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Mar 9, 2017

II Domenica di Quaresima - Anno A – “La Trasfigurazione di Gesù” – 12 marzo 2017

 

Arrivati alla seconda domenica di quaresima, dovremmo fare il proposito di essere più attenti all’invito di Dio lasciando da parte le nostre sicurezze, e come Abramo e gli apostoli dobbiamo imparare a spogliarci delle cose superflue per riscoprire il vero volto di Cristo.

La prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, ci presenta la vocazione di Abramo. Vediamo come Dio prende l’iniziativa per riavvicinarsi all’uomo e sceglie Abramo, a cui promette una numerosa discendenza, e gli annuncia che in lui saranno benedette tutte le nazioni della terra. Abramo si affida totalmente a Dio, lascia tutto e parte verso l’ignoto. Alla fede di Abramo è legata la storia della salvezza.

Nella seconda lettura, dalla sua lettera a Timoteo, Paolo ricorda al suo discepolo prediletto, come alla base della vocazione cristiana vi sia una chiamata alla fede, che non è frutto di opere umane, ma dono di grazia.
Nel Vangelo di Matteo troviamo il racconto della Trasfigurazione di Gesù, il cui significato si coglie pienamente solo alla luce della fede pasquale, a cui si riferisce l’esortazione finale di Gesù: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». Dio stesso manifesta la vera identità di Gesù, la cui umanità viene momentaneamente trasfigurata e avvolta dalla luce radiosa della divinità, quale anticipazione della sua gloria pasquale.

Dal libro della Genesi
In quei giorni, il Signore disse ad Abram:
«Vàttene dalla tua terra,
dalla tua parentela
e dalla casa di tuo padre,
verso la terra che io ti indicherò.
Farò di te una grande nazione
e ti benedirò,
renderò grande il tuo nome
e possa tu essere una benedizione.
Benedirò coloro che ti benediranno
e coloro che ti malediranno maledirò,
e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra».
Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.
Gn 12,1-4ª

Nella seconda parte della Genesi (Gn 12-50) si narrano le vicende dei Patriarchi, i quali sono presentati non solo come i progenitori, ma anche come i modelli di Israele nel suo rapporto con Dio. Il primo di essi è Abram, al quale Dio cambierà il nome in Abramo (Gn 17,5). Nelle vicende di Abramo si intrecciano due temi di grandissima importanza, quello relativo alle promesse divine e quello della fede con cui l’uomo si apre a Dio e alla Sua iniziativa salvifica. La storia di Abramo si apre con la sua chiamata da parte di Dio e il brano liturgico ne riporta solo i primi versetti. Dio si rivolge ad Abramo con queste parole: “Vàttene dalla tua terra,dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre,verso la terra che io ti indicherò.”
Dio chiede in pratica ad Abramo di abbandonare tutti i suoi legami naturali, (a quel tempo ciò significava trovarsi soli di fronte a un mondo ostile e pieno di pericoli) e di avviarsi verso un paese di cui Dio non gli indica nè il nome né il luogo. Si può supporre che si tratti della terra di Canaan, ma Dio non lo dice, e neppure spiega quale sarà il suo rapporto con tale paese. Ad Abramo non resta altro che andare verso l’ignoto, lasciandosi guidare ciecamente da quel Dio che gli si è rivelato.

Alle richieste divine corrispondono delle promesse: “Farò di te una grande nazione e ti benedirò,renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò,e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. Abramo dunque sarà il progenitore di un grande popolo. Umanamente parlando questa promessa può sembrare impossibile, perché, come è stato riportato nei versetti precedenti (Gn11,30), la moglie di Abramo, Sarai, era sterile. Inoltre Dio benedirà Abramo, cioè, secondo la mentalità biblica, lo riempirà di favori e di benessere sia in campo materiale che spirituale. Inoltre renderà grande il suo nome, cioè lo renderà celebre. Questa promessa ci ricorda il racconto della torre di Babele, dove si dice che l’umanità, ancora indivisa, aveva voluto farsi un nome, e con esso una potenza, mediante la costruzione della torre (Gn 11,4), e proprio per questo era stata dispersa. Abramo così diventerà anche strumento di quell’unità che gli uomini avevano invano cercato di ottenere. Inoltre Dio farà di Abramo una benedizione perchè benedirà quelli che lo benediranno, e maledirà quelli che lo malediranno. Ciò significa che Abramo troverà in Dio la sua incessante protezione, in quanto coloro che vorranno fargli del male saranno immediatamente puniti da Dio. Inoltre in lui tutte le famiglie della terra “si diranno benedette”.
Il nome di Abramo viene dunque usato per benedire e, di conseguenza, la benedizione di Abramo passerà a una moltitudine sterminata di gente, ed è chiaro che ciò avverrà mediante la sua discendenza. Questa promessa appare subito in contrasto con l’insicurezza a cui Abramo deve andare incontro lasciando la propria famiglia e con il fatto che egli umanamente non può avere un figlio dalla moglie Sarai, sterile ed avanzata negli anni..

Nella risposta silenziosa di Abramo emergono i segni essenziali di una autentica esperienza di fede: ascolto, abbandono delle proprie sicurezze, fiducia, disponibilità a mettersi in cammino. Il suo atteggiamento non ha nulla però di una sottomissione cieca. L’obbedienza a un comando preciso è una metafora per indicare la piena partecipazione di Abramo ad un progetto divino che supera la sua umana comprensione, che forse non capirà mai bene fino in fondo, ma che dà un senso alle sue scelte di vita.
Questo progetto consiste nella nascita di una nuova umanità la cui forza non sarà il potere ma l’amore. L’obbedienza incondizionata a questo progetto di Dio dovrà essere la caratteristica fondamentale del popolo che da lui nascerà.

Salmo 32 Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.
Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni. La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.

Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore. “Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.

Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”. La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere. Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi ”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15).
Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.

Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento di P.Marco Berti

Dalla II lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.
2Tm 1,8b-10

La seconda lettera a Timoteo si distingue dalla prima soprattutto perchè testimonia una tenera relazione di paternità spirituale di Paolo con il discepolo Timoteo. L’Apostolo la scrive quando è di nuovo prigioniero a Roma nel 67: le condizioni della prigionia sono dure, ben differenti da quelle della prima volta, quando predicava liberamente, in domicilio coatto (At 28,16). In questo particolare brano Paolo, dopo aver esortato Timoteo a non vergognarsi di rendere testimonianza al Signore e neppure del suo rapporto con Paolo che è prigioniero per Lui, continua con queste parole: “con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo..” Il coinvolgimento di Timoteo, nell’opera che Paolo sta svolgendo in favore del vangelo, comporta anche per lui sofferenze, provocate da persecuzioni e umiliazioni. Però anche il discepolo, come il suo maestro, non dovrà scoraggiarsi perché sarà aiutato da una forza che viene da Dio stesso.
Anzitutto si mette in luce l’iniziativa gratuita e efficace di Dio per la salvezza: “Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità”. La salvezza consiste dunque in una “vocazione santa”, e si sottolinea che ciò è dovuto non a opere buone compiute da noi, ma ad una precisa volontà di Dio, che si è attuata mediante la grazia che Egli ci ha concesso in Cristo e questo dono è tale dall’eternità. Si tratta dunque dell’attuazione nel tempo di un progetto che risale al momento stesso della creazione.

Paolo passa quindi a delineare la manifestazione o realizzazione del progetto salvifico di Dio: essa “è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo”.
Questo brano mette fortemente in luce l’origine divina della salvezza, che non si guadagna solo con opere buone, ma è un dono totalmente gratuito. In questa prospettiva si evidenzia l’importanza della fede. Credere significa discernere la grazia di Dio dovunque si manifesti, valorizzarla e farla diventare sorgente di altre grazie nei rapporti con gli altri. Una fede matura porta a vedere il dono di Dio in tutte le cose che ci circondano.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».Mt 17, 1-9


Questo brano del Vangelo di Matteo, che viene dopo la confessione di Pietro, il primo annunzio della Passione, e le condizioni per seguire Gesù, inizia con questa precisazione:, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. Anche se non è specificato, si è sempre pensato che il monte fosso il Tabor, comunque, trattandosi di una scena simbolica, ciò che conta non è il luogo ma il significato della parola “monte”, che esprime la vicinanza a Dio: (su un monte hanno avuto luogo secondo Matteo la tentazione di Gesù (4,8), il discorso inaugurale (5,1) e le apparizioni del Risorto (28,16).
Matteo poi ci riporta che: “E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.” Per spiegare la nuova forma assunta da Gesù, Matteo aggiunge il dettaglio del volto splendente come il sole, mentre per quanto riguarda le sue vesti afferma che esse divennero bianche, ma come secondo termine di paragone prende la luce e non l’opera del lavandaio, come fa Marco.
Alla trasfigurazione di Gesù fa seguito l’apparizione di due personaggi biblici, Mosè ed Elia La presenza dei due personaggi esprime la totalità della rivelazione veterotestamentaria (Legge e Profeti). Il racconto prosegue con la reazione dei discepoli: “Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Pietro interviene anche a nome anche degli altri due discepoli presenti, e chiama Gesù “Signore” (Kyrios) e non “rabbi”, come riferisce Marco, mettendo così più in luce la trascendenza. Infine Matteo evita di mettere in cattiva luce Pietro omettendo l’osservazione riportata da Marco circa lo stato confusionale in cui si trovava per la paura.
Si può osservare però che la tenda richiama il luogo in cui Mosè riceveva gli oracoli del Signore (Es 33,7-11) e su questo sfondo l’intenzione di fare tre tende potrebbe significare il desiderio di mettere Gesù sullo stesso piano dei due personaggi biblici, rinchiudendo così la sua persona e il suo messaggio nell’ottica dell’AT.
Improvvisamente la scena cambia: Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».

La nube (solo per Matteo è “luminosa”) indica la presenza di Dio, la sua shekinâ o la sua Gloria, che in passato aveva accompagnato il popolo nel deserto (Es 13,21), aveva preso dimora nella Tenda costruita da Mosè (Es 40,34-35) e successivamente aveva riempito il tempio eretto da Salomone. La voce dalla nube contiene una dichiarazione cristologica: Gesù racchiude in sé le prerogative di Messia, Servo e profeta. Mosè ed Elia ormai hanno finito il loro compito, solo Gesù resta come intermediario tra Dio e l’umanità.
Matteo aggiunge al racconto di Marco un accenno alla reazione dei discepoli All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.

Il loro atteggiamento esprime il sacro timore che invade l’uomo di fronte a Dio, e la reazione dei discepoli rievoca quella di tutto Israele all’apparire della nube all’ingresso della tenda dove il Signore “parlava con Mosè faccia a faccia” (Es 33,10).
Riprendendo il racconto di Marco, Matteo soggiunge che essi, alzando gli occhi, non videro nessuno “se non Gesù solo”. La scomparsa di Mosè e di Elia mette in luce il ruolo unico che compete a Gesù nel piano di salvezza.

Il racconto termina con le parole di Gesù, Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».
Con la Sua trasfigurazione Gesù ha voluto attenuare il timore dei discepoli per l’annuncio della Sua passione e morte, per rinforzare in loro la fede professata. Il cammino di ritorno dal Tabor è preparatorio per la salita verso Gerusalemme e il Golgota: comprendere il mistero di Cristo, equivale a entrare nella stessa logica della rivelazione.
Il discepolo che ha contemplato in anticipo la gloria di Cristo, ha davanti a sé il tracciato del cammino che è chiamato a seguire.

Oggi il Vangelo ci presenta l’evento della Trasfigurazione. E’ la seconda tappa del cammino quaresimale: la prima, le tentazioni nel deserto, domenica scorsa; la seconda: la Trasfigurazione. Gesù «prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse in disparte, su un alto monte». La montagna nella Bibbia rappresenta il luogo della vicinanza con Dio e dell’incontro intimo con Lui; il luogo della preghiera, dove stare alla presenza del Signore. Lassù sul monte, Gesù si mostra ai tre discepoli trasfigurato, luminoso, bellissimo; e poi appaiono Mosè ed Elia, che conversano con Lui. Il suo volto è così splendente e le sue vesti così candide, che Pietro ne rimane folgorato, tanto che vorrebbe rimanere lì, quasi fermare quel momento. Subito risuona dall’alto la voce del Padre che proclama Gesù suo Figlio prediletto, dicendo: «Ascoltatelo» . Questa parola è importante! Il nostro Padre che ha detto a questi apostoli, e dice anche a noi: “Ascoltate Gesù, perché è il mio Figlio prediletto”. Teniamo, questa settimana, questa parola nella testa e nel cuore: “Ascoltate Gesù!”. E questo non lo dice il Papa, lo dice Dio Padre, a tutti: a me, a voi, a tutti, tutti! E’ come un aiuto per andare avanti nella strada della Quaresima. “Ascoltate Gesù!”. Non dimenticare.

È molto importante questo invito del Padre. Noi, discepoli di Gesù, siamo chiamati ad essere persone che ascoltano la sua voce e prendono sul serio le sue parole. Per ascoltare Gesù, bisogna essere vicino a Lui, seguirlo, come facevano le folle del Vangelo che lo rincorrevano per le strade della Palestina. Gesù non aveva una cattedra o un pulpito fissi, ma era un maestro itinerante, che proponeva i suoi insegnamenti, che erano gli insegnamenti che gli aveva dato il Padre, lungo le strade, percorrendo tragitti non sempre prevedibili e a volte poco agevoli. Seguire Gesù per ascoltarlo. Ma anche ascoltiamo Gesù nella sua Parola scritta, nel Vangelo. ……

Da questo episodio della Trasfigurazione vorrei cogliere due elementi significativi, che sintetizzo in due parole: salita e discesa. Noi abbiamo bisogno di andare in disparte, di salire sulla montagna in uno spazio di silenzio, per trovare noi stessi e percepire meglio la voce del Signore. Questo facciamo nella preghiera. Ma non possiamo rimanere lì! L’incontro con Dio nella preghiera ci spinge nuovamente a “scendere dalla montagna” e ritornare in basso, nella pianura, dove incontriamo tanti fratelli appesantiti da fatiche, malattie, ingiustizie, ignoranze, povertà materiale e spirituale. A questi nostri fratelli che sono in difficoltà, siamo chiamati a portare i frutti dell’esperienza che abbiamo fatto con Dio, condividendo la grazia ricevuta. E questo è curioso. Quando noi sentiamo la Parola di Gesù, ascoltiamo la Parola di Gesù e l’abbiamo nel cuore, quella Parola cresce. E sapete come cresce? Dandola all’altro! La Parola di Cristo in noi cresce quando noi la proclamiamo, quando noi la diamo agli altri! E questa è la vita cristiana. E’ una missione per tutta la Chiesa, per tutti i battezzati, per tutti noi: ascoltare Gesù e offrirlo agli altri. ….
E adesso rivolgiamoci alla nostra Madre Maria, e affidiamoci alla sua guida per proseguire con fede e generosità questo itinerario della Quaresima, imparando un po’ di più a “salire” con la preghiera e ascoltare Gesù e a “scendere” con la carità fraterna, annunciando Gesù.

Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 16 marzo 2014

1360

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L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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