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Set 9, 2017

XXIII Domenica – Anno A – La correzione fraterna – 10 settembre 2017

 

La liturgia di questa domenica tratta un tema importante, ma sempre attuale, la correzione fraterna, che è un dovere da compiere però con discrezione e carità,. e ci indica i modi migliori per farla.

Nella prima lettura, il profeta Ezechiele ammonisce che ciascun uomo potrebbe essere responsabile del male che commettono gli altri, perchè mancare di richiamare alla rettitudine il fratello che sbaglia equivale a rendersi complice del suo peccato, lasciando che questi si illuda di trovarsi nel giusto. Tuttavia la sua responsabilità si ferma davanti alla libera scelta del fratello che può rimanere indifferente o persino ostile e infastidito dal richiamo.

Nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Romani, Paolo ci dice che l’amore del prossimo è la legge nuova di Cristo, fonte, maestro e modello della carità senza limiti e senza distinzioni, e al termine afferma: pienezza della Legge è la carità. Lo scopo di tutta la Legge era precisamente quello di evitare il male in tutti i suoi aspetti, e per raggiungere questo scopo l’unico mezzo efficace è l’amore. La legge non è quindi abbandonata ma è pienamente contenuta nel comandamento dell’amore

Nel Vangelo di Matteo, Gesù richiama alla correzione fraterna e al perdono. E' moralmente doveroso richiamare quanti sono nell'errore, ma è importantissimo farlo come un atto di amore e di sollecitudine per rendere consapevole l'altro del proprio errore attraverso argomenti convincenti. Chi riceve la correzione deve infatti sentirsi a proprio agio e avvertire la certezza che il rimprovero subito non è che un atto di amore nei suoi confronti. E’ consolante come questo brano del Vangelo si conclude, Gesù infatti al termine dice”… dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro!, perché è una promessa per tutti! Gesù, infatti, non dice "dove due o tre santi..." o "dove due o tre perfetti", la Sua presenza è offerta a tutti, qualunque sia il loro merito.

Dal libro del profeta Ezechiele
Mi fu rivolta questa parola del Signore: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.
Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te. Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato».
Ez 33,7-9

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo. Usò immagini di grande potenza evocativa, specie negli oracoli di condanna, ebbe toni ed espressioni particolarmente duri ed efficaci.
Nel brano che abbiamo Dio si rivolge ad Ezechiele dicendo di averlo costituito sentinella per gli israeliti: Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.. Ma diversamente però dalla sentinella, la quale vede avvicinarsi i nemici, il profeta è avvertito da Dio stesso quando una sventura sta per abbattersi sul popolo. Il profeta è infatti il portavoce di Dio, l’uomo sulla cui bocca Dio pone la sua parola (Dt 18,18). Osea scriveva che il profeta è come il trombettiere dell’esercito che “Dá fiato alla tromba!”(8,1) . E’ quindi, una missione da compiere in prima linea con rischi, ma anche con un impegno straordinario perchè essa coinvolge il destino di molti altri.

Vengono poi prospettate delle possibilità: Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te... Se il profeta viene meno al suo compito, la rovina si abbatterà comunque sull’empio: ciò significa che questi doveva sapere che prima o poi la sua empietà sarebbe stata punita.
Ma il profeta reticente avrà la sua parte di responsabilità, della quale dovrà rendere conto a Dio. Egli infatti è venuto meno al suo dovere, rendendo inefficace l’ultima possibilità offerta da Dio al malvagio.

Poi c’è la seconda possibilità: “Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato”. Se il profeta si è mosso a tempo e ha fatto sapere all’empio quello che lo aspetta ed egli non si è convertito, allora la responsabilità è tutta sua: egli solo ne pagherà le conseguenze, mentre il profeta non ne sarà responsabile.
Il brano sottolinea la responsabilità che non solo il profeta, ma ogni credente, ha nei confronti di coloro che sbagliano. Per Ezechiele vale il principio secondo cui nessuno può salvarsi da solo. Perciò chi assiste al male compiuto da un altro non può disinteressarsi, lavandosene le mani, lasciando che egli vada incontro alla rovina. L’impegno in favore del fratello che sbaglia deve però arrestarsi di fronte alla sua libertà: nessuno è autorizzato ad intervenire con la forza per impedirgli di compiere il male. Nessuno può, soprattutto, sostituirsi a Dio, il quale vuole la conversione dell’empio e non gradisce il bene se è compiuto per forza.

Salmo 94 Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.

Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.

Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».

Il salmo è un invito alla preghiera durante una visita al tempio, probabilmente durante la festa delle capanne, che celebrava il cammino nel deserto (Cf. Dt 31,11), visto che il salmo ricorda l'episodio di Massa e Meriba.
Dio è presentato come “roccia della nostra salvezza”, indicando la roccia la sicurezza data da Dio di fronte ai nemici.
Egli è “grande re sopra tutti gli dei”; sono gli dei concepiti dai pagani, dietro i quali striscia l'azione dei demoni. Egli è colui che ha in suo potere ogni cosa: “Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti...”.

Il gruppo orante è invitato ad accostarsi a Dio, cioè ad entrare nell'atrio del tempio. Successivamente il gruppo è invitato a prostrarsi davanti al Signore. Segue l'invito ad ascoltare la voce del Signore. Nel silenzio dell'adorazione davanti al tempio Dio muove il cuore (“la sua voce”) indirizzandolo al bene, all'obbedienza dei comandamenti, al cambiamento della vita.
“Non indurite il cuore”; il cuore indurito non ascolta la voce del Signore e segue i suoi pensieri, ma si troverà a vagare nei deserti di un'esistenza senza Dio, senza alcun riposo
Commento di Padre Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai romani
Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge.
Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della legge infatti è la carità
Rm 13,8-10

Paolo, nella prima parte del capitolo 13 della Lettera ai Romani, aveva messo in luce l’atteggiamento che i cristiani di Roma dovevano assumere nei confronti delle autorità dello stato. L’invito a pagare le tasse, che prima aveva esposto, offre a Paolo lo spunto per fare un discorso più ampio circa i doveri sociali del cristiano. Questo brano inizia con un’esortazione: “non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole” . Gli obblighi infatti verso l’autorità civile, come qualsiasi altro debito, quando sono pagati, non esistono più, mentre c’è un debito che non può essere pagato una volta per tutte, quello cioè che esige di amarsi “l’un l’altro”. A questa esortazione fa seguito immediatamente la motivazione: “perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge”.
A questo punto Paolo dà un’ulteriore spiegazione: “Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».”

I comandamenti che Paolo porta come esempio sono ricavati dal decalogo ma egli sottolinea la ragione e conclude affermando: “La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della legge infatti è la carità”.
Lo scopo di tutta la legge è precisamente quello di evitare il male in tutti i suoi aspetti, e per raggiungere questo scopo l’unico mezzo efficace è l’amore: perciò l’amore è la “pienezza della legge”. La legge non è quindi abbandonata ma è pienamente contenuta nel comandamento dell’amore.

Secondo Paolo i comandamenti della legge restano dunque validi, ma quasi scompaiono di fronte al comandamento dell’amore, così come anche questo perde la sua importanza quando la persona ha scoperto come l’amore sia la parte essenziale e naturale della propria esistenza. Chi ha compreso come l’Amore sia esigente, sa con chiarezza che cosa è bene e che cosa è male e non può sbagliare se obbedisce all’impulso interiore dello Spirito. Soltanto su un amore così inteso e vissuto è possibile fondare la vita di una comunità capace di aprirsi alla ricerca di un bene veramente universale.

 

 

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
Mt 18, 15-20

Questo quarto discorso di Gesù che l’evangelista Matteo ci riporta consiste in una raccolta di detti che hanno come tema centrale la vita della chiesa.
Tutta la struttura del discorso parte da due domande poste dai discepoli che volevano sapere chi fosse il più grande nel regno dei cieli e quella di Pietro che chiedeva quante volte doveva perdonare.
Il brano liturgico si struttura con la presentazione di cinque ipotesi e la relativa soluzione, e termina con una frase conclusiva.

La prima ipotesi è presentata così: Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello”.
Questa azione è al primo livello quella compiuta nel “segreto”: il dialogo personale, infatti, stabilisce un’intimità che permette di sciogliere le incomprensioni e di rispettare meglio la dignità e l’onore del fratello. Il dovere di intervenire non si limita solo al caso di un’offesa personale, ma si estende a tutte le occasioni in cui emerge nella comunità un comportamento contrario allo spirito del vangelo.
L’esigenza di intervenire si contempla anche nel Libro del Levitico dove si dice: “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui” (Lv 19,17) Con il riconoscimento del proprio errore da parte di chi ha sbagliato il caso resta chiuso e non viene richiesta nessuna procedura ulteriore.

Nel caso che l’ammonizione a tu per tu sia rifiutata, si richiede un secondo tentativo: “se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.”
Questa azione al secondo livello è quello dei “testimoni”. Perciò prima di mettere in pubblico la mancanza commessa dal fratello viene richiesto l’intervento privato di due o tre membri della comunità. Questo passo è suggerito anche dal Deuteronomio : “Un solo testimone non avrà valore contro alcuno (...); qualunque peccato (Dt 19,15).questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni”.
È possibile che neppure l’intervento delle due o tre persone chiamate in causa risolva il problema. Perciò il testo continua con altri due supposizioni: Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano”. Ossia se neanche così è disposto ad assumersi le proprie responsabilità, egli deve essere trattato come con un pagano e un pubblicano. Nella mentalità giudaica ciò significa essere allontanato dalla comunità, ossia scomunicato.

Il motivo di un provvedimento così rigoroso è sicuramente determinato non tanto per ragioni punitive, quanto per la preoccupazione di evitare di scandalizzare i fratelli più deboli e di mantenere sano il livello di vita della comunità. Una decisione analoga, è contemplata anche nella parabola dell’invitato a nozze privo dell’abito nuziale (V. Mt 22,11-13), ed è richiesta anche da Paolo nei confronti dell’incestuoso di Corinto (V,1Cor 5,4-5).
Dopo aver indicato come comportarsi col fratello che sbaglia, Matteo conclude:

In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
Questo detto richiama da vicino quello con cui nel vangelo di Giovanni, Gesù risorto assegna ai Suoi discepoli il compito di perdonare o non perdonare i peccati (V.Gv 20,23), cioè di annunziare a tutto il mondo la riconciliazione operata da Cristo. In questo caso il detto mette in primo piano il potere assegnato alla comunità di prendere decisioni autorevoli circa i suoi membri.
Al termine del brano riguardante la correzione fraterna, Matteo riporta due massime strettamente collegate al brano precedente. Nella prima di esse dice: “se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà.” ossia solo se la preghiera è sincera e parte dal cuore dei fratelli potrà essere esaudita.

In questo caso la preghiera è suggerita dalla sollecitudine per i fratelli che hanno sbagliato, e ha come scopo la loro conversione e la loro riammissione nella comunità.
A spiegazione di questo detto viene affermato:
“Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”.
La forza della preghiera comunitaria dipende dalla presenza di Cristo che unisce tra di loro nel Suo nome i fratelli, i quali hanno aderito alla Sua parola e alla Sua persona e sono partecipi della Sua stessa fede.
Una frase simile la si trova anche nei testi rabbinici : “Se due stanno insieme e in mezzo a loro ci sono le parole della Torah, in mezzo a loro sta la Shekinàh (Dio)” La differenza sta nel fatto che il vincolo che unisce i discepoli non sono le parole della legge, ma la persona del Cristo risuscitato, nel quale Dio si rende presente in mezzo a loro.
Una comunità riconciliata è il segno tangibile della presenza di Dio non solo in mezzo ai credenti, ma in tutta l’umanità. Solo la preghiera perciò può riconciliare non solo il fratello che sbaglia, ma anche tutta l’umanità immersa nell’errore,

 

Il Vangelo di questa domenica, tratto dal capitolo 18° di Matteo, presenta il tema della correzione fraterna nella comunità dei credenti: cioè come io devo correggere un altro cristiano quando fa una cosa non buona. Gesù ci insegna che se il mio fratello cristiano commette una colpa contro di me, mi offende, io devo usare carità verso di lui e, prima di tutto, parlargli personalmente, spiegandogli che ciò che ha detto o ha fatto non è buono. E se il fratello non mi ascolta? Gesù suggerisce un progressivo intervento: prima, ritorna a parlargli con altre due o tre persone, perché sia più consapevole dello sbaglio che ha fatto; se, nonostante questo, non accoglie l’esortazione, bisogna dirlo alla comunità; e se non ascolta neppure la comunità, occorre fargli percepire la frattura e il distacco che lui stesso ha provocato, facendo venir meno la comunione con i fratelli nella fede.

Le tappe di questo itinerario indicano lo sforzo che il Signore chiede alla sua comunità per accompagnare chi sbaglia, affinché non si perda. Occorre anzitutto evitare il clamore della cronaca e il pettegolezzo della comunità – questa è la prima cosa, evitare questo -. «Va’ e ammoniscilo fra te e lui solo» . L’atteggiamento è di delicatezza, prudenza, umiltà, attenzione nei confronti di chi ha commesso una colpa, evitando che le parole possano ferire e uccidere il fratello. Perché, voi sapete, anche le parole uccidono! Quando io sparlo, quando io faccio una critica ingiusta, quando io “spello” un fratello con la mia lingua, questo è uccidere la fama dell’altro! Anche le parole uccidono. Facciamo attenzione a questo. Nello stesso tempo questa discrezione di parlargli da solo ha lo scopo di non mortificare inutilmente il peccatore. Si parla fra i due, nessuno se ne accorge e tutto è finito.

È alla luce di questa esigenza che si comprende anche la serie successiva di interventi, che prevede il coinvolgimento di alcuni testimoni e poi addirittura della comunità. Lo scopo è quello di aiutare la persona a rendersi conto di ciò che ha fatto, e che con la sua colpa ha offeso non solo uno, ma tutti. Ma anche di aiutare noi a liberarci dall’ira o dal risentimento, che fanno solo male: quell’amarezza del cuore che porta l’ira e il risentimento e che ci portano ad insultare e ad aggredire. E’ molto brutto vedere uscire dalla bocca di un cristiano un insulto o una aggressione. E’ brutto. Capito? Niente insulto! Insultare non è cristiano. Capito? Insultare non è cristiano.
In realtà, davanti a Dio siamo tutti peccatori e bisognosi di perdono. Tutti. Gesù infatti ci ha detto di non giudicare. La correzione fraterna è un aspetto dell’amore e della comunione che devono regnare nella comunità cristiana, è un servizio reciproco che possiamo e dobbiamo renderci gli uni gli altri. Correggere il fratello è un servizio, ed è possibile ed efficace solo se ciascuno si riconosce peccatore e bisognoso del perdono del Signore. La stessa coscienza che mi fa riconoscere lo sbaglio dell’altro, prima ancora mi ricorda che io stesso ho sbagliato e sbaglio tante volte.

Per questo, all’inizio della Messa, ogni volta siamo invitati a riconoscere davanti al Signore di essere peccatori, esprimendo con le parole e con i gesti il sincero pentimento del cuore. E diciamo: “Abbi pietà di me, Signore. Io sono peccatore!. Confesso, Dio Onnipotente, i miei peccati”. E non diciamo: “Signore, abbi pietà di questo che è accanto a me, o di questa, che sono peccatori”. No! “Abbi pietà di me!”. Tutti siamo peccatori e bisognosi del perdono del Signore. È lo Spirito Santo che parla al nostro spirito e ci fa riconoscere le nostre colpe alla luce della parola di Gesù. Ed è lo stesso Gesù che ci invita tutti, santi e peccatori, alla sua mensa raccogliendoci dai crocicchi delle strade, dalle diverse situazioni della vita (cfr Mt 22,9-10). E tra le condizioni che accomunano i partecipanti alla celebrazione eucaristica, due sono fondamentali, due condizioni per andare bene a Messa: tutti siamo peccatori e a tutti Dio dona la sua misericordia. Sono due condizioni che spalancano la porta per entrare a Messa bene. Dobbiamo sempre ricordare questo prima di andare dal fratello per la correzione fraterna.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 7 settembre 2014

 

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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