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Gen 28, 2016

IV Domenica – Anno C – Nessun profeta è accetto nella sua patria – 31 gennaio 2016


Nelle letture liturgiche di questa domenica Geremia, Paolo e Luca ci portano ad approfondire un discorso sul dono della profezia che si trasforma in un impegno di carità.
Nella prima lettura Geremia ci parla di quando per la prima volta gli fu rivolta la parola del Signore, che lo invia, nonostante la sua giovane età, a predicare la conversione e la penitenza. La sua fu una vocazione profetica tutta intessuta di ripulse, di solitudine, di persecuzioni.

Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi , Paolo ci offre la pagina più celebre di tutte le sue lettere: è il celebre inno alla carità, all’amore. L’amore-agape è il cuore del cristianesimo, il più grande dei doni spirituali, il solo che potremo portare con noi quando arriveremo davanti a Dio. Dio che è Amore non può che volere e cercare l'amore.

Il brano del Vangelo di Luca conclude l’episodio della sinagoga di Nazareth. Gesù, dapprima è accolto dai suoi compaesani, poi viene rigettato. E’ Luca a riferire l’affermazione di Gesù, divenuta paradigmatica “Nessuno profeta è ben accetto nella sua patria” .La reazione degli abitanti di Nazareth lascia sgomenti perchè non solo non si opposero a Gesù, ma presero persino la decisione di ucciderlo gettandolo dalla rupe sulla quale era costruita la loro città. Ma nessun uomo ha potere sugli inviati del Signore, finché non giunge la loro ora. L'ora di Gesù non era ancora venuta e Lui passando in mezzo a loro si mise in cammino verso un altro villaggio. Il contrasto, l'opposizione, l'ostilità, la volontà di toglierlo di mezzo sempre si abbatterà sui veri profeti. Essi però non devono temere l'uomo. Devono solo perseverare nella loro missione.

Dal libro del profeta Geremìa
Nei giorni del re Giosìa,
mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni.
Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,
àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro,
altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.
Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata,
una colonna di ferro e un muro di bronzo
contro tutto il paese,
contro i re di Giuda e i suoi capi,
contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno,
perché io sono con te per salvarti».
Ger 1, 4-5.17-19

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.

Questo brano riporta dai primi versetti la vocazione del profeta: Geremia è di fronte a Dio come creatura e i versetti «Prima di formarti nel grembo materno…” esprimono il rapporto di dipendenza totale dell’uomo dal suo creatore e Dio appare come Colui che liberamente elegge (perchè conosce nel profondo ogni sua creatura) e destina ognuno ad un compito ben preciso: Geremia sarà profeta delle nazioni. Dio però non lo manda allo sbaraglio, se chiede coraggio” Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò…” è perchè dà il sostegno e la certezza di resistere. “Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.” e assicura di essere sempre vicino: Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».

Solo se il profeta indietreggerà, Dio lo esporrà all’umiliazione di una paura ancora più grande : non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.” Si può da qui capire come la vita di Geremia non è stata certo facile.
Geremia fu il profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù. Egli fu anche l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà

Salmo 70 La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza.
In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami.
Sii tu la mia roccia,
una dimora sempre accessibile;
hai deciso di darmi salvezza:
davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!
Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio.

La mia bocca racconterà la tua giustizia,
ogni giorno la tua salvezza.
Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito
e oggi ancora proclamo le tue meraviglie.

Il salmista vive in un tempo di gravi contrasti nei quali si trova coinvolto per la sua fedeltà a Dio. Probabilmente si è al tempo immediatamente precedente la presa di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Le sofferenze di questo giusto avvengono in patria, per mano di suoi connazionali, che sono ormai ribelli a Dio e guardano ai culti idolatrici introdotti nel tempio (Cf. 2Re 21,4). Questo giusto si adopera per una riforma dei costumi che può vedersi nell’esito felice della riforma di Giosia.

Il salmista per rafforzare la sua fiducia in Dio non evoca le grandi opere di Dio verso la nazione, ma guarda alla sua storia. Egli è stato educato alla fede in Dio fin da quando la madre lo teneva stretto sul grembo: “Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno” E Dio lo ha accompagnato, lo ha istruito con la sua grazia, fin dalla giovinezza: “Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito, ”. Il salmista trova motivo alla sua fedeltà proprio alla fedeltà di Dio su di lui …..
Egli, pur anziano e debole, e in pericolo, si dà forza, con l’aiuto di Dio, di annunciare la giustizia di Dio, la sua fedeltà alle promesse fatte, l’immutabilità della sua parola: “La mia bocca racconterà la tua giustizia, ogni giorno la tua salvezza, che io non so misurare”; “Venuta la vecchiaia e i capelli bianchi, o Dio, non abbandonarmi, fino a che io annunci la tua potenza, a tutte le generazioni le tue imprese".

La giustizia di Dio, dice il salmista, “è alta come il cielo”; cioè non è come quella umana, cedevole, imperfetta, ed esposta ai cedimenti.
Le angosce che Dio ha permesso si abbattessero su di lui sono state veramente grandi poiché dice: “Molte angosce e sventure mi hai fatto vedere: tu mi darai ancora vita, mi farai risalire dagli abissi della terra”. Dagli “abissi della terra”, per dire che la sua situazione è di un finito, di un morto, di cui nessuno più si preoccupa.
Ma la fede in Dio sostiene il salmista e pieno di ferma speranza dice: “Allora io ti renderò grazie al suono dell’arpa, per la tua fedeltà, o mio Dio; a te canterò sulla cetra, o Santo d’Israele”.

Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia.
Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.
Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità.
Ma la più grande di tutte è la carità!
1 Cor 12,31-13,13

Questo brano è il celebre “inno all’amore” di S.Paolo, che è incastonato come una perla all’interno di una lettera dal carattere pastorale che l’apostolo indirizza alla tormentata comunità cristiana di Corinto.
Nei primi versetti viene dipinto l’uomo colmo di tutte le doti umane e spirituali, ma vuoto d’amore. Il dono ambito delle lingue, simbolo di cultura, diventa senza l’amore solo un bronzo che rimbomba e disturba.
In continuo crescendo Paolo poi confronta con la carità i tre doni divini prestigiosi: la profezia, la scienza e la fede, anzi la “pienezza della fede”, quella che dovrebbe essere capace di trasportare le montagne, come aveva detto Gesù (Mc 11,23) .
Ebbene anche questi tre grandi doni, se privi dell’amore, sono considerati “nulla”. Paolo asserisce anche che se si desse tutti i propri beni, anzi se si offrisse persino la propria vita in un atto eroico, se tutte queste azioni non sono sostenute dall’amore, sono solo gesti di autoglorificazione.
La seconda parte è straordinaria, fa pensare alla corolla di un fiore i cui petali sono costituiti dalle varie virtù che nascono dall’amore. Queste virtù sono: pazienza, bontà, assenza di invidia e di orgoglio, disinteresse, rispetto, benignità, costanza. Se l’amore si spegne, anche le altre virtù umane e religiose appassiscono. Ed è facile che al suo posto subentri l’idolo del denaro , dell’egoismo o dell’orgoglio.
E’ importante per il credente che la lampada dell’amore-agape non si spenga.
E’ vitale che non si spenga nel matrimonio, il sacramento dell’amore umano: essa sola permette all’eros di non essere cieco ed egoista, rende il piacere sereno e puro, fa fiorire il desiderio in felicità e armonia, cancella l’abitudine e la noia.
E’ fondamentale che questa lampada non si spenga anche per la persona single, perchè sappia vivere la sua esistenza, il suo rapporto con gli altri come un dono.
E’ quanto mai importante che questa lampada rimanga accesa per il credente, perchè la sua fede non sia una fredda religiosità di facciata, ma un gioioso atto di donazione a Dio e ai fratelli.
Ed essendo la fiamma dell’amore una scintilla di Dio, che è l’Amore supremo, essa “non avrà mai fine” perchè ci condurrà all’eternità divina.
L’Amore dunque rimarrà sempre … san Giovanni della Croce diceva: “alla fine della vita saremo giudicati sull’amore”, Conosciamo perciò il tema dell’esame, non lasciamoci cogliere impreparati.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
Lc 4, 21-30

Il brano del vangelo di oggi si apre con il versetto che concludeva il brano di domenica scorsa, in cui Gesù, nella sinagoga di Nazareth, invece di commentare il testo profetico ne annuncia il compimento dicendo : «oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltato».
Egli dunque si presenta come colui che dà compimento alla parola scritta del profeta Isaia (61,1-2) . L'inizio effettivo del ministero di Gesù, e quindi della salvezza, per Luca è segnato dall'inaugurarsi del tempo di grazia annunciato da Isaia. Anche Giovanni Battista aveva iniziato la sua predicazione rifacendosi ad un testo di Isaia (40,3-5) e Luca presenta collegati ancora una volta il messia e il suo precursore. A differenza del Vangelo di Marco, la reazione da parte degli abitanti di Nazareth è abbastanza positiva, infatti leggiamo “ Tutti gli davano testimonianza…”. A Nazareth Gesù era cresciuto in "sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini" (Lc 2,52), ma nulla era trapelato del grande mistero divino della sua origine. Proprio per questa conoscenza superficiale gli abitanti di Nazareth sentendo Gesù predicare nella loro sinagoga si meravigliano delle "parole di grazia che uscivano dalla sua bocca“, ma alla meraviglia si mescola l‘incredulità: "Non è costui il figlio di Giuseppe?“. Essi conoscono Giuseppe, Maria e il loro parentado, perciò per credere esigono un segno perché, come era scritto nella Legge di Mosè (V. Dt 13,2), solo un miracolo poteva attestare le presunte qualità messianiche di Gesù. A queste aspettative, Gesù risponde citando un proverbio ebraico : "Medico, cura te stesso". La risposta di Gesù va però verso altre direzioni perchè Dio non opera miracoli per compiacere le curiosità degli uomini. Poi Gesù aggiunge: In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria, e ricorda i il comportamento dei profeti Elia ed Eliseo che avevano compiuto i loro miracoli a favore dei pagani. All'udire questo tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno, le parole di Gesù suonano come un'accusa intollerabile. I presenti nella sinagoga avevano compreso bene che la missione di Gesù superava i limiti d'Israele ed era destinata a tutte le nazioni, per cui l'azione precipita e Luca lo sottolinea : si alzarono... lo cacciarono fuori della città... lo condussero fin sul ciglio del monte... per gettarlo giù dal precipizio. Ma a questo tentativo di eliminarlo, Luca dice: Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino. Gesù non compie un miracolo, ma vuol far capire ai suoi oppositori che Lui andrà avanti per la Sua strada, nessuno potrà impedire la realizzazione del Suo progetto.

*****

… viene spontaneo chiedersi: come mai Gesù ha voluto provocare questa rottura? All’inizio la gente era ammirata di lui, e forse avrebbe potuto ottenere un certo consenso… Ma proprio questo è il punto: Gesù non è venuto per cercare il consenso degli uomini, ma – come dirà alla fine a Pilato – per «dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Il vero profeta non obbedisce ad altri che a Dio e si mette al servizio della verità, pronto a pagare di persona.
E’ vero che Gesù è il profeta dell’amore, ma l’amore ha la sua verità. Anzi, amore e verità sono due nomi della stessa realtà, due nomi di Dio. Nella liturgia odierna risuonano anche queste parole di san Paolo: «La carità…non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità» (1 Cor 13,4-6). Credere in Dio significa rinunciare ai propri pregiudizi e accogliere il volto concreto in cui Lui si è rivelato: l’uomo Gesù di Nazaret. E questa via conduce anche a riconoscerlo e a servirlo negli altri”
stralcio del discorso di Benedetto XVI all’Angelus del 3 febbraio 2013

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