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Ci stiamo avvicinando alla Pentecoste e le letture liturgiche di questa sesta domenica di Pasqua ci preparano alla venuta della Terza Persona della Santissima Trinità: lo Spirito Santo e la Sua azione vivificatrice.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci racconta che con il diacono Filippo la fede cristiana ha raggiunto la Samaria. Ed è lì che gli apostoli Pietro e Giovanni si recano per rafforzare la nuova comunità con l’effusione dello Spirito Santo.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, Pietro chiede ai cristiani di rendere ragione della speranza che li anima “con dolcezza e rispetto” del cammino altrui e “con retta coscienza” disposti a soffrire , piuttosto che facendo il male, come Cristo.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù, continuando il Suo “discorso di addio” agli apostoli, offre loro nuovi motivi di fiducia e promette che pregherà il Padre che manderà loro un altro Paràclito perché rimanga con loro sempre. Poi afferma, come per dare un messaggio anche a noi oggi: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui”. .Gesù non è venuto a portarci un nuovo modo di sospirare e di piangere, ma a sradicarci dalle vecchie abitudini, con strappi e sofferenze, che in questo ultimo periodo abbiamo avuto, ma che solo l’amore che Lui ci ha trasmesso ha reso sopportabile.


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Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Filippo, sceso in una città della Samarìa, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. E vi fu grande gioia in quella città.
Frattanto gli apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samarìa aveva accolto la parola di Dio e inviarono a loro Pietro e Giovanni. Essi scesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo.
At 8,5-8,14-17

In questa seconda parte degli Atti degli Apostoli Luca mette in luce la prima espansione dell’annunzio evangelico al di fuori di Gerusalemme.
Il brano inizia riportando che «Filippo, sceso in una città della Samarìa, predicava loro il Cristo. E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva».
Filippo, uno dei sei compagni di Stefano, il secondo della lista dei sette prescelti, si reca “in una città della Samaria”, (ricordiamo che la Samaria per gli i ebrei era considerata eretica)
dove annunziando Cristo, trova grande seguito tra le folle che ascoltano la sua parola e vedono i suoi miracoli.
Luca osserva che una grande gioia si diffonde nella città, segno questo dell’impatto che l’annunzio del regno di Dio ha sugli ascoltatori e per mezzo loro su tutta la popolazione.
A Gerusalemme gli apostoli vengono a sapere che per opera di Filippo, i samaritani hanno accolto la parola di Dio e vi mandano Pietro e Giovanni che “scesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora disceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù.”
Lo Spirito veramente non conosce frontiere razziali o culturali!! Attraverso il rito dell’imposizione delle mani gli apostoli Pietro e Giovanni comunicano ai samaritani battezzati dal diacono Filippo lo Spirito Santo.
.La discesa dello Spirito sui samaritani segna una svolta fondamentale nella vita della Chiesa. Essa conferisce un marchio di legittimità al fatto che ora a ricevere l’annunzio evangelico siano persone considerate dai giudei alla stregua dei pagani. Inoltre questo racconto riflette ancora una volta il modo di pensare di Luca, il quale vuole mostrare come l’evangelizzazione, attuata dagli ellenisti dispersi a causa della persecuzione scatenatasi contro Stefano, è approvata e sostenuta dai Dodici, i quali se ne prendono la piena responsabilità.
Questo episodio ha una grande importanza nella trama degli Atti, perché con esso Luca vuole preannunziare i futuri sviluppi della missione cristiana; ma prima intende narrare la chiamata di Saulo, il persecutore, che diventerà il primo artefice di questa missione, e la conversione di Cornelio, dalla quale appare che il vero responsabile dell’apertura ai pagani non è Paolo, ma Pietro, il principe degli apostoli.

Salmo 65 - Acclamate Dio, voi tutti della terra.
Acclamate Dio, voi tutti della terra,
cantate la gloria del suo nome,
dategli gloria con la lode.
Dite a Dio: «Terribili sono le tue opere!

A te si prostri tutta la terra,
a te canti inni, canti al tuo nome».
Venite e vedete le opere di Dio,
terribile nel suo agire sugli uomini.

Egli cambiò il mare in terraferma;
passarono a piedi il fiume:
per questo in lui esultiamo di gioia.
Con la sua forza domina in eterno.

Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio,
e narrerò quanto per me ha fatto.
Sia benedetto Dio,
che non ha respinto la mia preghiera,
non mi ha negato la sua misericordia.

Il salmo è stato scritto nel postesilio, come è facile ricavare dalla menzione di grandi prove nazionali: “Ci hai purificati come si purifica l’argento (…). Hai fatto cavalcare uomini sopra le nostre teste (…), poi ci hai fatto uscire verso l'abbondanza”.
L’universalismo del salmo è espresso nell’invito a tutta la terra a dare gloria a Dio. Il salmista anima poi il gruppo orante che lo attornia a presentare a Dio il desiderio che sia celebrato in tutta la terra: “Dite a Dio: ”. Il salmista riprende il suo invito a tutte le genti, invitandole ad avvicinarsi ad Israele per udire le grandi opere che Dio ha compiuto per il suo popolo, compresa la liberazione da Babilonia: “Venite e vedete le opere di Dio, terribile nel suo agire sugli uomini. Egli cambiò il mare in terra ferma…”. Dio ha piegato i nemici del suo popolo, compresi i babilonesi: “contro di lui non si sollevino i ribelli”. Il salmista ancora invita i popoli a lodare Dio: “Popoli, benedite il nostro Dio, fate risuonare la voce della sua lode…”. Poi il salmista si rivolge direttamente a Dio facendo memoria della catastrofe della deportazione a Babilonia: “O Dio, tu ci hai messi alla prova; ci hai purificati come si purifica l’argento (…). Hai fatto cavalcare uomini sopra le nostre teste (…), poi ci hai fatto uscire verso l'abbondanza”. Il cavalcare uomini sopra le teste era una efferatezza egizia, assira, babilonese e poi anche persiana. I vinti venivano legati e calpestati dai carri dei vincitori. Il salmista, dopo essersi rivolto a Dio nella memoria dei grandi avvenimenti della nazione, che sente suoi per appartenenza, si riferisce a Dio come persona singola, che ha una sua storia di dolore, e che nell’angoscia ha pronunciato voti. Questi voti li assolverà perché è stato beneficato da Dio secondo il suo desiderio espresso nella preghiera, ma anche secondo la giustizia di Dio: “Se nel mio cuore avessi cercato il male, il Signore non mi avrebbe ascoltato”.
Il salmo, che noi recitiamo in Cristo, ci collega alla grande storia di Israele, alla quale siamo stati innestati per mezzo di Cristo (Cf. Rm 11,24), il quale è la ragione di ogni liberazione, di ogni grazia che viene dal Padre. Noi entriamo nelle sue chiese non offrendo sacrifici di montoni, capri e tori, ma il sacrificio di noi stessi, in unione al sacrificio del Cristo presente sugli altari (Cf. Ps 39,7). Perfettamente nostra è l’invocazione a tutte le genti a venire e vedere. A vedere in noi, nella Chiesa, la grande opera della redenzione
Commento tratto da “Perfetta Letizia”i

Dalla prima lettera di S.Pietro apostolo
Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.
Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo.
Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.
1Pt 3,15-18

In questo brano Pietro, dopo aver tratteggiato nei capitoli precedenti l’atteggiamento cristiano riguardo ai pagani e alle autorità, la situazione degli schiavi e degli sposi, e le relazioni interpersonali tra cristiani, ora parla della condotta cristiana di fronte alla persecuzione che non può non suscitare paura e sgomento, ma che di fronte ad essa il credente deve assumere un atteggiamento positivo:
“adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.”
I cristiani sono chiamati nei momenti di sconforto e di paura di mantenere fermo il rapporto con Cristo, di stringersi sempre di più a Lui, qualunque cosa accada, anzi essi devono mantenersi sempre pronti a spiegare agli altri in cosa consista la loro fede e la loro speranza. I primi cristiani venivano infatti portati in tribunale e chiamati a spiegare in cosa consistesse la loro fede e dare la risposta giusta alle domande che venivano loro fatte.
Ma l’Apostolo precisa: “Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo”
La testimonianza di Cristo, i cristiani la devono rendere con un atteggiamento di dolcezza, di rispetto e di “retta coscienza”, cioè determinato da un’intenzione buona, senza secondi fini. Questo è l’unico atteggiamento in grado di sconfessare quanti mettono in dubbio la rettitudine del loro comportamento “in Cristo”, cioè della loro vita cristiana.
«Se questa infatti è la volontà di Dio, è meglio soffrire operando il bene che facendo il male, perché anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito.
È importante che alle parole corrispondano le opere, le quali sono più convincenti. Se poi, nonostante tutto, non si è compresi e si viene persino fatti oggetto di maltrattamenti, non bisogna sentirsi delusi perché, dovendo comunque soffrire, è meglio che ciò avvenga avendo fatto il bene piuttosto che il male. Questo insegnamento è uno dei più caratteristici del cristianesimo ma va compreso correttamente. La sofferenza non è da cercare, ma può essere accettata anche quando non si è fatto niente di male «anche gli innocenti sono chiamati a prestare il loro contributo di sofferenza» come disse un grande filosofo .
L’apostolo si preoccupa che i cristiani non cadano in un’autodifesa che a volte potrebbe essere arrogante e aggressiva, che li metterebbe sullo stesso piano dei loro avversari. I veri cristiani devono saper evitare ogni tipo di violenza, anche solo verbale. In loro non deve esserci alcun senso di ritorsione, anzi devono imparare da Cristo che, soffrendo senza avere fatto nulla di male, possono collaborare con Lui nella Sua lotta contro il peccato e aprire agli altri la via verso Dio.
In questa prospettiva anche la sofferenza più grande, come quella della morte, non è poi così terribile, perché riguarda, come per Cristo, soltanto il corpo fisico, mentre in realtà rappresenta una vittoria dello Spirito sul potere del male.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.
Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi.
Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Gv 14, 15-21

Questa brano del Vangelo di Giovanni fa seguito a quella della scorsa domenica. Ci troviamo nel discorso che Gesù fa nell'Ultima Cena, aveva parlato della Trinità presentando le prime due persone, ora presenta la terza: lo Spirito Santo..
Il brano inizia con una dichiarazione di Gesù sull'amore che i discepoli gli portano:
“Se mi amate, osserverete i miei comandamenti”. Nel vangelo di Giovanni fino a questo punto Gesù non aveva mai parlato di comandamenti che i discepoli dovevano osservare, ma del "comandamento" che Egli stesso aveva ricevuto dal Padre Suo: “dare la vita per poi riprenderla e parlare secondo quanto il Padre gli ha comandato di dire ed esprimere” (Gv 10,18).
“io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.”
Gesù nel Suo discorso di addio, annuncia in diverse riprese la venuta dello Spirito Santo, un altro Paràclito, cioè un "Avvocato difensore" che assisterà, proteggerà i discepoli. E’ ”un altro" rispetto a Gesù, che rimane comunque il primo "Paràclito". Colui che il Padre sta per donare continuerà l'opera di Gesù, sarà come "un altro Gesù", in relazione strettissima con Lui. Una persona che appare chiaramente distinta dal Padre e da Gesù: lo Spirito della verità. Lo "Spirito" (cioè l'alito vitale di Dio e di Suo Figlio, il loro respiro, la loro forza infinita d'amore) con la Sua azione interiore farà capire, comprendere e assimilare la rivelazione di Gesù. In tal modo "difenderà" e rafforzerà la loro fede. Il "mondo" (cioè gli uomini che si ostinano nel rifiutare la rivelazione di Gesù) "non lo può ricevere". Ma per i discepoli è una Persona amica, è Persona-amore, è Persona-dono d’amore, è inseparabile (rimane con voi sempre), vicina e in relazione continua con loro (rimane presso di voi), presente dentro di essi (sarà in voi) quale radice e fonte del loro credere e del loro amare.
“Non vi lascerò orfani: verrò da voi”.
Davvero i nostri bisogni affettivi nessuno li ha mai conosciuti e presi sul serio come Gesù! Giovanni ribadisce perciò il ruolo prevalente del Figlio glorificato, a cui rimane subordinata l'attività dello Spirito. Il termine “orfani” ricorda la morte di Gesù, ma i discepoli non resteranno abbandonati: “verrò da voi”, dice Gesù. E’ un futuro-presente che indica una venuta costante di Gesù nel corso dei secoli. Ma indica anche la venuta di Gesù che avverrà in un giorno ben preciso, nel giorno della risurrezione, ma anche nel giorno della Parusia, il Suo ritorno definitivo alla fine dei tempi.
“Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete”.
Gesù annuncia “io vivo e voi vivrete", riferendosi agli incontri che avrà con i discepoli dopo la risurrezione e confermando che la prospettiva è quella della vittoria sulla morte.
“In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi”.
Da quel giorno i discepoli conosceranno in verità chi era Gesù di Nazareth: il Figlio uno con il Padre, e scopriranno che cosa significa per loro credere in Lui.
“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui”.
L'esortazione di Gesù ad osservare i Suoi comandamenti chiude questo brano di Vangelo così come l'aveva aperto. Amare, osservare i comandamenti è la condizione affinché Gesù si manifesti, e nell’osservanza della volontà di Dio, attraverso l’amore fraterno, saremo amati da Dio e da Gesù.
La vita di Dio è un flusso di amore nel quale, se accogliamo il Suo dono, possiamo essere coinvolti. Questo è ciò che dovremmo conoscere nell’ebbrezza dello Spirito e nella comunione con Cristo in ogni eucaristia che viviamo: una celebrazione dell’amore!

 

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LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO

Il Vangelo di questa domenica presenta due messaggi: l’osservanza dei comandamenti e la promessa dello Spirito Santo.
Gesù lega l’amore per Lui all’osservanza dei comandamenti, e su questo insiste nel suo discorso di addio: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» ; «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama» . Gesù ci chiede di amarlo, ma spiega: questo amore non si esaurisce in un desiderio di Lui, o in un sentimento, no, richiede la disponibilità a seguire la sua strada, cioè la volontà del Padre. E questa si riassume nel comandamento dell’amore reciproco – il primo amore [nell’attuazione] –, dato da Gesù stesso: «Come io ho amato voi, così anche voi amatevi gli uni gli altri» . Non ha detto: “Amate me, come io ho amato voi”, ma “amatevi a vicenda come io vi ho amato”. Egli ci ama senza chiederci il contraccambio. È un amore gratuito quello di Gesù, mai ci chiede il contraccambio. E vuole che questo suo amore gratuito diventi la forma concreta della vita tra di noi: questa è la sua volontà.
Per aiutare i discepoli a camminare su questa strada, Gesù promette che pregherà il Padre di inviare «un altro Paraclito» , cioè un Consolatore, un Difensore che prenda il suo posto e dia loro l’intelligenza per ascoltare e il coraggio per osservare le sue parole. Questo è lo Spirito Santo, che è il Dono dell’amore di Dio che discende nel cuore del cristiano. Dopo che Gesù è morto e risorto, il suo amore è donato a quanti credono in Lui e sono battezzati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Lo Spirito stesso li guida, li illumina, li rafforza, affinché ognuno possa camminare nella vita, anche attraverso avversità e difficoltà, nelle gioie e nei dolori, rimanendo nella strada di Gesù. Questo è possibile proprio mantenendosi docili allo Spirito Santo, affinché, con la sua presenza operante, possa non solo consolare ma trasformare i cuori, aprirli alla verità e all’amore.
Di fronte all’esperienza dell’errore e del peccato – che tutti facciamo –, lo Spirito Santo ci aiuta a non soccombere e ci fa cogliere e vivere pienamente il senso delle parole di Gesù: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti». I comandamenti non ci sono dati come una sorta di specchio, nel quale vedere riflesse le nostre miserie, le nostre incoerenze. No, non sono così. La Parola di Dio ci è data come Parola di vita, che trasforma il cuore, la vita, che rinnova, che non giudica per condannare, ma risana e ha come fine il perdono. La misericordia di Dio è così. Una Parola che è luce ai nostri passi. E tutto questo è opera dello Spirito Santo! Egli è il Dono di Dio, è Dio stesso, che ci aiuta ad essere persone libere, persone che vogliono e sanno amare, persone che hanno compreso che la vita è una missione per annunciare le meraviglie che il Signore compie in chi si fida di Lui.
La Vergine Maria, modello della Chiesa che sa ascoltare la Parola di Dio e accogliere il dono dello Spirito Santo, ci aiuti a vivere con gioia il Vangelo, nella consapevolezza di essere sorretti dallo Spirito, fuoco divino che riscalda i cuori e illumina i nostri passi.

Parte dell’Angelus del 17 maggio 2020

Pubblicato in Liturgia

Le letture che la liturgia di questa quinta domenica di Pasqua ci propone, ci aiutano a costruire l’architettura spirituale della Chiesa che ha il suo fondamento in Cristo “pietra viva”.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci presenta l’organizzazione della prima comunità cristiana in continua crescita. Accanto al ministero apostolico, ora ne appare un altro, detto servizio alle mense. Si può intravedere da questo l’origine del diaconato.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, Pietro, afferma che Gesù è la pietra angolare. Egli è l’unico fondamento dell’”Edificio spirituale” che è la Chiesa, il Suo corpo mistico.
Nel Vangelo di Giovanni, l’invocazione di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”, esprime il desiderio più profondo dell’uomo: incontrare il volto di Dio. Ma Dio stesso in Gesù ci è venuto incontro indicandoci la strada per incontrarlo: nel volto di Gesù ha mostrato il Suo volto di Padre, infatti Gesù dice: “Chi ha visto me ha visto il Padre”. Gesù nel Suo “discorso di addio” agli apostoli afferma ancora: “Io sono la via, la verità e la vita”. Gesù è la “via” che guida a Dio attraverso la “verità” della Sua rivelazione, il Vangelo, ed Egli ci fa approdare a quella “vita” divina che Egli condivide con il Padre. Gesù è quindi l’avvio e la meta, è il fondamento e la volta della Chiesa di Dio, è la sua base terrena e il suo vertice celeste.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove.
Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola».
Piacque questa proposta a tutto il gruppo e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani.
E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente; anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede.
At 6,1-7

La prima parte del libro degli Atti riporta la prima espansione del cristianesimo in Gerusalemme e termina con il racconto delle vicende che hanno come protagonista Stefano, la cui morte violenta darà l’avvio all’annunzio del vangelo al di fuori di Gerusalemme.
Questo brano si apre con la descrizione di una situazione nuova che si era verificata nella comunità di Gerusalemme:
“In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove”
Per la prima volta si trova il termine «discepoli», usato poi varie volte nel corso del libro per indicare coloro che aderivano al movimento di Gesù. Il numero dei discepoli continua ad aumentare, ma la vita della comunità è minacciata da una grave tensione fra i due gruppi che si erano formati al suo interno.
Il primo di questi gruppi di origine greca (indicato anche con l’appellativo di “ellenisti”), erano giudei residenti a Gerusalemme che frequentavano «la sinagoga detta dei “liberti” comprendente anche i cirenei, gli alessandrini e altri della Cilicia e dell’Asia» (cfr. 6,9): che nelle loro sinagoghe leggevano la Scrittura nella loro lingua nativa, il greco.
Probabilmente proprio da questo ambiente provenivano coloro che erano presenti in occasione della Pentecoste e, aderendo alla comunità dei discepoli di Gesù, avevano formato un gruppo a sé.
Il secondo gruppo è quello degli “ebrei” che in contrasto con gli ellenisti, saranno stati sicuramente i primi seguaci di Gesù, i quali erano sempre vissuti in Palestina, leggevano la Scrittura in ebraico (o aramaico).
Il contrasto tra questi due gruppi emerge per la questione della “assistenza quotidiana” che veniva prestata alle vedove.
I Dodici vengono a conoscenza dello scontento che serpeggia nella comunità e lo affrontano apertamente: «Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense». Queste parole lasciano intendere che indirettamente la critica riguardasse proprio loro, in quanto amministratori dei beni che venivano messi in comune (cfr. 4,35). Essi perciò dichiarano che non ritengono giusto dedicarsi al servizio delle mense, con il rischio di trascurare la parola di Dio. Il «servizio delle mense» era un incarico religioso importante nelle confraternite farisaiche, e consisteva sia nell’organizzazione delle agapi fraterne sia nell’equa distribuzione del cibo ai poveri.
Per risolvere il problema alla radice i Dodici propongono una divisione dei compiti. A tal fine incaricano la comunità di scegliere sette uomini di buona reputazione, «pieni di Spirito e di sapienza», ai quali affidare il servizio delle mense.
L’assemblea accoglie la proposta dei Dodici e procede all’elezione del gruppo dei Sette: «e scelsero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosèlito di Antiòchia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani».
Dato che tutti i prescelti portano un nome greco si può pensare che appartenessero al gruppo degli ellenisti. Si può ancora notare che dei «Sette», il primo e l’ultimo hanno una menzione particolare: Stefano, «uomo pieno di fede e di Spirito santo», cioè un uomo eccezionale dal punto di vista della fede di cui si parlerà subito dopo; Nicola invece è presentato come un «proselito», cioè un pagano che si era convertito al giudaismo prima di abbracciare la fede cristiana ed inoltre è originario di Antiochia, una città ellenistica, che avrà un posto molto importante nel seguito del racconto, perché ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani.(cfr. 11,26).
L’investitura dei Sette si svolge in un clima liturgico, con la preghiera e l’imposizione delle mani. Anche se Luca non dà nessuna spiegazione sul significato di tale gesto, sembra evidente che si tratti di una benedizione e di un conferimento di autorità per poter adempiere al loro ruolo..
Il brano termina con la consueta espressione sulla crescita che accosta la diffusione della parola di Dio all’incremento numerico dei membri della chiesa. Luca riporta inoltre che fra i convertiti figurano molti «sacerdoti» cioè esponenti del sacerdozio giudaico. Luca non spiega il motivo di questo fatto, ma la logica del racconto lascia supporre che queste conversioni abbiano il loro peso nel conflitto che scoppierà subito dopo.

Salmo 32 - Il tuo amore, Signore, sia su di noi: in te speriamo.
Esultate, o giusti, nel Signore;
per gli uomini retti è bella la lode.
Lodate il Signore con la cetra,
con l’arpa a dieci corde a lui cantate.

Perché retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni.
La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.
Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore.
“Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.
Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”. La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere. Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi ”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15).
Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.
Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla prima lettera di S.Pietro apostolo
Carissimi, avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura:
«Ecco, io pongo in Sion
una pietra d’angolo, scelta, preziosa,
e chi crede in essa non resterà deluso».
Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono
la pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata pietra d’angolo
e sasso d’inciampo, pietra di scandalo.
Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola. A questo erano destinati. Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.
1 Pt 2,4-9

In questo brano l’Apostolo, continuando le esortazioni a quanti hanno iniziato una nuova vita, li invita a costruire insieme a Cristo un nuovo edificio, un nuovo tempio in cui si offrono dei sacrifici che sono graditi a Dio.
Il brano inizia con queste parole “avvicinandovi al Signore, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo”.
Il Dio, che Gesù è venuto a fare conoscere agli uomini, non è più il Dio lontano e terribile di Israele, ma è un Dio vicino, l’Emanuele, Dio con noi. Pietro parlando di Gesù riprende l’immagine del salmo 117,22 (la pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d'angolo) e lo chiama pietra viva, quella pietra che è stata rifiutata dagli uomini e che invece Dio l’ha scelta come preziosa. Come Cristo anche i cristiani possono sono «pietre vive», rigenerati «per una speranza viva» (cfr. 1,3) e partecipi della «grazia della vita» I sacrifici che i credenti offrono a Dio sono «spirituali» non perché sono astratti, ma perché, a somiglianza dell’«edificio spirituale», sono resi possibili dall’azione dello Spirito, sono da Lui animati, e si identificano con l’insieme della vita cristiana. Questi, e non altri, sono i sacrifici «graditi a Dio»: anche lo stesso culto di Israele è obiettivamente superato per la novità definitiva del nuovo patto. Essi gli sono offerti «mediante di Gesù Cristo», non solo perché è lui l’unico mediatore (cfr. Rm 8,34; Eb 7,25; 1Gv 2,1), ma anche perché i cristiani sono a Lui uniti e «in Lui» compiono quelle opere indicate come «sacrifici spirituali».
Le affermazioni riportate sono confermate con un riferimento a Isaia : «Si legge infatti nella Scrittura: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso».. (Is 28,16).
Con questa citazione l’Apostolo intende sottolineare non solo che quanto ha affermato è contenuto nella stessa parola di Dio scritta, ma anzi che questa si realizza compiutamente solo in riferimento a Cristo e alla Chiesa.
Con le parole di Isaia si porta anzitutto l’attenzione sul rapporto tra Cristo, pietra angolare posta da Dio, e la Chiesa che su di Lui è costruita come edificio fatto di «pietre vive».
L’Apostolo prosegue ora contrapponendo la funzione positiva esercitata da Cristo, pietra angolare, nei confronti della comunità cristiana a quella negativa riguardante i non credenti: «Onore dunque a voi che credete; ma per quelli che non credono la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata pietra d’angolo e sasso d’inciampo, Essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola» La Scrittura dunque getta luce sull’esperienza della prima missione cristiana: per i giudei come per i pagani, Cristo è scandalo, sasso nel quale s’inciampa (1Cor 1,23; Rm 9,32-33), segno di contraddizione che causa la “rovina di molti” (Lc 2,34), perché contraddice le attese e le pretese umane. Gli increduli vi inciampano perché non obbediscono alla parola, respingendo l’iniziativa salvifica di Dio in Cristo. L’Apostolo aggiunge: «a questo erano destinati» affermando così che la stessa incredulità rientra nel disegno salvifico di Dio. Il concetto di pre-destinazione solleva certamente un difficile problema teologico: occorre però ricordare che la destinazione a inciampare, quindi a cadere e ad andare in rovina, va di pari passo con la responsabilità dell’uomo e con la destinazione di Cristo a «pietra angolare» per tutti . Chi lo respinge dunque non è escluso, ma si autoesclude dalla salvezza. Il tema della pre-destinazione appare anche altrove nel NT (per es. Rm 9,19-24; 11,25-27) con lo scopo non solo di affermare l’assoluta sovranità di Dio nella storia della salvezza, ma anche di ammonire circa la serietà del rifiuto opposto all’annuncio evangelico e di confermare nella fede quanti hanno accolto il messaggio cristiano.
A questo punto l’Apostolo dà alla Chiesa i titoli che compongono lo statuto di Israele come popolo santo di Dio: “Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa”.
Ora, ai piedi della roccia che è Cristo tutta la comunità cristiana è consacrata “per un sacerdozio regale” accanto agli apostoli, che hanno il compito di presiedere il culto e annunziare la Parola di Dio alla Chiesa, tutti i fedeli col sacerdozio fondamentale e “comune” ricevuto nel battesimo, devono essere testimoni del Cristo risorto in mezzo al mondo, rispondendo agli interrogativi e alle speranze degli uomini.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».
Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.
Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».
Gv 14, 1-12

Questo brano del Vangelo di Giovanni fa parte del discorso dell’ultima cena. Gesù aveva parlato già del tradimento di Giuda, della Sua dipartita e del rinnegamento di Pietro e tutto questo ha turbato l’animo degli apostoli. Gesù ora vuole rinfrancare la loro fede, dare loro speranza e dice: “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me”.- e per incoraggiare i discepoli fa loro questa promessa: “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”.
Il posto che Gesù, morendo, va a preparare per i discepoli nella casa del Padre indica simbolicamente la comunione con Dio, nella quale Egli sta per entrare e alla quale ammetterà anche i discepoli. Poi alle domanda piena di inquietudine di Tommaso:”Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?”, fa le affermazioni più straordinarie del Nuovo Testamento: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.
Il presente “Io sono” è una formula di autorivelazione spesso usata da Gesù nel vangelo di Giovanni, ma per Tommaso questa parola indicava una strada per recarsi in un luogo; Gesù invece se ne serve per designare se stesso, proclamandosi così l’unico mediatore che conduce al Padre.
A questo punto è Filippo a porre l’altra domanda e volere così un altro chiarimento: “Signore, mostraci il Padre e ci basta” . Gesù risponde con un velato rimprovero, «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre.”.. perché in forza della lunga convivenza con Lui, Filippo avrebbe dovuto conoscerlo, e così conoscere anche il Padre.
In forza del Suo rapporto strettissimo con il Padre, che fa dei due una cosa sola, entrare in rapporto con Gesù significa entrare in rapporto con il Padre. Per questo Filippo dovrebbe capire che non può chiedere di mostrargli il Padre. Gesù prosegue ponendo a sua volta la domanda:
“Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? - e poi afferma - Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me.
Qui Gesù presenta una novità assoluta, sconvolgente, e per gli ebrei addirittura blasfema, alla quale anche i non ebrei non si sono mai potuti abituare. Eppure Gesù ne parla, come se fosse una cosa normale, quasi logica, ai suoi discepoli di allora e a noi oggi. San Giovanni Paolo II nella sua enciclica Dives in misericordia (30 novembre 1980), al numero 3, scriveva: «Cristo rende presente il Padre tra gli uomini. È quanto mai significativo che questi uomini siano soprattutto i poveri, privi dei mezzi di sussistenza, coloro che sono privi della libertà, i ciechi che non vedono la bellezza del creato, coloro che vivono nell’afflizione del cuore, oppure soffrono a causa dell’ingiustizia sociale, ed infine i peccatori. Soprattutto nei riguardi di questi ultimi il Messia diviene un segno particolarmente leggibile di Dio che è amore, diviene segno del Padre. In tale segno visibile, al pari degli uomini di allora, anche gli uomini dei nostri tempi possono vedere il Padre».
Ci troviamo di fronte al Mistero Trinitario: Mistero grande, Mistero di amore, Mistero ineffabile, di fronte al quale la parola deve lasciare il posto al silenzio dello stupore e dell'adorazione.

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“Nel Vangelo di oggi ascoltiamo l’inizio del cosiddetto “Discorso di addio” di Gesù. Sono le parole che rivolse ai discepoli al termine dell’ultima Cena, appena prima di affrontare la Passione. In un momento così drammatico Gesù cominciò dicendo: «Non sia turbato il vostro cuore» . Lo dice anche a noi, nei drammi della vita. Ma come fare perché il cuore non si turbi? Perché il cuore si turba.
Il Signore indica due rimedi al turbamento. Il primo è: «Abbiate fede in me». Sembrerebbe un consiglio un po’ teorico, astratto. Invece Gesù vuole dirci una cosa precisa. Egli sa che, nella vita, l’ansia peggiore, il turbamento, nasce dalla sensazione di non farcela, dal sentirsi soli e senza punti di riferimento davanti a quel che accade. Quest’angoscia, nella quale a difficoltà si aggiunge difficoltà, non si può superare da soli. Abbiamo bisogno dell’aiuto di Gesù, e per questo Gesù chiede di avere fede in Lui, cioè di non appoggiarci a noi stessi, ma a Lui. Perché la liberazione dal turbamento passa attraverso l’affidamento. Affidarci a Gesù, fare il “salto”. E questa è la liberazione dal turbamento. E Gesù è risorto e vivo proprio per essere sempre al nostro fianco. Allora possiamo dirgli: “Gesù, credo che sei risorto e che mi stai accanto. Credo che mi ascolti. Ti porto quello che mi turba, i miei affanni: ho fede in Te e mi affido a Te”.
C’è poi un secondo rimedio al turbamento, che Gesù esprime con queste parole: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. […] Vado a prepararvi un posto». Ecco che cosa ha fatto Gesù per noi: ci ha prenotato un posto in Cielo. Ha preso su di sé la nostra umanità per portarla oltre la morte, in un posto nuovo, in Cielo, perché lì dove è Lui fossimo anche noi. È la certezza che ci consola: c’è un posto riservato per ciascuno. C’è un posto anche per me. Ognuno di noi può dire: c’è un posto per me. Non viviamo senza meta e senza destinazione. Siamo attesi, siamo preziosi. Dio è innamorato di noi, siamo i suoi figli. E per noi ha preparato il posto più degno e bello: il Paradiso. Non dimentichiamolo: la dimora che ci attende è il Paradiso. Qui siamo di passaggio. Siamo fatti per il Cielo, per la vita eterna, per vivere per sempre. Per sempre: è qualcosa che ora non riusciamo neppure a immaginare. Ma è ancora più bello pensare che questo per sempre sarà tutto nella gioia, nella comunione piena con Dio e con gli altri, senza più lacrime, senza rancori, senza divisioni e turbamento.
Ma come raggiungere il Paradiso? Qual è la via? Ecco la frase decisiva di Gesù. Oggi di dice: «Io sono la via» . Per salire in Cielo la via è Gesù: è avere un rapporto vivo con Lui, è imitarlo nell’amore, è seguire i suoi passi. E io, cristiano, tu, cristiano, ognuno di noi cristiani, possiamo domandarci: “Quale via seguo?”. Ci sono vie che non portano in Cielo: le vie della mondanità, le vie per autoaffermarsi, le vie del potere egoista. E c’è la via di Gesù, la via dell’amore umile, della preghiera, della mitezza, della fiducia, del servizio agli altri. Non è la via del mio protagonismo, è la via di Gesù protagonista della mia vita. È andare avanti ogni giorno domandandogli: “Gesù, che cosa pensi di questa mia scelta? Che cosa faresti in questa situazione, con queste persone?”. Ci farà bene chiedere a Gesù, che è la via, le indicazioni per il Cielo. La Madonna, Regina del Cielo, ci aiuti a seguire Gesù, che per noi ha aperto il Paradiso.”
Papa Francesco  Parte dell’Angelus del 10 maggio 2020

Pubblicato in Liturgia

La quarta domenica di Pasqua ritorna ogni anno come giornata del Buon Pastore e della Vocazione, in particolare quella sacerdotale e religiosa. Le letture che la liturgia ci offre sono pervase dal simbolismo carico di risonanze del pastore che a noi spesso sfuggono perchè il pastore nell’antico Oriente non era solo la guida del gregge, ma il compagno di vita in modo totale, pronto a condividere con le sue pecore la sete, le marce, il sole infuocato, il freddo notturno.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, vediamo come l’annuncio evangelico predicato da Pietro e dagli altri discepoli, raggiunge il suo scopo: la conversione e il perdono dei peccati. Il battesimo, ricevuto come atto di consacrazione a Cristo, non solo è segno del perdono ottenuto, ma anche sigillo di appartenenza al nuovo popolo costituito da Giudei e da pagani.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, Pietro, afferma che Gesù con la Sua morte e risurrezione ha guarito i cristiani dal peccato e dal desiderio di vendetta, per questo essi devono vivere una vita nuova sull’esempio di Cristo.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù viene presentato come il Buon Pastore che afferma: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono… Anche nell’Apocalisse Cristo viene presentato come l’Agnello sacrificale che si trasforma in Buon Pastore: l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E’ bellissima l’espressione che segue: “E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi»… quante volte l’abbiamo ricordata nei momenti di sofferenza dove nessun intervento umano poteva consolarci; chiama alla mente anche un versetto del salmo 56 I passi del mio vagare tu li hai contati, le mie lacrime nell’otre tuo raccogli; non sono forse scritte nel tuo libro? Non ci si sente mai soli, quando il Signore si fa vivo accanto a noi con la Sua parola, illuminando così i momenti più bui della nostra esistenza.

Dagli Atti degli Apostoli
Nel giorno di Pentecoste, Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò così: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso».
All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?». E Pietro disse loro: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro».
Con molte altre parole rendeva testimonianza e li esortava: «Salvatevi da questa generazione perversa!». Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone.
At 2,14a. 36-41

Questo brano degli Atti riporta il seguito del discorso che Pietro pronunciò il giorno di Pentecoste di cui la prima parte l’abbiamo ascoltata domenica scorsa. .
Pietro, dopo aver descritto come l’evento di Cristo si inserisce nel piano salvifico di Dio, riassume con una frase ancora più eloquente il suo annuncio: “Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”
Pietro dopo aver affermato che, in forza dell’esaltazione raggiunta con la Sua morte e risurrezione, Dio ha costituito Gesù “Signore e Cristo”” ed Egli ha assunto il ruolo di giudice che compete a Dio. Inoltre Gesù è presentato come colui che adempie le speranze messianiche del popolo di Israele. Questi due titoli descrivono il ruolo salvifico che spetta ormai proprio a colui che gli ascoltatori di Pietro hanno crocifisso.
Pietro parlò con tale convinzione che i presenti “All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore”, nel senso che spiegò loro molto bene l’errore commesso, ormai irreparabile, nei riguardi di Gesù, che si sentirono come persi e sconcertati per aver condannato chi ora è giustificato da Dio stesso e il loro grande sconcerto suscita la domanda che rivolgono “a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?»”.
È importante che si rivolgano agli apostoli chiamandoli “fratelli”, segno della costituzione di un rapporto ben diverso da quello di seguaci di un bestemmiatore e convinti dell’efficacia della loro predicazione.
Pietro risponde: : “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo”. La conversione comportava lo stravolgimento delle loro convinzioni nei riguardi di Dio e dell’avvento del Regno, l’attesa e la speranza d’Israele.
Pietro sottolinea poi che il suo invito si basa sul fatto che la promessa di Dio è rivolta direttamente ai presenti “ Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro”. Viene sottolineato anche qui che il primo destinatario del vangelo è e resterà per sempre il popolo ebraico, ma l’annunzio però viene esteso anche ai ”lontani”. Con questo termine sono indicati i pagani (anche in Isaia Is 57,19 viene espresso questo concetto, che S.Paolo riprendrerà nella sua lettera agli Ef 2,13) .
Come conclusione Pietro esorta gli ascoltatori a salvarsi da “questa generazione perversa” e con questa espressione indica il popolo di Israele ribelle al suo Dio ( Dt 32,5; Sal 78,8).
Alla fine del discorso Luca osserva che “coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno furono aggiunte circa tremila persone”.
Questo è un segno della potenza dello Spirito che opera nel primo nucleo della Chiesa e al tempo stesso dell’impatto che l’annunzio evangelico ha avuto nel mondo giudaico a cui per primo è stato rivolto.
Anche per noi la vera conversione presuppone un distacco non tanto dalla società in cui viviamo, quanto piuttosto dalle strutture ingiuste che tante volte la condizionano. L’adesione a Cristo deve incidere non solo sulla nostra mentalità, ma anche sul nostro modo di vivere, che implica la capacità di stabilire rapporti nuovi con tutti, improntati alla ricerca della giustizia e del bene comune.

Salmo 22 Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.

Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.

Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore per lunghi giorni.

L’orante ha fatto l’esperienza di come il Signore lo guidi in mezzo a numerose difficoltà tesegli dai nemici. Egli dichiara che non manca di nulla perché Dio in tutto l’aiuta. Le premure del suo Pastore sono continue e si sente curato come un pastore cura il suo gregge conducendolo a pascoli erbosi e ad acque tranquille. L’orante riconosce che tutto ciò viene dalla misericordia di Dio, che agisce “a motivo del suo nome”, ma egli corrisponde con amore all’iniziativa di Dio nei suoi confronti.
La consapevolezza che Dio lo ama per primo gli dà una grande fiducia in lui, cosicché se dovesse camminare nel buio notturno di una profonda valle non temerebbe le incursioni di briganti o persecutori, piombanti dall’alto su di lui.
La valle oscura è poi simbolo di ogni situazione difficile nella quale tutto sembra avverso.
Dio, buon Pastore, lo difende con il suo bastone e lo guida dolcemente con il suo vincastro, che è quella piccola bacchetta con cui i pastori indirizzano il gregge con piccoli colpetti.
Non solo lo guida in mezzo alle peripezie, ma anche gli dona accoglienza, proprio davanti ai suoi nemici, i quali pensano di averlo ridotto ad essere solo uno sconvolto e disperato fuggiasco. Egli, al contrario, è uno stabile ospite del Signore che gli prepara una mensa e gli unge il capo con olio per rendere lucenti i suoi capelli e quindi rendere bello e fresco il suo aspetto. E il calice che ha davanti è traboccante, ma non perché è pieno fino all’orlo, ma perché è traboccante d'amore.
Quel calice di letizia è nel sensus plenior del salmo il calice del sangue di Cristo, mentre la mensa è la tavola Eucaristica, e l’olio è il vigore comunicato dallo Spirito Santo.
Il cristiano abita nella casa del Signore, l’edificio chiesa, dove c’è la mensa Eucaristica.
Quella casa, giuridicamente, è della Diocesi, della Curia, ma è innanzi tutto del Signore, e quindi egli, per dono del Signore, vi è perenne legittimo abitante.
Commento tratto da “Perfetta Letizia “

Dalla prima lettera di S.Pietro apostolo
Carissimi, se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi,
lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme:
egli non commise peccatoe non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia.
Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce,
perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia;
dalle sue piaghe siete stati guariti.
Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti
al pastore e custode delle vostre anime.
1Pt 2, 20b-25

In questo brano tratto dal secondo capitolo della lettera di Pietro, vengono presentate alcune indicazioni pratiche sul comportamento dei cristiani che allora venivano guardati con sospetto e spesso considerati come malfattori poiché nell'impero romano risultavano come elementi "estranei", quindi la loro condotta oltre che ad essere ispirata ai principi del Vangelo e della vita nuova in Cristo, doveva apparire retta ed onesta, per mostrare a tutti che questa nuova religione non portava alcun danno alla vita sociale.
Nei versetti precedenti l’apostolo aveva spiegato come doveva essere l'atteggiamento verso le autorità (2,13-16) e verso i padroni, per coloro che ancora erano schiavi (2,18-19).
In questo brano si sofferma sul significato della sofferenza per cui dice:
“ se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio”.
Anche se all'interno della comunità cristiana gli schiavi avevano gli stessi diritti degli uomini liberi, la loro situazione sociale rimaneva la stessa. Solo più tardi, al tempo del tardo impero, il cristianesimo poté chiedere il riscatto degli schiavi. Anche se i padroni spesso erano molto duri con loro, Pietro non li invita alla ribellione ma a sopportare con pazienza il male ingiusto e dà loro una motivazione per sostenere con maggiore forza la loro difficile situazione.
“A questo infatti siete stati chiamati, perché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme:
A Dio non è gradita la sofferenza dei Suoi figli, ma la pazienza con cui essi la sopportano La sofferenza fa parte dell’esistenza umana e nessuno ne è esente. Ma un aspetto specifico della vocazione cristiana è proprio la capacità di affrontare la sofferenza e dare ad essa un giusto significato. L’apostolo sottolinea che si è trattato di una sofferenza “per voi”, e questo significa che Cristo non ha subito passivamente la sofferenza che gli era inflitta, ma l’ha affrontata in favore dei credenti. Da essa quindi non possono essere esclusi i Suoi discepoli, i quali anche in questo devono seguire le Sue orme. Poi passa a spiegare in che cosa consiste il “per voi” che caratterizza l’esempio di Gesù che
“non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia”
Qui sottolinea che Gesù ha sofferto pur essendo completamente innocente. Ciò viene espresso con le stesse parole di cui si serve il Deuteroisaia per qualificare il comportamento del Servo di JHWH ( Is 53,9), Anche Gesù si è comportato nello stesso modo: mentre era sottoposto alla sofferenza, non rispondeva agli oltraggi e non minacciava di vendicarsi. Egli ha potuto vincere il peccato perché non si è lasciato coinvolgere in esso, e proprio come il Servo di JHWH, Gesù affidava a Dio la sua causa (Is 49,4b; 50,8a; Ger 11,19-20), sapendo che egli è Colui che giudica con giustizia.
La sofferenza di Cristo non è stata senza effetto:
“Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime”.
Il Servo ha preso su di sé le conseguenze dei peccati dei suoi connazionali, cioè la violenza di cui erano impregnati (Is 53,5-8) e allo stesso modo Gesù ha subito le conseguenze della malvagità umana, affinché coloro che credono in Lui potessero vivere non più per il peccato ma per la giustizia. Le Sue piaghe, simbolo della Sua sofferenza, sono diventate così uno strumento di guarigione.
L’effetto ultimo è stato il fatto che le pecore disperse (Is 53,6) hanno trovato il Lui la possibilità di ritornare al loro pastore: in questo consiste la salvezza che Egli ha portato.
I credenti, i quali per primi hanno sperimentato in se stessi gli effetti dell’amore di Cristo, devono sapere che potranno raggiungere lo stesso risultato soffrendo, da innocenti, per gli altri.
L’amore non violento, che i cristiani esprimono nella sofferenza sulle orme di Cristo, rappresenta la testimonianza più convincente che essi possono dare al vangelo.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse: In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore.
Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
GV 10, 1-10

Il discorso di Gesù, che apre il capitolo 10 di Giovanni, segue immediatamente l'episodio del cieco nato.
Dopo aver accolto la professione di fede del cieco della piscina di Siloe., Gesù aveva pronunciato una frase di denuncia verso i farisei:“ Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi”. E ai farisei che chiesero spiegazioni. Gesù risponde: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”. Gv 9 39-41
Gesù continua il Suo discorso, che in questo brano viene riportato la prima parte, in cui passa dal tema della luce a quella del pastore e delle sue pecore, e termina parlando di sé come della porta delle pecore.
Possiamo immaginare che Gesù, probabilmente mentre parlava guardava i suoi connazionali che attraversavano questa porta per entrare nel cortile del tempio, (non è sicuramente un caso che una delle porte del Tempio di Gerusalemme, si chiami "porta delle Pecore" (Bab-a-Sahairad):
“In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante”. Il discorso inizia in modo solenne: "in verità, in verità"., che è una formula che introduce spesso i discorsi di Gesù soprattutto nel Vangelo di Giovanni.. Egli parla di un recinto delle pecore e la simbologia che usa si può collegare del cieco nato. Il recinto delle pecore era costituito da un muro abbastanza alto, ricoperto di rami che facevano da tettoia, per proteggere le pecore da animali feroci e dagli agenti atmosferici. Un ladro avrebbe potuto agevolmente scavalcare il muro ed entrarvi. I ladri e i briganti di cui Gesù parla possono essere identificati nei i farisei, i quali senza un vero mandato si erano nominati maestri del popolo, non per aiutarlo ma per seguire il proprio interesse.
“Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori”
Il tono è chiaramente polemico: contrapposto ai ladri e ai briganti vi è il pastore delle pecore, la guida legittima del suo gregge, che entra dalla porta e non si arrampica lungo il muro.
Il portinaio è il guardiano dell'ovile che custodisce le pecore chiuse durante la notte e anch'egli come le pecore riconosce il pastore e gli apre la porta. Il pastore chiama le sue pecore “ciascuna per nome”!. Ogni pecora viene chiamata singolarmente e questa chiamata denota l'appartenenza al pastore.
Il pastore conduce fuori le pecore e il verbo condurre ha un significato molto forte per l'azione di un pastore, ricorda il libro dell’Esodo in cui Mosè condusse il popolo fuori dall’Egitto.
“E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Dopo aver fatto uscire tutte le sue pecore, il pastore "cammina" davanti a loro..
Il popolo di Israele (anche se non nella sua totalità) ha riconosciuto la voce del suo pastore. Coloro che lo aspettavano non si sono lasciati irretire da altri, dagli estranei.
“ Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore”
Gesù aveva esposto un quadro simbolico, talmente simbolico che i suoi ascoltatori non hanno capito ciò che Egli voleva dire loro. Continua allora il suo discorso, ripetendo ancora la sua formula solenne, ma questa volta parla in prima persona e si definisce la porta delle pecore. Soltanto attraverso di Lui le pecore possono passare e andare verso la vita, verso pascoli che assicurano loro la vita in abbondanza.
“Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati”.
Certamente Gesù non si riferisce ai patriarchi e ai profeti di Israele, che parlavano in nome di Dio, ma vuole intendere coloro che si presentavano come il Messia o come profeti, ma in realtà erano mentitori e non sono stati accolti dal gregge di Israele. Uno solo è il vero Messia, l'inviato dal Padre che Israele attendeva.
“Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo”.
Gesù si definisce ora semplicemente come la "porta", che conduce alla vita. L'espressione "entrare e uscire" indica la libertà di qualcuno nella vita ordinaria, che troviamo nel libro dei Numeri (27,17). Il pascolo, simbolo di una vita opulenta, preparano la sovrabbondanza di vita a cui allude il versetto seguente , dove si può cogliere un’eco del salmo 22. “Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.
Queste parabola non è solo solare, presenta anche la tenebra. Si intravede, infatti, nella notte un ladro, che sale da un’altra parte e non dalla porta, seminando panico tra le pecore. Ai verbi di vita che segnavano l’azione del buon pastore, subentrano quelli della morte che il ladro porta con sé.
Già il profeta Ezechiele, più di cinque secoli prima, aveva contrapposto i due volti:
quello del pastore, che va in cerca della pecora perduta e ricondurre all’ovile quella smarrita, fasciare quella ferita e curare quella malata, aver cura della grassa e della forte, per pasciarle tutte con giustizia. (Ez 34,16) e quello del falso pastore che “si nutre di latte, si riveste di lana, ammazza la pecora più grassa, ma non pascola con amore il suo gregge.” (Ez 34,3)
Chiediamoci tutti noi di quale gregge facciamo parte e come possiamo riconoscere che è Cristo il nostro Pastore … forse quando ognuno di noi potrà dire: “Sì Signore, io ti conosco perché tu mi hai fatto e risanato, nessuno mi ha amato più di te che mi hai salvato e redento, seguo la tua voce perché nessun’altro, all’infuori di te, sa chi veramente sono, di che cosa ho bisogno, dove voglio andare” si accorgerà di aver raggiunto la gioia più grande che su questa terra potrà mai avere .

 

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“Nel Vangelo di questa domenica , detta “la domenica del buon pastore”, Gesù si presenta con due immagini che si completano a vicenda. L’immagine del pastore e l’immagine della porta dell’ovile.
Il gregge, che siamo tutti noi, ha come abitazione un ovile che serve da rifugio, dove le pecore dimorano e riposano dopo le fatiche del cammino. E l’ovile ha un recinto con una porta, dove sta un guardiano. Al gregge si avvicinano diverse persone: c’è chi entra nel recinto passando dalla porta e chi «vi sale da un’altra parte» . Il primo è il pastore, il secondo un estraneo, che non ama le pecore, vuole entrare per altri interessi.
Gesù si identifica col primo e manifesta un rapporto di familiarità con le pecore, espresso attraverso la voce, con cui le chiama e che esse riconoscono e seguono. Lui le chiama per condurle fuori, ai pascoli erbosi dove trovano buon nutrimento.
La seconda immagine con cui Gesù si presenta è quella della «porta delle pecore» . Infatti dice: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato» , cioè avrà la vita e l’avrà in abbondanza . Cristo, Buon Pastore, è diventato la porta della salvezza dell’umanità, perché ha offerto la vita per le sue pecore.
Gesù, pastore buono e porta delle pecore, è un capo la cui autorità si esprime nel servizio, un capo che per comandare dona la vita e non chiede ad altri di sacrificarla. Di un capo così ci si può fidare, come le pecore che ascoltano la voce del loro pastore perché sanno che con lui si va a pascoli buoni e abbondanti. Basta un segnale, un richiamo ed esse seguono, obbediscono, si incamminano guidate dalla voce di colui che sentono come presenza amica, forte e dolce insieme, che indirizza, protegge, consola e medica.
Così è Cristo per noi. C’è una dimensione dell’esperienza cristiana che forse lasciamo un po’ in ombra: la dimensione spirituale e affettiva. Il sentirci legati da un vincolo speciale al Signore come le pecore al loro pastore. A volte razionalizziamo troppo la fede e rischiamo di perdere la percezione del timbro di quella voce, della voce di Gesù buon pastore, che stimola e affascina.
Come è capitato ai due discepoli di Emmaus, cui ardeva il cuore mentre il Risorto parlava lungo la via. È la meravigliosa esperienza di sentirsi amati da Gesù. Fatevi la domanda: “Io mi sento amato da Gesù? Io mi sento amata da Gesù?”. Per Lui non siamo mai degli estranei, ma amici e fratelli. Eppure non è sempre facile distinguere la voce del pastore buono. State attenti. C’è sempre il rischio di essere distratti dal frastuono di tante altre voci. Oggi siamo invitati a non lasciarci distogliere dalle false sapienze di questo mondo, ma a seguire Gesù, il Risorto, come unica guida sicura che dà senso alla nostra vita.
In questa Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni – in particolare per le vocazioni sacerdotali, perché il Signore ci mandi buoni pastori – invochiamo la Vergine Maria: Lei accompagni i dieci nuovi sacerdoti che ho ordinato poco fa. Ho chiesto a quattro di loro della diocesi di Roma di affacciarsi per dare la benedizione insieme a me. La Madonna sostenga con il suo aiuto quanti sono da Lui chiamati, affinché siano pronti e generosi nel seguire la sua voce.”
Papa Francesco Angelus, 7 maggio 2017

Pubblicato in Liturgia

Le letture di questa terza domenica di Pasqua, contengono un messaggio per tutti noi: il conflitto tra il desiderio di credere alla risurrezione e i timori umani che sia solo un’illusione.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci presenta Pietro, che davanti all’incredulità della gente riguardo alla discesa dello Spirito Santo, deve spiegare come la Sacra Scrittura annunciasse quanto era avvenuto in quei giorni, cioè che in Gesù si sono realizzate le promesse fatte da Dio a Davide, per cui Gesù è davvero il Signore e il Messia, cioè il Salvatore promesso da Dio.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, Pietro, dopo aver affermato che la santità cristiana consiste nel conformarsi alla santità di Dio, ricorda ai fedeli l’atteggiamento di timore filiale che essi devono avere nei confronti di Dio.
Nel Vangelo troviamo il racconto dei discepoli di Emmaus che solo Luca ci riporta. E’ uno stupendo racconto di un viaggio spirituale attraverso le strade desolate del dubbio e vediamo come anche in questo cammino l’uomo non è mai solo, c’è sempre la presenza segreta di Dio accanto a lui.
Possiamo fare nostra la preghiera del Canto al Vangelo: “Signore Gesù, facci comprendere le Scritture affinché arda il nostro cuore mentre ci parli.”

Dagli Atti degli Apostoli
Nel giorno di Pentecoste, Pietro con gli Undici si alzò in piedi e a voce alta parlò a loro così:« Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nàzaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come voi sapete bene –, consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso.
Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. Dice infatti Davide a suo riguardo:
Contemplavo sempre il Signore innanzi a me;
egli sta alla mia destra, perché io non vacilli.
Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua,
e anche la mia carne riposerà nella speranza,
perché tu non abbandonerai la mia vita negli inferi
né permetterai che il tuo Santo subisca la corruzione.
Mi hai fatto conoscere le vie della vita,
mi colmerai di gioia con la tua presenza.
Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e il suo sepolcro è ancora oggi fra noi. Ma poiché era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne subì la corruzione. Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire».
At 2,14a.22-33

Questo brano tratto dal Libro degli Atti degli Apostoli, presenta la prima testimonianza che gli apostoli danno di Gesù dopo aver ricevuto da Lui il dono dello Spirito Santo il giorno di Pentecoste. E’ il primo discorso di Pietro, che sente la responsabilità della trasmissione della fede, e riassume la storia di salvezza che Dio ha fatto con il Suo popolo attraverso la vita e le opere di Gesù di cui, coloro a cui Pietro parla, sono stati testimoni per i prodigi da Lui compiuti, per la Sua morte in croce e soprattutto per la Sua resurrezione.
Sorprende la fermezza, la determinazione e il coraggio di Pietro, che viene sottolineata dai versetti con cui inizia il brano: “si alzò in piedi e a voce alta parlò….” . Lui, come gli altri apostoli, era pieno di angoscia e paura che, anche a loro stessi, capitasse quanto successo al Maestro. Tuttavia l’esperienza del Risorto fu di tale impatto che non solo rovesciò i criteri di comprensione dell’accaduto, ma per Pietro in particolare, in considerazione della sua triplice negazione avvenuta il giovedì della passione, è anche l’opportunità per riabilitarsi davanti al popolo e alle autorità, manifestando il suo ravvedimento con forza e coraggio.
Nei versetti precedenti di questo brano (vv. 14-21) Pietro aveva fatto riferimento ai fatti che hanno provocato l’assembramento della folla. Egli smentisce che gli apostoli erano ubriachi e spiega che quanto è accaduto non è altro che l’attuazione di ciò che era stato detto dal profeta Gioele (Gl 3,1-5a), che aveva preannunziato per la fine del mondo una grandiosa effusione dello Spirito.
Dopo questa introduzione, l’apostolo sviluppa cinque punti fondamentali del kerygma: la vita terrena di Gesù, la Sua morte e risurrezione, argomentazione scritturistica, testimonianza apostolica , esaltazione di Gesù .
La vita terrena di Gesù
“Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nàzaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso fece tra voi per opera sua, come voi sapete bene»,
Pietro inizia il suo discorso con un accenno all’esperienza storica di Gesù e ricorda solo le opere straordinarie che l’hanno caratterizzata. I miracoli di Gesù sono presentati come opere compiute da Dio stesso, il quale se ne è servito per mostrare che Gesù era da Lui «accreditato», cioè per presentarlo come Suo rappresentante presso gli uomini. Pietro non insiste molto sull’attività di Gesù durante la Sua vita terrena perché sicuramente supponeva che essa era conosciuta dai suoi ascoltatori. Maggiori dettagli Pietro li mette nel discorso a Cornelio (At 10,36-38) che, essendo un pagano e vivendo lontano da Gerusalemme, non era forse del tutto al corrente della vita e dell’opera di Gesù.
la sua morte e risurrezione
«consegnato a voi secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, voi, per mano di pagani, l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere»
Pietro passa al ricordo della morte di Gesù e la presenta come un crimine di cui sono responsabili i suoi stessi ascoltatori, i quali lo hanno compiuto con la collaborazione dei pagani. Si può notare che Pietro non vuole addossare la responsabilità della morte di Gesù a tutti i giudei, ma solo agli abitanti di Gerusalemme, ai quali è rivolto il discorso . L’apostolo sottolinea che la morte di Gesù non è stata qualcosa di imprevisto, ma è avvenuta in base ad un progetto prestabilito da Dio. Alla luce di questo dice appare chiaro che Dio stesso ha voluto la morte di Gesù per esprimere l’amore infinito che lo spingeva a salvare tutti gli uomini anche se violenti e peccatori. Il fatto di essere stati inconsciamente strumenti del piano di Dio non esclude però la piena responsabilità degli abitanti di Gerusalemme. Senza soffermarsi ulteriormente sulla morte di Gesù, Pietro passa immediatamente all’annunzio della Sua risurrezione (Egli si limita ad presentare il fatto, spiegandolo con l’espressione «liberandolo dai dolori della morte», Questa espressione è presa dal Sal 18,6 dove il salmista esalta Dio poiché lo ha liberato «dai lacci degli inferi», cioè dai pericolo di morte a cui era sottoposto;. Egli prosegue affermando « perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere, Perciò Pietro, dopo aver fatto allusione al piano divino, passa a darne una più dettagliata spiegazione.
argomentazione scritturistica
«Dice infatti Davide a suo riguardo: Contemplavo sempre il Signore innanzi a me;
egli sta alla mia destra, perché io non vacilli.Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua,e anche la mia carne riposerà nella speranza, perché tu non abbandonerai la mia vita negli inferi né permetterai che il tuo Santo subisca la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza.»
Pietro interpreta la risurrezione di Gesù alla luce del Sal 16,8-11, in cui il salmista, in un momento di grande pericolo, si dichiara sicuro che Dio non lo lascerà andare nel sepolcro e non gli lascerà vedere la fossa.
Alla citazione biblica Pietro commenta;
«Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e il suo sepolcro è ancora oggi fra noi. Ma poiché era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne subì la corruzione».
Davide, ritenuto autore del salmo, è morto e ha visto la corruzione, come risulta dal fatto che esiste ancora la sua tomba. Egli perciò non poteva parlare di se stesso, ma doveva riferirsi ad un altro. Ora, in forza della profezia di Natan (2Sam 7,12 citato nel Salmi 132,11-12), Dio aveva promesso con giuramento a Davide che un suo lontano discendente si sarebbe seduto sul suo trono. Da ciò egli conclude che la Scrittura aveva preannunziato la risurrezione del Cristo, il messia discendente di Davide, che per Pietro è chiaramente Gesù. Pietro lo afferma rileggendo in chiave cristologica la finale del salmo 16,10: questi (Cristo) non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne (invece di «anima», per sottolineare la corporeità della risurrezione) «subì (nuovamente al passato) la corruzione».
Più che dare una vera prova biblica, Pietro rilegge il concetto di risurrezione in un testo che aveva originariamente un significato diverso, presentando così questo evento come il compimento del piano salvifico di Dio.
testimonianza apostolica
Dopo aver dimostrato che la risurrezione di Gesù è stata preannunziata dalle Scritture, Pietro riprende l’affermazione iniziale e la conferma mediante la testimonianza sua e degli altri apostoli: «Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni». Questa testimonianza diretta è il vero argomento in favore della risurrezione Gli apostoli annunziano ciò che hanno visto e sperimentato. Avendo provato che ciò corrisponde al piano divino delineato nell’Antico Testamento, Pietro è ora sicuro che nessuno potrà negare o mettere in questione la sua testimonianza.
esaltazione di Gesù
L’annunzio della morte e risurrezione di Gesù lascia ora il posto alla proclamazione della sua gloria attuale: «Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire».
In questo versetto si intrecciano alcune importanti riferimenti all’AT. Il participio «innalzato» si riferisce a Is 52,13, dove si parla dell’esaltazione del Servo di JHWH dopo la sua esperienza di dolore e di morte, con l’accenno al dono dello Spirito Pietro si rifà al testo di Gioele 3,1-2, mentre l’espressione «alla destra di Dio» allude, al Salmo 68,19, dove si dice: «Sei salito in alto conducendo prigionieri, hai ricevuto uomini in tributo: anche i ribelli abiteranno presso il Signore Dio».
Si può notare che l’annunzio di Pietro prende le mosse dalla vita terrena di Gesù e dalla sua predicazione, mettendo però al primo posto l’evento della Sua morte e risurrezione, confermata dalla testimonianza degli apostoli e dalla prova scritturistica.
Luca, nel discorso di Pietro, così radicato nel mondo biblico-giudaico, vuole sottolineare che il vangelo, la buona notizia del regno, che scaturisce dall’esperienza religiosa di Israele, è rivolto in primo luogo a questo popolo che per primo può comprenderlo e accoglierlo, e ciò vale per la Chiesa delle origini, ma è valido anche oggi. Il confronto con Israele, anche se non tutto questo popolo ha accettato Gesù come il messia promesso dai profeti, resta essenziale per la comprensione che la Chiesa ha di se stessa e del proprio ruolo nel mondo.

Salmo 15/16 Mostraci, Signore, il sentiero della vita.

Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio
Ho detto al Signore: “Il mio Signore sei tu”
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.

Benedico il Signore che mi ha dato consiglio
anche di notte il mio animo mi istruisce
Io pongo sempre davanti a me il Signore
Sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima:
Anche il mio corpo riposa al sicuro
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.

Mi indicherai il sentiero della vita
Gioia piena alla tua presenza
Dolcezza senza fine alla tua destra

Il salmista si rivolge a Dio con pace avendo eletto il Signore, quale suo rifugio. Non mancano a lui le difficoltà, gli avversari violenti. Senza l’unione con lui ogni cosa non sarebbe più per lui un bene. Egli ama i santi, i giusti; nel compimento messianico che è la Chiesa, i fratelli in Cristo. Egli si sente in forte comunione con loro, e trova forza da questo. Gli empi, che incalzano costruendo e affermando idoli, non lo sgomentano perché la sua vita è nelle mani di Dio, e niente per lui sarebbe sulla terra un bene senza il sommo bene, che è Dio: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene”.
L’orante considera come Dio lo aiuta e conforta e come per lui questo sia tutto. La sorte (il sorteggio) (Cf. Gd 17,1; Nm 26,55; ecc.) che assegnò un tempo i vari territori ai casati di Israele, ora è violata dall’ingiustizia dei dominatori idolatri, ma questo fa comprendere meglio all’orante che la vera sua sorte la sua vera sicurezza e forza è proprio il Signore, che gli dà pace e letizia: “Signore è mia parte di eredità e mio calice”.
L’orante non tiene per se tutto questo, ma lo partecipa ai fratelli per un nutrirsi reciproco di luce. Non ha odio per gli empi e non li esclude dalla volontà salvifica di Dio: sono essi stessi ad escludersi da questa volontà con “le loro libagioni di sangue”, cioè i loro crimini, vero culto del male. Il salmista è certo che Dio non lo abbandonerà negli inferi una volta lasciata la terra: “non abbandonerai la mia vita negli inferi”. Ed egli sa che “il tuo Santo”, cioè il Cristo (Cf. At 13,35), avrà - ha avuto - vittoria sulla corruzione della tomba. Il salmista sa che percorrendo giorno dopo giorno “il sentiero della vita”, giungerà all’eterna dolcezza del cielo, alla destra di Dio, che è espressione letteraria indicante il glorioso essere con Dio.
In assoluta eccellenza è Cristo che nella gloria è alla destra del Padre
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla prima lettera di S.Pietro apostolo
Carissimi, se chiamate Padre colui che, senza fare preferenze, giudica ciascuno secondo le proprie opere, comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri.
Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia.
Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi; e voi per opera sua credete in Dio, che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, in modo che la vostra fede e la vostra speranza siano rivolte a Dio.
1Pt 1,17-21

Pietro, nella sua esortazione, dopo aver affermato che la santità cristiana consiste nel conformarsi alla santità di Dio, in questo brano ricorda ai cristiani (quindi anche a noi oggi) quale sia l'atteggiamento giusto per rimanere nella vita e nella comunione con Dio.
“Carissimi, se chiamate Padre colui che, senza fare preferenze, giudica ciascuno secondo le proprie opere, comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri.”
C’è un chiaro riferimento alla preghiera del Padre nostro che probabilmente a quel tempo veniva già recitato nella celebrazione liturgica. I cristiani perciò possono chiamare Dio Padre, ma questo però non basta ad avere assicurata la salvezza. Lo stesso errore lo avevano fatto i giudei che dicevano "nostro padre è Abramo " (cf. Gv 8,39). Pietro ricorda che ci sarà un giudizio sulle opere dei cristiani ed essi sono chiamati a porsi in ascolto della parola di Dio, a porsi come figli nei Suoi confronti. Devono dunque procedere decisi sulla nuova strada che è stata aperta loro, senza lasciarsi andare a false certezze. La condizione dei cristiani è un po' come quella di stranieri, hanno assunto una nuova cittadinanza che li rende un po' diversi dagli altri. Questo era vero soprattutto per i cristiani che abitavano nell'impero romano.
“Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia.”
La situazione dei cristiani convertiti dal paganesimo è un cambiamento da una vita senza senso, (qui definita vuota condotta), un cambiamento come quello di uno schiavo riscattato. Solitamente gli schiavi erano riscattati con una somma di denaro, grazie a qualche benefattore. Lo stesso vale per i cristiani, però il prezzo versato non era in monete d’argento o d’oro, ma il prezzo è stato il sangue di Cristo. Anche i pagani conoscevano bene i sacrifici di animali per ottenere qualcosa dalla divinità. Il sacrificio dell'agnello è direttamente legato ai sacrifici del popolo ebreo per ricordare la liberazione dalla schiavitù d'Egitto. L'agnello che veniva offerto doveva essere sano e integro, altrimenti il sacrificio non sarebbe stato valido. Gesù è l'Agnello perfetto in assoluto e ha reso il sacrificio ancora più prezioso .
“Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi” .
Pietro fa ora riferimento al piano di salvezza di Dio che era stato concepito già all'inizio del mondo, e che si è realizzato in un momento preciso della storia umana.
Nell'epoca di Pietro e di Paolo si pensava che il ritorno glorioso di Cristo fosse prossimo. La salvezza si è manifestata con la morte e la risurrezione di Cristo e negli anni seguenti si stava diffondendo tra i popoli del mondo allora conosciuto. Questi ultimi tempi sono i tempi in cui la lettera fu scritta, ma fanno riferimento anche ai tempi finali.
“ e voi per opera sua credete in Dio, che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, in modo che la vostra fede e la vostra speranza siano rivolte a Dio.”
La manifestazione piena del Cristo avviene dunque nel momento della Sua risurrezione, che è qui presentata come un’opera compiuta da Dio, che così facendo gli “ha dato gloria”, cioè ha pienamente riabilitato Colui che aveva patito una morte vergognosa.
Proprio sulla risurrezione di Cristo si basa la fede dei cristiani e da questa fede nasce la speranza che Dio porti a compimento anche per loro la risurrezione con la quale ha glorificato il Figlio Gesù.

Dal Vangelo secondo Luca
Ed ecco, in quello stesso giorno (il primo della settimana) due di loro (dei discepoli) erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto.
Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso.
Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».
Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?».
E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro.
Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista.
Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!».
Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
Lc 24,13-35

In questo brano del vangelo di Luca, abbiamo un racconto molto noto dell'apparizione di Gesù ai discepoli di Emmaus. Luca scrive negli anni 80 per le comunità della Grecia che era formata in gran parte da pagani convertiti. Gli anni 60 e 70 erano stati molto difficili: nel 64 c’era stata la grande persecuzione di Nerone e sei anni dopo, nel 70, Gerusalemme fu totalmente distrutta dai romani. Nel 72, a Masada, nel deserto di Giuda, ci fu il massacro degli ultimi giudei ribelli, inoltre in quegli anni, gli apostoli, testimoni della resurrezione, stavano scomparendo, per cui si cominciava a sentire la stanchezza del cammino.
Luca riportando il racconto dell'apparizione di Gesù ai discepoli di Emmaus vuole insegnare alle comunità come interpretare la Scrittura per poter riscoprire la presenza di Gesù nella vita di ognuno.
Il racconto inizia citando due discepoli, Clèopa e un altro ignoto seguace di Cristo, che durante il cammino verso un villaggio di nome Emmaus, (luogo della tradizione, simbolo della vittoria di Israele sui pagani riportata dal 1 libro dei Maccabei) conversano di tutto quello che era accaduto.
I due non appartengono al gruppo degli undici, forse hanno fatto parte del numero dei settantadue discepoli inviati da Gesù in missione. Mentre discutono tra loro, Gesù in persona si avvicina e si mette a camminare con loro. Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo.
Egli allora dice loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”. Essi si fermano rattristati. La domanda dello sconosciuto suppone che i due discutessero in modo piuttosto animato e la tristezza dei due discepoli di fronte alla domanda del forestiero esprime non tanto la reazione al fatto che egli non sappia che cosa è accaduto, ma il dispiacere per il fallimento delle loro attese messianiche. La crocifissione rappresentava per essi la fine d’ogni speranza!
Alla domanda rivolta loro, risponde meravigliato Clèopa: “Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. All’ulteriore domanda dell’uomo, che gli chiede di che cosa si tratti, essi rispondono: “Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso.” (E’ da notare che la responsabilità della morte di Gesù viene attribuita ai gran sacerdoti e ai capi dei giudei, senza neppure menzionare il ruolo svolto dai romani, che normalmente Luca cerca di scagionare).
Anzitutto i due dicono di aver sperato “che fosse lui a liberare Israele”, ma aggiungono che “sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute”. Essi aspettavano dunque che Gesù attuasse la “liberazione di Israele”: questa espressione suppone un messianismo di carattere nazionalista e politico e l’accenno al “terzo giorno” dalla scomparsa di Gesù mette in risalto la perdita di ogni speranza. I due discepoli però non sono all’oscuro di quanto nel frattempo è successo. Essi sanno infatti che alcune donne del loro gruppo si sono recate al mattino al sepolcro e sono tornate a riferire di non avervi trovato il corpo di Gesù e di aver avuto una visione di angeli, i quali affermavano che egli è vivo. Inoltre alcuni dei loro erano andati al sepolcro e l’avevano trovato come avevano detto le donne, cioè vuoto, ma lui non l’avevano visto
A questo punto il forestiero stesso prende la parola riprendendo i due discepoli: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”
Il rimprovero riguarda il loro rifiuto di credere a quanto dicevano le Scritture profetiche, nelle quali si trova espressa la necessità storico-salvifica della sofferenza del Messia. E infatti, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiega loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Si può notare che mentre i discepoli avevano presentato Gesù come semplice profeta, egli lo indica espressamente come il Cristo. e come tale ha dovuto affrontare una sofferenza che era già stata predetta nelle Scritture: (è chiaro il riferimento ai carmi del Servo di JHWH) .
Quando i tre giungono vicino al villaggio dove i discepoli erano diretti, il forestiero fa per congedarsi da loro. Ma essi lo trattengono con queste parole: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. Essi gli fanno una pressione garbata perché si fermi con loro, come avviene comunemente in Oriente quando si tratta di invitare una persona a casa propria. Qui si può cogliere soprattutto il bisogno dei discepoli di avere ancora con sé lo sconosciuto che, come diranno dopo, ha infiammato i loro cuori.
Quando furono a tavola, Gesù “prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro”. Solo ora gli occhi dei due discepoli si aprono ed essi lo riconoscono … “Ma egli sparì dalla loro vista.” Sarebbe più appropriato dire “divenne invisibile”. Prima era con loro e non lo riconoscevano; quando lo riconoscono e lo accolgono diventa parte di loro. Ed essi si dicono l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”. I discepoli capiscono ora perché il cuore ardeva nel loro petto mentre Gesù spiegava loro le Scritture. Tuttavia ciò non era bastato per riconoscerlo, ma era stato necessario lo spezzare del pane.
I due allora partono senza indugio e fanno ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicono: ”Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!“.
Il riconoscimento di Gesù da parte dei due discepoli è fondato anzitutto su un’attenta lettura delle Scritture. I due non erano disposti ad accettare la Sua risurrezione perché non avevano saputo cogliere nelle scritture il significato salvifico della Sua morte in croce. Sapevano che era un profeta, ma non erano disposti ad accettare che fosse il Messia promesso dalle Scritture. La rilettura che Gesù indica è perciò indispensabile perché essi passino dall’incredulità alla fede. Il fatto che di fronte alle spiegazioni di Gesù il loro cuore ardesse nel petto significa che essi erano già preparati a questo tipo di interpretazione, sebbene non fossero capaci di fare da soli il passo decisivo
Benedetto XVI, in un'omelia, ricordava come l'atteggiamento dei discepoli di Emmaus tende, purtroppo, a diffondersi anche tra noi, quando ci allontaniamo dalla Gerusalemme del Crocifisso e del Risorto, non credendo più nella potenza e nella presenza viva del Signore. Il problema del male, del dolore e della sofferenza, il problema dell'ingiustizia e della sopraffazione, la paura degli altri, degli estranei e dei lontani che giungono nelle nostre terre e sembrano attentare a ciò che noi siamo, portano i cristiani di oggi a dire con tristezza: noi speravamo che il Signore ci liberasse dal male, dal dolore, dalla sofferenza, dalla paura, dall'ingiustizia. È necessario, allora,... sedersi a tavola con il Signore, diventare Suoi commensali, affinché la Sua presenza umile nel Sacramento del Suo Corpo e del Suo Sangue ci restituisca lo sguardo della fede, per guardare tutto e tutti con gli occhi di Dio, nella luce del Suo amore

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Il Vangelo Il Vangelo di oggi, ambientato nel giorno di Pasqua, racconta l’episodio dei due discepoli di Emmaus . È una storia che inizia e finisce in cammino. C’è infatti il viaggio di andata dei discepoli che, tristi per l’epilogo della vicenda di Gesù, lasciano Gerusalemme e tornano a casa, a Emmaus, camminando per circa undici chilometri. È un viaggio che avviene di giorno, con buona parte del tragitto in discesa. E c’è il viaggio di ritorno: altri undici chilometri, ma fatti al calare della notte, con parte del cammino in salita dopo la fatica del percorso di andata e tutta la giornata. Due viaggi: uno agevole di giorno e l’altro faticoso di notte. Eppure il primo avviene nella tristezza, il secondo nella gioia. Nel primo c’è il Signore che cammina al loro fianco, ma non lo riconoscono; nel secondo non lo vedono più, ma lo sentono vicino. Nel primo sono sconfortati e senza speranza; nel secondo corrono a portare agli altri la bella notizia dell’incontro con Gesù Risorto.
I due cammini diversi di quei primi discepoli dicono a noi, discepoli di Gesù oggi, che nella vita abbiamo davanti due direzioni opposte: c’è la via di chi, come quei due all’andata, si lascia paralizzare dalle delusioni della vita e va avanti triste; e c’è la via di chi non mette al primo posto se stesso e i suoi problemi, ma Gesù che ci visita, e i fratelli che attendono la sua visita, cioè i fratelli che attendono che noi ci prendiamo cura di loro. Ecco la svolta: smettere di orbitare attorno al proprio io, alle delusioni del passato, agli ideali non realizzati, a tante cose brutte che sono accadute nella propria vita. Tante volte noi siamo portati a orbitare, orbitare… Lasciare quello e andare avanti guardando alla realtà più grande e vera della vita: Gesù è vivo, Gesù mi ama. Questa è la realtà più grande. E io posso fare qualcosa per gli altri. È una bella realtà, positiva, solare, bella! L’inversione di marcia è questa: passare dai pensieri sul mio io alla realtà del mio Dio; passare – con un altro gioco di parole – dai “se” al “sì”. Dai “se” al “sì”. Cosa significa? “Se fosse stato Lui a liberarci, se Dio mi avesse ascoltato, se la vita fosse andata come volevo, se avessi questo e quell’altro…”, in tono di lamentela. Questo “se” non aiuta, non è fecondo, non aiuta noi né gli altri. Ecco i nostri se, simili a quelli dei due discepoli. I quali passano però al sì: “sì, il Signore è vivo, cammina con noi. Sì, ora, non domani, ci rimettiamo in cammino per annunciarlo”. “Sì, io posso fare questo perché la gente sia più felice, perché la gente migliori, per aiutare tanta gente. Sì, sì, posso”. Dal se al sì, dalla lamentela alla gioia e alla pace, perché quando noi ci lamentiamo, non siamo nella gioia; siamo in un grigio, in un grigio, quell’aria grigia della tristezza. E questo non aiuta neppure ci fa crescere bene. Dal se al sì, dalla lamentela alla gioia del servizio.
Questo cambio di passo, dall’io a Dio, dai se al sì, com’è accaduto nei discepoli? Incontrando Gesù: i due di Emmaus prima gli aprono il loro cuore; poi lo ascoltano spiegare le Scritture; quindi lo invitano a casa. Sono tre passaggi che possiamo compiere anche noi nelle nostre case: primo, aprire il cuore a Gesù, affidargli i pesi, le fatiche, le delusioni della vita, affidargli i “se”; e poi, secondo passo, ascoltare Gesù, prendere in mano il Vangelo, leggere oggi stesso questo brano, al capitolo ventiquattro del Vangelo di Luca; terzo, pregare Gesù, con le stesse parole di quei discepoli: “Signore, «resta con noi». Signore, resta con me. Signore, resta con tutti noi, perché abbiamo bisogno di Te per trovare la via. E senza di Te c’è la notte”.
Cari fratelli e sorelle, nella vita siamo sempre in cammino. E diventiamo ciò verso cui andiamo. Scegliamo la via di Dio, non quella dell’io; la via del sì, non quella del se. Scopriremo che non c’è imprevisto, non c’è salita, non c’è notte che non si possano affrontare con Gesù. La Madonna, Madre del cammino, che accogliendo la Parola ha fatto di tutta la sua vita un “sì” a Dio, ci indichi la via.

Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 26 aprile 2020

Pubblicato in Liturgia
Venerdì, 14 Aprile 2023 17:06

II Domenica di Pasqua - Anno A - 16 aprile 2023

La prima domenica dopo Pasqua, prima di chiamarsi della Divina Misericordia, era chiamata "domenica in albis". Questo nome era dovuto perchè ai primi tempi della Chiesa il battesimo era amministrato durante la notte di Pasqua, ed i battezzandi indossavano una tunica bianca che portavano poi per tutta la settimana successiva, fino alla prima domenica dopo Pasqua, detta perciò "domenica in cui si depongono le vesti bianche" ("in albis depositis"). Questa domenica dal 2000 è stata proclamata Festa della Divina Misericordia per volontà del Papa Giovanni Paolo II, come testimonia la sua seconda Enciclica “Dives in Misericordia”, scritta nel 1980.
La liturgia pasquale si distende per l’arco intero di sette settimane con altrettante domeniche pasquali che sono prevalentemente costruite su alcuni ritratti della Chiesa del Cristo Risorto, con le sue gioie, le sue attese, la sua fede, ma anche con le sue prime ansie.
Nella liturgia di oggi, nella prima lettura tratta dal Libro degli Apostoli, Luca ci presenta la planimetria della Gerusalemme cristiana, la Chiesa-madre che nel cenacolo ha la sua prima cattedrale che si erge su quattro pilastri: l’insegnamento degli apostoli; la frazione del pane, cioè l’ eucaristia; le preghiere; e la koimonia, cioè l’amore fraterno .
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera di Pietro, troviamo un antico inno battesimale in cui si benedice Dio per l’opera di salvezza operata tramite il Cristo, la quale è per il credente rigenerazione e apertura nella speranza, verso una salvezza totale.
Il Vangelo di Giovanni riporta l’incontro di Gesù risorto con gli apostoli e il suo saluto: Pace a Voi ! L’episodio di Tommaso, con i suoi umanissimi dubbi, è particolarmente utile per tutti coloro che procedono a tentoni in una valle oscura alla ricerca di Dio. Tommaso alla fine è stato in grado di proclamare la sua fede con una purezza straordinaria, forse la più alta del quarto Vangelo: “Mio Signore e mio Dio!”

Dagli Atti degli Apostoli
Quelli che erano stati battezzati erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere.
Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli.
Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo.
Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.
At 2,42-47


L’evangelista Luca nell’intento di riportare nel libro degli Atti degli Apostoli la diffusione e la crescita della Chiesa, mette in questo primo sommario, una descrizione della comunità primitiva che trova il suo modello e la sua ispirazione nella più piccola comunità cristiana che sia mai esistita.
Ci appare subito come una comunità idealizzata e questo può accadere in ogni comunità quando il dono di Dio è pienamente accolto.
Nei versetti precedenti Luca aveva riportato un evento straordinario: era appena disceso lo Spirito nel giorno di Pentecoste e Pietro aveva rivolto, con parole audaci, un accorato appello alla conversione al popolo che si era ritrovato attorno a lui.
La vita della prima comunità cristiana testimonia che la Pentecoste diventa realtà: la forza dello Spirito genera una vita nuova che, pur vissuta sulla terra, non può che essere frutto dell’opera di Dio. Lo Spirito Santo, infatti, ancor prima di ammaestrare i credenti ad evangelizzare tutto il mondo, rafforza sempre più la comunità al suo interno.
Luca, in questo brano, riporta: “Quelli che erano stati battezzati erano perseveranti all’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere”.
Ciò che qualifica la comunità è il fatto che tutti i suoi membri sono “perseveranti”, cioè animati da una dedizione personale, che si manifesta nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli, nell’unione fraterna, nello spezzare il pane e nelle preghiere.
Dopo aver presentato in sintesi la vita della comunità, Luca fa un accenno a quelle che erano le reazioni da parte degli estranei . “Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli”. Questi perciò avevano nei confronti dei membri della comunità un senso di “timore” determinato dai “prodigi e segni” compiuti dagli apostoli.
Luca ritorna poi al tema della vita interna della comunità: “Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno”.
Queste due espressioni riflettono, come le altre usate da Luca in questo contesto, il tema dell’amicizia, ma usando il termine “credenti” fa rilevare che il vincolo che unisce i discepoli di Gesù non è un’amicizia umana, ma la fede nel comune Maestro. Essa parte dal cuore e si esprime nella messa in comune di affetti, esperienze, aspirazioni, in altre parole, di quello che rappresenta il senso della propria vita, così come ciascuno lo ha scoperto alla luce della fede comune.
L’unità tra i credenti arriva fino al punto che quanti possiedono dei beni li vendono e ne mettono il ricavato a disposizione degli altri, in proporzione del loro bisogno. Questa scelta di vita sarà ulteriormente sottolineata in seguito (4,32.34-35), subito dopo verrà presentato l’esempio positivo di Barnaba, che vende il suo campo e depone il ricavato ai piedi degli apostoli (4,36-37), e quello negativo di Anania e Saffira, i quali sono condannati non perché hanno consegnato solo parte del ricavato dalla vendita di una loro proprietà, ma perché hanno mentito agli apostoli (5,1-11). Proprio questi due esempi, nella loro diversità, mostrano che la scelta di vendere i propri beni e di metterne in comune il ricavato era lasciata alla discrezione di ognuno.
Ritornando al tema della preghiera, Luca sottolinea che “Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo”.
Nell’ambiente giudaico questa espressione indica il gesto rituale con cui si apriva il pasto in comune: il padre di famiglia o il capogruppo prendeva tra le mani il pane, rendeva grazie a Dio e lo spezzava distribuendola poi ai commensali. Qui l’espressione indica il pasto fraterno con cui i cristiani ricordavano l’ultima cena di Gesù, in cui Egli aveva interpretato profeticamente la Sua morte e aveva annunciato la speranza della piena comunione con loro nel regno di Dio. Il pasto comune dei cristiani dunque avveniva in un clima di letizia e di semplicità di cuore.
Il termine “letizia” è caro a Luca e indica la gioia festosa che accompagna l’esperienza o la speranza della salvezza messianica (Lc 1,14.44). Anche la “semplicità di cuore” è anch’essa un’espressione religiosa per definire la dedizione sincera e integra a Dio senza secondi fini.
Il comportamento dei primi discepoli era caratterizzato da una intensa lode a Dio e dal favore di tutto il popolo. Certamente una comunità unita, solidale, pronta a condividere anche i beni materiali, non può non suscitare attenzione e simpatia da parte di coloro che vengono a contatto con essa.
Luca conclude questo primo sommario con una espressione che userà più volte “il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati”.
Da questo versetto risulta che di per sé Luca non concepisce la comunità come uno strumento di salvezza, ma come la raccolta di coloro che sono salvati mediante un intervento diretto del Signore: ciò implica che la salvezza è opera esclusiva del Signore e ha un raggio d’azione che va ben oltre la comunità dei presenti.

Salmo 117- Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.

Rendete grazie al Signore
perché è buono:il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».

Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».

La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo!

Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi.
Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare.
Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici.
Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
“La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
“Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male.
Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”.
Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore.
Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla prima lettera di S.Pietro apostolo
Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo.
Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco –, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime.
1Pt 1,3-9

La Prima lettera di Pietro è uno scritto cristiano della fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma che secondo gli esperti è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire a Pietro o al suo ambiente. Non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale, che si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 - 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 - 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 - 5,11).
Il brano inizia con una benedizione: “Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce”.
La benedizione è una preghiera diretta a Dio per lodarlo e ringraziarlo di tutti i benefici che ha elargito a Israele, ma viene anche designato come “Padre del Signore nostro Gesù Cristo”. È infatti nel suo rapporto con Gesù che Dio ha manifestato la Sua volontà salvifica in favore dell’umanità, rigenerandola. È la fedeltà di Dio verso il Suo popolo che sta all’origine della Sua decisione di dare ai credenti in Cristo una vita nuova e questa si attua come effetto della resurrezione di Cristo. La sicurezza di ottenere l’eredità oggetto della speranza, si basa sul fatto che essa è conservata nei cieli, cioè è affidata a Dio stesso, e quindi non può essere rubata da nessuno. Non solo, ma i cristiani stessi sono preservati nella loro condizione di eredi dalla potenza di Dio che li assiste sempre, richiedendo come unica condizione la fede in Lui.
Anche la situazione presente dei cristiani è dunque, non meno dell’eredità futura, un dono di Dio, per cui l’apostolo esorta ad essere: “ricolmi di gioia, anche se …, per un po’ di tempo, si può essere afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, …, torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui”.
La fede autentica si rivelerà dalle difficoltà che si superano, che derivano dal confronto che i cristiani devono sostenere continuamente con le persone e l’ambiente che li circondano. Queste prove (qualunque esse siano) hanno lo scopo non solo di aumentare la fede, ma anche di metterla in luce.
A questo punto, c’è l’esortazione: ”esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime”.
La gioia che i cristiani devono avere a motivo del loro rapporto con Dio e con Cristo, non si può esprimere umanamente, perché è una gioia già pervasa di gloria, cioè manifesta la realtà divina che è già presente in loro. Anche se umanamente inesprimibile, questa gioia ha la sua ragione di essere e che consiste nel fatto che essi stanno per giungere al traguardo della loro fede, cioè la salvezza delle loro anime.

Dal vangelo secondo Giovanni
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli diss
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Gv 20, 19-31

L’Evangelista Giovanni in questo brano ci presenta l'apparizione di Gesù ai discepoli la sera del giorno di Pasqua, il mandato che i discepoli ricevono da Lui e l'incredulità di Tommaso.
Il brano inizia nel riportare dove i discepoli erano riuniti e il loro stato d’animo:
“La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».”
I discepoli dopo la morte di Gesù, vivono nella paura e si sono chiusi nel cenacolo, per paura dei Giudei: la loro era una sensazione di angoscia, che cambia radicalmente con l'arrivo di Gesù. Giovanni non dice espressamente che Gesù ha attraversato le porte chiuse, ma intende dire che Egli è capace di rendersi presente ai Suoi discepoli in ogni circostanza. Il suo saluto "Pace a voi" non è il semplice augurio giudaico, shalom, , è il dono effettivo della pace, come Gesù stesso aveva già detto: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dá il mondo, io la do a voi.. (Gv 14,27).
“Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore”.
Gesù si mostra come Colui che è stato crocifisso, mostrò infatti loro le mani e il fianco per far vedere le ferite dei chiodi e del colpo di lancia. (Giovanni è l'unico evangelista che riporta questo episodio e parla anche del colpo di lancia che ha trafitto il fianco di Cristo sulla croce).
“Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”
Gesù rinnova per loro il dono della pace, sottolineando che è iniziato un tempo nuovo che è caratterizzato da un compito nuovo affidato ai discepoli. E' la prima volta nel vangelo di Giovanni che Gesù invia esplicitamente i suoi discepoli.
“Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo…”
Questo gesto di Gesù riproduce il gesto primordiale della creazione dell'uomo (Gn 2,7), Il Creatore aveva alitato nell'uomo un soffio che fa vivere.
“A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
Con riferimento a Mt 26,28, Giovanni parla del contenuto del mandato affidato ai discepoli che riguarda il perdono dei peccati, il dono della misericordia, strettamente collegato al dono dello Spirito
Giovanni, dopo aver descritto il primo incontro di Gesù con i suoi la sera di Pasqua, precisa che Tommaso, quando venne Gesù, non era presente e, Tommaso da uomo molto pratico e razionale, non crede a quanto i compagni gli riferiscono, anzi dice: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”.
Queste condizioni che Tommaso pone nel credere denotano una forte sofferenza interiore, una sofferenza di non poter ancora credere, che è comunque una forma di fede incompleta, ma sincera!
Nella seconda apparizione ai discepoli nel cenacolo, otto giorni dopo, Gesù, dopo aver salutato gli amici col dono della pace, si rivolge subito a Tommaso negli stessi termini da lui utilizzati, per mostrare che, nel Suo amore, Egli conosce che cosa il Suo discepolo desiderava fare : “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!”. Gesù permette al discepolo di compiere il gesto richiesto, ma soprattutto lo invita ad agire da vero credente.
A questo invito Tommaso come folgorato esclama : «Mio Signore e mio Dio!» Nessun altro apostolo si era ancora spinto a dirgli: “Mio Dio”, non solo, ma l’aggettivo "mio" davanti a Signore e Dio denota anche un accento d'amore e di appartenenza.
Gesù allora conclude: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Tommaso è una figura controversa: da molti è considerato l’incredulo, in un certo senso la pecora nera degli apostoli. Eppure forse Tommaso è tutt’altro: è un prototipo, un paradigma, perché in ognuno di noi, in qualche angolo del nostro cuore c’è un Tommaso, c’è questa incredulità.
Sono tante le sfumature del dubbio che possiamo vivere soprattutto in questo periodo in cui dopo il tempo della Pandemia restiamo smarriti e sconcertati per gli orrori della guerra in Ucraina, perchè non possiamo fare a meno di chiederci come tutto questo sia possibile. Quante volte, di fronte a certi fatti, delusioni, lutti della vita, abbiamo dubitato e ci chiediamo: “Ma cosa fa Dio? E’ proprio un padre per noi? Dov’è?”. Tommaso ora ci insegna che ogni giorno dobbiamo riconquistare la nostra fede, non darla per scontata. Bisogna andare oltre, superare il buio che ci circonda fino ad essere visti da Gesù ed essere toccati dalle Sue mani, che sono sempre una carezza, un abbraccio ed anche un bacio. Allora il respiro di Gesù può diventare anche il nostro e se sentiamo Lui così, chi ci potrà far paura? .

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LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO

Domenica scorsa abbiamo celebrato la risurrezione del Maestro, oggi assistiamo alla risurrezione del discepolo. È passata una settimana, una settimana che i discepoli, pur avendo visto il Risorto, hanno trascorso nel timore, stando «a porte chiuse» (Gv 20,26), senza nemmeno riuscire a convincere della risurrezione l’unico assente, Tommaso. Che cosa fa Gesù davanti a questa incredulità timorosa? Ritorna, si mette nella stessa posizione, «in mezzo» ai discepoli, e ripete lo stesso saluto: «Pace a voi!» (Gv 20,19.26). Ricomincia da capo. La risurrezione del discepolo inizia da qui, da questa misericordia fedele e paziente, dalla scoperta che Dio non si stanca di tenderci la mano per rialzarci dalle nostre cadute. Egli vuole che lo vediamo così: non come un padrone con cui dobbiamo regolare i conti, ma come il nostro Papà che ci rialza sempre. Nella vita andiamo avanti a tentoni, come un bambino che inizia a camminare, ma cade; pochi passi e cade ancora; cade e ricade, e ogni volta il papà lo rialza. La mano che ci rialza sempre è la misericordia: Dio sa che senza misericordia restiamo a terra, che per camminare abbiamo bisogno di essere rimessi in piedi.
E tu puoi obiettare: “Ma io non smetto mai di cadere!”. Il Signore lo sa ed è sempre pronto a risollevarti. Egli non vuole che ripensiamo continuamente alle nostre cadute, ma che guardiamo a Lui, che nelle cadute vede dei figli da rialzare, nelle miserie vede dei figli da amare con misericordia.
Oggi, in questa chiesa diventata santuario della misericordia in Roma, nella Domenica che vent’anni fa san Giovanni Paolo II dedicò alla Misericordia Divina, accogliamo fiduciosi questo messaggio. A santa Faustina Gesù disse: «Io sono l’amore e la misericordia stessa; non c’è miseria che possa misurarsi con la mia misericordia» (Diario, 14 settembre 1937). Una volta, poi, la santa disse a Gesù, con soddisfazione, di avergli offerto tutta la vita, tutto quel che aveva. Ma la risposta di Gesù la spiazzò: «Non mi hai offerto quello che è effettivamente tuo». Che cosa aveva trattenuto per sé quella santa suora? Gesù le disse con amabilità: «Figlia, dammi la tua miseria» (10 ottobre 1937). Anche noi possiamo chiederci: “Ho dato la mia miseria al Signore? Gli ho mostrato le mie cadute perché mi rialzi?”. Oppure c’è qualcosa che tengo ancora dentro di me? Un peccato, un rimorso del passato, una ferita che ho dentro, un rancore verso qualcuno, un’idea su una determinata persona… Il Signore attende che gli portiamo le nostre miserie, per farci scoprire la sua misericordia.
Torniamo ai discepoli. Avevano abbandonato il Signore durante la Passione e si sentivano colpevoli. Ma Gesù, incontrandoli, non fa lunghe prediche. A loro, che erano feriti dentro, mostra le sue piaghe. Tommaso può toccarle e scopre l’amore, scopre quanto Gesù aveva sofferto per lui, che lo aveva abbandonato. In quelle ferite tocca con mano la vicinanza tenera di Dio. Tommaso, che era arrivato in ritardo, quando abbraccia la misericordia supera gli altri discepoli: non crede solo alla risurrezione, ma all’amore sconfinato di Dio. E fa la confessione di fede più semplice e più bella: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Ecco la risurrezione del discepolo: si compie quando la sua umanità fragile e ferita entra in quella di Gesù. Lì si dissolvono i dubbi, lì Dio diventa il mio Dio, lì si ricomincia ad accettare sé stessi e ad amare la propria vita.
Cari fratelli e sorelle, nella prova che stiamo attraversando, anche noi, come Tommaso, con i nostri timori e i nostri dubbi, ci siamo ritrovati fragili. Abbiamo bisogno del Signore, che vede in noi, al di là delle nostre fragilità, una bellezza insopprimibile. Con Lui ci riscopriamo preziosi nelle nostre fragilità. Scopriamo di essere come dei bellissimi cristalli, fragili e preziosi al tempo stesso. E se, come il cristallo, siamo trasparenti di fronte a Lui, la sua luce, la luce della misericordia, brilla in noi e, attraverso di noi, nel mondo. Ecco il motivo per essere, come ci ha detto la Lettera di Pietro, «ricolmi di gioia, anche se ora […], per un po’ di tempo, afflitti da varie prove» (1 Pt 1,6).
In questa festa della Divina Misericordia l’annuncio più bello giunge attraverso il discepolo arrivato più tardi. Mancava solo lui, Tommaso. Ma il Signore lo ha atteso. La misericordia non abbandona chi rimane indietro. Ora, mentre pensiamo a una lenta e faticosa ripresa dalla pandemia, si insinua proprio questo pericolo: dimenticare chi è rimasto indietro. Il rischio è che ci colpisca un virus ancora peggiore, quello dell’egoismo indifferente. Si trasmette a partire dall’idea che la vita migliora se va meglio a me, che tutto andrà bene se andrà bene per me. Si parte da qui e si arriva a selezionare le persone, a scartare i poveri, a immolare chi sta indietro sull’altare del progresso. Questa pandemia ci ricorda però che non ci sono differenze e confini tra chi soffre. Siamo tutti fragili, tutti uguali, tutti preziosi. Quel che sta accadendo ci scuota dentro: è tempo di rimuovere le disuguaglianze, di risanare l’ingiustizia che mina alla radice la salute dell’intera umanità! Impariamo dalla comunità cristiana delle origini, descritta nel libro degli Atti degli Apostoli. Aveva ricevuto misericordia e viveva con misericordia: «Tutti i credenti avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,44-45). Non è ideologia, è cristianesimo.
In quella comunità, dopo la risurrezione di Gesù, uno solo era rimasto indietro e gli altri lo aspettarono. Oggi sembra il contrario: una piccola parte dell’umanità è andata avanti, mentre la maggioranza è rimasta indietro. E ognuno potrebbe dire: “Sono problemi complessi, non sta a me prendermi cura dei bisognosi, altri devono pensarci!”. Santa Faustina, dopo aver incontrato Gesù, scrisse: «In un’anima sofferente dobbiamo vedere Gesù Crocifisso e non un parassita e un peso… [Signore], ci dai la possibilità di esercitarci nelle opere di misericordia e noi ci esercitiamo nei giudizi» (Diario, 6 settembre 1937). Lei stessa, però, un giorno si lamentò con Gesù che, ad esser misericordiosi, si passa per ingenui. Disse: «Signore, abusano spesso della mia bontà». E Gesù: «Non importa, figlia mia, non te ne curare, tu sii sempre misericordiosa con tutti» (24 dicembre 1937). Con tutti: non pensiamo solo ai nostri interessi, agli interessi di parte. Cogliamo questa prova come un’opportunità per preparare il domani di tutti, senza scartare nessuno: di tutti. Perché senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno.
Oggi l’amore disarmato e disarmante di Gesù risuscita il cuore del discepolo. Anche noi, come l’apostolo Tommaso, accogliamo la misericordia, salvezza del mondo. E usiamo misericordia a chi è più debole: solo così ricostruiremo un mondo nuovo.

Chiesa di Santo Spirito in Sassia
II Domenica di Pasqua (o della Divina Misericordia), 19 aprile 2020

Pubblicato in Liturgia

La Pasqua, il giorno tanto atteso, è arrivato, anche se ci sentiamo tutti ancora con lo stato d’animo in cui si vive il sabato santo: nel gran silenzio in attesa degli eventi.
Nella celebrazione della Messa di Pasqua del giorno, abbiamo nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Pietro, in casa del centurione Cornelio, il primo pagano entrato nel cristianesimo, annuncia che Dio ha risuscitato Gesù dai morti e loro, i discepoli, ne sono i testimoni.
Nella seconda lettura, Paolo scrivendo ai Colossesi, afferma che il cristiano è già risorto con Cristo quando è uscito dalle acque purificatrici del Battesimo. Questo vuol dire che uniti a Cristo nel sacramento già partecipiamo alla Sua vita.
Nel Vangelo di Giovanni, leggiamo che il primo annuncio della resurrezione ci viene dalle donne, in particolare da Maria Maddalena, poi più concretamente da Pietro e Giovanni che corrono al sepolcro. In questo brano del Vangelo i discepoli non incontrano ancora il Risorto, perchè il vero dono pasquale è la fede che nasce dal loro cuore, come dal nostro: la capacità di vedere e comprendere la storia oltre ciò che appare, con gli occhi del Risorto, per essere sin d’ora partecipi della Sua gloria.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».
At 10,34a.37-43

Il libro degli Atti degli Apostoli, la cui redazione definitiva risale probabilmente attorno al 70-80, è attribuita all’evangelista Luca, che è anche autore del Vangelo che porta il suo nome. Il libro è composto da 28 capitoli e narra la storia della comunità cristiana dall'ascensione di Gesù fino all'arrivo di Paolo a Roma e copre un periodo che spazia pressappoco dal 30 al 63 d.C.. Oltre che su Paolo, l'opera si sofferma diffusamente anche sull'operato dell'apostolo Pietro e descrive il rapido sviluppo, l'espansione e l'organizzazione della testimonianza cristiana prima ai giudei e poi agli uomini di ogni nazione.
Nella seconda parte dell’opera viene delineata l’espandersi dell’annunzio evangelico al di fuori di Gerusalemme. A tal fine Luca presenta l’opera di Filippo in Samaria, la conversione dell’eunuco della regina d’Etiopia, e la straordinaria conversione del persecutore Saulo sulla via di Damasco. Infine egli racconta un viaggio apostolico di Pietro nella zona costiera della Palestina, a conclusione del quale mette la conversione del centurione Cornelio, con tutti i suoi famigliari, facendo di loro i primi pagani che aderiscono al cristianesimo senza passare attraverso la circoncisione.
Per capire meglio cosa sia avvenuto in casa del centurione Cornelio, dobbiamo cercare di capire ciò che passava nella mente di Pietro e gli altri apostoli. Pietro era preoccupato di rimanere fedele a Gesù, ma anche alla tradizione giudaica nella quale era cresciuto. (Avranno probabilmente anche pensato, che Gesù non aveva mai inserito, tra i suoi discepoli, dei pagani, né aveva predicato loro). Pietro faceva perciò fatica ad accettare che anche i non-giudei potessero essere partecipi della buona notizia che Gesù stesso aveva portato.
Il libro degli Atti degli Apostoli, la cui redazione definitiva risale probabilmente attorno al 70-80, è attribuita all’evangelista Luca, che è anche autore del Vangelo che porta il suo nome. Il libro è composto da 28 capitoli e narra la storia della comunità cristiana dall'ascensione di Gesù fino all'arrivo di Paolo a Roma e copre un periodo che spazia pressappoco dal 30 al 63 d.C.. Oltre che su Paolo, l'opera si sofferma diffusamente anche sull'operato dell'apostolo Pietro e descrive il rapido sviluppo, l'espansione e l'organizzazione della testimonianza cristiana prima ai giudei e poi agli uomini di ogni nazione.
Nella seconda parte dell’opera viene delineata l’espandersi dell’annunzio evangelico al di fuori di Gerusalemme. A tal fine Luca presenta l’opera di Filippo in Samaria, la conversione dell’eunuco della regina d’Etiopia, e la straordinaria conversione del persecutore Saulo sulla via di Damasco. Infine egli racconta un viaggio apostolico di Pietro nella zona costiera della Palestina, a conclusione del quale mette la conversione del centurione Cornelio, con tutti i suoi famigliari, facendo di loro i primi pagani che aderiscono al cristianesimo senza passare attraverso la circoncisione.
Per capire meglio cosa sia avvenuto in casa del centurione Cornelio, dobbiamo cercare di capire ciò che passava nella mente di Pietro e gli altri apostoli. Pietro era preoccupato di rimanere fedele a Gesù, ma anche alla tradizione giudaica nella quale era cresciuto. (Avranno probabilmente anche pensato, che Gesù non aveva mai inserito, tra i suoi discepoli, dei pagani, né aveva predicato loro). Pietro faceva perciò fatica ad accettare che anche i non-giudei potessero essere partecipi della buona notizia che Gesù stesso aveva portato.

Salmo 117 - Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo

Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».

La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.

La destra del Signore si è innalzata, la destra del Signore ha fatto prodezze.
Non morirò, ma resterò in vita
e annuncerò le opere del Signore.

La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.

Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi.
Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare. Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici. Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
“La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
“Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male. Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”.
Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore. Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento tratto da “Perfetta Letizia” i

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossesi
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!
Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
Col 3,1-4

La Lettera ai Colossesi, è stata scritta da Paolo durante la sua prigionia a Roma, attorno al 62; (alcuni esperti sostengono che l’autore della lettera sia un suo discepolo e che l’abbia scritta dopo la morte dell’Apostolo (64-67), verso fine I secolo). Presumibilmente Paolo non si era mai recato a Colossi (l’attuale Turchia), che era allora una piccola città dell’entroterra dell’Asia minore (circa 124 km a nord di Efeso) e il Vangelo era stato portato lì da alcuni missionari da Efeso, fra questi Èpafra, al quale Paolo dà la sua approvazione all’inizio della lettera (1,7).
La lettera è composta da 4 capitoli contenenti meditazioni teologiche su Gesù, la Chiesa, la salvezza per grazia, ed infine alcune esortazioni di condotta morale.
Paolo dopo aver criticato le teorie che mettono a rischio la fedeltà al vangelo, ed esortato ad abbandonare le false dottrine che vengono proposte ai Colossesi, continua:
“Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”
La risurrezione dai morti qui non è più vista come un evento escatologico, collegato con il ritorno di Gesù, ma come una realtà già realizzata. Con Cristo, anche i credenti in Lui sono già risorti, godono la stessa vita nuova di cui Egli è entrato in possesso mediante la Sua risurrezione e ascensione al cielo. È questa una convinzione tipica della seconda generazione cristiana, per la quale la parusia è vista ormai come un evento molto lontano, ma che ha già avuto una realizzazione anticipata mediante l’associazione del credente a Cristo. Proprio per questo motivo i credenti devono considerarsi come già risorti con Cristo e sono invitati a cercare anche loro le cose di lassù, cioè quelle che stanno a cuore a Cristo nella Sua nuova situazione di Messia intronizzato alla destra del Padre. Su di esse essi devono concentrare il loro pensiero, non sulle cose della terra.
La situazione di morte e di vita tipica dei credenti in Cristo viene poi ulteriormente precisata con queste parole: “Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! “
Ciò non significa una fuga dal mondo o dalla storia, ma si concretizza in uno stile di vita e di rapporti sociali. Chi ha abbracciato la sorte di Cristo morto e sepolto attraverso il battesimo è entrato in uno stato di "sottrazione", di non-disponibilità per il mondo. La sua realtà profonda e autentica è come se fosse sepolta, velata.
“Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”.
Paolo ci dice che la risurrezione dei morti non avrà luogo al momento del ritorno di Gesù, ma è già avvenuta. Tuttavia viene sottolineato che solo quando Egli verrà, la loro nuova vita sarà manifestata, in quanto anch’essi parteciperanno alla Sua gloria.
In sintesi l’Apostolo Paolo ci vuole far comprendere che se la nostra vita cristiana inizia per noi con il sacrificio di Cristo, tale vita sarebbe imperfetta e del tutto inutile se non ci fosse poi il desiderio e l’impegno costante da parte nostra di guardare verso la meta finale che Gesù ha preparato per noi. Se viviamo in Cristo, al quale siamo stati uniti nel battesimo e mediante il quale abbiamo vinto il male e le forze della malvagità di questo mondo disubbidiente, allora dobbiamo indirizzare le nostre energie verso due impegni primari, ben precisi e tra loro collegati: Cercare le cose di lassù, avere in mente le cose di lassù.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro.
Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Gv 20,1-9

Il Vangelo di Pasqua, riportato dall’evangelista Giovanni, parte dalla notte buia. Inizia nel raccontare che “Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”. Quel buio fuori è in sintonia con ciò che Maria sentiva dentro. Il suo cuore era infinitamente triste, prigioniero della disperazione e dimentico della fede, forse non le era venuto neppure in mente l’idea della resurrezione di cui sicuramente Gesù le aveva parlato, non riesce a staccarsi da quel Gesù che aveva seguito e amato, sa solo che ora è morto, ma vuole almeno un luogo per piangerlo. Ma, arrivata là, vede la pietra ribaltata! Non ha bisogno neppure di entrare, percepisce già che il corpo non c’è più. Ha visto semplicemente una tomba aperta, ma la sua immaginazione corre più avanti: qualcuno ha rubato il corpo del suo Signore. Corre via, e la sua supposizione diventa il racconto ai discepoli: " Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
C’è subito molto movimento, in questo racconto:
“Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro”. Essi corrono immediatamente verso il sepolcro vuoto; dopo aver iniziato assieme a seguire il Signore durante la passione, sebbene da lontano, ora si trovano a "correre entrambi" per raggiungerlo.
L’evangelista riporta che “Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro”.
Giunse per primo alla tomba il discepolo che Gesù amava, a cui l’evangelista Giovanni non dà un nome, ma non entra e aspetta Pietro, che Gesù ha scelto come capo. “Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte”.
Pietro osservò un ordine perfetto: le bende stavano al loro posto come svuotate del corpo di Gesù e il sudario "ripiegato in un angolo a parte". Non c'era stata né manomissione né trafugamento: Gesù si era come liberato da solo. Non era stato necessario sciogliere le bende come per Lazzaro. Le bende erano lì, come svuotate!
Anche l'altro discepolo entrò e "vide" la stessa scena: ma lui “vide e credette”.
Il suo sguardo non si sofferma su un oggetto, o sul luogo, è un vedere che coglie l’insieme, è un vedere la luce, vale a dire è lo sguardo della fede, ecco perché: vide e credette. Vede qualcosa che va al di là, vede l’invisibile.
Prima, sulla soglia il suo sguardo si soffermava su degli oggetti, ma senza comprendere, ora, entrato nel sepolcro, cioè nella realtà della morte, ricordando le parole di Gesù, comprende le Scritture, quelle Scritture che Gesù tante volte aveva spiegato.
L’evangelista commenta: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”.
Questo racconto mette in luce la diversa reazione di Maria, Pietro e Giovanni.
Maria è mossa dall’amore, arriva fino al sepolcro, ma non ha il coraggio di entrare. Occorre entrare nella morte, nel dolore, nei segni di morte che ci sbarrano la via.
Pietro ha un rapporto con Gesù più razionale, più materiale; ha il coraggio di entrare nel sepolcro, nella morte, ma questo non basta.
Giovanni ama con lo stile di Gesù, entra, vede con gli occhi della fede e del cuore! La fede dunque è sì fede nella vita, nella potenza della resurrezione, nell’amore fino all’estremo, ma soprattutto è fede nella Scrittura, in quella Parola del Signore che ci permette di vedere e interpretare la vita dentro i segni di morte, che troviamo sul nostro cammino.

 

*****

Le parole di Papa Francesco

«Dopo il sabato» (Mt 28,1) le donne andarono alla tomba. È iniziato così il Vangelo di questa Veglia santa, con il sabato. È il giorno del Triduo pasquale che più trascuriamo, presi dalla fremente attesa di passare dalla croce del venerdì all’alleluia della domenica. Quest’anno, però, avvertiamo più che mai il sabato santo, il giorno del grande silenzio. Possiamo specchiarci nei sentimenti delle donne in quel giorno. Come noi, avevano negli occhi il dramma della sofferenza, di una tragedia inattesa accaduta troppo in fretta. Avevano visto la morte e avevano la morte nel cuore. Al dolore si accompagnava la paura: avrebbero fatto anche loro la stessa fine del Maestro? E poi i timori per il futuro, tutto da ricostruire. La memoria ferita, la speranza soffocata. Per loro era l’ora più buia, come per noi.
Ma in questa situazione le donne non si lasciano paralizzare. Non cedono alle forze oscure del lamento e del rimpianto, non si rinchiudono nel pessimismo, non fuggono dalla realtà. Compiono qualcosa di semplice e straordinario: nelle loro case preparano i profumi per il corpo di Gesù. Non rinunciano all’amore: nel buio del cuore accendono la misericordia. La Madonna, di sabato, nel giorno che verrà a lei dedicato, prega e spera. Nella sfida del dolore, confida nel Signore. Queste donne, senza saperlo, preparavano nel buio di quel sabato «l’alba del primo giorno della settimana», il giorno che avrebbe cambiato la storia. Gesù, come seme nella terra, stava per far germogliare nel mondo una vita nuova; e le donne, con la preghiera e l’amore, aiutavano la speranza a sbocciare. Quante persone, nei giorni tristi che viviamo, hanno fatto e fanno come quelle donne, seminando germogli di speranza! Con piccoli gesti di cura, di affetto, di preghiera.
All’alba le donne vanno al sepolcro. Lì l’angelo dice loro: «Voi non abbiate paura. Non è qui, è risorto» (vv. 5-6). Davanti a una tomba sentono parole di vita… E poi incontrano Gesù, l’autore della speranza, che conferma l’annuncio e dice: «Non temete» (v. 10). Non abbiate paura, non temete: ecco l’annuncio di speranza. È per noi, oggi. Oggi. Sono le parole che Dio ci ripete nella notte che stiamo attraversando.
Stanotte conquistiamo un diritto fondamentale, che non ci sarà tolto: il diritto alla speranza. È una speranza nuova, viva, che viene da Dio. Non è mero ottimismo, non è una pacca sulle spalle o un incoraggiamento di circostanza, con un sorriso di passaggio. No. È un dono del Cielo, che non potevamo procurarci da soli. Tutto andrà bene, diciamo con tenacia in queste settimane, aggrappandoci alla bellezza della nostra umanità e facendo salire dal cuore parole di incoraggiamento. Ma, con l’andare dei giorni e il crescere dei timori, anche la speranza più audace può evaporare. La speranza di Gesù è diversa. Immette nel cuore la certezza che Dio sa volgere tutto al bene, perché persino dalla tomba fa uscire la vita.
La tomba è il luogo dove chi entra non esce. Ma Gesù è uscito per noi, è risorto per noi, per portare vita dove c’era morte, per avviare una storia nuova dove era stata messa una pietra sopra. Lui, che ha ribaltato il masso all’ingresso della tomba, può rimuovere i macigni che sigillano il cuore. Perciò non cediamo alla rassegnazione, non mettiamo una pietra sopra la speranza. Possiamo e dobbiamo sperare, perché Dio è fedele. Non ci ha lasciati soli, ci ha visitati: è venuto in ogni nostra situazione, nel dolore, nell’angoscia, nella morte. La sua luce ha illuminato l’oscurità del sepolcro: oggi vuole raggiungere gli angoli più bui della vita. Sorella, fratello, anche se nel cuore hai seppellito la speranza, non arrenderti: Dio è più grande. Il buio e la morte non hanno l’ultima parola. Coraggio, con Dio niente è perduto!
Coraggio: è una parola che nei Vangeli esce sempre dalla bocca di Gesù. Una sola volta la pronunciano altri, per dire a un bisognoso: «Coraggio! Alzati, [Gesù] ti chiama!» (Mc 10,49). È Lui, il Risorto, che rialza noi bisognosi. Se sei debole e fragile nel cammino, se cadi, non temere, Dio ti tende la mano e ti dice: “Coraggio!”. Ma tu potresti dire, come don Abbondio: «Il coraggio, uno non se lo può dare» (I Promessi Sposi, XXV). Non te lo puoi dare, ma lo puoi ricevere, come un dono. Basta aprire il cuore nella preghiera, basta sollevare un poco quella pietra posta all’imboccatura del cuore per lasciare entrare la luce di Gesù. Basta invitarlo: “Vieni, Gesù, nelle mie paure e di’ anche a me: Coraggio!”. Con Te, Signore, saremo provati, ma non turbati. E, qualunque tristezza abiti in noi, sentiremo di dover sperare, perché con Te la croce sfocia in risurrezione, perché Tu sei con noi nel buio delle nostre notti: sei certezza nelle nostre incertezze, Parola nei nostri silenzi, e niente potrà mai rubarci l’amore che nutri per noi.
Ecco l’annuncio pasquale, annuncio di speranza. Esso contiene una seconda parte, l’invio. «Andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea» (Mt 28,10), dice Gesù. «Vi precede in Galilea» (v. 7), dice l’angelo. Il Signore ci precede, ci precede sempre. È bello sapere che cammina davanti a noi, che ha visitato la nostra vita e la nostra morte per precederci in Galilea, nel luogo, cioè, che per Lui e per i suoi discepoli richiamava la vita quotidiana, la famiglia, il lavoro. Gesù desidera che portiamo la speranza lì, nella vita di ogni giorno. Ma la Galilea per i discepoli era pure il luogo dei ricordi, soprattutto della prima chiamata. Ritornare in Galilea è ricordarsi di essere stati amati e chiamati da Dio. Ognuno di noi ha la propria Galilea. Abbiamo bisogno di riprendere il cammino, ricordandoci che nasciamo e rinasciamo da una chiamata gratuita d’amore, là, nella mia Galilea. Questo è il punto da cui ripartire sempre, soprattutto nelle crisi, nei tempi di prova. Nella memoria della mia Galilea.
Ma c’è di più. La Galilea era la regione più lontana da dove si trovavano, da Gerusalemme. E non solo geograficamente: la Galilea era il luogo più distante dalla sacralità della Città santa. Era una zona popolata da genti diverse che praticavano vari culti: era la «Galilea delle genti» (Mt 4,15). Gesù invia lì, chiede di ripartire da lì. Che cosa ci dice questo? Che l’annuncio di speranza non va confinato nei nostri recinti sacri, ma va portato a tutti. Perché tutti hanno bisogno di essere rincuorati e, se non lo facciamo noi, che abbiamo toccato con mano «il Verbo della vita» (1 Gv 1,1), chi lo farà? Che bello essere cristiani che consolano, che portano i pesi degli altri, che incoraggiano: annunciatori di vita in tempo di morte! In ogni Galilea, in ogni regione di quell’umanità a cui apparteniamo e che ci appartiene, perché tutti siamo fratelli e sorelle, portiamo il canto della vita! Mettiamo a tacere le grida di morte, basta guerre! Si fermino la produzione e il commercio delle armi, perché di pane e non di fucili abbiamo bisogno. Cessino gli aborti, che uccidono la vita innocente. Si aprano i cuori di chi ha, per riempire le mani vuote di chi è privo del necessario.
Le donne, alla fine, «abbracciarono i piedi» di Gesù (Mt 28,9), quei piedi che per venirci incontro avevano fatto un lungo cammino, fino ad entrare e uscire dalla tomba. Abbracciarono i piedi che avevano calpestato la morte e aperto la via della speranza. Noi, pellegrini in cerca di speranza, oggi ci stringiamo a Te, Gesù Risorto. Voltiamo le spalle alla morte e apriamo i cuori a Te, che sei la Vita.

Omelia di Papa Francesco Basilica di San Pietro - Altare della Cattedra
Sabato Santo, 11 aprile 2020

SequenzaPasqua

Pubblicato in Liturgia
Domenica, 02 Aprile 2023 17:26

Domenica delle Palme - Anno A - 2 aprile 2023

Le letture liturgiche di questa ultima domenica di quaresima, un tempo conosciuta come domenica di Passione, ci conducono alla Settimana Santa, che commemora gli ultimi atti della missione di Gesù in questo mondo, introducendoci sacramentalmente nei misteri della passione, morte e resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Lasciamoci coinvolgere nel mistero dell’Amore infinito che ci ha redenti.
Nella commemorazione dell’ingresso del Signore in Gerusalemme, il brano tratto dal Vangelo di Matteo presenta l'ultimo atto della vita di Gesù. Il suo ingresso trionfale a Gerusalemme mette la città in agitazione: è il fermento della storia che giunge alla pienezza, di ogni tensione che tocca la massima intensità.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia attraverso il canto del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo la vita e la passione di Gesù. Il suo atteggiamento di fiducia in Dio e di amore per i fratelli lo lascia in una suprema libertà di fronte ad ogni prova. Egli ha la certezza che la sua missione non è vana.
Nella seconda lettura S. Paolo, con l’Inno Cristologico, rivela il mistero dell’abbassamento di Cristo e l’intervento di Dio in Suo favore: il Padre lo esalta, ponendolo al di sopra di tutte le cose e di tutti gli esseri viventi.
Il racconto della passione, tratta dal Vangelo di Matteo, va meditata nel silenzio. Si può percepire così il crescendo di solitudine di Gesù a partire dall’ultima cena: solo nell’orto degli ulivi, solo davanti al Sinedrio, solo di fronte a Pilato, solo sul Golgota. E quanto ai suoi discepoli: uno lo tradisce, un altro lo rinnega, i restanti prendono la fuga al momento dell’arresto. Tutto si presenta come una disfatta totale, un assurdo, una follia, ma è la follia di un Dio che per salvarci, ha scelto la morte di croce.

Ingresso del Signore in Gerusalemme

Dal vangelo secondo Matteo
Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me. E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà indietro subito”. Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re
mite, seduto su un’asina, e su un puledro figlio di una bestia da soma.
I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. 8La folla numerosissima stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla strada. La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava: Osanna al figlio di Davide!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!
Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: “Chi è costui?”. E la folla rispondeva: “Questi è il profeta Gesù, da Nazaret di Galilea”.
Mt21,1-11

Dal libro del profeta Isaia
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
Is 50,4-7

In questo carme del Servo sofferente, il profeta (Deuteroisaia) descrive la persecuzione di cui il Servo di JHWH è oggetto; poi passa a descrivere la sua reazione personale:
…Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il Suo progetto nonostante tutte le contestazioni. Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale, ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Fa impressione vedere come la profezia del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo di 550 anni, la vita e la passione di Gesù.

Salmo 21 - Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno forato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe.

Il salmo presenta un giusto sofferente e perseguitato, pieno di speranza in Dio.
L’autore del salmo guarda alla sua esperienza di dolore, ma anche intende proporre un modello di sofferente che sostenga i fedeli nel momento della prova più terribile, cioè quando sono rifiutati, colpiti, dalla loro stessa gente. Il risultato presenta una tale aderenza nella descrizione di molte delle sofferenze di Cristo da dire che l’ispirazione ha modellato il giusto del salmo sul Cristo crocifisso.
Le prime parole del salmo sono un’invocazione sgomenta dinanzi a Dio; sgomenta, ma senza alcun rimprovero E’ un gemito rivelatore del suo grande tormento interiore: essere di fronte all’abbandono di Dio, al silenzio di Dio, che sembra assente, mentre egli è il Dio presente come attesta il tempio.
Il punto che lo sconvolge, è che il suo popolo, quello che vive all’ombra del tempio e che dovrebbe essere laudante attorno al trono di Dio “Tu siedi in trono fra le lodi di Israele” rifiuta la giustizia, e così anche la propria storia di popolo chiamato a proclamare i benefici di Dio. “In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li hai liberati” dice, alludendo alla liberazione dall’Egitto.
Ma, ecco, egli è diventato “rifiuto degli uomini”, schiacciato a terra come un verme, privato della dignità di uomo. Di fronte a sé ha solo schernitori che si sfoggiano un sentirsi a posto con Dio, visto che Dio è dalla loro parte poiché non porta aiuto a colui che ora è nelle loro mani e che si diceva suo amico: “Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!”.
Ma il giusto perseguitato e colpito continua a confidare in Dio; non raccoglie la velenosa provocazione che lo vorrebbe rendere dubbioso davanti a Dio. Dio lo ha tratto dal grembo di sua madre; cioè il Padre ha dato al Figlio una natura umana, e, una sola persona (Figlio) in due nature, lo ha tratto dal grembo di una donna, e al suo nascere lo ha preso subito sulle sue ginocchia (Cf. Gn 50,23; Is 46,3) in riconoscimento della sua paternità.
L’aggressione che egli subisce è violenta, implacabile: “Mi circondano tori numerosi, mi assediano grossi tori di Basan…" (Basan è una regione ricca di pascoli a sud di Damasco). “Io sono come acqua versata”, buttato via, gettato via, come acqua. Colpito, strattonato, è pieno di dolore: “sono slogate tutte le mie ossa”. Il suo cuore cede per il dolore e lo sforzo d’amare; ed egli avverte che viene meno come colpito da infarto: “Il mio cure è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere”.
E’ disidratato e la sete lo attanaglia; la sua gola è riarsa e non può muovere che a stento la lingua: “La mia lingua si è incollata alla gola”. Egli si trova “su polvere di morte” senza scampo.
Gli avversari si sono ancora di più incattiviti vedendo la sua perseveranza, sono diventati un “branco di cani” che addentano. Premuto, assediato da ogni parte, gli vengono trafitti i piedi e le mani così da impedire che si muovesse o si difendesse dai colpi: l’autore del salmo non pensava alla crocifissione, pena di morte introdotta più tardi dai romani. “Posso contare tutte le mie ossa”, l’espressione rende l’idea complessiva del dolore che gli viene da ogni parte del corpo, ma la traduzione della Volgata di san Gerolamo - “hanno contato tutte le mie ossa” - è sicuramente proveniente da un manoscritto migliore in questo punto perché fa vedere anche la crudeltà degli aggressori, che hanno badato a che nessuna parte del corpo del giusto giustiziato fosse senza ferita e dolore.
Gli aggressori si compiacciono ferocemente dei dolori del giusto giustiziato : “essi stanno a guardare e mi osservano”. E sono tanto noncuranti di lui che giocano a dadi le sue vesti, secondo il diritto che si aveva sui condannati: “sulla mia tunica gettano la sorte”.
Di fronte a questo stato di strazio il giusto giustiziato non cessa di pregare e domanda aiuto a Dio per sfuggire non già alla morte, ma alla morte cui segue la consunzione della tomba, e questo mediante la risurrezione.
“Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”, dice. Risorto darà luce ai suoi fratelli, loderà il Padre nell’assemblea dei credenti (Cf. 1Cor 15,6).
Egli dirà: “Lodate il Signore, voi suoi fedeli, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza di Israele…”. E nella Chiesa, nella grande assemblea, loderà il Padre. Nella Grande Assemblea dove egli sarà presente con la sua Parola, con la sua reale presenza Eucaristica e col dono dello Spirito Santo.
Nel banchetto della carità “i poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano”.
La visione diventa universale, perché la salvezza del Cristo è universale: “Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli”. I popoli all’annunzio del Vangelo ricorderanno ciò che avevano dimenticato, che l’uomo è capace di Dio, che Dio è uno solo e che è bontà. Che il regno del mondo (Ap 11,15) è di Dio, e sue sono tutte le nazioni. E non solo ricorderanno e torneranno, che equivale a convertirsi, ma insieme a ciò crederanno alla lieta notizia evangelica, quella del regno dei cieli presente nella Chiesa per lievitare tutta la terra conquistata dal Cristo.
A Dio solo, liberi in eterno da ogni influsso di idolatria, si prostreranno, nel giorno della risurrezione, quanti ora dormono sotto terra.
Il grande Giusto giustiziato esprime la sua certezza che egli vivrà, risorgerà da morte e celebrerà in eterno il Padre: “Ma io vivrò per lui”.
E la sua discendenza, la Chiesa, servirà in lui, nel dono dello Spirito Santo, il Padre, portando la salvezza da lui ottenuta per tutte le genti. “Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia”, e la sua giustizia del Padre è Cristo, che ha espiato le colpe degli uomini. “Ecco l’opera del Signore”, diranno alle generazioni che si susseguono. E “l’opera del Signore” è Cristo, Cristo vivente nella Chiesa.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S Paolo apostolo ai Filippesi
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,6-11

In questo carme del Servo sofferente, il profeta (Deuteroisaia) descrive la persecuzione di cui il Servo di JHWH è oggetto; poi passa a descrivere la sua reazione personale:
…Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il Suo progetto nonostante tutte le contestazioni. Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale, ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Fa impressione vedere come la profezia del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo di 550 anni, la vita e la passione di Gesù.

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Dal Vangelo secondo Matteo
PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

Il Tradimento di Giuda
In quel tempo, uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai capi dei sacerdoti e disse: «Quanto volete darmi perché io ve lo consegni?». E quelli gli fissarono trenta monete d’argento. Da quel momento cercava l’occasione propizia per consegnare Gesù.
Preparativi del Pasto pasquale
Il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Dove vuoi che prepariamo per te, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Ed egli rispose: «Andate in città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”». I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua.

Annuncio del tradimento di Giuda
Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. Mentre mangiavano, disse:
«In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!.
Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto».
20Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici. 21Mentre mangiavano, disse: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà». 22Ed essi, profondamente rattristati, cominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?». 23Ed egli rispose: «Colui che ha messo con me la mano nel piatto, è quello che mi tradirà. 24Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».
25Giuda, il traditore, disse: «Rabbì, sono forse io?». Gli rispose: «Tu l’hai detto».

Istituzione dell’Eucarestia
Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: «Prendete, mangiate: questo è il mio corpo».
Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati. Io vi dico che d’ora in poi non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio»

Predizione del rinnegamento di Pietro
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Allora Gesù disse loro:
«Questa notte per tutti voi sarò motivo di scandalo. Sta scritto infatti:Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge.Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea».
Pietro gli disse: «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai». Gli disse Gesù: «In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte».
Pietro gli rispose: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dissero tutti i discepoli.

Al Getsèmani
Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare».
E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me».
Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!».
Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole».
Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà».
Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».

L’arresto di Gesù
Mentre ancora egli parlava, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici e con lui una grande folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro un segno, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!». Subito si avvicinò a Gesù e disse: «Salve, Rabbì!». E lo baciò.
E Gesù gli disse: «Amico, per questo sei qui!». Allora si fecero avanti, misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. Ed ecco, uno di quelli che erano con Gesù impugnò la spada, la estrasse e colpì il servo del sommo sacerdote, staccandogli un orecchio. Allora Gesù gli disse: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno. O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?».
In quello stesso momento Gesù disse alla folla: «Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno sedevo nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto perché si compissero le Scritture dei profeti». Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono.

Gesù davanti al Sinedrio
Quelli che avevano arrestato Gesù lo condussero dal sommo sacerdote Caifa presso il quale si erano riuniti gli scribi e gli anziani. Pietro intanto lo aveva seguito, da lontano, fino al palazzo del sommo sacerdote; entrò e stava seduto fra i servi, per vedere come sarebbe andata a finire.
I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte; ma non la trovarono, sebbene si fossero presentati molti falsi testimoni. Finalmente se ne presentarono due, che affermarono: «Costui ha dichiarato: “Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni”».
Il sommo sacerdote si alzò e gli disse: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma Gesù taceva. Allora il sommo sacerdote gli disse: «Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio». «Tu l’hai detto – gli rispose Gesù –; anzi io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo».
Allora il sommo sacerdote si stracciò le vesti dicendo: «Ha bestemmiato! Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Ecco, ora avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». E quelli risposero: «È reo di morte!». Allora gli sputarono in faccia e lo percossero; altri lo schiaffeggiarono,dicendo: «Fa’ il profeta per noi, Cristo! Chi è che ti ha colpito?».

Rinnegamenti di Pietro
Pietro intanto se ne stava seduto fuori, nel cortile. Una giovane serva gli si avvicinò e disse: «Anche tu eri con Gesù, il Galileo!». Ma egli negò davanti a tutti dicendo: «Non capisco che cosa dici». Mentre usciva verso l’atrio, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: «Costui era con Gesù, il Nazareno». Ma egli negò di nuovo giurando «Non conosco quell’uomo!». Dopo un poco, i presenti si avvicinarono e dissero a Pietro: «È vero, anche tu sei uno di loro: infatti il tuo accento ti tradisce!». Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo!». E subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola di Gesù, che aveva detto: «Prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, uscito fuori, pianse amaramente.

Gesù condotto davanti a Pilato
Venuto il mattino, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù per farlo morire. Poi lo misero in catene, lo condussero via e lo consegnarono al governatore Pilato.

Morte di Giuda
Allora Giuda – colui che lo tradì –, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «A noi che importa? Pensaci tu!». Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi.
I capi dei sacerdoti, raccolte le monete, dissero: «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono prezzo di sangue». Tenuto consiglio, comprarono con esse il «Campo del vasaio» per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu chiamato «Campo di sangue» fino al giorno d’oggi. Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: E presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutato dai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore.

Morte di Giuda
Allora Giuda – colui che lo tradì –, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «A noi che importa? Pensaci tu!». Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi.
I capi dei sacerdoti, raccolte le monete, dissero: «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono prezzo di sangue». Tenuto consiglio, comprarono con esse il «Campo del vasaio» per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu chiamato «Campo di sangue» fino al giorno d’oggi. Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: E presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutato dai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore.

Gesù davanti a Pilato
Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore lo interrogò dicendo: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Tu lo dici». E mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani lo accusavano, non rispose nulla. Allora Pilato gli disse: «Non senti quante testimonianze portano contro di te?». Ma non gli rispose neanche una parola, tanto che il governatore rimase assai stupito.
A ogni festa, il governatore era solito rimettere in libertà per la folla un carcerato, a loro scelta. In quel momento avevano un carcerato famoso, di nome Barabba. Perciò, alla gente che si era radunata, Pilato disse: «Chi volete che io rimetta in libertà per voi: Barabba o Gesù, chiamato Cristo?». Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia.
Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: «Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua».
Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a chiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò loro: «Di questi due, chi volete che io rimetta in libertà per voi?». Quelli risposero: «Barabba!». Chiese loro Pilato: «Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?». Tutti risposero: «Sia crocifisso!». Ed egli disse: «Ma che male ha fatto?». Essi allora gridavano più forte: «Sia crocifisso!».

La corona di spine
Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la truppa. Lo spogliarono, gli fecero indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, e gli misero una canna nella mano. Poi inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano: “Salve, re dei Giudei!”. Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. Dopo averlo deriso, lo spogliarono del mantello e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per crocifiggerlo.

La crocifissione
Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a portare la sua croce.
Giunti al luogo detto Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», gli diedero da bere vino mescolato con fiele. Egli lo assaggiò, ma non ne volle bere. Dopo averlo crocifisso, si divisero le sue vesti, tirandole a sorte. Poi, seduti, gli facevano la guardia. Al di sopra del suo capo posero il motivo scritto della sua condanna: «Costui è Gesù, il re dei Giudei».
Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra

Gesù in croce deriso e oltraggiato
Quelli che passavano di lì lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Tu, che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!». Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli anziani, facendosi beffe di lui dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d’Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: “Sono Figlio di Dio”!». Anche i ladroni crocifissi con lui lo insultavano allo stesso modo.

La morte di Gesù
A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. Gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!». Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito
Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra queste c’erano Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo.

La sepoltura
Venuta la sera, giunse un uomo ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di Gesù. Questi si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato allora ordinò che gli fosse consegnato. Giuseppe prese il corpo, lo avvolse in un lenzuolo pulito e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia; rotolata poi una grande pietra all’entrata del sepolcro, se ne andò. Lì, sedute di fronte alla tomba, c’erano Maria di Màgdala e l’altra Maria.
Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i capi dei sacerdoti e i farisei, dicendo: «Signore, ci siamo ricordati che quell’impostore, mentre era vivo, disse: “Dopo tre giorni risorgerò”. Ordina dunque che la tomba venga vigilata fino al terzo giorno, perché non arrivino i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: “È risorto dai morti”. Così quest’ultima impostura sarebbe peggiore della prima!». Pilato disse loro: «Avete le guardie: andate e assicurate la sorveglianza come meglio credete».Essi andarono e, per rendere sicura la tomba, sigillarono la pietra e vi lasciarono le guardie.
Mt 26,14 – 27,66

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I due capitoli del Vangelo di Matteo che riportano la passione del Signore, si articolano su sei scene che si susseguono con immediatezza e drammaticità ma che hanno tutte racchiuso in sé un messaggio e un seme di salvezza.
La cena pasquale celebra il mistero della continua presenza di Gesù in mezzo al suo popolo.
Nel Getsemani Gesù è il modello del perfetto orante che sperimenta l’”agonia” del silenzio dell’amicizia umana e della stessa vita.
Nell’arresto Gesù ribadisce il suo appassionato amore per il perdono e per la non-violenza.
Il processo giudaico è dominato dall’ultima rivelazione messianica e divina di Gesù davanti al suo popolo: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo».
Il processo romano sancisce la scelta della folla di Gerusalemme e svela l’indifferenza ed anche la viltà di Pilato, ma anche la simpatia dei pagani (rappresentati dalla moglie di Pilato).
Per la crocifissione è presente tutto il cosmo con le sue forze (tenebre e terremoto), l’umanità che bestemmia, ma è presente anche la Chiesa dei nuovi credenti (il centurione che esclama: «Davvero costui era Figlio di Dio!».).
Infine i morti che sorgono dai sepolcri rappresentano la nuova umanità liberata da Cristo.

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Le parole di Papa Francesco


Siamo nei giorni che precedono la Pasqua. Ci stiamo preparando a celebrare la vittoria del Signore Gesù Cristo sul peccato e sulla morte. Sul peccato e sulla morte, non su qualcuno e contro qualcun altro.
Ma oggi c’è la guerra. Perché si vuole vincere così, alla maniera del mondo? Così si perde soltanto. Perché non lasciare che vinca Lui? Cristo ha portato la croce per liberarci dal dominio del male. È morto perché regnino la vita, l’amore, la pace.
Si depongano le armi! Si inizi una tregua pasquale; ma non per ricaricare le armi e riprendere a combattere, no!, una tregua per arrivare alla pace, attraverso un vero negoziato, disposti anche a qualche sacrificio per il bene della gente. Infatti, che vittoria sarà quella che pianterà una bandiera su un cumulo di macerie?
Nulla è impossibile a Dio. A Lui ci affidiamo, per intercessione della Vergine Maria.
Parte dell’’Angelus di Papa Francesco della Domenica delle Palme 2022

Pubblicato in Liturgia

Le letture di questa quinta domenica di quaresima, la domenica di Lazzaro, sono intrecciate a filo doppio sul tema della vita e della morte. In questo periodo così oscuro che stiamo vivendo, possiamo renderci conto ancora di più come la morte può apparire ad ognuno di noi con due volti, quello dell’angelo o quello del mostro, può essere pace o incubo, passaggio sereno o polvere, inizio o fine: tutto dipende da come noi ci poniamo di fronte a questo grande mistero.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Ezechiele, vediamo come agli ebrei esiliati il profeta Ezechiele infonde speranza. Viene descritta una visione surreale e paurosa: in una valle infernale, c’è una distesa di scheletri. Ma su di loro irrompe lo spirito creatore di Dio e sulle ossa inaridite si intesse la carne, cioè la vita. Alla fine un popolo immenso si erge in piedi, pronto per una nuova esistenza. Ciò che viene descritto è però una parabola destinata ad illustrare il ritorno-resurrezione di Israele dalla “tomba” dell’esilio di Babilonia. E’ quindi una risurrezione morale, una rinascita del coraggio e della speranza.
Nella seconda lettura, dalla sua lettera ai Romani, Paolo, in sintonia con la profezia di Ezechiele, ci presenta un’altra morte e un’altra vita quella del peccato e della grazia. E’ lo Spirito Santo che ci libera dal peccato e che opera nei credenti la salvezza.
Il Vangelo di Giovanni ci presenta la risurrezione di Lazzaro che risplende come una promessa: la morte non è la fine perchè è stata vinta dalla Pasqua di Cristo. C’è una frase che domina tutto il racconto: Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». E’ l’affermazione che Gesù fa a Marta, ma la pone ora ad ognuno di noi. Se crediamo in Lui dovremmo vedere la morte in modo diverso, non più un approdo nel mare del nulla e del silenzio, ma ad una porta aperta all’infinito e all’eterno. Illuminante il salmista quando dice: “Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” sal 16,10-11.

Dal Libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele.
Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio.
Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.
Ez 37,12-14

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo. Usò immagini di grande potenza evocativa, specie negli oracoli di condanna, ebbe toni ed espressioni particolarmente duri ed efficaci.
Il libro di Ezechiele contiene due raccolte di oracoli, quelli composti prima della caduta di Gerusalemme (cc. 1-24) e quelli posteriori ad essa (cc. 33-39). Tra queste due raccolte si situano gli oracoli contro le nazioni (cc. 25-32). Al termine c’è una sezione chiamata “Torah di Ezechiele” (cc. 40-48), dove sono descritte le istituzioni future. Gli oracoli posteriori alla caduta di Gerusalemme hanno come tema la conversione e il ritorno degli esuli nella loro terra. I temi svolti in questa raccolta sono: il ruolo del profeta (Ez 33), Dio unico pastore di Israele (Ez 34), la rinascita del popolo (Ez 35-37), la vittoria finale sui suoi nemici (Ez 38-39).
Nella sezione in cui si parla della rinascita di Israele, questa viene presentata come effetto di un dono dello Spirito (Ez 36,24-32), al quale viene poi attribuita la risurrezione di un popolo ridotto a una distesa di ossa inaridite (Ez 37,1-10).
Il questo brano c’è la conclusione del capitolo 37, in cui Ezechiele descrive una visione surreale e paurosa: in una valle infernale una distesa di scheletri calcificati. Ma su loro irrompe lo spirito creatore di Dio, e sulle ossa inaridite si intesse a mano a mano la carne, la pelle, cioè la vita. Alla fine un popolo sterminato si erge in piedi, pronto per una nuova esistenza. Il Signore può tutto, può scoperchiare i sepolcri e far rivivere!.
Isaia conferma questo quando scrive: «di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri. Si sveglieranno ed esulteranno quelli che giacciono nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre». (26,19) Sappiano però che la risurrezione dipinta da queste pagine profetiche è solo una parabola per illustrare il ritorno-resurezione di Israele dalla tomba dell’esilio di Babilonia perciò è una resurrezione morale, una rinascita del coraggio e della speranza.
Non si tratta dunque di una risurrezione vera e propria, ma del ritorno a una vita piena dopo l’esperienza di una sofferenza che può essere considerata come una morte, perché senza libertà la vita non è degna di essere vissuta. La liberazione promessa è un dono gratuito di Dio, che ha certo una componente politica, ma si identifica anche con la ripresa di un rapporto con Dio che comporta una fedeltà costante a Lui. È proprio nel riconoscere in Dio, il garante della sua liberazione, che il popolo eviterà di cadere schiavo di potenze straniere, ed anche quando sarà politicamente sottomesso ad esse, il suo spirito rimarrà libero..
Pur non riferendosi alla risurrezione individuale dopo la morte, l’immagine suggestiva usata da Ezechiele ha posto le premesse per il successivo sviluppo della fede di Israele. Quando la restaurazione del popolo apparirà come un evento che si attuerà alla fine dei tempi, sorgerà il problema della sorte di coloro che sono morti prima che questo evento si realizzasse, e soprattutto dei martiri che hanno dato la vita perché si attuasse la gloria finale del popolo. È allora che l’immagine della risurrezione sarà utilizzata per indicare la partecipazione di tutti i defunti alla beatitudine finale di Israele, quando alla fine tutti i giusti torneranno in vita per entrare nella beatitudine del regno di Dio.


Salmo 129 - Il Signore è bontà e misericordia.
Dal profondo a te grido, o Signore;
Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.
Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?
Ma con te è il perdono:
così avremo il tuo timore.
Io spero, Signore.
Spera l’anima mia,
attendo la sua parola.
L’anima mia è rivolta al Signore
più che le sentinelle all’aurora.
Più che le sentinelle l’aurora,
Israele attenda il Signore,
perché con il Signore è la misericordia
e grande è con lui la redenzione.
Egli redimerà Israele
da tutte le sue colpe.


La composizione di questo salmo penitenziale, detto De profundis e usatissimo come il Miserere , con probabilità è avvenuta durante la devastante campagna di Sennacherib (701 a.C) nella Palestina e l'assedio di Gerusalemme (2Re 18,13; 19,35; 2Cr 32,1.10 Cf. Is 30,8s; Is 36,1; 37,33-36).
L'angoscia, la tribolazione, conducono l'orante a invocare il Signore con insistenza, dal profondo del cuore. Egli, povero peccatore, di ascoltare la sua preghiera. Egli invoca la misericordia di Dio, che va oltre il peccato dell'uomo per salvarlo. Senza la misericordia di Dio l'uomo sarebbe perduto davanti alla giustizia di Dio: “Signore, chi ti può resistere? Ma con te è il perdono”.
Il perdono dei peccati manifesta l'amore di Dio e riconciliando l'uomo a sé lo porta ad avere amore per lui, e quindi a temerlo, cioè a non misconoscerne più la sovranità e la giustizia.
La speranza dell'orante nel perdono di Dio e quindi sul suo soccorso è grande, ed è fondata sulla sua alleanza: “Spera l'anima mia, attendo la sua parola”.
L'attesa del salmista è ben più forte di quella delle sentinelle notturne sulle mura della città, che aspettano l'aurora per andare al riposo.
Il salmista invita tutto Israele, peccatore di molte contaminazione con gli idoli, ad attendere il soccorso del Signore fondandosi sulla verità “perché con il Signore è la misericordia e grande è con lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe”.
Il perdono dei peccati avverrà per l'espiazione di Cristo e non sarà solo per Israele, ma per tutti gli uomini.
La Chiesa - indefettibile - è sempre bisognosa di purificazione, di perdono, perché se come Ente essa è perfetta e santa, come insieme di uomini è santa e peccatrice.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”!

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.
Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Rm 8,8-11

Paolo nella lettera ai Romani, il suo capolavoro teologico, affronta alcuni argomenti molto importanti, come il legame tra la legge, la fede e la giustificazione e il cammino dell'uomo giustificato, la salvezza di Israele che non ha creduto al Cristo, il significato del culto a Dio. ,
Nel capitolo 8 si dedica in particolare alla vita nello Spirito, e sottolinea la nuova condizione dei cristiani dovuta alla presenza in loro dello Spirito Santo: Coloro che credono in Cristo non vengono più giudicati dalla legge di Mosè, ma seguono lo Spirito.
Il brano inizia sottolineando che ”quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio” . Si ripete qui l'antitesi tra coloro che si comportano secondo la carne e quanti invece seguono il dinamismo dello Spirito. Le conseguenze di questi due comportamenti sono totalmente opposte: la carne porta alla morte e lo Spirito alla vita; ecco perché quanti seguono la carne non possono piacere a Dio.
“Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.”
Gli interlocutori di Paolo non sono sotto il dominio della carne. Chi è divenuto dimora dello Spirito, appartiene allo Spirito di Dio.
“Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia.” Con il battesimo i credenti sono diventati dimora dello Spirito e di Cristo. Il loro corpo è morto al peccato. Lo Spirito che abita in loro diventa fonte di vita e di giustificazione. Non la giustificazione che veniva dalla Legge, ma quella che viene dall'appartenenza a Dio.
“E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.” Quindi i credenti sperimentano due tipi di vita nuova. Una già ora che è libertà dal peccato e una che si realizzerà con la risurrezione alla fine dei tempi.
E' lo stesso Spirito che ha riportato in vita Gesù che rialzerà a vita nuova tutti coloro che lo seguono; ossia lo Spirito di Dio ci renderà partecipi della stessa risurrezione corporale di Gesù Cristo, proprio per questa appartenenza a Lui.
In questo brano c’è una perfetta sintonia con la profezia di Ezechiele nel punto in cui dice: “Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete” . L’azione dello Spirito è tensione verso il dono totale della vita che sarà perfetta solo quando il cristiano parteciperà definitivamente alla vita del Risorto.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».
All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».
Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà»
Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.
Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare».
Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.
Gv 11,1-45

L’evangelista Giovanni alla fine del capitolo precedente questo brano, aveva raccontato che la tensione tra Gesù e i giudei era arrivata al culmine, tanto che Gesù era stato costretto a rifugiarsi al di là del Giordano. La risurrezione di Lazzaro, rappresenta l’ultimo segno compiuto da Gesù e al tempo stesso la causa immediata della sua morte, che venne decisa subito dopo in una riunione segreta del sinedrio.
Giovanni inizia con il raccontarci che mentre Gesù si trovava al di là del Giordano si ammalò un certo Lazzaro, fratello di Marta e di Maria, e precisa che i tre fratelli risiedevano a Betania, un villaggio situato sul versante orientale del monte degli Ulivi, poco distante da Gerusalemme.
Quando Lazzaro si aggravò, le sorelle fanno avvertire Gesù, che all’udire questa notizia osserva, in modo analogo a quanto aveva fatto riguardo al cieco nato, “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato”. Essa sarà quindi l’occasione di un segno col quale Gesù manifesterà se stesso come inviato di Dio.
Malgrado l’affetto che lo lega ai tre fratelli, Gesù stranamente aspetta ancora due giorni, e poi decide di mettersi in cammino verso la Giudea. Questa decisione suscita lo stupore dei discepoli, i quali gli ricordano che i giudei avevano appena tentato di lapidarlo, ma Gesù fa loro notare: “Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui”. Con questa massima Egli afferma che nulla di male gli potrà capitare finché non sia giunto il suo momento. Poi Gesù soggiunge : “Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo”. Siccome i discepoli pensano al sonno fisico, egli spiega loro che Lazzaro è morto e soggiunge che ciò è avvenuto perché essi possano credere. A questo punto Tommaso dice agli altri discepoli: “Andiamo anche noi a morire con lui!” per indicare il rischio a cui vanno incontro ritornando in Giudea, ma al tempo stesso si dice pronto a seguire Gesù fino alla fine.
Giovanni prosegue il suo racconto descrivendo l’incontro di Gesù con le due sorelle. Egli arriva a Betania quando Lazzaro è ormai da quattro giorni nel sepolcro. Marta, che si trova in casa con molti giudei venuti da Gerusalemme per le cerimonie funebri, è la prima a sapere della venuta di Gesù, gli va incontro e gli dice: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà”. Queste parole contengono un velato rimprovero a Gesù perché, a causa della Sua assenza, non ha potuto impedire la morte del fratello e al tempo stesso rivelano la fiducia che Gesù possa fare ancora qualcosa per lui.
Gesù le risponde: “Tuo fratello risorgerà”. Fraintendendo le sue parole, Marta risponde affermando di sapere bene che egli risusciterà nell’ultimo giorno.
Con queste parole ella si unisce alla fede del mondo giudaico, in cui era corrente l’attesa della risurrezione dei giusti alla fine dei tempi. Gesù allora prosegue: “Io sono la risurrezione e la vita….- e aggiunge - chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno.”
E chiede infine a Marta se crede in quanto lui ha detto. Marta risponde: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. Per Marta dunque Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, nel quale si attuano le attese del popolo giudaico. Con questa breve frase lei esprime la professione di fede richiesta dai destinatari del quarto vangelo, che è stato scritto precisamente “perché voi crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e credendo abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,31).
Dopo Marta anche Maria, seguita dai presenti, va incontro a Gesù, che si trova ancora fuori del villaggio, e gli ripete lo stesso velato rimprovero fattogli precedentemente dalla sorella. Vedendo che Maria e i giudei piangevano, Gesù si commuove e chiede poi dove l’hanno deposto. Quando gli rispondono “vieni a vedere “ Gesù allora scoppia in pianto. Con la commozione e il turbamento, seguiti dal pianto, Gesù non esprime soltanto il dolore per la morte dell’amico, ma anche il rifiuto della morte stessa, vista come simbolo della separazione da Dio. I giudei commentano: “Guarda come lo amava”,chiedendosi anche come mai proprio lui, che ha dato la vista al cieco, non abbia saputo impedire che il suo amico morisse, pensando così che il Suo atteggiamento, fosse un segno di debolezza di fronte alla morte.
Gesù, ancora profondamente commosso si fa condurre al sepolcro di Lazzaro e ordina di togliere la pietra che lo chiude. Marta gli fa osservare che il cadavere manda già cattivo odore, dimostrando così di non aver ancora capito, malgrado il colloquio avuto precedentemente con Lui, quali fossero le Sue intenzioni. Gesù allora la invita a rinnovare la sua fede, al fine di poter “vedere la gloria di Dio”, cioè l’imminente manifestazione della Sua potenza. Poi ringrazia il Padre di averlo esaudito, sottolineando come, pur non avendone bisogno, gli ha rivolto la Sua preghiera perché i presenti credano che Egli, il Padre, lo ha mandato. Con queste parole Egli sottolinea come la Sua potenza derivi dal Suo rapporto con il Padre.
Infine Gesù gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!” e questi, ancora bendato, esce dal sepolcro; allora Gesù ordina ai presenti “Liberàtelo e lasciàtelo andare”.
La risurrezione di Lazzaro, rappresenta per l’evangelista Giovanni il culmine di tutta la vita pubblica di Gesù, e mette in luce il significato profondo che assume la fede in Gesù come inizio di una nuova vita.
Certamente la morte è la nostra carta dì identità più vera (se nasciamo è certo che moriremo) ma la temuta morte è stata attraversata dal Figlio di Dio che, come noi, è morto, ma poi è risorto . Perciò la morte ora è diversa, è stata da Gesù trasformata, non è più un approdo nel mare del nulla e del silenzio. E’ stata aperta all’infinito e all’eterno!. Come ci dice il salmo “Tu non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita,gioia piena nella tua presenza,dolcezza senza fine alla tua destra. (salmo 16-10-11)

 

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Le parole di Papa Francesco

Con queste parole ella si unisce alla fede del mondo giudaico, in cui era corrente l’attesa della risurrezione dei giusti alla fine dei tempi. Gesù allora prosegue: “Io sono la risurrezione e la vita….- e aggiunge - chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno.”
E chiede infine a Marta se crede in quanto lui ha detto. Marta risponde: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. Per Marta dunque Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, nel quale si attuano le attese del popolo giudaico. Con questa breve frase lei esprime la professione di fede richiesta dai destinatari del quarto vangelo, che è stato scritto precisamente “perché voi crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e credendo abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,31).
Dopo Marta anche Maria, seguita dai presenti, va incontro a Gesù, che si trova ancora fuori del villaggio, e gli ripete lo stesso velato rimprovero fattogli precedentemente dalla sorella. Vedendo che Maria e i giudei piangevano, Gesù si commuove e chiede poi dove l’hanno deposto. Quando gli rispondono “vieni a vedere “ Gesù allora scoppia in pianto. Con la commozione e il turbamento, seguiti dal pianto, Gesù non esprime soltanto il dolore per la morte dell’amico, ma anche il rifiuto della morte stessa, vista come simbolo della separazione da Dio. I giudei commentano: “Guarda come lo amava”,chiedendosi anche come mai proprio lui, che ha dato la vista al cieco, non abbia saputo impedire che il suo amico morisse, pensando così che il Suo atteggiamento, fosse un segno di debolezza di fronte alla morte.
Gesù, ancora profondamente commosso si fa condurre al sepolcro di Lazzaro e ordina di togliere la pietra che lo chiude. Marta gli fa osservare che il cadavere manda già cattivo odore, dimostrando così di non aver ancora capito, malgrado il colloquio avuto precedentemente con Lui, quali fossero le Sue intenzioni. Gesù allora la invita a rinnovare la sua fede, al fine di poter “vedere la gloria di Dio”, cioè l’imminente manifestazione della Sua potenza. Poi ringrazia il Padre di averlo esaudito, sottolineando come, pur non avendone bisogno, gli ha rivolto la Sua preghiera perché i presenti credano che Egli, il Padre, lo ha mandato. Con queste parole Egli sottolinea come la Sua potenza derivi dal Suo rapporto con il Padre.
Infine Gesù gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!” e questi, ancora bendato, esce dal sepolcro; allora Gesù ordina ai presenti “Liberàtelo e lasciàtelo andare”.
La risurrezione di Lazzaro, rappresenta per l’evangelista Giovanni il culmine di tutta la vita pubblica di Gesù, e mette in luce il significato profondo che assume la fede in Gesù come inizio di una nuova vita.
Certamente la morte è la nostra carta dì identità più vera (se nasciamo è certo che moriremo) ma la temuta morte è stata attraversata dal Figlio di Dio che, come noi, è morto, ma poi è risorto . Perciò la morte ora è diversa, è stata da Gesù trasformata, non è più un approdo nel mare del nulla e del silenzio. E’ stata aperta all’infinito e all’eterno!. Come ci dice il salmo “Tu non abbandonerai la mia vita nel sepolcro,né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita,gioia piena nella tua presenza,dolcezza senza fine alla tua destra. (salmo 16-10-11)

Parte dell’Omelia del 29 marzo 2020

Pubblicato in Liturgia
Mercoledì, 28 Dicembre 2022 12:57

1 gennaio 2023 - Maria Santissima Madre di Dio

Con questa celebrazione iniziamo il nuovo anno accanto a Maria, Madre di Dio e Madre nostra con la viva speranza che in fondo a questo tunnel oscuro che con il vecchio anno stiamo lasciando, si apra un po’ di luce Questa ricorrenza liturgica, strettamente collegata con il titolo mariano di Theotókos, dogma mariano solennemente proclamato dal concilio di Efeso il 22 giugno dell'anno 431, celebra la tematica della Divina Maternità di Maria, ed è la festa più antica in suo onore.
La liturgia odierna, è anche connessa alla celebrazione della pace, istituita da papa S.Paolo VI l’8 dicembre 1967, La pace è il grande dono atteso e annunziato dagli angeli nel cantico della notte di Natale e questo tema ci viene proposto oggi dalle letture liturgiche.
La prima lettura, tratta dal Libro dei Numeri, riporta la formula di benedizione che veniva pronunciata dai -sacerdoti sul popolo eletto per attirate la benevolenza di Dio.
Nella seconda lettura, San Paolo, scrivendo ai Galati, svela il piano di Dio che ha voluto che Suo Figlio nascesse da una donna, e sotto la legge, perché tutti diventassimo Suoi figli e vivessimo riconciliati nella libertà e nell’amore.
Il Vangelo di Luca ci parla dei pastori che vanno a Betlemme e rendono omaggio al divino bambino e subito dopo, pieni di gioia, annunciano a tutti il lieto evento.
E’ nel nome di Maria, Madre di Dio e madre degli uomini, che si celebra in tutto il mondo la “giornata della pace”, ed oggi ricorre la 56^ giornata.
La pace, in senso biblico, è il dono messianico per eccellenza, è la salvezza portata da Gesù. La pace è anche un valore umano da realizzare sul piano sociale e politico, ma affonda le sue radici nel mistero di Cristo. E’ stato Lui a dire: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. “ E’ questo il senso della pace che ognuno di noi deve sentire prima nel proprio cuore per poterla poi augurare agli altri!

Dal libro dei Numeri
Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:
Ti benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto
E ti faccia grazia.
Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace.”
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”.
Nm 6,22-27

Il libro dei Numeri, il quarto libro della Bibbia, è stato scritto in ebraico e, secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. La tradizione ebraica e varie confessioni religiose cristiane, ritengono persino che sarebbe stato scritto da Mosè in persona, ma la maggioranza degli esegeti moderni ritiene che tutto il Pentateuco sia in realtà una raccolta, formatasi in epoca post-esilica, di vari scritti di epoche diverse. “Numeri” è il titolo che l'antica traduzione greca ha dato a questo libro perché contiene elenchi e censimenti degli Israeliti in cammino verso la "Terra promessa".
È composto da 36 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.). Infatti molti eventi del Libro avvengono nel deserto, principalmente tra il secondo ed il quarantesimo anno del vagabondare degli Israeliti.
I primi 25 capitoli riportano le esperienze della prima generazione d’Israele nel deserto, mentre il resto del libro descrive le esperienze della seconda generazione.
Il brano che abbiamo inizia con queste parole:
“Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro …”
Diversamente da quanto avviene in altri testi in cui la parola o l’ordine è dato a Mosè e ad Aronne insieme, qui Mosè riceve l’incarico di affidare un compito specifico proprio ad Aronne e, per mezzo suo, a tutto l’ordine sacerdotale. La facoltà di benedire il popolo è presentata qui come una prerogativa che compete ai sacerdoti (V. Lv 9,22) e non ai re, come appare in due testi dove sono Davide (V. 2Sam 6,18) e Salomone (1Re 8,14.55-61) a benedire il popolo, o ai leviti (Dt 10,8).
Ancora una volta si fa risalire all’epoca del deserto, con tutta l’autorevolezza della mediazione mosaica una consuetudine dell’epoca in cui è stato composto il libro.
È probabile però che la formula di benedizione qui riportata sia antica perché ha avuto un gran rilievo sulla preghiera di Israele (V. Sal 4,7 e 67,2). La benedizione divina riguardo tutto il popolo e ciascuno dei suoi membri.
“Ti benedica il Signore e ti custodisca.”
La benedizione (berakah) invocata da Dio rappresenta una parola efficace che conferisce benessere e felicità. Come conseguenza della benedizione divina si chiede a Dio di “custodire” Israele. Questo verbo esprime non tanto la protezione del Signore contro un immediato pericolo, ma soprattutto la Sua premura per Israele in ogni momento della sua esistenza.
La benedizione prosegue con una invocazione:
” Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia”.
Il volto splendente del Signore è un’immagine per indicare il sorriso con cui si rivolge al Suo popolo. L'immagine del volto luminoso di Dio è frequente nei salmi anche come invocazione (Sal 31,17; 80,4.8.20; 119,135).
Il sorriso del Signore è auspicio di prosperità, di benevolenza e di protezione e la “grazia” consiste appunto nella benevolenza di Dio verso il Suo popolo.
La benedizione continua poi con una terza richiesta:
“ Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace.”
Si riprende qui quanto era già stato espresso nel versetto precedente, con l'auspicio che il volto di Dio resti rivolto verso Israele, segno di attenzione e di benevolenza, perché in caso contrario il popolo cade nella disperazione: La benevolenza e l'attenzione di Dio sono premessa del dono della “pace” (shalôm). Questo termine in ebraico ha un significato molto profondo perchè indica non semplicemente l’assenza di guerra, ma soprattutto la pienezza di vita, cioè quello stato di grazia in cui si è liberi dalla necessità e dal male; nelle forme di saluto diventa augurio di una vita serena, equilibrata nella felicità materiale e spirituale.
Il brano termina con queste parole:
“Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”.
Questa espressione vuol dire rendere Dio presente e benevolo in mezzo al popolo.
Si comprende perchè questo testo sia stato adottato, nella riforma liturgica, come ampliamento (libero) della benedizione del sacerdote nel congedare il popolo dopo la Messa.

Salmo 67 (66) Dio abbia pietà di noi e ci benedica

Dio abbia pietà di noi e ci benedica,
su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via,
fra tutte le genti la tua salvezza.

Gioiscano le nazioni e si rallegrino,
perché tu giudichi i popoli con rettitudine,
governi le nazioni sulla terra.

Ti lodino i popoli, Dio,
ti lodino i popoli tutti.
Ci benedica Dio e lo temano
tutti i confini della terra.

Il salmista presenta come Dio abbia benedetto il suo popolo con un raccolto abbondante: “La terra ha dato il suo frutto”. Ma questo non chiude il salmista nell’appagamento dei beni dati dalla terra, poiché egli manifesta, fin dall’inizio del salmo, il desiderio di un ben più alto dono: quello della presenza del Messia. Per tale presenza il popolo sarà rinnovato e si avrà che tutti i popoli giungeranno a conoscere il vero Dio e a lodarlo: “Su di noi faccia splendere il suo volto; perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti ”. Il salmista conclude il salmo ripresentando il suo desiderio dei tempi messianici: “Ci benedica Dio; il nostro Dio, ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra”. Noi, in Cristo, desideriamo vivamente una terra rinnovata dalla conoscenza di Cristo e dall’azione del suo Spirito, e dobbiamo, nella viva appartenenza alla Chiesa, adoperarci incessantemente per questo.

Dalla lettera di S.Paolo ai Galati
Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.
E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio il quale che grida: Abbà, Padre!
Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.
Gal 4,4-7

Paolo scrive la lettera ai Galati probabilmente da Efeso tra il 54 e il 57 e lo fa per controbattere ad una predicazione fatta da alcuni ebrei cristiani dopo che l'apostolo aveva lasciato la comunità: questi missionari avevano convinto alcuni galati che l'insegnamento di Paolo era incompleto e che la salvezza richiedeva il rispetto della Legge di Mosè, in particolare della circoncisione. Paolo condanna tale orientamento, proclamando la libertà dei credenti e la salvezza per mezzo della fede.
In questo brano in particolare Paolo delinea la svolta che si è verificata con l’avvento di Cristo ed inizia affermando: “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.”
In queste parole è compendiato il mistero dell’incarnazione ed è definito anche il cuore della mariologia. Maria non è grande in se stessa, è infatti “donna”, cioè una creatura nostra sorella nel dolore e nella morte; eppure è grande perché è madre del Figlio di Dio, ed è per questo che è al di sopra di noi: immacolata per grazia, sempre fedele al progetto divino, madre di tutti noi nella fede.
Per Paolo, è chiaro, che Gesù è fin dall’eternità il “Figlio di Dio”, che è nato non solo “da donna”, assumendo così fino in fondo un’umanità limitata e sofferente, ma anche “sotto la Legge”, al punto tale da portarne in modo unico e drammatico la maledizione (Gal 3,13) così la Sua vita è stata contrassegnata dalla solidarietà più piena con la situazione di tutta l’umanità. In questo cammino di abbassamento Gesù però non ha mai cessato di essere Figlio, e se Egli si è messo sullo stesso piano dell’umanità peccatrice, lo ha fatto, non per adeguarsi ad essa, ma “per riscattare quelli che erano sotto la Legge”, cioè per portare a termine, come Dio un giorno aveva fatto con il popolo di Israele schiavo in Egitto, una grande opera di liberazione, i cui destinatari non sono soltanto i giudei, ma anche i pagani. Egli ha potuto raggiungere il Suo scopo facendo sì che essi ricevessero l’adozione a figli, cioè diventassero partecipi della Sua stessa qualità di Figlio. Il Figlio di Dio ha dunque manifestato pienamente la Sua “potenza” quando, risuscitando dai morti, ha comunicato a tutti gli uomini la Sua filiazione divina (Rm 1,3).
Paolo sottolinea poi l’efficacia della missione del Figlio affermando ancora : “E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio il quale che grida: Abbà, Padre!” La filiazione divina perciò comporta la presenza e l’opera dello Spirito, che viene designato come “Spirito del suo Figlio”, e come tale è stato “mandato” da Dio “nei nostri cuori”.
La filiazione divina dei credenti appare dal fatto che lo Spirito, presente in essi, grida “Abbà, Padre”:
E’ da notare che il termine Abbà era normalmente usato dai bambini in Palestina per rivolgersi al loro papà, mentre i giudei si rivolgevano a Dio con formule più solenni e rispettose, come Abì (Padre mio) o Abinû (Padre nostro). L’iniziativa di pregare Dio con l’appellativo di Abbà è solo di Gesù, quando ha dato ai suoi discepoli il comando di rivolgersi a Dio chiamandolo “Padre nostro”, coinvolgendoli così nel rapporto che Egli, in quanto unico Figlio, ha con il Padre.
“Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per grazia di Dio”.
Essere figli ed eredi di Dio significa incarnare il Suo amore per tutti, praticare la fratellanza; significa onorare la paternità di Dio, la fratellanza in Cristo e il calore di maternità che s’irradia da Maria, testimoniando e vivendo il messaggio di pace di Betlemme. Per questo motivo S. Paolo VI dal 1968 ha invitato i cristiani a vivere tutti gli anni il capodanno come “giornata mondiale della pace”.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, i pastori andarono senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo.
Lc 2,16-21

Questo breve brano tratto dal Vangelo di Luca riprende la seconda parte del racconto della nascita di Gesù, nella quale viene raccontata la visita che i pastori, avvisati dall’angelo, hanno fatto al bambino Gesù. La scelta del testo per la solennità della Madre di Dio è significativa perché cade proprio l'ottavo giorno dopo la nascita del figlio Gesù, che ricorda il rito della circoncisione e dell'imposizione del nome al bambino.
Il brano inizia riportando che “i pastori andarono senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia”.
Invitati dagli angeli a rallegrarsi per la nascita del Salvatore e sollecitati a verificarne il segno, i pastori si muovono ”senza indugio, affrettandosi”, come Maria nell'episodio della visitazione, anche loro spinti in obbedienza alla parola che è stata loro annunciata. Citando per prima Maria, nel nominare le persone che i pastori incontrano, Luca ci mostra ancora una volta la sua grande venerazione per la Madre di Gesù.
“E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori.”
E' importante notare gli atteggiamenti dei pastori: prima ascoltano, poi si muovono e trovano il segno. A questo punto lo guardano e diventano a loro volta annunciatori, riferendo quanto avevano udito.
Si può comprendere che Luca non sta parlando solo dell'esperienza dei pastori di Betlemme, ma del diffondersi del vangelo. Coloro che accoglieranno la predicazione degli apostoli e faranno esperienza dell'incontro con Gesù e crederanno, potranno comunicare a loro volta questa buona notizia.
“Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.”
Solo Maria non parla, ma conserva in se stessa tutte queste cose meditandole nel suo cuore. Maria non si perde in vane parole, ma pone se stessa e tutta la sua vita in sintonia con quanto Dio aveva detto e stava operando nella storia del Suo popolo mediante quel bambino che lei stessa aveva generato.
Luca conclude annotando che i pastori, dopo aver visto il bambino e aver riferito il messaggio che avevano udito, “se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro”. Non solo perciò per quello che avevano udito, ma anche per quello che avevano visto con i loro occhi, a conferma di quanto era stato detto loro.
Il brano si conclude menzionando il rito della circoncisione (attraverso il quale il Bambino è inserito ufficialmente nel popolo di Dio) e l'imposizione del nome, a cui Luca dà un risalto particolare:
"Gli fu messo nome Gesù come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo”.
Il nome nella Bibbia è la realtà stessa della persona che lo porta: tanti nella storia di Israele avevano portato il nome Gesù, ma nessuno poteva dire di attuarne in pieno il significato: Yehôsua‘ “YHWH salva” il Signore salva. Si ha quindi in Cristo Gesù l’intreccio di due dimensioni: quella umana dell’essere legato ad un popolo e quella divina dell’essere il Salvatore.
Tramite la Vergine Maria, che partecipa cosciente e attiva al progetto divino della ri-creazione della vita, si realizza la salvezza dell’umanità. Con il battesimo noi tutti acquisiamo l’identità di cristiani e in quanto tali, scegliendo Maria come modello, dobbiamo vivere la fede come l’energia di cosciente confidenza che fa nascere e rinascere Dio nei nostri cuori.


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“Iniziamo il nuovo anno affidandolo a Maria Madre di Dio. Il Vangelo della Liturgia di oggi parla di lei, rimandandoci nuovamente all’incanto del presepe. I pastori vanno senza indugio verso la grotta e che cosa trovano? Trovano – dice il testo – «Maria, Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia» . Fermiamoci su questa scena e immaginiamo Maria che, come mamma tenera e premurosa, ha appena adagiato Gesù nella mangiatoia. In quell’adagiare possiamo vedere un dono fatto a noi: la Madonna non tiene il Figlio per sé, ma lo presenta a noi; non lo stringe solo tra le sue braccia, ma lo depone per invitarci a guardarlo, accoglierlo e adorarlo. Ecco la maternità di Maria: il Figlio che è nato lo offre a tutti noi. Sempre dando il Figlio, indicando il Figlio, mai trattenendo come cosa propria il Figlio, no. E così durante tutta la vita di Gesù.
E nel posarlo davanti ai nostri occhi, senza dire una parola, ci dona un messaggio stupendo: Dio è vicino, a portata di mano. Non viene con la potenza di chi vuole essere temuto, ma con la fragilità di chi chiede di essere amato; non giudica dall’alto di un trono, ma ci guarda dal basso come fratello, anzi, come figlio. Nasce piccolo e bisognoso perché nessuno debba più vergognarsi di sé stesso: proprio quando facciamo esperienza della nostra debolezza e della nostra fragilità, possiamo sentire Dio ancora più vicino, perché si è presentato a noi così, debole e fragile. È il Dio-bambino che nasce per non escludere nessuno. Per farci diventare tutti fratelli e sorelle.
Ecco allora: il nuovo anno inizia con Dio che, in braccio alla Madre e adagiato in una mangiatoia, ci incoraggia con tenerezza. Abbiamo bisogno di questo incoraggiamento. Viviamo ancora tempi incerti e difficili a causa della pandemia. Tanti sono intimoriti dal futuro e appesantiti da situazioni sociali, da problemi personali, dai pericoli che provengono dalla crisi ecologica, da ingiustizie e da squilibri economici planetari. Guardando a Maria con in braccio il suo Figlio, penso alle giovani madri e ai loro bambini in fuga da guerre e carestie o in attesa nei campi per i rifugiati. Sono tanti! E contemplando Maria che adagia Gesù nella mangiatoia, mettendolo a disposizione di tutti, ricordiamo che il mondo cambia e la vita di tutti migliora solo se ci mettiamo a disposizione degli altri, senza aspettare che siano loro a cominciare a farlo. Se diventiamo artigiani di fraternità, potremo ritessere i fili di un mondo lacerato da guerre e violenze.
Oggi si celebra la Giornata Mondiale della Pace. La pace «è insieme dono dall’alto e frutto di un impegno condiviso» (Messaggio per la LV Giornata Mondiale della Pace.1) Dono dall’alto: va implorata da Gesù, perché da soli non siamo in grado di custodirla. Possiamo costruire veramente la pace solo se l’abbiamo nel cuore, solo se la riceviamo dal Principe della pace. Ma la pace è anche impegno nostro: chiede di fare il primo passo, domanda gesti concreti. Si edifica con l’attenzione agli ultimi, con la promozione della giustizia, con il coraggio del perdono, che spegne il fuoco dell’odio. E ha bisogno pure di uno sguardo positivo: che si guardi sempre – nella Chiesa come nella società – non al male che ci divide, ma al bene che può unirci! Non serve abbattersi e lamentarsi, ma rimboccarsi le maniche per costruire la pace. La Madre di Dio, Regina della pace, all’inizio di questo anno ottenga concordia ai nostri cuori e al mondo intero.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 gennaio 2022

Pubblicato in Liturgia
Giovedì, 22 Dicembre 2022 14:00

Natale del Signore - 25 dicembre 2022

Siamo giunti a Natale con tutto il carico di preoccupazioni, gioie e dolori che abbiamo accumulato nell’anno che fra poco terminerà.
La tradizione giudaica usava distinguere quattro notti fondamentali nella storia dell’umanità. La prima era stata quella della creazione, quando le tenebre furono spezzate via dalla parola di Dio “Sia la luce!”- La seconda notte era stata quella dell’alleanza con Abramo: “Mentre il sole stava per tramontare, … si era fatto buio fitto, …il Signore concluse questa alleanza con Abramo” (Gen.15). La terza notte è legata alla liberazione dalla schiavitù d’Egitto, è la notte della pasqua e della libertà. La quarta e ultima notte sarà quella del Messia, una notte a cui succederà un giorno che non avrà più tenebre “sarà sempre giorno… non ci sarà né giorno né notte; verso sera risplenderà la luce” (Zc 14,7).
Nella Chiesa latina, per l'occasione, si celebrano quattro messe: la Vespertina, la sera della vigilia, la Messa di mezzanotte (Dominus dixit ad me); la Messa dell'aurora (Lux fulgebit); Messa del giorno (Puer natus).. Questa tradizione, risalente ai primi anni del VII° sec., è dovuta dalla necessità del Papa, di celebrare la messa in diverse chiese di Roma.
In ognuna, tramite le letture proposte, viene presentato un’immagine diversa del mistero, in modo da avere di esso una visione in un certo senso tridimensionale.
La Messa della sera, riassume in se stessa tutta l’attesa di Israele e dell’umanità;
La Messa della Notte, ci presenta la nascita di Gesù e le circostanze in cui avvenne.
La Messa dell’aurora, con i pastori che vanno a Betlemme, ci indica quale deve essere la nostra risposta al richiamo degli angeli: andare senza indugio anche noi ad adorare il bambino.
La Messa del giorno è riservata ad una riflessione più approfondita del mistero.
Nelle prima messa l’evangelista Matteo presenta la Genealogia di Gesù come apice della storia di Israele, con i suoi momenti di gloria e con le sue durezze, dall’altra come intervento soprannaturale dell’Onnipotente. Nelle messe della notte e dell’aurora è l’evangelista Luca a narrarci la nascita di Gesù da Maria, mentre la Messa del giorno, è l’evangelista Giovanni con il glorioso inno del Prologo del suo Vangelo a rivelarci la realtà di Colui che è nato: il Verbo eterno di Dio esistente prima della creazione del mondo.
Sta terminando un anno in cui abbiamo vissuto l’inimmaginabile, dalla prova dovuta alla pandemia (da cui non siamo ancora fuori)siamo passati al terrore della guerra in Ucraina che non accenna a finire. Da tutto questo dolore, da questa sofferenza possiamo però trarre un prezioso insegnamento: Dio è sempre presente nella storia per condurla al suo fine ultimo, per condurla alla sua pienezza. Egli è l’Emmanuele il “Dio con noi”! Dio non è lontano, è sempre con noi, al punto che tante volte bussa alle porte del nostro cuore, anche quando è passato e non lo abbiamo riconosciuto.

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Messa della Notte


Dal libro del profeta Isaia
Il popolo che camminava nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia,hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete
e come si esulta quando si divide la preda.
Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva,
la sbarra sulle sue spalle,
e il bastone del suo aguzzino,
come nel giorno di Madian.
Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando
e ogni mantello intriso di sangue
saranno bruciati, dati in pasto al fuoco.
Perché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace.
Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine
sul trono di Davide e sul suo regno,
che egli viene a consolidare e rafforzare
con il diritto e la giustizia, ora e per sempre.
Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.
Is 9,1-6

Isaia (il cui nome in ebraico vuol dire Jahvè salva ) nacque verso il 770 a. C., probabilmente a Gerusalemme, città che conosceva molto bene. Si pensa appartenesse a una famiglia aristocratica, date le strette relazioni con la corte di Giuda. Era sposato con una profetessa e padre di almeno due figli.
Profetizzò per circa 60 anni. Fu chiamato a diventare profeta “nell’anno della morte del re Uzzia” (6:1) e cioè intorno al 740 a. C. e il libro che porta il suo nome riporta in modo emozionante questa chiamata alla quale Isaia risponde immediatamente proclamando il suo messaggio con tono vivo e incisivo.
Durante il suo ministero Isaia assiste alla crescente minaccia degli Assiri, vede la caduta di Samaria e del regno del Nord nel 721 a.C. e passerò alla storia come colui che ha mantenuto la speranza durante l’assedio di Gerusalemme nel 701 a.C. Fra tutti questi avvenimenti Isaia proclama una certezza che per lui è folgorante: la grandezza e la santità di Dio. Forte di questa sicurezza affronta i potenti che considera i primi responsabili dello sfaldamento politico e religioso. Patriota ardente, Isaia crede nella perennità di Gerusalemme e nel ceppo dinastico inaugurato da Davide. Qualunque cosa accada, la discendenza di Davide e il popolo di Dio non possono perire definitivamente. L’Alleanza rimane e un “Resto” sopravvivrà per portare la promessa del Signore a tutte le genti. Animato da questa convinzione Isaia diviene il cantore del Messia, egli sarà il vero rappresentante di Dio e su lui si poserà lo Spirito del Signore.
Il questo celebre brano, Isaia, dopo le minacce e i tristi presagi che prima aveva espresso, si apre ad un canto di speranza e di liberazione per confortare gli ebrei deportati dal Re di Assiria nel 732 a.C. (2Re 15,29). All’umanità che cammina nelle tenebre, simbolo del nulla e del male, annuncia che apparirà una grande luce, che il profeta accompagna con tre grandi promesse.
La prima è la gioia, una felicità primitiva, intatta, quasi istintiva e genuina: “come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda.”
La seconda sorpresa della luce di Dio è rappresentata dalla pace e dalla libertà : “Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Madian.” Le catene, le sbarre, i bastoni dei torturatori e degli oppressi sono finalmente spezzati dal Signore dei poveri e degli oppressi,
Ma la sorpresa più straordinaria è la terza: “un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”. Un bimbo straordinario, segno di un mondo nuovo, i cui nomi saranno: “Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.”.
Questo principe senza pari, sapiente come Salomone, coraggioso come Davide, di cui assicura la successione, inaugura il tempo della felicità. La certezza e la gioia dissipano ora il dolore.
Il profeta Isaia, sette secoli prima di Cristo, oltre ad anticiparci il giubilo per i giorni in cui il Messia si manifesterà e dissiperà le tenebre, per la natività di Colui che porterà sulla terra la pace, ci lascia anche percepire qualche cosa del mistero e della missione del Cristo.

Salmo 96 (95) Oggi è nato per noi il Salvatore.

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.

Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.

Gioiscano i cieli, esulti la terra,
risuoni il mare e quanto racchiude;
sia in festa la campagna e quanto contiene,
acclamino tutti gli alberi della foresta

Davanti al Signore che viene:
sì, egli viene a giudicare la terra;
giudicherà il mondo con giustizia
e nella sua fedeltà i popoli.

Il salmo è un invito all'assemblea dei popoli a riconoscere la grandezza di Dio. L'universalismo del salmo ha come base l'unicità di Dio, e la consapevolezza che tutti i popoli della terra hanno un'origine comune, e che, allontanatisi da Dio, ne hanno in qualche misura un ricordo nelle loro concezioni religiose, infettate di politeismo e di idolatria. Ora Dio chiama a raccolta tutte le famiglie dei popoli a ritornare a lui (Cf. Ps 21,28), che ha formato un popolo quale suo testimone, radunato attorno al tempio di Gerusalemme.
Il popolo di Israele è invitato a diffondere la conoscenza del vero Dio in mezzo ai popoli. Una certezza deve avere Israele, che egli è “terribile sopra tutti gli dei”, e che “tutti gli dei dei popoli sono un nulla”. Dietro gli dei concepiti dalle nazioni sono presenti i demoni sui quali Dio esercita pieno dominio.
L'invito ai popoli non è solo quello di aprirsi a Dio, ma di andare pellegrini “nei suoi atri”, e prostrarsi davanti a lui. Il “suo atrio santo”, sono quelli del tempio di Gerusalemme. I “sacri ornamenti”, sono vesti degne del tempio.
Tutta la terra deve essere presa dal timore di Dio: “Tremi davanti a lui tutta la terra”.
L'annuncio di Israele ai popoli deve affermare la regalità di Dio su di loro: “Dite tra le genti: ”.
Egli è colui che con la sua provvidenza regge il mondo, e agisce con giustizia sui popoli: “È stabile il mondo, non potrà vacillare! Egli giudica i popoli con rettitudine”.
Il Signore “viene a giudicare la terra”; questo avverrà con la venuta di Cristo, re di giustizia e di pace il quale affermerà la giustizia (Cf. Ps 93). “Viene”, dice il salmista. Ora è venuto il Cristo, il Figlio di Dio incarnatosi nel grembo verginale di Maria. Egli viene continuamente con la sua grazia (Ap 1,8); poi, alla fine del mondo, verrà per il giudizio finale: “Giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli”. “Nella sua fedeltà”, cioè per dare la risurrezione gloriosa a coloro che lo hanno accolto.
Difficile poter dire la data di composizione del salmo; probabilmente è stato scritto in un tempo di grande compattezza di Israele, poco dopo la costruzione del tempio di Salomone, prima che avvenisse lo scisma delle tribù del nord (1Re 11,26s).
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito
Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.
Tt 2,11-14

Durante la sua prigionia a Roma attorno all’anno 66, è possibile che Paolo, o un suo discepolo qualche anno dopo, abbia scritto questa lettera a Tito, collaboratore di Paolo e da lui convertito. Tito fu presente alla grande assemblea di Gerusalemme (50 d.C.) e Paolo lo prepose alla comunità cristiana di Creta quale “vescovo”. La lettera a Tito fa parte del gruppo delle tre lettere "pastorali" (La lettera a Tito e le due a Timoteo), così chiamate perché rivolte a dei capi responsabili di comunità con un discorso di carattere ufficiale e autorevole che riguarda l'intera comunità. Più che delle lettere sembrano delle raccolte di norme per l'organizzazione della comunità, di consigli per le varie categorie di persone e suggerimenti generali per la vita pratica o la soluzione di problemi ecclesiali.. Nella lettera a Tito si trovano due brani che fanno riferimento all'incarnazione del Verbo di Dio e per questo motivo sono inserite nella liturgia di Natale
In questo brano Paolo indica a Tito il motivo per cui deve impegnarsi a fondo nella sua opera pastorale. Egli si riferisce a un evento di importanza determinante per tutta l’umanità:
«è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini»
Tutto è cominciato per iniziativa di Dio, il quale ha manifestato la Sua grazia, cioè la Sua bontà e il Suo amore conferendo la “salvezza” a tutti gli uomini.
«e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo». L’insegnamento di Dio non consiste in norme o leggi imposte con la sua autorità, ma in una istruzione analoga a quella data dai saggi, che si incarna nella vita e nell’esperienza umana. L’insegnamento di Dio ha come effetto una rottura con il passato, che consiste nel rinnegamento dell’empietà, cioè della negazione di Dio, e dei desideri mondani cioè dell’attaccamento alle cose di questo mondo. In positivo esso dà al credente la possibilità di vivere in questo mondo con sobrietà, giustizia e pietà, cioè esercitando correttamente il proprio rapporto con se stesso, con il prossimo e con Dio.
Da questo dono di Dio in Cristo deriva per i credenti la possibilità di distaccarsi dai desideri egoistici tipici dell’umanità per vivere una vita santa. L’esercizio delle virtù non deriva dunque né dalla legge né dallo sforzo della volontà, ma da un dono interiore che trasforma l’uomo cambiando in profondità la sua mentalità e spingendolo spontaneamente al bene.
«Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone».
Il sacrificio di Cristo sulla croce ha avuto un esito simile a quello dell'Esodo, ci ha liberati dalla schiavitù per dare vita a un popolo libero, che gli appartenga, che sia puro e quindi voglia realizzare in sé le virtù della vita cristiana.
E tra queste virtù la più importante è certo la carità, cioè l’amore per l'impegno nelle opere buone.
Questo permette di superare la staticità delle virtù della cultura greca e apre alla pratica cristiana, che non si appiattisce sull'autocompiacimento, né si perde nell'attivismo, ma è rivolta al cielo e al giorno della piena manifestazione di Cristo.

Dal Vangelo secondo Luca
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.
Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».
Lc 2,1-14

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NATALE del Signore 2021
Messa del giorno

Dal libro del profeta Isaia
Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace,
del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce,
insieme esultano,
poiché vedono con gli occhi
il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutte le nazioni;
+tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.
Is 52,7-10

Questo brano fa parte dei testi contenuti nei capitoli 40-55, attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Di lui si sa solo che il suo messaggio si colloca attorno al 538 a.C., l’anno in cui Ciro, re dei Persiani, ha permesso agli Ebrei, esiliati a Babilonia, di ritornare al loro paese. Gli è stato dato questo nome perchè il suo pensiero s’ispirava a una tradizione che risale al grande profeta Isaia (740-700 a.C.).
Questo brano, in particolare, fa parte del libro della Consolazione, e annunzia come nei due precedenti brani della Messa “della notte” e “dell’aurora”, la buona novella. Si apre con l’immagine di un messaggero che, correndo sui monti, porta a Gerusalemme il lieto messaggio del ritorno degli esuli. «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». La bellezza di questo messaggio viene proiettata sui piedi stessi del messaggero, che gli permettono di raggiungere velocemente la città santa. Il messaggio che egli porta ha direttamente come oggetto la salvezza, che si attua mediante un nuovo esodo non più dall’Egitto ma da Babilonia. Questa salvezza coincide con la pace, intesa qui come simbolo di prosperità e di gioia. Infine questa salvezza viene attribuita al fatto che il Signore regna.
«Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion». In questo versetto viene ripreso il tema del messaggero, ma questa volta non si tratta però di un messaggero che giunge correndo, ma delle sentinelle, poste a custodia della città, le quali prorompono di gioia e lanciano forti grida perché vedono l’arrivo degli esuli. Il profeta però non parla direttamente delle carovane che giungono a Gerusalemme, ma del ritorno del Signore in Sion.
(Secondo Ezechiele (10,18-22) prima della caduta di Gerusalemme il Signore aveva abbandonato il tempio e la città e si era diretto nel luogo in cui si trovavano gli esiliati; ora è il Signore stesso che ritorna portando con sé coloro che ritornano dall’esilio).
«Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme». Alla gioia delle sentinelle fa eco quella della città santa, di cui sono rimaste solo delle rovine. Il profeta immagina che queste rovine cantino di gioia perché il Signore ha consolato il suo popolo e ha riscattato Gerusalemme, cioè le ha dato nuovamente il privilegio di essere il luogo della sua dimora.
«Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio».
La regalità del Signore si manifesta non tanto nel fatto di aver reso possibile il ritorno dei giudei nella loro patria, quanto piuttosto nell’aver riunito un popolo ormai disperso, incapace di ritrovare la sua identità. La sua forza, rappresentata nel suo santo braccio snudato che si alza contro i nemici, non si riferisce come altre volte ad eventi di guerra, ma alla rinascita religiosa e civile del Suo popolo.
Per noi cristiani la risposta di Dio ai problemi del mondo è un bambino nella mangiatoia, il segno della misericordia di Dio sulla storia dell'umanità e di ogni singolo uomo. Segno che, se rimane rifiutato e ignorato, lascia nel buio e nella solitudine; mentre se é compreso e accolto, fa rinascere la gioia di sapere che la vita – ogni vita dal suo sorgere fino al suo spegnersi - è nelle mani del Signore.

Salmo 98 (97) - Tutta la terra ha veduto la salvezza del nostro Dio

Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele
Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Cantate inni al Signore con la cetra,
con la cetra e al suono di strumenti a corde;
con le trombe e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19):
“I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo. La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento tratto da “Perfetta Letiziai”

Dalla lettera agli Ebrei
Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto:
«Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»?
E ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»?
Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice:
«Lo adorino tutti gli angeli di Dio».
Eb 1,1-6

L’ autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perché conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
Questo brano, presenta la venuta di Cristo come il culmine della rivelazione che Dio ha fatto agli uomini. Inizia con una frase magistrale: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti,”
In questo primo versetto il protagonista è Dio, che durante i secoli ha parlato di sé agli uomini. Si tratta di una lunga storia, fatta di diverse tappe, diversi incontri tra Dio e i nostri padri. ossia i nostri antenati. Ha parlato attraverso degli intermediari, cioè i profeti e a tutti coloro con cuore sincero che si avvicinavano a Lui.
“ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo”
Ultimamente e definitivamente Dio ha parlato attraverso il Figlio, che è la Sua parola vivente. Nella tradizione biblica l'eredità era molto importante e già a partire da Abramo il popolo di Israele viveva in situazioni precarie in cui avere un erede non era sempre facile (la storia di Abramo ce lo insegna). Il Figlio qui è l'erede universale, il legittimo Signore dell'universo ma anche Colui nel quale si compiono le promesse messianiche di pace e libertà. Inoltre il Figlio sta all'origine dell'universo creato e della storia, poiché è associato in modo intimo e unico al primo gesto salvifico di Dio: la creazione del mondo.
“Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli,”
Vengono qui date le indicazioni fondamentali per comprendere il rapporto tra il Padre e il Figlio. Il Figlio è irradiazione della gloria di Dio: questa espressione è presa dal Libro della Sapienza (7,25-26) e sottolinea il rapporto inseparabile che esiste tra Dio e il Figlio. Il culmine della descrizione del Figlio si raggiunge nell’espressione “e tutto sostiene con la sua parola potente”.
Quanto qui viene affermato lo si comprenderà meglio nel corso della lettera agli Ebrei che dà molto spazio all'idea di Gesù come del sacerdote perfetto che compie il sacrificio di espiazione per i peccati una volta per tutte.
Questo atto di espiazione ha tolto di mezzo i peccati, cioè tutto quello che ostacolava il rapporto tra Dio e gli uomini. Perciò egli è degno di sedere sul trono accanto al Padre
“divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato”.
Il Figlio è superiore alle creature celesti che circondano il trono divino, perché ben più importante è il nome che egli ha ricevuto.
“Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? E ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? “
Il Figlio è superiore agli angeli proprio perché è Figlio, è stato “generato” da Dio. Gli angeli invece fanno parte di tutte le realtà del mondo, ma sempre “create” da Dio.
Gli esperti notano qui una certa polemica verso l'angelologia giudaica che assegnava agli esseri celesti un ruolo mediatore nel governo del mondo o nella creazione, nel dono della legge, nell'intercessione a favore degli uomini. Tutte queste attribuzioni anche se sono legittime, non rendono gli angeli superiori al Figlio, il mediatore perfetto.
“Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».”
Con questo ultimo versetto l'autore ribadisce la superiorità del Figlio rispetto agli angeli che lo hanno adorato nella notte di Natale, quando hanno portato l'annuncio ai pastori della nascita di Gesù.

Dal vangelo secondo Giovanni
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue né da volere di carne
né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: “Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me è avanti a me,
perché era prima di me”.
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità
vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.
Gv 1, 1-18

L’Antico Testamento conosceva il tema della Parola (Verbo) di Dio e quello della Sapienza, che, in Dio, esisteva prima della creazione del mondo. Mediante la Sapienza ogni cosa è stata creata, ed è stata mandata sulla terra per rivelare i segreti della volontà divina.
In questo meraviglioso prologo, c’è il riassunto concentrato del contenuto del vangelo di Giovanni. L’evangelista presenta il Verbo in Dio, sottolineandone la preesistenza eterna, l'intimità di vita con il Padre e la Sua natura divina. Il Verbo non solo è vicino al Padre, ma rivolto verso il Padre in atteggiamento di ascolto e di obbedienza. Giovanni afferma con chiarezza, fin dalle prime parole del suo vangelo, che nel Dio unico esiste una pluralità di persone.
Dopo i primi due versetti introduttivi, Giovanni ci presenta il ruolo del Verbo nella creazione dell'universo e nella storia della salvezza: " tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.” Tutta la storia appartiene a Lui: tutte le cose sono opera del Figlio di Dio, di Gesù di Nazareth! Ogni uomo è fatto per la luce ed è chiamato ad essere illuminato dal Verbo con la luce eterna di Dio, che è la vita stessa del Padre donata al Figlio. La luce di Cristo splende su ogni uomo che viene nel mondo e le tenebre combattono per eliminarla. Tuttavia l'ambiente del male, che si oppone alla luce di Dio e alla parola di Gesù-Verbo, non riesce ad avere il sopravvento e a vincere.
La luce venuta nel mondo è preceduta da un testimone, Giovanni il Battista, che ha la missione di parlare a favore della luce. Il ruolo del Battista è unico: " Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.” Giovanni è il testimone di Gesù che riceve la testimonianza che il Padre dà al Figlio nel battesimo e che vede lo Spirito scendere e rimanere su Gesù . Gesù è la luce autentica e perfetta che appaga le aspirazioni umane; la sola che dà senso a tutte le altre luci che appaiono nella scena del mondo.
Gesù-Verbo, presente tra gli uomini con la Sua venuta, è vicino ad ogni uomo. Benché fosse già nel mondo come creatore e come centro della storia, "… il mondo non lo ha riconosciuto, cioè gli uomini non hanno creduto nel Verbo incarnato e nella Sua missione di Salvatore. Al rifiuto del mondo, c’è un rifiuto ancora più grave: " Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.“ ossia la Parola del Signore è venuta nel popolo ebraico, ma Israele l'ha respinta. Vediamo qui il lungo cammino dell'umanità che, nonostante il progetto di amore e di vita voluto da Dio, ha perso col peccato l'orientamento di tutto il suo essere e non ha riconosciuto il piano salvifico di Dio.
Se il comportamento dell'umanità, e in particolare quello d'Israele, è stato di netto rifiuto di Gesù-Verbo, tuttavia, un gruppo di persone, un "resto di Israele", l'ha accolto e ha risposto al Suo messaggio, stabilendo un nuovo rapporto con Dio: " A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” Solo coloro che accolgono il Verbo e credono nella Sua persona divina diventano figli di Dio, perché sono nati da Dio.
Questo dono della figliolanza divina si accoglie credendo nel Cristo e approfondendo la nostra vita di fede in Lui. Accogliere il Verbo significa "credere nel nome" di Gesù, ossia aderire pienamente alla Sua persona, impegnare la propria vita al Suo servizio.
Ciò che segue è come la sintesi di tutto l'inno perchè vi si afferma solennemente l'incarnazione del Figlio di Dio. Il vangelo afferma che " E il Verbo si fece carne “cioè che la Parola si è fatta uomo, nella sua fragilità e impotenza come ogni creatura, nascendo da una donna, Maria.
L'espressione " e venne ad abitare in mezzo a noi” sottolinea lo scopo dell'incarnazione: Dio dimora con il Suo popolo stabilmente e per sempre. La Sua presenza è nella vita stessa dell'uomo e nella carne visibile di Gesù..
I discepoli hanno contemplato nella fede il mistero di Gesù-Verbo, cioè la gloria che Egli possiede come Unigenito venuto dal Padre. Gesù è la rivelazione di Dio, ma in un modo nascosto e umile. Nel vangelo di Giovanni la gloria del Signore è qualcosa di interiore che solo l'uomo di fede può comprendere.
“Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia”. Le due grazie sono la legge di Mosè e quella di Cristo. Per Giovanni, la storia della salvezza abbraccia due momenti fondamentali: il dono della legge nella rivelazione provvisoria del Sinai e "la grazia della verità" nella rivelazione definitiva di Gesù. Le due tappe della rivelazione non sono in contrasto tra loro: Mosè è il rivelatore imperfetto della legge e il mediatore umano tra Dio e Israele, Gesù invece è il Rivelatore perfetto e definitivo della Parola e il Mediatore umano-divino tra il Padre e l'umanità.
Infine il versetto finale del prologo offre un'ulteriore spiegazione: Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
Il "seno" del Padre nel linguaggio biblico è l'immagine tipica dell'amore e dell'intimità: tutta la vita di Gesù si svolse come vita filiale in un atteggiamento di ascolto e di obbedienza al Padre, in un rapporto di amore con il Padre e come Sua manifestazione.

 

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Le Parole di Papa Francesco

"Nella notte si accende una luce. Un angelo appare, la gloria del Signore avvolge i pastori e finalmente arriva l’annuncio atteso da secoli: «Oggi è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore». Sorprende, però, quello che l’angelo aggiunge. Indica ai pastori come trovare Dio venuto in terra: «Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» . Ecco il segno: un bambino. Tutto qui: un bambino nella cruda povertà di una mangiatoia. Non ci sono più luci, fulgore, cori di angeli. Solo un bimbo. Nient’altro, come aveva preannunciato Isaia: «Un bambino è nato per noi» .
Il Vangelo insiste su questo contrasto. Racconta la nascita di Gesù cominciando da Cesare Augusto, che fa il censimento di tutta la terra: mostra il primo imperatore nella sua grandezza. Ma, subito dopo, ci porta a Betlemme, dove di grande non c’è nulla: solo un povero bambino avvolto in fasce, con dei pastori attorno. E lì c’è Dio, nella piccolezza. Ecco il messaggio: Dio non cavalca la grandezza, ma si cala nella piccolezza. La piccolezza è la via che ha scelto per raggiungerci, per toccarci il cuore, per salvarci e riportarci a quello che conta.
Fratelli e sorelle, sostando davanti al presepe guardiamo al centro: andiamo oltre le luci e le decorazioni, che sono belle, e contempliamo il Bambino. Nella sua piccolezza c’è tutto Dio. Riconosciamolo: “Bambino, Tu sei Dio, Dio-bambino”. Lasciamoci attraversare da questo scandaloso stupore. Colui che abbraccia l’universo ha bisogno di essere tenuto in braccio. Lui, che ha fatto il sole, deve essere scaldato. La tenerezza in persona ha bisogno di essere coccolata. L’amore infinito ha un cuore minuscolo, che emette lievi battiti. La Parola eterna è infante, cioè incapace di parlare. Il Pane della vita deve essere nutrito. Il creatore del mondo è senza dimora. Oggi tutto si ribalta: Dio viene al mondo piccolo. La sua grandezza si offre nella piccolezza.
E noi – chiediamoci – sappiamo accogliere questa via di Dio? È la sfida di Natale: Dio si rivela, ma gli uomini non lo capiscono. Lui si fa piccolo agli occhi del mondo e noi continuiamo a ricercare la grandezza secondo il mondo, magari persino in nome suo. Dio si abbassa e noi vogliamo salire sul piedistallo. L’Altissimo indica l’umiltà e noi pretendiamo di apparire. Dio va in cerca dei pastori, degli invisibili; noi cerchiamo visibilità, farci vedere. Gesù nasce per servire e noi passiamo gli anni a inseguire il successo. Dio non ricerca forza e potere, domanda tenerezza e piccolezza interiore.
Ecco che cosa chiedere a Gesù per Natale: la grazia della piccolezza. “Signore, insegnaci ad amare la piccolezza. Aiutaci a capire che è la via per la vera grandezza”. Ma che cosa vuol dire, concretamente, accogliere la piccolezza? Per prima cosa vuol dire credere che Dio vuole venire nelle piccole cose della nostra vita, vuole abitare le realtà quotidiane, i semplici gesti che compiamo a casa, in famiglia, a scuola, al lavoro. È nel nostro vissuto ordinario che vuole realizzare cose straordinarie. Ed è un messaggio di grande speranza: Gesù ci invita a valorizzare e riscoprire le piccole cose della vita. Se Lui è con noi lì, che cosa ci manca? Lasciamoci allora alle spalle i rimpianti per la grandezza che non abbiamo. Rinunciamo alle lamentele e ai musi lunghi, all’avidità che lascia insoddisfatti! La piccolezza, lo stupore di quel bambino piccolo: questo è il messaggio.
Ma c’è di più. Gesù non desidera venire solo nelle piccole cose della nostra vita, ma anche nella nostra piccolezza: nel nostro sentirci deboli, fragili, inadeguati, magari persino sbagliati.
Sorella e fratello, se, come a Betlemme, il buio della notte ti circonda, se avverti intorno una fredda indifferenza, se le ferite che ti porti dentro gridano: “Conti poco, non vali niente, non sarai mai amato come vuoi”, questa notte, se tu senti questo, Dio risponde e ti dice: “Ti amo così come sei. La tua piccolezza non mi spaventa, le tue fragilità non mi inquietano. Mi sono fatto piccolo per te. Per essere il tuo Dio sono diventato tuo fratello.
Fratello amato, sorella amata, non avere paura di me, ma ritrova in me la tua grandezza. Ti sono vicino e solo questo ti chiedo: fidati di me e aprimi il cuore”.
Accogliere la piccolezza significa ancora una cosa: abbracciare Gesù nei piccoli di oggi. Amarlo, cioè, negli ultimi, servirlo nei poveri. Sono loro i più simili a Gesù, nato povero. Ed è in loro che Lui vuole essere onorato. In questa notte di amore un unico timore ci assalga: ferire l’amore di Dio, ferirlo disprezzando i poveri con la nostra indifferenza. Sono i prediletti di Gesù, che ci accoglieranno un giorno in Cielo. Una poetessa ha scritto: «Chi non ha trovato il Cielo quaggiù lo mancherà lassù» (E. Dickinson, Poems, P96-17). Non perdiamo di vista il Cielo, prendiamoci cura di Gesù adesso, accarezzandolo nei bisognosi, perché in loro si è identificato.
Guardiamo ancora una volta al presepe e vediamo che Gesù alla nascita è circondato proprio dai piccoli, dai poveri. Sono i pastori. Erano i più semplici e sono stati i più vicini al Signore. Lo hanno trovato perché, «pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2,8). Stavano lì per lavorare, perché erano poveri e la loro vita non aveva orari, ma dipendeva dal gregge. Non potevano vivere come e dove volevano, ma si regolavano in base alle esigenze delle pecore che accudivano. E Gesù nasce lì, vicino a loro, vicino ai dimenticati delle periferie. Viene dove la dignità dell’uomo è messa alla prova. Viene a nobilitare gli esclusi e si rivela anzitutto a loro: non a personaggi colti e importanti, ma a gente povera che lavorava. Dio stanotte viene a colmare di dignità la durezza del lavoro. Ci ricorda quanto è importante dare dignità all’uomo con il lavoro, ma anche dare dignità al lavoro dell’uomo, perché l’uomo è signore e non schiavo del lavoro. Nel giorno della Vita ripetiamo: basta morti sul lavoro! E impegniamoci per questo.
Guardiamo un’ultima volta al presepe, allargando lo sguardo fino ai suoi confini, dove si intravedono i magi, in pellegrinaggio per adorare il Signore. Guardiamo e capiamo che attorno a Gesù tutto si ricompone in unità: non ci sono solo gli ultimi, i pastori, ma anche i dotti e i ricchi, i magi. A Betlemme stanno insieme poveri e ricchi, chi adora come i magi e chi lavora come i pastori. Tutto si ricompone quando al centro c’è Gesù: non le nostre idee su Gesù, ma Lui, il Vivente.
Allora, cari fratelli e sorelle, torniamo a Betlemme, torniamo alle origini: all’essenzialità della fede, al primo amore, all’adorazione e alla carità. Guardiamo i magi che peregrinano e come Chiesa sinodale, in cammino, andiamo a Betlemme, dove c’è Dio nell’uomo e l’uomo in Dio; dove il Signore è al primo posto e viene adorato; dove gli ultimi occupano il posto più vicino a Lui; dove pastori e magi stanno insieme in una fraternità più forte di ogni classificazione. Dio ci conceda di essere una Chiesa adoratrice, povera, fraterna. Questo è l’essenziale. Torniamo a Betlemme.
Ci fa bene andare lì, docili al Vangelo di Natale, che presenta la Santa Famiglia, i pastori e i magi: tutta gente in cammino. Fratelli e sorelle, mettiamoci in cammino, perché la vita è un pellegrinaggio. Alziamoci, ridestiamoci perché stanotte una luce si è accesa. È una luce gentile e ci ricorda che nella nostra piccolezza siamo figli amati, figli della luce (cfr 1 Ts 5,5).
Fratelli e sorelle, gioiamo insieme, perché nessuno spegnerà mai questa luce, la luce di Gesù, che da stanotte brilla nel mondo."

Omelia di Papa Francesco nella Santa Notte del 24 dicembre 2021

 

 

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
e-mail: email
Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

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