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Ott 31, 2019

Solennità di tutti i santi - 1 novembre 2019, Commemorazione dei fedeli defunti - 2 novembre 2019

Le commemorazioni dei santi martiri, comuni a diverse Chiese, cominciarono ad essere celebrate nel IV secolo, ma la commemorazione di tutti i Santi la si deve a Papa Gregorio III (731-741) che scelse il 1^ novembre come data dell'anniversario della consacrazione di una cappella a San Pietro alle reliquie "dei santi apostoli e di tutti i santi…”. Venne poi decretata festa di precetto da parte del re franco Luigi il Pio nell'835 e il decreto fu emesso su richiesta di papa Gregorio IV con il consenso di tutti i vescovi.
La commemorazione dei fedeli defunti al 2 novembre ebbe origine nel sec. X nel monastero benedettino di Cluny. Papa Benedetto XV, al tempo della prima guerra mondiale, giunse a concedere a ogni sacerdote la facoltà di celebrare «tre messe» in questo giorno.
Le letture proposte dalla liturgia di questi due giorni ci aiuteranno a dare una risposta alla domanda: chi sono i santi? Non sono solo coloro che hanno raggiunto la gloria degli altari, ma sono anche coloro che hanno interpretato ed interpretano nel mondo il bisogno di Dio, che accettano e fanno fruttificare la grazia del Signore, che collaborano al compimento del progetto divino della riconsacrazione del mondo nell’amore. La santità è certamente anche un dono di Dio e, nello stesso tempo, il risultato di un impegno morale, svolto anche nell’ombra, che solo Dio vede. La santità non è quindi solo il raccolto finale di una vita spesa nel bene, la santità è il segno di una quotidiana partecipazione ai progetti di Dio.

Solennità di tutti i Santi – 1 Novembre 2019

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni Apostolo
Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».
E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce:
«La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen».
Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
Ap 7,2-4.9-14

L‘Apocalisse di Giovanni, è l’ultimo libro del Nuovo Testamento, si compone di 22 capitoli, ed è uno dei testi più controversi e difficili da interpretare. Appartiene al gruppo di scritti neotestamentari noto come “letteratura giovannea“, in quanto redatta, intorno all’anno 95, verso la fine dell'impero di Domiziano, dai discepoli dell’apostolo che si sono ispirati al suo insegnamento.
I libri che hanno di più influenzato l'Apocalisse sono i libri dei Profeti, principalmente Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il Libro dei Salmi.
L'autore presenta se stesso come Giovanni, esiliato a Patmos, isola dell‘Egeo, a circa 70 km da Efeso, a causa della parola di Dio. Secondo alcuni studiosi, la stesura definitiva del libro, anche se iniziata durante l'esilio dell’autore, sarebbe avvenuta ad Efeso.
Questo brano costituisce l’intermezzo della sezione che va sotto il nome “i sette sigilli”. Essi vengono aperti dall’Agnello immolato, cioè da Gesù che si presenta così, per mezzo della sua passione, come il rivelatore del disegno salvifico di Dio. Ad ogni apertura corrisponde la realizzazione progressiva dei decreti di Dio. Volta per volta vengono rivelati coloro che devono realizzare questi decreti: i quattro cavalieri, i martiri con il loro invito alla giustizia, il cosmo, gli Angeli e i Santi con le loro preghiere.
Prima dell'apertura del settimo sigillo vi è una pausa. Giovanni poi continua il racconto della sua visione:
“Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio.”
Gli angeli vengono mandati sulla terra a mettere un segno per distinguere gli eletti di Dio. Questo segno pone gli eletti sotto la protezione di Dio, e grazie al Suo aiuto essi potranno resistere alle prove della persecuzione, non però saranno risparmiati dalla sofferenza e neppure dalla morte fisica, ma saranno preservati dalla distruzione totale e dall'annientamento.
“E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele”.
Questo è un numero figurativo, formato da 12 per 12 per 1000. Il numero 12, è il segno del tempo giunto a compimento, poiché nei 12 mesi dell’anno la terra compie il suo giro intorno al sole. Perciò il numero 12, qui abbinato al numero 1000, è considerato segno della perfezione e della completezza. Il numero 144.000, proveniente da ogni tribù dei figli d'Israele, è il prodotto di 12 (tribù d'Israele), per 12 (numero degli apostoli) per 1000 (numero di grandezza divina).
Giovanni poi vede la schiera dei beati che si trova già in cielo:
“Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
I beati del cielo sono una folla immensa, non si può calcolare, non si può esprimere nemmeno con un numero simbolico. Provengono da tutte le parti del mondo. Essi stanno in piedi: atteggiamento dell'uomo vivo e libero. I vestiti bianchi sono simbolo della gloria del cielo e le palme sono simbolo di vittoria.
“Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello».
Uno degli anziani chiede a Giovanni chi siano queste persone e Giovanni a sua volta lo chiede all'anziano. Si tratta di coloro che hanno perseverato nel momento della prova. Essi hanno potuto resistere non grazie alle loro forze, ma grazie al sangue di Cristo, alla Sua redenzione, a cui hanno potuto accedere grazie alla fede e ai sacramenti.
Il canto che gli eletti elevano a Dio nella liturgia gloriosa del cielo riconosce che “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello”. C’è quindi un primato assoluto di Dio! Essere santi vuol dire accogliere un dono più che conquistarlo, ma una volta accolto, il dono deve essere a sua volta donato . E’ in questo che scatta l’impegno dell’uomo, la sua risposta d’amore, all’amore di Dio.
Questa grazia è luminosamente presente in tutti i santi, anche in quelli che espressamente non appartengono al cristianesimo, ma che certamente in modo misterioso e segreto sono legati a Dio e al Suo Figlio incarnato.
La santità nasce da un dialogo efficace in cui la prima battuta, quella che rompe il silenzio e crea la bellezza del discorso, è pronunziata da Dio. A questo punto è di vitale importanza rispondere, pronunciare il sì all’adesione piena e totale . Con questo impegno personale la vita è trasformata, divenendo un dialogo vivo e continuo con Dio, che è Amore e a questo amore si risponde solo amando.
Salmo 23/24 - Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Signore.
Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l’ha fondato sui mari
e sui fiumi l’ha stabilito.
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli.
Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
Il salmo presenta il momento in cui Israele ritorna dell’esilio. Ora è consapevole, dopo la distruzione di Gerusalemme e del tempio, che per salire al tempio e per abitare alla sua ombra bisogna essere puri di cuore; il tempio non salva nessuno se non c’è la fedeltà alla legge.
Il Signore è di maestà infinita, e sua “è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti”.
Dalla considerazione della grandezza e potenza di Dio parte l’esame delle qualità di chi andrà ad abitare all’ombra del tempio del Signore.
Il tempio è stato distrutto e un coro dice alle porte di ristabilire se stesse. Esse sono state distrutte, ma sono pure “eterne” (traduzione letterale), e perciò saranno rifatte.
Dalle porte del tempio, comprese quelle dell’atrio degli olocausti, entrerà il re della gloria a prendere dimora con la sua gloria nel tempio, nel santo dei santi.
E’ il Signore potente in battaglia, che vince i suoi nemici. “Il Signore degli eserciti” è il Signore delle schiere dei valorosi nella fede.
Il “sensus plenior" del salmo è per salire il monte santo, cioè giungere alla mensa Eucaristica, salire in un cammino d’iniziazione, alla partecipazione piena all’altare, e dimorare nella fede e nell’amore nella casa del Signore richiede rettitudine di vita. Occorre cercare colui che già si è fatto trovare; cercarlo per più conoscerlo e amarlo, in un tendere all’infinito a lui.
E i cieli sono aperti. Le porte del cielo ostruitesi per il peccato dell’uomo ora si sono riaperte. I cori angeli hanno proclamato: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria…”. Entri il “Signore valoroso in battaglia”, quella che ha condotto contro le tenebre lanciategli da Satana e i dolori della croce. “E’ il Signore degli eserciti il re della gloria”, il Signore delle schiere apostoliche della Chiesa, che porta la luce del vangelo ovunque.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Giovanni Apostolo
Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.
1Gv 3,1-3

La Prima lettera di Giovanni è una lettera tradizionalmente attribuita a Giovanni apostolo ed evangelista ed inclusa tra i libri del Nuovo Testamento (la quarta delle cosiddette “lettere cattoliche”). La lettera nella sua redazione finale dovrebbe essere stata scritta verso la fine del I secolo, probabilmente ad Efeso.
Nel II secolo, tra tutti gli scritti attribuiti a Giovanni, solo la "Prima lettera" era riconosciuta da tutte le chiese come "Sacra Scrittura“. I destinatari della lettera sono pagani delle comunità dell‘Asia Minore che si sono convertiti al Cristianesimo. Lo scopo che Giovanni si prefigge è quello di richiamare le comunità cristiane all’amore fraterno e di metterle in guardia verso i falsi maestri gnostici ed eretici, che negavano l’incarnazione di Gesù Cristo.
La seconda parte del capitolo 2 è dedicata agli ultimi tempi, che per l'autore della lettera sono ormai vicini. Egli parla di diversi anticristi, cioè di avversari del Signore che cercano di allontanare da lui i suoi fedeli. Essi però li hanno riconosciuti, alcuni facevano parte addirittura della loro comunità, e non sono caduti nei loro tranelli. Giovanni ricorda loro come distinguerli: negano che Gesù è il Cristo, negano che sia Figlio di Dio. I cristiani devono dunque rimanere fedeli a Lui e attendere con fiducia la sua parusia, cioè il suo ritorno nella gloria..
Questo brano, tratto dal 3^ capitolo, “Vivere da Figli di Dio”, leggiamo:
“Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.”
Chi ha aderito al Vangelo non può vacillare nel momento della prova perché è stato il destinatario di un amore grandissimo. Siamo figli di Dio! Questo titolo per noi oggi probabilmente ha perso forse un po' di significato, ma rimane sempre un'affermazione forte. Anche noi come i cristiani di allora siamo “chiamati figli di Dio” , ma il mondo non ci riconosce come tali perché non ha riconosciuto Dio. E' il paradosso dell'amore di Dio, che lascia libere le persone di riconoscerlo come il Signore del mondo e della vita.
“Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.
In questo versetto c'è una tensione tra l'oggi e il futuro dei figli di Dio. Adesso è una situazione un po' nascosta, non si sa bene come saremo quando Cristo si manifesterà nella gloria. Una cosa sappiamo: saremo simili a Lui, ricolmi di gloria e di felicità perché lo vedremo faccia a faccia “così come egli è”. Questa anticipazione della gloria futura ci può bastare!
Il desiderio dei credenti è quello di vedere il Signore. La Sua gloria e la Sua bellezza ci investirà completamente e noi parteciperemo di questa Sua gloria.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Mt 5,1-12 a

L’evangelista Matteo riunisce in un primo grande discorso gli insegnamenti di Gesù , presentando così un catechismo di iniziazione cristiana, opposto all’ideale religioso giudaico. C’era la legge, cioè l’insieme delle esigenze morali, religiose, culturali, personali e collettive che valeva per tutto il popolo di Dio e tutto questo Mosè l’aveva ricevuto sul Sinai. D’ora in poi c’è la nuova legge che Gesù dà sulla montagna come su un nuovo Sinai. Non toglie nulla alla legge di Mosè, ma la completa andando alla radice dei comportamenti umani. Gesù afferma che beati sono gli uomini e le donne poveri di spirito, beati i misericordiosi, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i puri di cuore, i perseguitati a causa della giustizia ed anche coloro che sono insultati e perseguitati a causa del Suo nome.
Parole come queste non le aveva dette mai nessuno e i discepoli certo non le avevano mai udite sino a quel momento. E anche noi che le ascoltiamo oggi paiono davvero molto lontane, si ha come l’impressione di vedere il mondo alla rovescia, quasi agli antipodi di ciò che pensiamo, diciamo e facciamo.
Le beatitudini però non sono delle cose da fare, ma frutti di una scelta di vita che non è sforzo solo nostro, ma conseguenza dell’opera dello Spirito in noi. Solo lo Spirito ci può rendere miti, pacifici, puri di cuore, misericordiosi … Il nostro sforzo deve consistere nell’accogliere l’azione dello Spirito Santo in noi, di obbedire in tutto a Dio. Quanto riusciremo ad accogliere e seguire lo Spirito che elargisce i Suoi doni (fortezza, scienza, sapienza, intelletto, consiglio, pietà, timor di Dio) tanto saremo capaci di vivere le beatitudini. Capiremo così che le beatitudini sono la vita stessa di Gesù, Lui le ha vissute tutte. Per questo, il nostro aderire ad esse ci inserisce nella vita di Cristo, ci unisce più che mai a Lui. Il premio delle beatitudini è Dio stesso: è Lui la beatitudine vera, la felicità che non avrà mai fine.

 

*****

 

“La prima Lettura di oggi, dal Libro dell’Apocalisse, ci parla del cielo e ci pone davanti a «una moltitudine immensa», incalcolabile, «di ogni nazione, tribù, popolo e lingua». Sono i santi. Che cosa fanno “lassù”? Cantano insieme, lodano Dio con gioia. Sarebbe bello ascoltare il loro canto… Ma possiamo immaginarlo: sapete quando? Durante la Messa, quando cantiamo «Santo, santo, santo il Signore Dio dell’universo...». È un inno – dice la Bibbia – che viene dal cielo, che si canta là (cfr Is 6,3; Ap 4,8), un inno di lode. Allora, cantando il “Santo”, non solo pensiamo ai santi, ma facciamo quello che fanno loro: in quel momento, nella Messa, siamo uniti a loro più che mai.
E siamo uniti a tutti i santi: non solo a quelli più noti, del calendario, ma anche a quelli “della porta accanto”, ai nostri familiari e conoscenti che ora fanno parte di quella moltitudine immensa. Oggi allora è festa di famiglia. I santi sono vicini a noi, anzi sono i nostri fratelli e sorelle più veri. Ci capiscono, ci vogliono bene, sanno qual è il nostro vero bene, ci aiutano e ci attendono. Sono felici e ci vogliono felici con loro in paradiso.
Per questo ci invitano sulla via della felicità, indicata nel Vangelo odierno, tanto bello e conosciuto: «Beati i poveri in spirito […] Beati i miti […] Beati i puri di cuore…». Ma come? Il Vangelo dice beati i poveri, mentre il mondo dice beati i ricchi. Il Vangelo dice beati i miti, mentre il mondo dice beati i prepotenti. Il Vangelo dice beati i puri, mentre il mondo dice beati i furbi e i gaudenti. Questa via della beatitudine, della santità, sembra portare alla sconfitta. Eppure – ci ricorda ancora la prima Lettura – i santi tengono «rami di palma nelle mani», cioè i simboli della vittoria. Hanno vinto loro, non il mondo. E ci esortano a scegliere la loro parte, quella di Dio che è Santo.
Chiediamoci da che parte stiamo: quella del cielo o quella della terra? Viviamo per il Signore o per noi stessi, per la felicità eterna o per qualche appagamento ora? Domandiamoci: vogliamo davvero la santità? O ci accontentiamo di essere cristiani senza infamia e senza lode, che credono in Dio e stimano il prossimo ma senza esagerare? Il Signore «chiede tutto, e quello che offre è la vera vita - offre tutto -, la felicità per la quale siamo stati creati» (Esort. ap. Gaudete ed exultate , 1). Insomma, o santità o niente! Ci fa bene lasciarci provocare dai santi, che qua non hanno avuto mezze misure e da là “tifano” per noi, perché scegliamo Dio, l’umiltà, la mitezza, la misericordia, la purezza, perché ci appassioniamo al cielo piuttosto che alla terra.
Oggi i nostri fratelli e sorelle non ci chiedono di sentire un’altra volta un bel Vangelo, ma di metterlo in pratica, di incamminarci sulla via delle Beatitudini. Non si tratta di fare cose straordinarie, ma di seguire ogni giorno questa via che ci porta in cielo, ci porta in famiglia, ci porta a casa. Oggi quindi intravediamo il nostro futuro e festeggiamo quello per cui siamo nati: siamo nati per non morire mai più, siamo nati per godere la felicità di Dio! Il Signore ci incoraggia e a chi imbocca la via delle Beatitudini dice: «Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» . La Santa Madre di Dio, Regina dei santi, ci aiuti a percorrere con decisione la strada della santità; lei, che è la Porta del cielo, introduca i nostri cari defunti nella famiglia celeste.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 novembre 2018


Commemorazione di tutti i fedeli defunti 2 novembre 2019

Dal libro di Giobbe
Rispondendo Giobbe prese a dire:
«Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro e con piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!
Io so che il mio redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro».
Gb 19,1.23-27a

Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico dopo l’esilio probabilmente nel 5^ secolo a.C.. A quell’epoca il tempio era stato ricostruito (520-515 a.C. v.Esd 5-6) e le mura di Gerusalemme restaurate (445 a.C. V. Ne 2-4). Raggruppata e organizzata intorno ai loro capi la piccola comunità giudaica riprende vita. Le difficoltà però non mancano e si vedono riapparire le ingiustizie e le violenze di un tempo. I poveri, che rappresentano sovente la parte più religiosa del popolo, subiscono prepotenze ed angherie.
I profeti intervengono per rispondere agli infiniti interrogativi che il problema del male porta all’umanità che si chiede “Dov’è il Dio della giustizia?” (Ml 2,17) . Ed è questa la questione che solleva il libro di Giobbe: Perchè il male?. Ci troviamo in questo libro di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
L’autore, rimasto anonimo, ambienta il suo racconto in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente. Il protagonista, Giobbe, è un uomo profondamente religioso, ma anche turbato dalla sua fede perchè non riesce più a coordinare le idee che aveva di un Dio giusto e buono con i fatti che gli capitano: prima era un uomo ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute, e non è neanche confortato dalla moglie, che lo scaccia anche da casa.
Nonostante le 4 disgrazie (è da notare il numero 4 che è il numero della terra), Giobbe reagisce, sa di essere innocente, non ha rinnegato mai i decreti di Dio, perciò si rivolge a Lui con una sola preghiera: “Ricordati… “ termine usato nelle preghiere di Israele per ricordare a Dio l’alleanza e quindi la fedeltà.
Il libro di Giobbe è anche un grande canto dell’uomo con tutte le sue lacerazioni, le sue ansie e le sue speranze. Giobbe è uno di quei grandi miti sui quali di continuo l’uomo va ridisegnando la mappa delle proprie interrogazioni per verificare i contorni della propria fede.
In questo brano, Giobbe è colpito sul vivo dalle parole ingiuriose di uno dei suoi amici (Bildad), ma non viene convinto dalle sue spiegazioni. Egli è sempre cosciente di essere oppresso ingiustamente. Perseguitato da Dio, condannato dagli uomini, egli sente però che Dio è dalla sua parte ed è sicuro che prima della sua morte o anche dopo la morte, l’Eterno si alzerà in giudizio al suo fianco come difensore e vendicatore e proclamerà davanti a tutti la sua innocenza.

Nota: nei versetti 25-27 il testo ebraico non era molto chiaro, la Vulgàta, traduzione in latino della Bibbia dall'antica versione greca ed ebraica, realizzata all'inizio del IV secolo da S.Girolamo, vi ha interpretato un atto di fede di Giobbe nella risurrezione.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Rm 5,5-11

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
In questo brano, tratto dal capitolo 5, Paolo dopo aver sostenuto che di fronte alle dolorose tribolazioni della vita il credente è sorretto oltre che dalla fede, anche dalla speranza e dall’amore, ora parlando della speranza afferma: “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”
La speranza non può deludere perché non si limita a provocare l’attesa delle realtà future, ma ne dà un’esperienza anticipata mediante l’amore che lo Spirito santo riversa nei cuori. Poi Paolo ricorda l’opera compiuta da Cristo per i credenti: “Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi”. Cristo dunque è morto per persone che non meritavano nulla, erano infatti “peccatori”. Con questo termine egli indica qui non i fratelli ancora legati all’osservanza delle norme rituali giudaiche (V. Rm 14,2),. ma coloro che sono sotto il dominio del peccato. Essi erano non solo deboli, ma anche “empi”, ma proprio per essi Cristo morì nel tempo stabilito.
L’Apostolo commenta quanto ha appena affermato mettendo in luce il carattere straordinario della morte di Cristo: “Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”.
A volte può capitare che un uomo sia disposto a morire per una persona giusta: ci sono casi, infatti, in cui la dedizione verso una persona amata (figlio, coniuge o amico) spinge fino al sacrificio della vita. Ma Cristo ha fatto una cosa che, umanamente parlando, è inconcepibile: egli è morto per noi proprio mentre eravamo ancora indegni e peccatori. E in questo gesto supremo si è manifestato l’amore di Dio per tutti noi.
Infine Paolo fa questa riflessione: “A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui”. Se Dio è giunto al punto di dimostrare mediante Cristo un amore così grande per noi quando eravamo ancora peccatori, a maggior ragione ora che siamo giustificati ci salverà per mezzo di Cristo dall’ira finale.
L’apostolo ripete poi lo stesso ragionamento introducendo il concetto di riconciliazione: “Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita”. Egli sottolinea dunque che Dio, riconciliandosi con noi mediante la morte di Cristo quando eravamo ancora nemici, non potrà non condurci alla salvezza finale ora che siamo stati riconciliati.
La riconciliazione rappresenta il primo passo verso la salvezza, che viene indicata con un verbo al futuro (saremo salvati): con esso l’apostolo vuole sottolineare che la salvezza definitiva, che consiste nell’incontro personale con Dio, è una realtà escatologica, ma al tempo stesso imminente, perché gli ultimi tempi sono già iniziati (V.Rm 13,11). Mentre la riconciliazione ha avuto luogo “per mezzo della morte del Figlio suo”, la salvezza finale si attuerà “mediante la sua vita”: la morte di Cristo ha messo dunque in moto un processo che Egli stesso, ormai vivo in forza della Sua risurrezione, porterà un giorno a compimento facendo sì che i credenti diventino partecipi della Sua nuova vita.
Infine Paolo conclude: Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione. In forza della riconciliazione così ottenuta, il credente può ora definitivamente “gloriarsi” in Dio.
E' decisamente una prospettiva al di là di ogni nostra possibile aspettativa, una condizione davvero felice per la quale non potevamo vantare alcun merito. Infatti il nostro gloriarci è per mezzo di Gesù Cristo che ci ha meritato questa pace con Dio, la riconciliazione, l'entrata in una vita davvero piena e libera.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Gv 6,37-40

Questo brano tratto dal 6^ Capitolo del Vangelo di Giovanni, si colloca subito dopo il discorso di Gesù sul pane di vita. Precedentemente Gesù dopo aver moltiplicato i pani si era ritirato sulla montagna e poi aveva attraversato il lago. Ma la gente che lo voleva fare re lo seguì sull'altra sponda e allora egli tiene il famoso discorso sul pane di vita disceso dal cielo. Egli assicura di essere il vero pane, chi viene a lui non avrà più fame e chi crede in lui non avrà più sete. . Poi Gesù ritorna dai suoi discepoli, che nel frattempo erano risaliti in barca per tornare a Cafarnao, camminando sulle acqua del lago e ai loro timori risponde: “Sono io, non temete”. Quando poi alla folla, che per ritrovarlo attraversò il lago con le barche, Gesù dice: “voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” . E poi Gesù introduce il discorso sul pane di vita. ..
“Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori,”
Coloro che seguono Gesù sono come dei doni che il Padre fa al Figlio. Egli li accoglie, non li getta fuori. Il verbo "gettare fuori" è quello utilizzato spesso da Matteo per indicare coloro che sono esclusi dal regno di Dio e dal banchetto delle nozze di suo Figlio (V. Mt 22,13).
“perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”.
Già Isaia (55,10-11) affermava che la parola di Dio è simile a un messaggero che ritorna solo dopo aver compiuto la sua missione. Così anche Gesù è disceso dal cielo per fare la volontà del Padre,
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Gesù dunque è venuto nel mondo per fare la volontà del Padre, e la volontà del Padre è che tutti siano salvi e risorgano dalla morte nell’ultimo giorno per la vita eterna. Esiste una fame di vita eterna, una fame di Dio! E c’è una pane di Dio, un cibo di vita eterna per colui che crede in Cristo! .

 

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“Ieri abbiamo celebrato la Solennità di tutti i Santi, e oggi la liturgia ci invita a commemorare i fedeli defunti. Queste due ricorrenze sono intimamente legate fra di loro, così come la gioia e le lacrime trovano in Gesù Cristo una sintesi che è fondamento della nostra fede e della nostra speranza. Da una parte, infatti, la Chiesa, pellegrina nella storia, si rallegra per l’intercessione dei Santi e dei Beati che la sostengono nella missione di annunciare il Vangelo; dall’altra, essa, come Gesù, condivide il pianto di chi soffre il distacco dalle persone care, e come Lui e grazie a Lui fa risuonare il ringraziamento al Padre che ci ha liberato dal dominio del peccato e della morte.
Tra ieri e oggi tanti fanno una visita al cimitero, che, come dice questa stessa parola, è il “luogo del riposo”, in attesa del risveglio finale. È bello pensare che sarà Gesù stesso a risvegliarci. Gesù stesso ha rivelato che la morte del corpo è come un sonno dal quale Lui ci risveglia. Con questa fede sostiamo – anche spiritualmente – presso le tombe dei nostri cari, di quanti ci hanno voluto bene e ci hanno fatto del bene. Ma oggi siamo chiamati a ricordare tutti, anche quelli che nessuno ricorda. Ricordiamo le vittime delle guerre e delle violenze; tanti “piccoli” del mondo schiacciati dalla fame e della miseria; ricordiamo gli anonimi che riposano nell’ossario comune. Ricordiamo i fratelli e le sorelle uccisi perché cristiani; e quanti hanno sacrificato la vita per servire gli altri. Affidiamo al Signore specialmente quanti ci hanno lasciato nel corso di quest’ultimo anno.
La tradizione della Chiesa ha sempre esortato a pregare per i defunti, in particolare offrendo per essi la Celebrazione eucaristica: essa è il miglior aiuto spirituale che noi possiamo dare alle loro anime, particolarmente a quelle più abbandonate. Il fondamento della preghiera di suffragio si trova nella comunione del Corpo Mistico. Come ribadisce il Concilio Vaticano II, «la Chiesa pellegrinante sulla terra, ben consapevole di questa comunione di tutto il Corpo Mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana ha coltivato con grande pietà la memoria dei defunti» (Lumen gentium, 50).
Il ricordo dei defunti, la cura dei sepolcri e i suffragi sono testimonianza di fiduciosa speranza, radicata nella certezza che la morte non è l’ultima parola sulla sorte umana, poiché l’uomo è destinato ad una vita senza limiti, che ha la sua radice e il suo compimento in Dio. A Dio rivolgiamo questa preghiera: «Dio di infinita misericordia, affidiamo alla tua immensa bontà quanti hanno lasciato questo mondo per l’eternità, dove tu attendi l’intera umanità, redenta dal sangue prezioso di Cristo, tuo Figlio, morto in riscatto per i nostri peccati. Non guardare, Signore, alle tante povertà, miserie e debolezze umane, quando ci presenteremo davanti al tuo tribunale, per essere giudicati per la felicità o la condanna. Volgi su di noi il tuo sguardo pietoso, che nasce dalla tenerezza del tuo cuore, e aiutaci a camminare sulla strada di una completa purificazione. Nessuno dei tuoi figli vada perduto nel fuoco eterno dell’inferno, dove non ci può essere più pentimento. Ti affidiamo Signore le anime dei nostri cari, delle persone che sono morte senza il conforto sacramentale, o non hanno avuto modo di pentirsi nemmeno al temine della loro vita. Nessun abbia da temere di incontrare Te, dopo il pellegrinaggio terreno, nella speranza di essere accolto nelle braccia della tua infinita misericordia. Sorella morte corporale ci trovi vigilanti nella preghiera e carichi di ogni bene fatto nel corso della nostra breve o lunga esistenza. Signore, niente ci allontani da Te su questa terra, ma tutto e tutti ci sostengano nell’ardente desiderio di riposare serenamente ed eternamente in Te. Amen» (P. Antonio Rungi, passionista, Preghiera dei defunti).
Con questa fede nel destino supremo dell’uomo, ci rivolgiamo ora alla Madonna, che ha patito sotto la Croce il dramma della morte di Cristo ed ha partecipato poi alla gioia della sua risurrezione. Ci aiuti Lei, Porta del cielo, a comprendere sempre più il valore della preghiera di suffragio per i defunti. Loro ci sono vicini! Ci sostenga nel quotidiano pellegrinaggio sulla terra e ci aiuti a non perdere mai di vista la meta ultima della vita che è il Paradiso. E noi con questa speranza che non delude mai, andiamo avanti!”
Papa Francesco Omelia del 2 Novembre 2018

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