo ai Corinzi

Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire.

Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo».

È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?

Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.

1Cor 1,10-13.17

Continuando la sua lettera ai Corinzi, dopo l’introduzione e il ringraziamento, Paolo entra subito nel vivo del problema che agita la comunità: “Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire.” Egli si rivolge ai corinzi chiamandoli affettuosamente “fratelli” e dopo averli esortati, espone il motivo della sua esortazione all’unità: “Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie”. L’informazione era giunta a Paolo tramite i “familiari di Cloe” (non si sa di preciso chi fosse questa Cloe; probabilmente una commerciante, che aveva un organico di schiavi, di liberti e di uomini liberi) venuti a Efeso per affari. Le discordie segnalate provengono dal fatto che alcuni di loro affermavano: “Io sono di Paolo” altri , “Io invece sono di Apollo”, altri ancora “Io invece di Cefa”,altri infine dicono “E io di Cristo”. A Paolo dunque hanno riferito che si sono formati gruppetti ciascuno dei quali fa riferimento a uno dei personaggi che hanno svolto un certo ruolo nella comunità. Paolo, nominato per primo, aveva fondato la comunità. Del secondo, Apollo, sappiamo dagli Atti degli Apostoli che era un giudeo di Alessandria “uomo colto, versato nelle Scritture”, che era stato indirizzato a Corinto proprio da Aquila e Priscilla, amici di Paolo. In Alessandria, famosa città ellenistica, proprio allora fioriva la scuola di Filone, il quale interpretava le scritture in modo allegorico, alla luce della filosofia greca. Apollo non poteva ignorare l’insegnamento di questa scuola. Ciò che aveva attirato su di lui il consenso di una parte della comunità era quindi probabilmente la sua conoscenza delle Scritture e la capacità di interpretarle alla luce dei concetti filosofici largamente diffusi nella società di allora. Al tempo della stesura della lettera, Apollo si trova a Efeso con Paolo che vorrebbe rimandarlo a Corinto (1Cor 16,12): egli non è quindi un avversario, ma un suo collaboratore. Cefa (Pietro), il capo del gruppo dei Dodici, doveva essere ben noto a Corinto perché Paolo lo ricorda altre tre volte nel corso della lettera (1Cor 3,22; 9,5; 15,5). Non si sa invece se abbia visitato personalmente la città o se invece vi siano giunti missionari che si rifacevano alla sua predicazione. I suoi aderenti a Corinto potevano essere stati attratti dal suo insegnamento più tollerante e possibilista nei confronti degli usi giudaici (Gal 2,12).

Il fatto che alcuni dicessero: “E io di Cristo” ha avuto varie interpretazioni. È possibile che esistesse un gruppo di cristiani che affermavano, in contrasto con gli altri, di avere un rapporto più diretto e immediato con Cristo, ma si può anche pensare che l’espressione “E io di Cristo!” sia di Paolo che con essa intendeva distinguersi da qualsiasi partito schierandosi unicamente dalla parte di Cristo. In definitiva i gruppi veri e propri erano forse tre o perfino solo due, quello di Paolo e quello di Apollo, gli unici di cui si parlerà ancora in seguito: gli altri due Paolo probabilmente li può avere messi per non dare l’impressione che tutto si risolvesse in un contrasto tra lui e Apollo. Comunque si può anche pensare che sia stato proprio Apollo, con la sua predicazione ispirata all’oratoria greca e alle idee filosofiche, ad attrarre dietro di sé la parte più colta della comunità, mentre i più semplici avevano espresso la loro adesione incondizionata a Paolo.

Alla situazione della comunità Paolo reagisce con tre domande, alle quali non si può rispondere negativamente: È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo? Come Cristo non può essere diviso, così non possono esserlo i suoi seguaci. È Cristo, e non Paolo (e quindi neppure gli altri predicatori), che è stato crocifisso per loro.

È nel nome di Cristo (At 10,48) e non di Paolo o di chiunque altro che sono stati battezzati. La salvezza viene quindi solo da Cristo, e non da coloro che hanno annunziato il Suo vangelo!

Nei versetti omessi nel brano liturgico (vv. 14-16), Paolo ringrazia Dio di non aver battezzato nessuno di loro, se non Crispo, il capo della sinagoga che si era convertito tra i primi (V.At 18,8), Gaio, da cui sarà ospite al momento di inviare la lettera ai Romani (V Rm 16,23) e la famiglia di Stefana, il responsabile della comunità che si trovava attualmente presso di lui (16,15-16): così nessuno potrà dire di essere stato battezzato nel suo nome. I corinzi non possono certo trarre motivo dalla pratica battesimale di Paolo per attribuire a lui o ad altri un ruolo salvifico che compete solo a Cristo. Il solo pensare che lui (paolo) o altri predicatori potessero aggiungere qualcosa di essenziale all’opera salvifica di Cristo e di conseguenza potessero creare un’aggregazione intorno alla loro persona, lo turba, fino a provocargli sofferenza.

Paolo conclude affermando: Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.

Il fatto che Paolo abbia battezzato così poche persone a Corinto non è un caso: il compito a lui affidato non è quello di battezzare, ma di annunziare il vangelo, ma soprattutto è fondamentale che questo non sia presentato “con sapienza di parola”. Questa espressione indica tutto ciò che serve alla comunicazione di un messaggio e ciò affinché non “venga resa vana” la croce di Cristo.

L’errore in cui sono caduti i corinzi è stato quello di dare più importanza a interpretazioni, formule, dottrine, norme condizionate dal tempo e dalla cultura. Per Paolo ciò che conta non sono le modalità con cui il Vangelo viene comunicato, ma la croce di Cristo, che ne rappresenta il tema centrale. In altre parole egli indica la vera causa della crisi dei corinzi: nell’eccessiva importanza data al mezzo di comunicazione rispetto all’oggetto del messaggio, cioè nella pretesa di trovare ad ogni costo nel Vangelo un sistema filosofico conforme alle attese culturali di chi ascolta. Se vogliono superare il problema delle divisioni i corinzi devono dunque andare al di là dell’involucro in cui esso è contenuto per accogliere in profondità il dono che viene da Dio e spesso si oppone proprio alle aspettative umane. Solo accettando la pluralità delle interpretazioni, anche se questo può sembrare un paradosso, senza dividersi in base ad esse, si può raggiungere l’unanimità in ciò che è veramente essenziale.

Dal vangelo secondo Matteo

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa:

«Terra di Zàbulon e terra di Nèftali,

sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti!

Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce,

per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta».

Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».

Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.

Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

Mt 4, 12-21

ooo

Questo passo del Vangelo di Matteo, che viene dopo il battesimo di Gesù e l’episodio della tentazione nel deserto, è l’introduzione generale al ministero di Gesù. Il brano inizia con Gesù, che saputo dell'arresto di Giovanni Battista, si ritira nella Galilea e lascia Nazareth. Matteo non dice il motivo per il quale Gesù lascia Nazareth, più tardi ci parlerà dell'incredulità trovata nella sua patria e nella sua casa. Ma in tutto ciò che accade, Matteo vede il compimento di ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:“Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce,…” le regioni menzionate, che erano state umiliate dal re dell'Assiria e che continuano a non godere di buona fama, diventano il luogo dell'esperienza della salvezza, coloro che erano considerati non-popolo, accolgono la presenza di Gesù affinché coloro che lo cercano lo possano trovare, non dentro gli spazi chiusi del sacro o del potere, ma nella Galilea, dove gli uomini vivono la loro vita quotidiana.

Da quel momento dalla Galilea, da una regione che Gerusalemme giudicava terra di tenebra, dalla riva del mare, perché possa varcare ogni limite, comincia a risplendere la luce. E’ da quella regione che Gesù cominciò a predicare e a dire: "Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino! Come i giudei del suo tempo, Matteo evita di nominare Dio e dice semplicemente “i cieli”. Si può anche notare che Gesù sceglie di iniziare proprio dove il Battista ha lasciato, ma se per il Battista la conversione ha un senso morale, e la vicinanza del regno è l'annuncio dell'ormai prossimo intervento di Dio giudice per porre fine alla infedeltà del suo popolo, per Gesù la conversione è l'invito ad un radicale cambiamento nel modo di vedere Dio, che non guarda più all'uomo per condannarlo, ma che si abbassa per amarlo.

Poi viene presentata la chiamata dei primi quattro discepoli, quattro pescatori del lago di Tiberiade: Simone e suo fratello Andrea, Giacomo e suo fratello Giovanni. E' Gesù che prende l’iniziativa, è lui che passando li vede nella loro quotidianità, con la loro vita impostata, li chiama e dice loro :”Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini” e a quell’invito Matteo ci riporta la loro reazione: “Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono”. Si imbarcano così in un’avventura molto più misteriosa di quella che vivevano su quel lago spesso infido ma anche ricco di pesce.

Gli ultimi versetti descrivono Gesù che cammina, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo, rendendo così visibile il volto di un Dio che non condanna, non impone dei pesi, ma che compatisce, infonde serenità, nuova speranza e gioia.

Il Vangelo di questa domenica racconta gli inizi della vita pubblica di Gesù nelle città e nei villaggi della Galilea. La sua missione non parte da Gerusalemme, cioè dal centro religioso, centro anche sociale e politico, ma parte da una zona periferica, una zona disprezzata dai giudei più osservanti, a motivo della presenza in quella regione di diverse popolazioni straniere; per questo il profeta Isaia la indica come «Galilea delle genti» (Is 8,23).

E’ una terra di frontiera, una zona di transito dove si incontrano persone diverse per razza, cultura e religione. La Galilea diventa così il luogo simbolico per l’apertura del Vangelo a tutti i popoli. Da questo punto di vista, la Galilea assomiglia al mondo di oggi: compresenza di diverse culture, necessità di confronto e necessità di incontro. Anche noi siamo immersi ogni giorno in una “Galilea delle genti”, e in questo tipo di contesto possiamo spaventarci e cedere alla tentazione di costruire recinti per essere più sicuri, più protetti. Ma Gesù ci insegna che la Buona Novella, che Lui porta, non è riservata a una parte dell’umanità, è da comunicare a tutti. È un lieto annuncio destinato a quanti lo aspettano, ma anche a quanti forse non attendono più nulla e non hanno nemmeno la forza di cercare e di chiedere.

Partendo dalla Galilea, Gesù ci insegna che nessuno è escluso dalla salvezza di Dio, anzi, che Dio preferisce partire dalla periferia, dagli ultimi, per raggiungere tutti. Ci insegna un metodo, il suo metodo, che però esprime il contenuto, cioè la misericordia del Padre. «Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata. Uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (Esort. ap. Evangelii gaudium,20).

Gesù comincia la sua missione non solo da un luogo decentrato, ma anche da uomini che si direbbero, così si può dire, “di basso profilo”. Per scegliere i suoi primi discepoli e futuri apostoli, non si rivolge alle scuole degli scribi e dei dottori della Legge, ma alle persone umili e alle persone semplici, che si preparano con impegno alla venuta del Regno di Dio. Gesù va a chiamarli là dove lavorano, sulla riva del lago: sono pescatori. Li chiama, ed essi lo seguono, subito. Lasciano le reti e vanno con Lui: la loro vita diventerà un’avventura straordinaria e affascinante.

Cari amici e amiche, il Signore chiama anche oggi! Il Signore passa per le strade della nostra vita quotidiana. Anche oggi in questo momento, qui, il Signore passa per la piazza. Ci chiama ad andare con Lui, a lavorare con Lui per il Regno di Dio, nelle “Galilee” dei nostri tempi. Ognuno di voi pensi: il Signore passa oggi, il Signore mi guarda, mi sta guardando! Cosa mi dice il Signore? E se qualcuno di voi sente che il Signore gli dice “seguimi” sia coraggioso, vada con il Signore. Il Signore non delude mai. Sentite nel vostro cuore se il Signore vi chiama a seguirlo. Lasciamoci raggiungere dal suo sguardo, dalla sua voce, e seguiamolo! «Perché la gioia del Vangelo giunga sino ai confini della terra e nessuna periferia sia priva della sua luce» (ibid., 288).

Papa Francesco

Parte dell’Angelus del 26 gennaio 2014

1147

Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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