La liturgia di questa domenica ci propone il tema della riconoscenza intrecciato con quello della salvezza: non si tratta soltanto di mostrare la propria gratitudine per un beneficio ricevuto, ma gioire per una salvezza ormai aperta a tutti gli uomini, soprattutto agli stranieri e agli esclusi.
Nella prima lettura, tratta dal secondo libro dei Re, troviamo il racconto di Naamàn, generale siriano, guarito dalla lebbra, che fa la sua “professione di fede” e riconosce il vero Dio e a Lui solo rende omaggio. In questa narrazione si può comprendere come Dio chiama alla fede anche quelli che noi giudichiamo lontani da Lui.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo, invita il suo discepolo, a condividere la sua condizione, ora in catene per il Vangelo. Il tema della sofferenza dell’Apostolo e della sua attuale prigionia introduce un’affermazione di principio a cui fa seguito un nuovo riferimento alla sua esperienza: Egli ricorda anche a tutti noi che nessun ostacolo può opporsi alla diffusione della Parola di Dio.
Nel Vangelo di Luca, Gesù guarisce dieci lebbrosi e solo uno straniero (un samaritano) ritorna per ringraziarlo. Solo a lui Gesù in finale dichiara: “Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!”. Tutti sono stati guariti, ma lui solo è stato salvato. Questo samaritano diventa per noi esempio di fede e di amore.
Si celebra oggi il Giubileo della Spiritualità Mariana
Dal secondo libro dei Re
In quei giorni, Naamàn, (il comandante del’esercito del re di Aram) scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato (dalla sua lebbra).
Tornò con tutto il séguito da (Elisèo),l'uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: “Ecco, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo”. Quello disse: “Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò”. L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.
Allora Naamàn disse: “Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocàusto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore”.
2Re 5,14-17
Il Secondo libro dei Re, insieme al primo, in origine formavano un unico libro. Entrambi fanno parte dei Libri storici per il canone cristiano e dei cosiddetti “profeti anteriori‘” per il canone ebraico. E’ stato composto, secondo alcuni studiosi, intorno al VI secolo a.C. dallo stesso autore che ha scritto il libro del Deuteronomio; per questo lo si definisce autore ''Deuteronomista'‘.
Per ricostruire le vicende dei due regni di Israele, egli attinge a materiali d'archivio, alle tradizioni orali e alla memoria storica del suo popolo. Una delle caratteristiche dell'autore è il continuo ricorso a formule fisse per delineare i regni dei vari sovrani e in particolare, il secondo libro dei Re, descrive la vicenda del popolo ebraico dal IX al VI secolo a.C., cioè dalla fine del regno di Acazia (circa 852 a.C.) fino alla distruzione del regno di Giuda nel 587 a.C..
Le vicende di Elia e di Eliseo sono narrate in due cicli che occupano la parte centrale dei due libri dei Re (1Re 17-22; 2Re 1-17).
Eliseo, il quale operò sotto i re Ioram (852-841), Ieu (841-814), Ioacaz (814-798), Ioas (798-783), è protagonista di numerosi racconti popolari spesso interrotti da riferimenti alle vicende politiche. Il suo ciclo si apre con il rapimento di Elia in cielo, del quale egli è l’unico testimone (2Re 2,1-8). Divenuto così erede spirituale del suo maestro, Eliseo compie alcuni miracoli di carattere umanitario. Infine viene narrata la conversione di Naamàn, un generale degli aramei che era diventato lebbroso (2Re 5,1-19). Il brano liturgico riprende la parte conclusiva di questo racconto.
Naamàn, alto ufficiale di Siria, si era rivolto al profeta per chiedergli di essere guarito, ma questi, senza neppure presentarsi di persona, gli comunica ciò che deve fare attraverso il servo, ossia semplicemente di bagnarsi sette volte nel fiume Giordano. Naamàn, dal piedistallo della sua dignità di capo di Stato Maggiore dell’esercito siro, si sente offeso da questo comportamento e da quanto gli dice di fare il servo del profeta Eliseo, ma poi esegue quanto gli è stato detto e guarisce dal suo male. Naamàn non incontra solamente la guarigione, ma anche la salvezza,
Allora torna da Eliseo e dichiara pubblicamente :“Ecco, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo”. Come ringraziamento per quanto ha ricevuto, Naamàn vorrebbe fare un dono al profeta, ma egli rifiuta decisamente.
Allora Naamàn fa a Eliseo questa richiesta: “Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocàusto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore”.
Siccome Naamàn risiede in un paese straniero dove si adorano altri dèi, mentre JHWH si adora solo nella terra di Israele, chiede che gli sia consentito di poter portare con sé una certa quantità di questa terra su cui pregare il Signore e offrirgli i propri sacrifici , inoltre, siccome egli è tenuto, in forza del proprio rango, ad accompagnare il re nel tempio di Rimmon, dove si compie un culto inconciliabile con quello del Signore, chiede al profeta se gli è permesso di compiere il proprio dovere in modo puramente esterno, senza con ciò venire meno alla sua nuova fede.
Il brano liturgico non riporta la richiesta completa di Naaman e neanche la risposta di Eliseo che si limita a dirgli “Và in pace”.
La guarigione di Naamàn è presentata come l’occasione di un’autentica conversione al Dio di Israele da parte di un non israelita. Le richieste di Naamàn si comprendono alla luce dei problemi che si ponevano dopo l’esilio a uno straniero che volesse riconoscere e adorare JHWH come unico Dio. Secondo la mentalità dell’epoca egli, vivendo in una terra straniera, non poteva adorare JHWH, il quale, pur essendo il Dio di tutta la terra, aveva come Sua sede speciale la terra di Israele. Oltre a ciò, dato che si trattava di una persona importante, doveva partecipare al culto della divinità del posto in cui viveva: un rifiuto poteva essere considerato come una ribellione.
Eliseo dicendo solo “Va in pace” non prende palesemente posizione su questo atteggiamento esterno di idolatria, ma si dimostra comprensivo e tollerante, per cui astenendosi da ogni giudizio, lascia a Naamàn il compito di decidere con la sua coscienza.
È questo veramente un gesto di grande rispetto e di solidarietà! Tutto il racconto tende così a dimostrare che la religione israelitica è l’unica vera, ma al tempo stesso sottolinea che anche a un non ebreo è possibile aderire al vero Dio senza essere costretto a praticare tutte le norme che regolano il culto di Israele. In questo senso il brano rivela una mentalità alquanto aperta, moderna, che certo al quel tempo ha avuto difficoltà ad essere compresa da tutti.
Salmo 97 - Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.
Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa di Israele.
Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami al Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!
Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19): “I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo. La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento tratta da “Perfetta Letizia”
Dal seconda lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, ricordati di Gesù Cristo,
risorto dai morti, discendente di Davide,
come io annuncio nel mio vangelo,per il quale soffro
fino a portare le catene come un malfattore.
Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;
se perseveriamo, con lui anche regneremo;
se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà;
se siamo infedeli, lui rimane fedele,
perché non può rinnegare se stesso.
2Tm 2:8-13
Il capitolo, da cui è stato tratto questo brano, era cominciato con un riferimento all’incarico dato da Paolo al discepolo-figlio Timoteo, a cui aveva fatto seguito l'esortazione alla perseveranza e all’impegno nonostante le sofferenze che si prospettano. A questo punto inizia l’esortazione rivolta a Timoteo : “…ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide,come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore”.
Al centro dei pensieri di Timoteo deve esserci la persona di Cristo. Di Lui si dice, con riferimento a un'antica professione di fede, che è risorto dai morti ed è discendente di Davide. L’origine davidica di Gesù Cristo, il Messia, richiama al fatto che per mezzo Suo si sono attuate le promesse. Citando la Sua risurrezione, non si può non citare la Sua morte di croce e di conseguenza la Sua risurrezione dai morti . Qui c’è il senso ultimo e profondo delle sofferenze che ora toccano in sorte a tutti i credenti, dei quali Paolo rimane il modello ideale.
Il tema della sofferenza dell’Apostolo e della sua attuale prigionia introduce un’affermazione di principio a cui fa seguito un nuovo riferimento alla sua esperienza: “Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna”.
Nonostante Paolo sia incatenato come un criminale comune, non così è per la Parola di Dio, che raggiunge tutti gli uomini di buona volontà. La Parola di Dio non può essere incatenata, anzi, si può dire che la partecipazione personale di Paolo all’esperienza di morte e risurrezione di Cristo, serva alla diffusione del Vangelo più dell’annuncio pubblico che egli ne fa con la sua parola.
L’esempio di Paolo, figura ideale e tipica dell'apostolo e martire per il Vangelo, introduce la citazione di un altro inno in cui questo pensiero è applicato a tutti i cristiani:
“Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”.
Il morire con Lui comporta di riflesso il vivere con Lui e la perseveranza nelle prove ha come effetto l’ingresso con Lui nel Suo regno. Il rinnegarlo comporta invece l’essere rinnegati da Lui. Il termine “rinnegare”, indica il rifiuto e la ribellione nei confronti di Cristo e a questo rifiuto corrisponde anche il rifiuto da parte di Cristo. Quest’ultima affermazione viene però subito corretta perché anche in caso di infedeltà da parte del discepolo, Gesù rimane fedele, perché questo fa parte del “Suo modo di essere”, venendo meno al quale, “Egli rinnegherebbe se stesso”. Si tratta quindi di un rapporto che non può venire meno perché non si basa sulla buona volontà del credente, ma su una scelta irrevocabile di Dio.
Dal vangelo secondo Luca
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza, e dissero ad alta voce: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”. Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?”. E gli disse: “Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!”.
Lc 17, 11-19
Con questo brano, l’evangelista Luca continua a raccontare gli spostamenti di Gesù, nel suo viaggio verso Gerusalemme. Questa volta non abbiamo un discorso di Gesù, ma il racconto di un miracolo. I suoi discepoli lo accompagnano ed insieme sono ormai giunti nel territorio della Samaria. Stanno per entrare in un villaggio, quando un gruppo di 10 lebbrosi va incontro al Rabbi di Nazareth.
L’episodio è così introdotto: “Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea”.
Questo versetto che introduce la terza e ultima tappa del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, riporta un percorso un po’ strano perché controllando la mappa sembra che Gesù va verso Gerusalemme camminando a ritroso! Probabilmente l'evangelista voleva solo trovare un posto adatto per descrivere l'incontro del Signore con un gruppo di lebbrosi composto da giudei e da un samaritano.
“Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza”,
Del villaggio in cui Gesù entra non si ha alcuna indicazione, se non che gli vengono incontro questi dieci uomini lebbrosi. Coloro che erano affetti da lebbra erano cacciati dalla società, però potevano abitare in luoghi appartati nei villaggi. Secondo le norme descritte nel Levitico (13,45-46) dovevano tenersi a distanza, per evitare il contagio e anche per motivi cultuali, in quanto si trovavano in stato di impurità.
“e dissero ad alta voce: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”.
Il Levitico prescriveva che se essi avessero incontrato qualcuno, avrebbero dovuto gridare “Immondo! Immondo! Immondo!”, ma il loro grido verso Gesù è invece una preghiera: è l'invocazione del nome di Gesù unito al titolo di Maestro, che Luca mette sempre in bocca ai discepoli.
“Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati.
Diversamente dall’episodio narrato dallo stesso Luca nel capitolo 5 (13-14) , Gesù non guarisce i lebbrosi prima di mandarli ai sacerdoti, ma dà subito l'ordine di mostrarsi ad essi.
Come per Naaman il Siro (2Re 5), il miracolo avviene a distanza. Il sacerdote aveva l'incarico, dopo l'esame del caso, di dichiarare impuro il lebbroso, e aveva anche il dovere di dichiararlo puro, dopo la guarigione; non perché svolgeva la funzione di medico, ma in quanto interprete della Legge. Comunque, per il guarito, questa dichiarazione del sacerdote significava la reintegrazione nella comunità civile e religiosa.
“Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; “
Con questo versetto si apre la seconda parte del racconto: il ritorno di un samaritano per ringraziare, come aveva fatto Naaman. Luca però non rivela subito che si tratta di un samaritano e dice solamente “uno di loro”, quasi in un certo senso per prepararci alla sorpresa, mettendo prima in luce la fede dello sconosciuto. Quest'ultimo infatti vede la sua guarigione, il suo è un vedere che non si limita alla costatazione della salute fisica ritrovata, ma implica l'apertura alla fede. Con l’espressione “lodando Dio” , egli riconosce nella guarigione operata da Gesù l'agire di Dio.
“e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.”
Il guarito rende gloria a Dio e riconosce in Gesù l’unico Salvatore e accompagna il suo ringraziamento con un gesto di prostrazione, segno di profondo rispetto. Emerge un particolare: la convivenza tra lebbrosi giudei e samaritani è verosimile, visto che un lebbroso perdeva la sua identità sociale e religiosa. L’evangelista ha voluto così indicare il passaggio dall’antica alla nuova alleanza: invece di presentarsi al sacerdote, perché lo dichiarasse puro, il lebbroso corre ai piedi di Gesù che lo riconosce credente. Le antiche prescrizioni della Legge non sono più valide, la salvezza non dipende più dalla fedele osservanza di quelle norme ma unicamente dal riconoscere Gesù come la fonte della grazia. “La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17).
“Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?”.”
Questo discorso di Gesù, composto da tre domande, costituisce il vertice del racconto. La prima domanda dichiara che tutti hanno beneficiato della guarigione. La seconda nota l'assenza di nove dei guariti. L'ultima precisa ciò che questi avrebbero dovuto fare: non basta la guarigione; essa avrebbe dovuto essere per essi il segno di una realtà nuova; non tornando da Gesù, hanno mancato nell’essenziale. A questa prospettiva si aggiunge anche una nota di esortazione: i doni ricevuti da Dio richiedono la risposta riconoscente dell'uomo. Inoltre, chiamando il samaritano “straniero”, lo si costituisce rappresentante di tutti gli stranieri, del mondo pagano aperto alla salvezza, e posto in contrasto con i membri del popolo eletto.
“E gli disse: “Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!”. Inginocchiandosi quest’uomo riconosce che in Gesù è presente ed opera Dio stesso. Ma il Signore lo rialza e gli annuncia che la guarigione del corpo è accompagnata da un dono molto più importante, quello della fede. Ed è proprio in forza di essa che egli riceve e sperimenta la gioia della salvezza, cioè quella pienezza di vita che invade il cuore dell’uomo e gli permette fin d’ora di gustare l’eterna beatitudine.
Luca, servendosi di una formula conosciuta risalente probabilmente a Gesù, esprime il proprio pensiero: è la fede che salva, non importa se il credente appartenga al popolo d'Israele o alle nazioni pagane.
Il samaritano dunque è salvato sulla base della sua fede, della sua lode pura, del suo ritorno-conversione non verso una guaritore qualsiasi, ma verso il Cristo salvatore. Importante è, infatti, l’attenzione con cui Luca dipinge i gesti che fanno del samaritano un perfetto credente: «Lodava Dio a gran voce, si gettò ai suoi piedi, rendeva gloria a Dio»
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Mentre preghiamo per Papa Leone XIV affinché lo Spirito Santo lo sostenga e lo illumini sempre
ricordiamo le parole di Papa Francesco pronunciate nell’omelia del 9 ottobre 2022
Il ricco del Vangelo viene meno a questo compito; vive nell’opulenza, Mentre Gesù è in cammino, dieci lebbrosi gli vanno incontro gridandogli: «Abbi pietà di noi». Tutti e dieci vengono guariti, ma soltanto uno di loro ritorna per ringraziare Gesù: è un samaritano, una sorta di eretico per i giudei. All’inizio camminano insieme, poi però la differenza la fa quel samaritano, che torna indietro «lodando Dio a gran voce» . Fermiamoci su questi due aspetti che possiamo ricavare dal Vangelo odierno: camminare insieme e ringraziare.
Anzitutto, camminare insieme. All’inizio del racconto non c’è nessuna distinzione tra il samaritano e gli altri nove. Semplicemente si parla di dieci lebbrosi, che fanno gruppo tra di loro e, senza divisione, vanno incontro a Gesù. La lebbra, come sappiamo, non era soltanto una piaga fisica – che anche oggi dobbiamo impegnarci a debellare –, ma anche una “malattia sociale”, perché a quel tempo per timore della contaminazione i lebbrosi dovevano stare fuori dalla comunità (cfr Lv 13,46). Quindi non potevano entrare nei centri abitati, erano tenuti a distanza, relegati ai margini della vita sociale e perfino di quella religiosa, isolati. Camminando insieme, questi lebbrosi manifestano il loro grido nei confronti di una società che li esclude. E notiamo bene: il samaritano, anche se ritenuto eretico, “straniero”, fa gruppo con gli altri. Fratelli e sorelle, la malattia e la fragilità comuni fanno cadere le barriere e superare ogni esclusione.
Si tratta di un’immagine bella anche per noi: quando siamo onesti con noi stessi, ci ricordiamo di essere tutti ammalati nel cuore, di essere tutti peccatori, tutti bisognosi della misericordia del Padre. E allora smettiamo di dividerci in base ai meriti, ai ruoli che ricopriamo o a qualche altro aspetto esteriore della vita, e cadono così i muri interiori, cadono i pregiudizi. Così, finalmente, ci riscopriamo fratelli. Anche Naamàn il siro – ci ha ricordato la prima Lettura -, pur essendo ricco e potente, per guarire ha dovuto fare una cosa semplice: immergersi nel fiume in cui si bagnavano tutti gli altri. Anzitutto ha dovuto togliere la sua armatura, le sue vesti (cfr 2 Re 5): come ci fa bene togliere le nostre armature esteriori, le nostre barriere difensive e fare un bel bagno di umiltà, ricordandoci che siamo tutti fragili dentro, tutti bisognosi di guarigione, tutti fratelli. Ricordiamoci questo: la fede cristiana sempre ci chiede di camminare insieme agli altri, mai di essere marciatori solitari; sempre ci invita a uscire da noi stessi verso Dio e verso i fratelli, mai di chiuderci in noi stessi; sempre ci chiede di riconoscerci bisognosi di guarigione e di perdono, e di condividere le fragilità di chi ci sta vicino, senza sentirci superiori.
Fratelli e sorelle, verifichiamo se nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nei luoghi dove lavoriamo e che ogni giorno frequentiamo, siamo capaci di camminare insieme agli altri, siamo capaci di ascoltare, di superare la tentazione di barricarci nella nostra autoreferenzialità e di pensare solo ai nostri bisogni. Ma camminare insieme – cioè essere “sinodali” – è anche la vocazione della Chiesa. Chiediamoci quanto siamo davvero comunità aperte e inclusive verso tutti; se riusciamo a lavorare insieme, preti e laici, a servizio del Vangelo; se abbiamo un atteggiamento accogliente – non solo con le parole ma con gesti concreti – verso chi è lontano e verso tutti coloro che si avvicinano a noi, sentendosi inadeguati a causa dei loro travagliati percorsi di vita. Li facciamo sentire parte della comunità oppure li escludiamo? Ho paura quando vedo comunità cristiane che dividono il mondo in buoni e cattivi, in santi e peccatori: così si finisce per sentirsi migliori degli altri e tenere fuori tanti che Dio vuole abbracciare. Per favore, includere sempre, nella Chiesa come nella società, ancora segnata da tante disuguaglianze ed emarginazioni. Includere tutti. E oggi, nel giorno in cui Scalabrini diventa santo, vorrei pensare ai migranti. È scandalosa l’esclusione dei migranti! Anzi, l’esclusione dei migranti è criminale, li fa morire davanti a noi. E così, oggi abbiamo il Mediterraneo che è il cimitero più grande del mondo. L’esclusione dei migranti è schifosa, è peccaminosa, è criminale, non aprire le porte a chi ha bisogno. “No, non li escludiamo, li mandiamo via”: ai lager, dove sono sfruttati e venduti come schiavi. Fratelli e sorelle, oggi pensiamo ai nostri migranti, quelli che muoiono. E quelli che sono capaci di entrare, li riceviamo come fratelli o li sfruttiamo? Lascio la domanda, soltanto.
Il secondo aspetto è ringraziare. Nel gruppo dei dieci lebbrosi ce n’è uno solo che, vedendosi guarito, torna indietro per lodare Dio e manifestare gratitudine a Gesù. Gli altri nove vengono risanati, ma poi se ne vanno per la loro strada, dimenticandosi di Colui che li ha guariti. Dimenticare le grazie che Dio ci dà. Il samaritano, invece, fa del dono ricevuto l’inizio di un nuovo cammino: ritorna da Chi lo ha sanato, va a conoscere Gesù da vicino, inizia una relazione con Lui. Il suo atteggiamento di gratitudine non è, allora, un semplice gesto di cortesia, ma l’inizio di un percorso di riconoscenza: egli si prostra ai piedi di Cristo (cfr Lc 17,16), compie cioè un gesto di adorazione: riconosce che Gesù è il Signore, e che è più importante della guarigione ricevuta.
E questa, fratelli e sorelle, è una grande lezione anche per noi, che beneficiamo ogni giorno dei doni di Dio, ma spesso ce ne andiamo per la nostra strada dimenticandoci di coltivare una relazione viva, reale con Lui. È una brutta malattia spirituale: dare tutto per scontato, anche la fede, anche il nostro rapporto con Dio, fino a diventare cristiani che non si sanno più stupire, che non sanno più dire “grazie”, che non si mostrano riconoscenti, che non sanno vedere le meraviglie del Signore.
“Cristiani all’acqua di rose”, come diceva una signora che ho conosciuto. E, così, si finisce per pensare che tutto quanto riceviamo ogni giorno sia ovvio e dovuto. La gratitudine, il saper dire “grazie”, ci porta invece ad affermare la presenza di Dio-amore. E anche a riconoscere l’importanza degli altri, vincendo l’insoddisfazione e l’indifferenza che ci abbruttiscono il cuore. È fondamentale saper ringraziare. Ogni giorno, dire grazie al Signore, ogni giorno saperci ringraziare tra di noi: in famiglia, per quelle piccole cose che riceviamo a volte senza neanche chiederci da dove arrivino; nei luoghi che frequentiamo quotidianamente, per i tanti servizi di cui godiamo e per le persone che ci sostengono; nelle nostre comunità cristiane, per l’amore di Dio che sperimentiamo attraverso la vicinanza di fratelli e sorelle che spesso in silenzio pregano, offrono, soffrono, camminano con noi. Per favore, non dimentichiamo questa parola-chiave: grazie! Non dimentichiamo di sentire e dire “grazie”!
I due Santi oggi canonizzati ci ricordano l’importanza di camminare insieme e di saper ringraziare. Il Vescovo Scalabrini, che fondò due Congregazioni per la cura dei migranti, una maschile e una femminile, affermava che nel comune camminare di coloro che emigrano non bisogna vedere solo problemi, ma anche un disegno della Provvidenza: «Proprio a causa delle migrazioni forzate dalle persecuzioni – egli disse – la Chiesa superò i confini di Gerusalemme e di Israele e divenne “cattolica”; grazie alle migrazioni di oggi la Chiesa sarà strumento di pace e di comunione tra i popoli» (L’emigrazione degli operai italiani, Ferrara 1899). C’è una migrazione, in questo momento, qui in Europa, che ci fa soffrire tanto e ci muove ad aprire il cuore: la migrazione degli ucraini che fuggono dalla guerra. Non dimentichiamo oggi la martoriata Ucraina! Scalabrini guardava oltre, guardava avanti, verso un mondo e una Chiesa senza barriere, senza stranieri. Da parte sua, il fratello salesiano Artemide Zatti, con la sua bicicletta, è stato un esempio vivente di gratitudine: guarito dalla tubercolosi, dedicò tutta la vita a gratificare gli altri, a curare gli infermi con amore e tenerezza. Si racconta di averlo visto caricarsi sulle spalle il corpo morto di uno dei suoi ammalati. Pieno di gratitudine per quanto aveva ricevuto, volle dire il suo “grazie” facendosi carico delle ferite degli altri. Due esempi.
Preghiamo perché questi nostri santi fratelli ci aiutino a camminare insieme, senza muri di divisione; e a coltivare questa nobiltà d’animo tanto gradita a Dio che è la gratitudine Giovanni Battista Scalabrini e Artemide Zatti sono stati entrambi canonizzati il 9 ottobre 2022 da Papa Francesco.
San Giovanni Battista Scalabrini fu vescovo di Piacenza, fondatore delle congregazioni dei Missionari e delle Missionarie di San Carlo, dedicati al servizio dei migranti.
Sant’Artemide Zatti fu un salesiano coadiutore che dedicò la sua vita alla cura dei malati in Patagonia.


