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Giu 29, 2019

XIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C - "In cammino con Gesù" - 30 giugno 2019

Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a porre la nostra attenzione sulla sequela di Gesù: seguire il Signore è percorrere la sua stessa strada.
La prima lettura, tratta dal primo dei Re, il profeta Elia gettando il suo mantello sulle spalle del discepolo Eliseo, lo invita a seguirlo e lo riveste del suo stesso ministero profetico. Eliseo accetta e per lui si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Galati, San Paolo afferma che con Cristo siamo stati chiamati a libertà, e la libertà del cristiano dà la capacità di portare a compimento la legge e di mettersi al servizio del prossimo. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Nel Vangelo, San Luca ci fa comprendere che chi intende mettersi alla sequela di Gesù non deve più guardare al passato, ma è chiamato ad occuparsi di nuova vita. Deve perciò tagliare i legami con le idee vecchie e con gli interessi individuali, essere disposto a tutto, e avere il coraggio, di andare anche controcorrente.

Dal primo libro dei Re
In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto».
Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.
1Re19,16b, 19-21

Il primo libro dei re, come il secondo, è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh, dove sono contati come un testo unico) che in quella cristiana. Sono stati scritti entrambi in ebraico e secondo molti esperti, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte, in particolare della cosiddetta fonte deuteronomista del VII secolo a.C., integrata da tradizioni successive. E’ composto da 22 capitoli descriventi la morte di Davide, Salomone, la scissione del Regno di Israele dal Regno di Giuda, il ministero del Profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C..
Il ciclo di Elia (1Re 17,1 - 22,54; 2Re 1) rappresenta, insieme a quello di Eliseo, il nucleo centrale dei due libri dei Re, di cui mette chiaramente in luce il carattere profetico.
Riepilogando l’antefatto del brano che la liturgia ci propone, sappiamo che dopo il sacrificio del Carmelo (1Re 18,16-46), il profeta Elia, perseguitato da Gezabele, moglie di Acab, si reca al monte Oreb. Durante il cammino nel deserto è sostenuto da Dio, come Israele al tempo dell’esodo, con un pane e un’acqua miracolosi (1Re 19,1-8). Dopo aver camminato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, egli giunge al monte della rivelazione, dove Dio gli appare non nell’uragano, nel terremoto o nei lampi, ma “nel mormorio di un vento leggero” e questo significa che anche Elia, come Mosè, riceve la parola di Dio, non però mediante i fenomeni esterni della teofania, bensì nell’intimo del suo cuore, “pieno di zelo per il Signore”.
Sul monte Oreb Dio affida ad Elia tre compiti il cui scopo è quello di preparare le persone che scateneranno il castigo divino sul popolo peccatore (1Re 19,15-16). Per prima cosa dovrà consacrare Cazael come re di Damasco (2Re 8,7-15); in seguito dovrà ungere Ieu come re di Israele (2Re 9,1-13); infine dovrà ungere come suo successore Eliseo figlio di Safat (1Re 19,19-21). Elia non sarà dunque solo nella sua adesione incondizionata a DIO! Di ritorno dall’Oreb, Elia adempie per primo il terzo dei compiti che gli erano stati affidato, la chiamata di Eliseo.
Il testo liturgico si apre con l’ordine dato da DIO ad sull’Oreb: “Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto”. La scena dell’incontro di Elia con Eliseo si svolge probabilmente nel villaggio stesso in cui viveva Eliseo, Abel-Mecola. Eliseo è intento a un impegnativo lavoro agricolo, infatti: “arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo”. Al vederlo, “Elìa, gli gettò addosso il suo mantello”.
La sacralità del mantello di Elia apparirà in seguito, nella scena del congedo di Elia da Eliseo (2Re 2,8.l3-14), dove sono attribuite a esso proprietà miracolose. Il gesto di Elia però non ha un carattere miracoloso, e neppure indica un passaggio di poteri da Elia al nuovo discepolo. Questi due significati del mantello appariranno in occasione della dipartita di Elia. Qui invece si tratta di un segno di appropriazione, con il quale Dio prende possesso di un uomo per conferirgli una missione. Eliseo comprende immediatamente il significato del gesto di Elia infatti lascia subito i buoi e corre dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa gli risponde: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te».
Da quel momento la vita di Eliseo, contadino di Abel-Mecolà, villaggio della Transgiordania, è stravolta. Gli è stato consentito solo il congedo ufficiale dal suo nucleo familiare attraverso un pasto d’addio cotto proprio con gli attrezzi dell’aratro, che erano il simbolo della sua antica professione. Poi per Eliseo, si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica
La chiamata di Eliseo dà un’idea dell’origine e della radicalità della vocazione profetica. Infatti non è Eliseo che si mette a disposizione di Dio e neppure Elia che decide di chiamarlo al suo servizio, ma è Dio stesso che dà a Elia il compito di andarlo a cercare e di coinvolgerlo nella missione di guida spirituale del popolo.

Salmo 15 - Sei tu, Signore, l’ unico mio bene.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei tu».
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.

Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

Il salmista si rivolge a Dio con pace avendo eletto il Signore, quale suo rifugio. Non mancano a lui le difficoltà, gli avversari violenti. Senza l’unione con lui ogni cosa non sarebbe più per lui un bene. Egli ama i santi, i giusti; nel compimento messianico che è la Chiesa, i fratelli in Cristo. Egli si sente in forte comunione con loro, e trova forza da questo. Gli empi, che incalzano costruendo e affermando idoli, non lo sgomentano perché la sua vita è nelle mani di Dio, e niente per lui sarebbe sulla terra un bene senza il sommo bene, che è Dio: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene”. L’orante considera come Dio lo aiuta e conforta e come per lui questo sia tutto. La sorte (il sorteggio) (Cf. Gd 17,1; Nm 26,55; ecc.) che assegnò un tempo i vari territori ai casati di Israele, ora è violata dall’ingiustizia dei dominatori idolatri, ma questo fa comprendere meglio all’orante che la vera sua sorte la sua vera sicurezza e forza è proprio il Signore, che gli dà pace e letizia: “Signore è mia parte di eredità e mio calice”. L’orante non tiene per se tutto questo, ma lo partecipa ai fratelli per un nutrirsi reciproco di luce. Non ha odio per gli empi e non li esclude dalla volontà salvifica di Dio: sono essi stessi ad escludersi da questa volontà con “le loro libagioni di sangue”, cioè i loro crimini, vero culto del male. Il salmista è certo che Dio non lo abbandonerà negli inferi una volta lasciata la terra: “non abbandonerai la mia vita negli inferi”. Ed egli sa che “il tuo Santo”, cioè il Cristo (Cf. At 13,35), avrà - ha avuto - vittoria sulla corruzione della tomba. Il salmista sa che percorrendo giorno dopo giorno “il sentiero della vita”, giungerà all’eterna dolcezza del cielo, alla destra di Dio, che è espressione letteraria indicante il glorioso essere con Dio. In assoluta eccellenza è Cristo che nella gloria è alla destra del Padre.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.
Gal 5,1. 13-18

Paolo, scrive la lettera ai Galati tra il 50 e il 57 durante il suo terzo viaggio, probabilmente da Efeso o da Macedonia, per controbattere ad una predicazione fatta da alcuni ebrei cristiani, dopo che l'apostolo aveva lasciato la comunità, i quali avevano convinto alcuni Galati che l'insegnamento di Paolo era incompleto e che la salvezza richiedeva il rispetto della Legge di Mosè, in particolare della circoncisione. Paolo condanna tale orientamento, proclamando la libertà dei credenti e la salvezza per mezzo della fede. La lettera è importante anche perchè si trovano delle informazioni storiche sulla vita di Paolo prima della conversione, sulla sua conversione, sugli anni successivi, i suoi rapporti con Pietro, con Gerusalemme, con Barnaba.
Paolo in questo brano inizia la sua esortazione con una frase che è tutto un programma: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”
Dobbiamo tener presente che nel mondo ebraico la libertà era concepita come un dono di Dio, che dopo aver liberato il Suo popolo dalla schiavitù degli egiziani, lo aveva unito a sé mediante l’alleanza e gli aveva dato la Sua legge: lo scopo della legge infatti era quello di creare tra gli israeliti quello spirito di fratellanza e di solidarietà in forza del quale la libertà sarebbe diventata la prerogativa di tutti. In questa prospettiva essi consideravano il codice mosaico come il dono più grande che Dio aveva fatto al suo popolo e la chiamavano “legge di libertà”.
Per Paolo è la liberazione ottenuta da Cristo che dà la libertà piena, infatti egli vede proprio nella liberazione dalla legge il punto di partenza di un cammino serio e impegnativo verso la libertà piena. Ciò si comprende solo ricordando che per lui il termine “legge”, designava un semplice elenco di precetti che l’uomo, con le sue sole forze, doveva compiere per rendersi gradito a Dio. In altre parole la legge, staccata dall’azione liberatrice di Dio, era diventata una pura norma incapace di dare la vita all’uomo peccatore, e come tale era paragonabile al pedagogo che controlla il bambino finché sopraggiunge il maestro (v.3,25) . Solo Cristo ha potuto togliere di mezzo la legge così intesa, in quanto ha liberato l’uomo dal suo peccato e lo ha fatto diventare figlio di Dio.
Nei versetti non riportati dal brano liturgico (vv. 2-12) Paolo aveva messo in guardia i galati nei confronti della circoncisione e di tutto ciò che essa comporta, cioè la pratica di tutta la legge. Coloro che cercano di imporla loro vogliono separarli da Cristo, e così facendo li pongono su una strada sbagliata. Essi devono dunque decidere se stare dalla sua parte o da quella dei suoi avversari. Ma devono anche sapere che nel primo caso scelgono la libertà, mentre nel secondo, pur pensando di fare proprie le prerogative del popolo eletto, scelgono in realtà un regime di schiavitù che svuota il vangelo del suo contenuto essenziale: la croce di Cristo. Il punto che l’apostolo vuole fare capire con chiarezza è uno solo: se egli si contrappone ai giudaizzanti, non è per difendere la sua autorità di apostolo, ma per garantire la verità e l’autenticità del vangelo. I galati possono rifiutare le sue direttive, ma così facendo abbandonano Cristo e rinunziano alla sua grazia.
Nel brano liturgico Paolo afferma: Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso”.
I credenti non solo sono stati liberati, ma sono chiamati alla libertà: la libertà dunque non è solo un dono, ma anche un impegno. Questa libertà però non deve diventare un alibi per vivere secondo la carne, (cioè vivere senza regole e principi morali, in cui ogni cosa che si desidera è permessa), al contrario l’essere diventati liberi deve spingerli a mettersi a servizio gli uni degli altri nell’amore.
Tutta la legge si riassume infatti nel precetto che impone di amare il prossimo come se stessi. Paolo non predica dunque l’abolizione della legge in quanto tale, ma solo la liberazione da una legge concepita come una norma oggettiva da praticare con le proprie forze.
Purtroppo i galati non sono su questa strada, infatti l’apostolo li ammonisce dicendo: “Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!“ Essi vorrebbero praticare la legge, ma intanto vengono meno proprio al suo comandamento fondamentale, e così facendo si distruggono a vicenda.
Paolo passa poi a spiegare come la libertà dalla legge diventi effettiva solo in forza dello Spirito:”Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne.”
Per evitare di cedere ai desideri della carne, ossia ai desideri mondani, che sono all’origine di un comportamento peccaminoso, contrario alle esigenze della legge, il credente deve camminare secondo lo Spirito, cioè lasciarsi guidare dalla potenza di Dio che si manifesta nella sua azione.
Questo concetto lo approfondisce in questo modo:
“La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste”.
Con il termine “carne” Paolo qualifica l’uomo peccatore nel senso che ponendo se stesso egoisticamente al centro di tutte le cose, trasgredisce anche il comandamento del Decalogo “non desiderare” che rappresenta anch’esso, come il comandamento dell’amore, la sintesi di tutti i precetti divini.
Paolo infine conclude: “Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.”
Colui che si lascia guidare dallo Spirito non ha più desideri mondani. La vittoria sul desiderio mondano, e quindi la possibilità di amare i fratelli, dipende dunque essenzialmente dal dono dello Spirito.
In questo testo Paolo mette con forza l’accento sulla libertà in quanto dono che viene fatto da Cristo al credente. Questa consiste fondamentalmente nell’eliminazione di un rapporto servile con la legge.
Paolo sottolinea però con chiarezza che questa libertà non consiste nel fare i propri comodi, ma nell’osservare il precetto fondamentale dell’amore, in cui tutta la legge è riassunta.
Ma la pratica dell’amore non è una cosa che competa all’uomo se prima non ha accettato in se stesso il dono dello Spirito. Solo lo Spirito infatti è capace di sostituire i desideri del mondo con altri desideri che portano all’amore e al dono di sé (questo concetto lo tratta ancora in Rm 5,5; 8,1-4).
Questo dono ha origine fondamentalmente dall’esempio di Cristo, dalla Sua totale dedizione al Padre e ai fratelli. Solo chi assume lo Spirito di Gesù, che è anche lo Spirito di Dio, può essere veramente libero nella pratica dell’amore verso i fratelli.

Dal vangelo secondo Luca
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
Lc 9, 51-62

Questo brano è tratto dalla seconda parte del vangelo di Luca, che viene denominata “La Salita verso Gerusalemme”.
Il brano inizia con una frase emblematica “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme” e precisa che “mandò messaggeri davanti a sé”. Si può notare un riferimento a Malachia (Ml 3,1) dove Dio invia un angelo a preparare la sua venuta nel tempio di Gerusalemme e Luca interpreta questo incarico come l’invio di messaggeri ufficiali davanti al Messia per preparargli la strada verso Gerusalemme, dove avrebbe portato a termine la Sua missione.
Gli inviati “si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.” C’è da tener presente che i samaritani erano i nemici tradizionali dei giudei e spesso ne ostacolavano il passaggio nella loro regione, per questo di solito i giudei evitavano di passare nel loro territorio.
Luca e Giovanni (Lc 4,1-42, Gv 4,1-42) sono i soli a menzionare il passaggio di Gesù in questo territorio.
“Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò.”
Da questo episodio si rivela il carattere impulsivo e vendicativo dei figli di Zebedeo, e può comprendere perchè Gesù diede loro il soprannome di Boanèrghes, cioè figli del tuono.
“E si misero in cammino verso un altro villaggio.”
Può darsi che Gesù visto il rifiuto dei Samaritani abbia deviato il suo cammino, prendendo la strada che per giungere a Gerusalemme attraversa la Perea. L'interesse di Luca in questa sezione è però soprattutto di presentare Gesù in “viaggio”, non importa quindi precisare di quale altro villaggio si tratti.
Dopo l’episodio dei samaritani Luca inserisce tre scene di vocazione.
Nella prima scena, a un certo punto si presenta a Gesù un tale che gli dichiara la sua ferma decisione di seguirlo dovunque egli vada. La risposta di Gesù è significativa:”Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Prima di decidersi a seguire Gesù bisogna riflettere seriamente, perché si tratta di una scelta che implica privazioni, rischi, mancanza di sicurezze terrene, per cui una vita comoda e tranquilla non si addice a chi intende mettersi al Suo seguito.
Nella seconda scena è Gesù che rivolgendosi ad un altro dice : «Seguimi!». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». C’è da tenere presente che nella società ebraica non c’era solo il compito di adempiere a tutti i doveri connessi con la sepoltura del padre, ma anche di assisterlo nell’ultimo periodo della sua vita.
Già Eliseo aveva chiesto di poter salutare i genitori prima di seguire Elia (1Re 19-20), ed è possibile che Luca vi si ispiri; ma ora il futuro discepolo domanda una proroga per un motivo ben più grave: il sacrosanto dovere di provvedere alla sepoltura del padre, richiesto dal quarto comandamento della legge e considerato un'importante opera di misericordia.. A questo riguardo Gesù esprime il suo pensiero con un’affermazione paradossale, formulata in perfetto stile semitico, uno stile che usa toni forti e dichiarazioni esplosive: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”. Mettendosi al seguito di Gesù il discepolo ha scelto la “vita” e non deve più immischiarsi in faccende che riguardano coloro che sono ancora spiritualmente “morti”. Gesù considera quindi la sequela come un impegno talmente decisivo e radicale da far passare in secondo ordine persino gli obblighi più importanti e i legami familiari più stretti.
L’ultima scena riguarda un tale che prendendo lui stesso l’iniziativa si rivolge a Gesù dicendogli: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. Costui si impegna a seguirlo, ma prima chiede di potersi accomiatare da quelli di casa sua. Ma Gesù risponde: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”.
L’aratro, simbolo del lavoro abbandonato da Eliseo, diventa segno del nuovo lavoro dell’apostolo “coltivatore” (chiamando i primi discepoli Gesù aveva parlato di pescatori di uomini) Ma c’è un’altra differenza più rilevante, tra queste scene di vocazione: nella chiamata per il Regno proposta da Cristo non c’è spazio per il “congedo da quelli di casa”.
Chi intende mettersi alla sequela di Gesù non guarda più al passato, è chiamato ad occuparsi di nuova vita; taglia i legami con le idee vecchie e con gli interessi individuali; deve essere mobile, disposto ad avventurarsi nel territorio del rinnovamento e della perfezione, affronta il rischio della novità, ama l’azzardo della libertà, il cui conseguimento è per lui fondamento di uno spirito di servizio e di solidarietà.

 

*****

 

“Il Vangelo di questa domenica mostra un passaggio molto importante nella vita di Cristo: il momento in cui – come scrive san Luca – «Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme». Gerusalemme è la meta finale, dove Gesù, nella sua ultima Pasqua, deve morire e risorgere, e così portare a compimento la sua missione di salvezza.
Da quel momento, dopo quella “ferma decisione”, Gesù punta dritto al traguardo, e anche alle persone che incontra e che gli chiedono di seguirlo, dice chiaramente quali sono le condizioni: non avere una dimora stabile; sapersi distaccare dagli affetti umani; non cedere alla nostalgia del passato.
Ma Gesù dice anche ai suoi discepoli, incaricati di precederlo sulla via verso Gerusalemme per annunciare il suo passaggio, di non imporre nulla: se non troveranno disponibilità ad accoglierlo, si proceda oltre, si vada avanti. Gesù non impone mai, Gesù è umile, Gesù invita. Se tu vuoi, vieni. L’umiltà di Gesù è così: Lui invita sempre, non impone.
Tutto questo ci fa pensare. Ci dice, ad esempio, l’importanza che, anche per Gesù, ha avuto la coscienza: l’ascoltare nel suo cuore la voce del Padre e seguirla. Gesù, nella sua esistenza terrena, non era, per così dire, “telecomandato”: era il Verbo incarnato, il Figlio di Dio fatto uomo, e a un certo punto ha preso la ferma decisione di salire a Gerusalemme per l’ultima volta; una decisione presa nella sua coscienza, ma non da solo: insieme al Padre, in piena unione con Lui!
Ha deciso in obbedienza al Padre, in ascolto profondo, intimo della sua volontà. E per questo la decisione era ferma, perché presa insieme con il Padre. E nel Padre Gesù trovava la forza e la luce per il suo cammino. E Gesù era libero, in quella decisione era libero. Gesù vuole noi cristiani liberi come Lui, con quella libertà che viene da questo dialogo con il Padre, da questo dialogo con Dio. Gesù non vuole né cristiani egoisti, che seguono il proprio io, non parlano con Dio; né cristiani deboli, cristiani, che non hanno volontà, cristiani «telecomandati», incapaci di creatività, che cercano sempre di collegarsi con la volontà di un altro e non sono liberi. Gesù ci vuole liberi e questa libertà dove si fa? Si fa nel dialogo con Dio nella propria coscienza. Se un cristiano non sa parlare con Dio, non sa sentire Dio nella propria coscienza, non è libero, non è libero.
Per questo dobbiamo imparare ad ascoltare di più la nostra coscienza. Ma attenzione! Questo non significa seguire il proprio io, fare quello che mi interessa, che mi conviene, che mi piace... Non è questo! La coscienza è lo spazio interiore dell’ascolto della verità, del bene, dell’ascolto di Dio; è il luogo interiore della mia relazione con Lui, che parla al mio cuore e mi aiuta a discernere, a comprendere la strada che devo percorrere, e una volta presa la decisione, ad andare avanti, a rimanere fedele.
Noi abbiamo avuto un esempio meraviglioso di come è questo rapporto con Dio nella propria coscienza, un recente esempio meraviglioso. Il Papa Benedetto XVI ci ha dato questo grande esempio quando il Signore gli ha fatto capire, nella preghiera, quale era il passo che doveva compiere. Ha seguito, con grande senso di discernimento e coraggio, la sua coscienza, cioè la volontà di Dio che parlava al suo cuore. E questo esempio del nostro Padre fa tanto bene a tutti noi, come un esempio da seguire.
La Madonna, con grande semplicità, ascoltava e meditava nell’intimo di se stessa la Parola di Dio e ciò che accadeva a Gesù. Seguì il suo Figlio con intima convinzione, con ferma speranza. Ci aiuti Maria a diventare sempre più uomini e donne di coscienza, liberi nella coscienza, perché è nella coscienza che si dà dialogo con Dio; uomini e donne, capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione.”

Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 30 giugno 2013

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