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Dic 2, 2017

I Domenica di Avvento – Anno B – “Vegliate” 3 dicembre 2017

Con questa prima Domenica di Avvento si apre il nuovo anno liturgico che nelle sue varie tappe sarà unito dalla lettura del Vangelo di Marco che vuole proporci un viaggio dello spirito nella storia e nel mistero di Gesù, passando dall’oscurità alla luce.

La Liturgia di questa domenica ci presenta:
Nella prima lettura, il profeta Isaia, che davanti alla desolazione del peccato, dell’ingiustizia e delle miserie che toccano il popolo, implora l’intervento di Dio chiedendogli di non lasciare andare in rovina la sua opera, ma di liberarla dall’oppressione del male.

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, scrivendo ai Corinzi, ringrazia Dio delle grazie ricevute dalla giovane comunità di Corinto, ed è certo che lo stesso Dio, che ha arricchito i corinzi di tanti doni, li aiuterà ad essere saldi e irreprensibili sino alla fine.

Nel Vangelo di Marco, Gesù ci invita a vegliare, ma la nostra attesa non deve divenire un’attesa di paura perchè essa riguarda non tanto l’incontro con il Signore, ma l’eventualità di non trovarsi preparati quando questo incontro si realizzerà. La vigilanza deve avere come base la necessità di vivere quotidianamente secondo i valori del Vangelo, annunziati da Gesù.

Dal libro del profeta Isaia
Tu, Signore, sei nostro padre,
da sempre ti chiami nostro redentore.
Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie
e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi,
per amore delle tribù, tua eredità.
Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
Davanti a te sussulterebbero i monti.
Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo,
tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti.
Mai si udì parlare da tempi lontani,
orecchio non ha sentito, occhio non ha visto
che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui.
Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato
contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli.
Siamo divenuti tutti come una cosa impura,
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
Nessuno invocava il tuo nome,
nessuno si risvegliava per stringersi a te;
perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
ci avevi messo in balìa della nostra iniquità.
Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci plasma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.
Is 63,16-17.19; 64,2-7

La terza parte del libro di Isaia (capitoli 56-66) contiene una raccolta di oracoli che, per lo stile e lo sfondo storico, sono attribuiti ad un anonimo profeta del postesilio, al quale perciò è stato dato il nome di Trito (Terzo) Isaia. Alcuni hanno ritenuto che egli fosse un discepolo del Deuteroisaia, mentre altri hanno pensato a un profeta vissuto più di un secolo dopo di lui. Il profeta si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia a Gerusalemme; il suo centro di interesse non è più il nuovo esodo, ma il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da agenti esterni, ma dalla infedeltà del popolo.

Il brano liturgico, che è una commovente e fiduciosa preghiera, una delle più belle dell’Antico Testamento, inizia con un’accorata invocazione:
Tu, Signore, sei nostro padre,da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità.

Il profeta si rivolge direttamente a Dio con accenti di grande intensità facendo proprio il grido di tutta la comunità. Dio viene invocato come “Padre” e “redentore”
(in ebraico (go’el), con questo termine si indica il parente prossimo che interviene in soccorso di chi si trova in una situazione di grande pericolo o necessità. Sia nel momento dell’uscita dall’Egitto, sia in quello del ritorno dall’esilio JHWH ha assunto nei confronti di Israele il ruolo del go’el, liberandolo e acquistandolo per sé con le sue azioni prodigiose ),
ma nello stesso tempo rivolge a Dio un rimprovero velato perché permette ai suoi servi di allontanarsi da Lui, fino ad indurire il loro cuore in modo tale da non temerlo più.
Il profeta mette in evidenza con una intensità crescente la disperazione di Israele: non solo è stato distrutto il suo santuario, distrutto dai babilonesi nel 587, ma Israele ha la sensazione di essere stato abbandonato completamente da Dio.

Infine torna la richiesta pressante e accorata affinché Dio intervenga direttamente dall'alto: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti.”
I cieli chiusi sono un’immagine per indicare la mancanza di comunicazione tra Dio e il Suo popolo. La richiesta di un nuovo intervento di Dio evoca le immagini tipiche della teofania, quando DIO era disceso sul Sinai e il monte era stato scosso dal terremoto (Es 19,18).

La preghiera prosegue con il ricordo degli interventi prodigiosi di Dio in favore di Israele. Di fronte alla manifestazione di DIO le nazioni hanno tremato perché Egli compiva cose terribili e inaudite, e commenta: “orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui”.
Anche qui si può notare un riferimento alla tradizione del Sinai dove viene affermata l’unicità di DIO: egli è l’unico che ha dimostrato una potenza così grande da liberare Israele (Es 20,3; Dt 6,4).
Da queste esperienze viene ricavato un principio generale circa il comportamento di Dio: “Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie”
Poi il profeta confessa a nome del popolo: Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.

La preghiera non termina però con espressioni così disperate e alla fine ritorna il sentimento di fiducia: Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani”.
Come si era aperta, così la preghiera termina con l’attribuzione a DIO della qualifica di “Padre”. Questa gli compete perché è stato Lui a plasmare Israele, perciò il popolo è per Lui come l’argilla su cui è intervenuto per dargli la vita. Su questo rapporto originario e indissolubile si basa la fiducia del popolo in un avvenire migliore. Ma ciò che interessa maggiormente il profeta è il ristabilimento della comunione con Dio. Le sventure materiali sono dolorose non in se stesse, ma perché sono viste come il segno della lontananza di Dio. Se Dio dà un segno della Sua presenza in mezzo al popolo, allora anche le prove non saranno più così insostenibili.

Dio in Gesù Cristo ha totalmente infranto il suo splendido isolamento, “è disceso” in mezzo a noi “è andato incontro a quanti si ricordano delle sue vie”, ha svelato il Suo volto di “Padre” e di “redentore”. La rivelazione e l’incarnazione sono la testimonianza più reale di questo movimento di Dio senza il quale l’uomo resterebbe solitario in questo universo indifferente alle sue speranze, ai dolori, ai suoi misfatti.

Salmo 79 (80) Signore, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi.
Tu, pastore d’Israele, ascolta,
seduto sui cherubini, risplendi.
Risveglia la tua potenza
e vieni a salvarci.

Dio degli eserciti, ritorna!
Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna,
proteggi quello che la tua destra ha piantato,
il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.

Sia la tua mano sull’uomo della tua destra,
sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Da te mai più ci allontaneremo,
facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.

Il salmo venne scritto quando ancora l’arca non era distrutta, il che avvenne con la distruzione di Gerusalemme. Probabilmente è stato scritto dopo la presa di Samaria da parte dell’Assiro Sargon (721), e dopo che Gerusalemme, assediata dall’Assiro Sennacherib dopo la devastazione della Giudea, rimase indenne (701). Questo evento fece risaltare la potenza di Dio nel suo tempio di Gerusalemme, e rese sensibile la Samaria verso Gerusalemme, cosa che permetterà l’azione riformista di Giosia (640-609) anche in territorio Samaritano.

Il salmista è un pio Israelita delle tribù del nord (Samaria) che desidera che le tribù di Efraim, Beniamino e Manasse siano benedette da Dio, la cui gloria sta sui cherubini dell’arca, posta nel tempio di Gerusalemme; desidera la fine dello scisma samaritano: “Seduto sui cherubini, risplendi davanti a Efraim, Beniamino e Manasse. Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci”.

A Dio, che guida Giuseppe “come un gregge”, il salmista chiede di manifestare nuovamente quella potenza che esercitò quando fece uscire “Giuseppe” dall’Egitto; intendendo per Giuseppe tutto Israele, finito in Egitto proprio a partire da lui (Gn 37,38).
Egli attraverso la bella immagine della vigna rievoca la storia di Israele: “Hai sradicato un vite dall’Egitto…”. Questa vite curata da lui ha esteso i suoi rami fino al Mediterraneo e fino al Libano: “La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli”. “Il fiume”, è l’Eufrate. Esso era lontano dalla Terra Promessa, ma indica fin dove giungeva l’influenza di Israele.

Il salmista è stordito di fronte alle sventure che si sono abbattute su Israele: “Signore, Dio degli eserciti, fino a quando fremerai di sdegno contro le preghiere del tuo popolo?”; “Perché hai aperto brecce nella sua città e ne fa vendemmia ogni passante ?”, ma non desiste dalla preghiera e invoca Dio, “Dio degli eserciti”, perché forte in battaglia per difendere i suo popolo: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell'uomo che per te hai reso forte”.
Il salmista riconosce la dinastia di Davide e ha la speranza che il re di Gerusalemme saprà risollevare le sorti di Israele, costui al presente era Ezechia (716-687): “Sia la tua mano sull’uomo della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte”, ma nel futuro sarà il Cristo. Quell’uomo reso forte è ora ogni pontefice, ogni vescovo, ogni sacerdote, ogni diacono, ogni fedele, che tutti sono uno, nell’uno che è la Chiesa, corpo mistico di Cristo, e che si adoperano per portare nel mondo la vera pace, cioè Cristo.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!
Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza. La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!
1 Cor 1,3-9

Paolo scrisse la prima lettera ai Corinzi durante la sua permanenza ad Efeso negli anni 54-55. E’ una delle più lunghe scritte dall’apostolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli. Paolo si era deciso a scriverla dopo aver ricevuto notizie sulla comunità da parte di conoscenti della famiglia di Cloe e dopo che gli era anche pervenuta una lettera dagli stessi Corinzi. Corinto era un’importante grande città, (famosa per il suo porto), centro di cultura greca, dove si affrontavano correnti di pensiero e di religione molto differenti tra loro. Il contatto della fede cristiana con questa capitale del paganesimo, anche celebre per il rilassamento dei costumi, poneva nei neofiti numerosi e delicati problemi. Pur essendo passati solo pochi anni dalla sua fondazione, la comunità di Corinto si era dimostrata molto vivace e nello stesso tempo anche molto problematica.
In questo brano, in cui viene riportato l’inizio della lettera, Paolo comincia con il saluto: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo! in cui sono concentrati due stili, quello tipico del mondo ebraico “shalôm” (pace) e del mondo greco “chaire” (salve) poi continua con il rendimento di grazie:. “Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza.”

In questa frase Paolo, riprendendo uno dei termini dell’augurio appena fatto, ringrazia Dio per aver conferito ai corinzi la sua “grazia” in forza della quale possono entrare in un rapporto personale e vissuto con Lui; Dio l’ha data loro per mezzo del Signore Gesù Cristo, avendoli inseriti in Lui come membra di un corpo. Questa grazia porta con sé non solo la salvezza, ma una ricchezza di doni che riguardano sia la “parola” che la “conoscenza”. »
Poi Paolo continua esprimendo l’altro motivo di ringraziamento: La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo.

Tra i cristiani di Corinto si è stabilita saldamente la “testimonianza di Cristo” ossia il vangelo di Cristo, testimoniato dall’apostolo, ha messo radici profonde tra i corinzi. Di conseguenza essi non mancano ”di nessun carisma”, cioè di nessuno dei doni che lo Spirito conferisce a ciascuno per l’utilità comune . Al tema dei carismi l’apostolo dedicherà ben tre capitoli della sua lettera (cc. 12-14).

Ciò che i corinzi hanno già ricevuto lascia ben sperare anche per il futuro: Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Paolo è dunque certo che lo stesso Dio, che ha arricchito i corinzi di tanti doni, li aiuterà ad essere saldi sino alla fine e irreprensibili «nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo»: con queste parole egli identifica il “giorno del Signore” annunziato dai profeti con quello della manifestazione gloriosa di Gesù Cristo, alla quale i credenti si preparano fin d’ora mediante una vita santa.
In questa prospettiva la fine non suscita più sentimenti di paura, ma di fiducia. Con queste parole Paolo vuole rassicurare i suoi corrispondenti, facendo loro capire che con i richiami, anche forti, che farà non intende assolutamente mettere in dubbio l’autenticità del loro cammino di fede.

L’apostolo conclude il ringraziamento affermando: Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!
L’affermazione “degno di fede è Dio”, è uno dei pilastri su cui si poggia la fede biblica! È vero che l’uomo può allontanarsi da Dio, attirando su di sé sofferenze e insuccessi, ma nello stesso tempo Dio non può venire meno alle Sue promesse. Per il fatto che li ha “chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo,” Egli non li potrà mai abbandonare a se stessi, perciò se anche in qualcosa hanno sbagliato, non per questo devono sentirsi abbandonati da Dio.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
Mc 13, 33-37

Il Vangelo di Marco, che ci accompagnerà nella varie tappe di questo nuovo anno liturgico, è il primo dei Vangelo scritti, composto tra il 60 e il 70. E’ il più corto dei vangeli, (ha circa 11.230 parole) e a differenza di Matteo e Luca, non riporta alcuna informazione sulla vita di Gesù prima dell’inizio del Suo ministero; non vi è riportato neanche un accenno alla natività, né si fa menzione della genealogia di Gesù . Marco più che scrivere una biografia di Gesù, ha voluto attirare l’attenzione di chi legge il suo Vangelo sul mistero della persona del Cristo, sembra quasi che voglia porre il lettore di fronte all’avvenimento facendolo partecipare all’azione.

Questo brano, che è parallelo al Vangelo di Matteo, fa parte del così detto discorso escatologico. Gesù aveva fatto accenno al fico per indicare la necessità di saper discernere la venuta degli eventi finali, sottolineando che essi sono imminenti, ma si attueranno secondo tempi che non sono noti a nessuno, neppure al Figlio. Gesù aveva concluso, nei versetti precedenti non riportati dal brano liturgico, invitando a stare attenti e vigilare per mantenersi sempre pronti e per far comprendere quanto sia importante il messaggio, suggella quanto ha detto con le parole: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Mc 13,31

Per sottolineare ancora la necessità dell’attesa vigilante. Gesù fa poi ricorso a una similitudine: “È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.”
Dopo questa similitudine, Gesù conclude:”Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”

Gesù ci invita a vegliare, ma la nostra attesa non deve divenire un’attesa di paura perchè essa riguarda non tanto l’incontro con il Signore, ma l’eventualità di trovarsi impreparati quando questo incontro si realizzerà. La vigilanza quindi ha per oggetto la necessità di vivere quotidianamente secondo i valori del Vangelo, annunziati da Gesù.
Sebbene la piena realizzazione di tutto questo avrà luogo solo alla fine dei tempi, essa è già presente nel cuore di ogni credente la cui vita deve svolgersi nella dimensione del “già” e del “non ancora”: quello che non si è ancora attuato nella sua pienezza, è presente già ora come risultato delle nostre scelte.


Oggi iniziamo con la Chiesa il nuovo Anno liturgico: un nuovo cammino di fede, da vivere insieme nelle comunità cristiane, ma anche, come sempre, da percorrere all’interno della storia del mondo, per aprirla al mistero di Dio, alla salvezza che viene dal suo amore. L’Anno liturgico inizia con il Tempo di Avvento: tempo stupendo in cui si risveglia nei cuori l’attesa del ritorno di Cristo e la memoria della sua prima venuta, quando si spogliò della sua gloria divina per assumere la nostra carne mortale.

“Vegliate!”. Questo è l’appello di Gesù nel Vangelo di oggi. Lo rivolge non solo ai suoi discepoli, ma a tutti: “Vegliate!” . E’ un richiamo salutare a ricordarci che la vita non ha solo la dimensione terrena, ma è proiettata verso un “oltre”, come una pianticella che germoglia dalla terra e si apre verso il cielo. Una pianticella pensante, l’uomo, dotata di libertà e responsabilità, per cui ognuno di noi sarà chiamato a rendere conto di come ha vissuto, di come ha utilizzato le proprie capacità: se le ha tenute per sé o le ha fatte fruttare anche per il bene dei fratelli.

Anche Isaia, il profeta dell’Avvento, ci fa riflettere oggi con una preghiera accorata, rivolta a Dio a nome del popolo. Egli riconosce le mancanze della sua gente, e a un certo punto dice: “Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balìa della nostra iniquità”(Is 64,6).
Come non rimanere colpiti da questa descrizione? Sembra rispecchiare certi panorami del mondo post-moderno: le città dove la vita diventa anonima e orizzontale, dove Dio sembra assente e l’uomo l’unico padrone, come se fosse lui l’artefice e il regista di tutto: le costruzioni, il lavoro, l’economia, i trasporti, le scienze, la tecnica, tutto sembra dipendere solo dall’uomo. E a volte, in questo mondo che appare quasi perfetto, accadono cose sconvolgenti, o nella natura, o nella società, per cui noi pensiamo che Dio si sia come ritirato, ci abbia, per così dire, abbandonati a noi stessi.

In realtà, il vero “padrone” del mondo non è l’uomo, ma Dio. Il Vangelo dice: “Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati” .
Il Tempo di Avvento viene ogni anno a ricordarci questo, perché la nostra vita ritrovi il suo giusto orientamento, verso il volto di Dio. Il volto non di un “padrone”, ma di un Padre e di un Amico.

Con la Vergine Maria, che ci guida nel cammino dell’Avvento, facciamo nostre le parole del profeta. “Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani” (Is 64,7).
Papa Benedetto XVI
Angelus del 27 novemebre 2011

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