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Feb 28, 2018

III Domenica di Quaresima - Anno B - "I dieci comandamenti" - 4 marzo 2018

Le letture di questa terza domenica di quaresima ci invitano a fare un vero e profondo esame di coscienza per capire fino a che punto siamo veri credenti.
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo, siamo di fronte al Decalogo, le dieci parole, il cuore della legge mosaica e il suggello dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Tre comandamenti garantiscono la fedeltà all’alleanza con Dio e sette regolano la corretta relazione con gli altri.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, a quanti non comprendono il valore della croce l’apostolo Paolo predica Gesù crocifisso, segno rigettato dalla sapienza greca e dalla religione giudaica, ma portatore di salvezza per l’umanità peccatrice.
Nel brano del suo Vangelo, Giovanni ci presenta Gesù in una vesta insolita: una sua reazione violenta, di sdegno, di fronte al degrado in cui gli uomini avevano ridotto il Tempio che, da luogo di preghiera, era divenuto un luogo di mercato. Le parole e i gesti di Gesù sembrano dire che il rapporto con Dio non si mercanteggia e neppure lo si vive mediante il semplice e formale ingresso nel tempio materiale, ma consiste essenzialmente, come ci dice Giovanni in un altro passo del vangelo, nell’adorare Dio “in spirito e verità”.

Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole:
«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile:
Non avrai altri dèi di fronte a me.
Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai adulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Es 20,1-17

Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nella parte precedente questo brano c’è una parte introduttiva nella quale Dio appare a Mosè e per mezzo suo manifesta agli israeliti la decisione di stringere un’alleanza con loro. A questo punto c’è il racconto della manifestazione di Dio e la proclamazione dei comandamenti (il decalogo) che la liturgia oggi ci presenta
Il decalogo si apre con una frase in cui Dio presenta se stesso e al tempo stesso fa un riassunto degli eventi passati:
“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile…”
Egli si presenta non con titoli di potenza ma semplicemente come il Dio di Israele, attribuendosi questo titolo perché ha liberato il popolo dalla schiavitù a cui era stato sottoposto in Egitto. In questa frase sono espressi la motivazione e il significato di tutti i precetti che saranno successivamente elencati: se Dio ordina qualcosa agli israeliti, lo fa solo perché Lui stesso per primo ha dato loro gratuitamente ciò che vi è di più essenziale nella vita; la libertà.
Dopo la frase introduttiva sono elencati i singoli precetti;
Il primo comandamento, che fa seguito immediatamente al prologo, contiene la clausola fondamentale dell’alleanza, che è così espressa: “Non avrai altri dèi di fronte a me.”
Questo precetto non ha lo scopo di inculcare il monoteismo, infatti qui non è negata l’esistenza di altre divinità, ma ne viene vietato il culto e di conseguenza poteri divini. Questo primo comandamento non richiede particolari atti di culto, ma solo una fedeltà totale ed esclusiva nei confronti di Dio.
Il primo comandamento è seguito da un secondo: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo…”. Nell’antico Oriente l’immagine era considerata come oggetto in cui la divinità poteva essere presente e manifestarsi; attraverso di essa si pensava quindi di poter catturare la potenza divina, utilizzandola a proprio uso e consumo. Per l’ebraismo è da tener presente che l’unica immagine di Dio è l’uomo vivente (Gen 1,26-27; Sir 17,3; Sap 2,23). A questo comandamento c’è poi un’altra aggiunta: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai”
Al primo e secondo comandamento viene dato una motivazione: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”.
DIO è un Dio “geloso” in quanto si comporta con Israele come un marito che ama sua moglie e difende il proprio diritto esclusivo nei suoi confronti (V. Os 3,1). La Sua gelosia ha come effetto la punizione del Suo popolo quando questi si allontana da Lui. La pena colpisce quattro generazioni, cioè tutti coloro che convivono nella famiglia patriarcale (padri, figli, nipoti e pronipoti). La “bontà” divina raggiunge invece migliaia di generazioni. In altre parole, il castigo è nulla in confronto alla fedeltà che rappresenta l’agire costante di DIO nel mondo. Inoltre sia la punizione che la fedeltà riguardano non tutti indiscriminatamente, ma solo rispettivamente coloro che lo “odiano” e coloro che lo “amano”. Appare qui per la prima volta il concetto di “amore”, che non è puro sentimento, ma si manifesta nell’osservanza dei comandamenti.
Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nella parte precedente questo brano c’è una parte introduttiva nella quale Dio appare a Mosè e per mezzo suo manifesta agli israeliti la decisione di stringere un’alleanza con loro. A questo punto c’è il racconto della manifestazione di Dio e la proclamazione dei comandamenti (il decalogo) che la liturgia oggi ci presenta
Il decalogo si apre con una frase in cui Dio presenta se stesso e al tempo stesso fa un riassunto degli eventi passati:
“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile…”
Egli si presenta non con titoli di potenza ma semplicemente come il Dio di Israele, attribuendosi questo titolo perché ha liberato il popolo dalla schiavitù a cui era stato sottoposto in Egitto. In questa frase sono espressi la motivazione e il significato di tutti i precetti che saranno successivamente elencati: se Dio ordina qualcosa agli israeliti, lo fa solo perché Lui stesso per primo ha dato loro gratuitamente ciò che vi è di più essenziale nella vita; la libertà.
Dopo la frase introduttiva sono elencati i singoli precetti;
Il primo comandamento, che fa seguito immediatamente al prologo, contiene la clausola fondamentale dell’alleanza, che è così espressa: “Non avrai altri dèi di fronte a me.”
Questo precetto non ha lo scopo di inculcare il monoteismo, infatti qui non è negata l’esistenza di altre divinità, ma ne viene vietato il culto e di conseguenza poteri divini. Questo primo comandamento non richiede particolari atti di culto, ma solo una fedeltà totale ed esclusiva nei confronti di Dio.
Il primo comandamento è seguito da un secondo: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo…”. Nell’antico Oriente l’immagine era considerata come oggetto in cui la divinità poteva essere presente e manifestarsi; attraverso di essa si pensava quindi di poter catturare la potenza divina, utilizzandola a proprio uso e consumo. Per l’ebraismo è da tener presente che l’unica immagine di Dio è l’uomo vivente (Gen 1,26-27; Sir 17,3; Sap 2,23). A questo comandamento c’è poi un’altra aggiunta: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai”
Al primo e secondo comandamento viene dato una motivazione: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”.
DIO è un Dio “geloso” in quanto si comporta con Israele come un marito che ama sua moglie e difende il proprio diritto esclusivo nei suoi confronti (V. Os 3,1). La Sua gelosia ha come effetto la punizione del Suo popolo quando questi si allontana da Lui. La pena colpisce quattro generazioni, cioè tutti coloro che convivono nella famiglia patriarcale (padri, figli, nipoti e pronipoti). La “bontà” divina raggiunge invece migliaia di generazioni. In altre parole, il castigo è nulla in confronto alla fedeltà che rappresenta l’agire costante di DIO nel mondo. Inoltre sia la punizione che la fedeltà riguardano non tutti indiscriminatamente, ma solo rispettivamente coloro che lo “odiano” e coloro che lo “amano”. Appare qui per la prima volta il concetto di “amore”, che non è puro sentimento, ma si manifesta nell’osservanza dei comandamenti.
Nono comandamento Non desidererai la casa del tuo prossimo. Originariamente qui veniva considerato il furto vero e proprio. Si è accertato infatti che in ebraico il verbo “desiderare” indica non solo l’atto per se stesso, ma tutto lo svolgimento che va dalla decisione fino all’appropriazione indebita.
Decimo comandamento Non desidererai la moglie del tuo prossimo… In un primo momento questo precetto era tutt’uno con il precedente, in quanto la casa del prossimo, di cui si proibisce il desiderio, abbracciava tutti i beni in essa contenuti, compresa la moglie, gli schiavi e gli animali. In seguito, quando la proibizione di farsi immagini di DIO è stata inclusa nel primo comandamento e il settimo è passato a significare il furto in generale, il decimo comandamento è stato separato dal nono per indicare non più tutto il processo di appropriazione, ma il semplice atto vero e proprio, che porta di conseguenza all’azione.
Per concludere possiamo dire che questi comandamenti in sintesi richiedono un impegno verticale: amore per Dio, e orizzontale: amore per il prossimo. E’ per questo che il condensato di tutto il Decalogo è nel primo comandamento, nel quale tutti gli altri confluiscono. Non dovremmo mai dimenticare come rispose Gesù quando gli chiesero quale fosse il più grande comandamento della legge: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.”
Basterà osservare bene questi due comandamenti e senza bisogno di pensarci si adempiranno interamente anche gli altri. Possiamo subito renderci conto da noi stessi che non può essere diversamente. Ad esempio: “Non avrai altri dèi di fronte a me”. Se un uomo ama Dio non occorre dirgli una cosa del genere.
“Non pronuncerai invano il nome del Signore”. Chi, amando Dio, sognerebbe di nominarlo invano, mancandogli di rispetto? “Ricordati del giorno di festa per santificarlo”. Non sarebbe egli ben felice di avere un giorno su sette da dedicare più esclusivamente a Chi ama?
Allo stesso modo a chi ama il suo prossimo è superfluo dire di onorare suo padre e sua madre. Non potrebbe farne a meno. Sarebbe assurdo anche dirgli di non uccidere e un insulto suggerirgli di non rubare. Come si può derubare colui che si ama?
Superfluo anche pregarlo di non dir falsa testimonianza contro il vicino. Se lo ama è l'ultima cosa che farebbe, come anche di desiderare i suoi beni e il suo coniuge.

Salmo 18 - Signore, tu hai parole di vita eterna.

La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante.

Il salmista si esprime considerando, in stato di riflessione laudante, la grandezza, la potenza, la bellezza dei cieli, della volta stellata. I cieli “narrano la gloria di Dio” in un’incessante continuità: “Il giorno al giorno ne affida il racconto…”. L’uomo percepisce questo racconto - “senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce” - dei cieli, che glorificano il Creatore, e conduce l’uomo a considerare la potenza, la maestà, la sapienza di Dio e a adorarlo.
La potenza del sole, sfera di fuoco radiante ovunque luce e calore, dà all’orante misura della potenza di Dio. Egli si affida alle immagini della poesia per descriverlo, con un risultato altissimo. Il sole esce radioso, vivo, carico d’amore da donare, come uno sposo che esce dalla stanza nuziale ricco delle effusioni della sposa. Il suo sovrano percorrere il cielo viene paragonato all’incedere glorioso di un prode in mezzo alla strada: nessuno può resistergli.
Il Creatore dell’universo ha stretto alleanza con il suo popolo dando una legge che è perfetta, perché non può ricevere appunti, e che rinfranca il cuore liberandolo dalle tenebre dell’ingiustizia. Questa legge d’amore è portata al suo vertice dal Cristo che la stampa nel cuore dei suoi dando loro lo Spirito Santo.
La legge, portata a compimento da Cristo, è la testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini. Tale testimonianza, che è stata sigillata dal sangue di Cristo, non delude. Essa è verace, luminosa, e rende saggio colui che non si presenta a Dio col vizio di pensieri oscuri.
Il salmista ha sperimentato nella sua vita quanto sia giusta la legge del Signore, tanto che fa gioire il cuore.
La legge, i suoi comandi, sono limpidi, perché non oscurano gli occhi portandoli a veder in modo malvagio le cose, ma li liberano dalle oscurità per dare loro la capacità di un luminoso vedere la bellezza delle cose,che inneggiano al Creatore e servono l’uomo.
“Il timore del Signore è puro”, perché non è come quello di chi teme la punizione perché colpevole, ma è il timore puro di chi teme di giungere a rattristare Dio con la disobbedienza alla legge d’amore verso lui e verso gli altri.
Il salmista comincia a focalizzarsi sull’effetto della legge su di lui; di lui che è piccolo, ma che è istruito dai giudizi di Dio, che sono contenuti nella legge, poiché Dio giudica gli uomini con quella legge.
Il salmista è consapevole di avere tante mancanze di cui non si rende pienamente conto: le “inavvertenze”. Di queste chiede a Dio perdono. Egli, infatti, anche se osserva la legge non reputa per niente di osservarla perfettamente e sa che sta nell’orgoglio la ragione di una scarsa osservanza. Orgoglio che se non dominato conduce l’uomo al grande peccato, cioè al peccato di una grande e palese disobbedienza alla legge.
Per ultimo, il salmista, chiede a Dio che ascolti, nella sua bontà misericordiosa, la sua preghiera che sgorga da un cuore retto e non doppio, consapevole di non poter nascondere nulla a Dio: “Davanti a te i pensieri del mio cuore”.
Infine, il salmista, sigilla la sua preghiera dicendo: “Signore, mia roccia e mio redentore”. “Mia rupe”, perché è la sua difesa dai suoi nemici (I nemici sono innanzi tutto i demoni Cf. Ef 6,12); ed è “mio redentore”, perché con la sua legge e la sua grazia lo ha strappato dal buio dell’ignoranza e del peccato.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera dei S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
1Cor 1,22-25

Nel 52-54 San Paolo pose le fondamenta a Corinto di una comunità viva, composta soprattutto di pagani di modesta condizione. Due anni dopo, mentre si trovava ad Efeso, l’Apostolo ha sentore delle divisioni che agitano questa giovane comunità, ed alcuni corinzi lo raggiungono per sottoporgli le loro difficoltà. L’apostolo scrive attorno al 55-56 questa lettera, che noi chiamiamo prima, anche se si suppone che ce ne sia stata un’altra che però è andata perduta.
Questa prima lettera è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale. Vi si trovano infatti informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna“, purezza dei costumi, matrimonio e verginità, svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell’eucaristia, uso dei carismi; sia per i rapporti con il mondo pagano.
Nella prima sezione della lettera, da dove è stato tratto questo brano, Paolo affronta il tema della divisione della comunità in partiti, dopo che i corinzi avevano cercato una sapienza umana, quella rappresentata dagli insegnamenti dei singoli predicatori, che li ha portati alla divisione.
Paolo, nonostante la sua istruzione, non si era fatto notare a Corinto per la sua sapienza, la sua cultura o la sua eloquenza. Avrebbe contraddetto il suo insegnamento, poiché la croce di Cristo, che egli annunciava, significa proprio la fine di tutto ciò di cui l’uomo s’inorgoglisce.
Il brano inizia con parole di sfida: mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani;
In modi diversi sia gli uni che gli altri vogliono acquistare potere e dominio sulla realtà: ma così si precludono la possibilità di scoprire la vera sapienza di Dio.
In contrasto con queste aspettative umane Paolo annuncia Cristo crocifisso, proprio perché il Crocifisso rappresenta per i giudei, con la sua debolezza, un motivo di “scandalo”, per i greci invece egli è ”stoltezza”, ossia la negazione della sapienza che essi cercano.
Ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. ossia per i “chiamati” che lo hanno accettato con fede, il Cristo annunziato da Paolo è “potenza e sapienza di Dio”.
Dio si è servito di Suo figlio, uomo crocifisso, come strumento per portare a termine la Sua creazione e per chiamare a sé tutta l’umanità.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
Gv 2, 13-25

Il Vangelo di Giovanni inizia dopo il Prologo riportando la testimonianza di Giovanni Battista (1,19-34), poi la chiamata dei primi discepoli (1,35-51) e infine il primo segno compiuto da Gesù a Cana di Galilea, il cambiamento dell’acqua in vino. (2,1-12). Subito dopo viene presentato l’episodio, che troviamo in questo brano liturgico, conosciuto come la “Cacciata dei mercanti dal tempio”,
Mentre per i sinottici questo episodio dà inizio alla settimana conclusiva della vita di Gesù, Giovanni lo pone all’inizio del Suo ministero.
Il brano si apre riportandoci che:” Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme”. Gesù sale a Gerusalemme in quanto si adegua alle feste liturgiche di Israele, ma per dare loro anche un significato nuovo. L’evangelista non precisa in quale momento delle celebrazioni pasquali l’episodio è avvenuto, mentre per i sinottici si tratta del lunedì santo.
Gesù entrato nel tempio: “Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete”. Il termine “tempio” qui non indica il luogo santo, considerato come la dimora di Dio, ma i cortili esterni, accessibili anche ai non giudei, chiamati anche “cortile dei gentili”. Gli animali venivano venduti perché i pellegrini, specialmente quelli venuti da lontano, potessero disporre di vittime per i sacrifici; i cambiavalute invece trasformavano il denaro profano nell’unica moneta ammessa nel tempio. Si trattava quindi di un’attività non solo lecita, ma anche indispensabile per il funzionamento del tempio.
Posto di fronte a questa realtà Gesù reagisce in modo molto duro: fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
Secondo Giovanni, Gesù rimprovera i giudei non perché, pur offrendo sacrifici a Dio, rifiutano il suo inviato, ma perché servendosene per usi commerciali, profanano il tempio, rendendolo inadatto al culto sacrificale. Giovanni aggiunge che i discepoli si ricordarono una frase della Scrittura che dice: Lo zelo per la tua casa mi divorerà”. La frase è del salmo 69, in cui il salmista si lamenta con Dio per la persecuzione che subisce da parte dei suoi avversari, e nel v. 10 egli sottolinea come sia pieno di un amore senza confini per il tempio di Dio, cioè per Dio stesso, e lascia intendere che proprio per questo è stato perseguitato.
In Giovanni invece il verbo “divorare” è al futuro, e sicuramente perché vuole alludere alla morte a cui Gesù va incontro proprio in forza del rapporto speciale che lo unisce a Dio: è proprio l’amore per la casa di Dio che lo porterà sulla croce.
Finora i giudei sono rimasti in silenzio di fronte a quanto Gesù aveva fatto. Ora essi intervengono chiedendo a Gesù: Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere.
Questa volta il termine “tempio” indica il luogo santo in cui era localizzata la presenza di Dio. La frase pronunziata da Gesù richiama quella che i falsi testimoni gli attribuiranno nel corso del processo davanti al sommo sacerdote.
I giudei ribattono: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Essi si riferiscono ai lavori fatti da Erode per la restaurazione del tempio, per cui si può dedurre che questi sarebbero stati iniziati verso il 20 a.C.
L’evangelista non riporta alcuna risposta di Gesù, limitandosi a dire che egli parlava del tempio del Suo corpo. Non si tratta quindi del tempio materiale, ma della persona di Gesù, intesa come il luogo in cui Dio abita. L’evangelista fa questa riflessione “Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. “
È chiaro quindi che secondo Giovanni, Gesù parlava della Sua risurrezione, lasciando così intendere che in forza di essa il Suo corpo sarebbe diventato il vero tempio in cui Dio abita in mezzo al Suo popolo.
Ma tutto questo neppure i discepoli l’hanno capito durante la Sua vita terrena. È lo Spirito infatti che, dopo la Pasqua, farà comprendere pienamente ai discepoli le parole e i gesti di Gesù, illuminando in profondità il loro significato e permettendo di attualizzarli nel presente.
Al termine del racconto l’evangelista osserva: Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
Gesù ha compiuto numerosi miracoli nel corso della Sua vita e Giovanni definendoli come “segni”, conferisce loro il compito di suscitare la fede in Gesù. A Gerusalemme i segni da Lui operati suscitano l’entusiasmo, ma Gesù conosce l'intimo dell'uomo, le sue fragilità e non si lascia ingannare dall'entusiasmo superficiale che segue i Suoi segni. Il rapporto con Dio non si mercanteggia, sembrano dire le parole e i gesti di Gesù. E neppure lo si vive mediante il semplice e formale ingresso nel tempio materiale. Esso consiste essenzialmente nell’adorare Dio “in spirito e verità”, secondo quanto Gesù ci dice in un altro passo del Vangelo di Giovanni.

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"Il Vangelo di oggi ci presenta l’episodio della cacciata dei venditori dal tempio, Gesù «fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi», il denaro, tutto. Tale gesto suscitò forte impressione, nella gente e nei discepoli. Chiaramente apparve come un gesto profetico, tanto che alcuni dei presenti domandarono a Gesù: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?», chi sei tu per fare queste cose? Mostraci un segno che tu hai autorità per farle.
Cercavano un segno divino, prodigioso che accreditasse Gesù come inviato da Dio. Ed Egli rispose: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli replicarono: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Non avevano compreso che il Signore si riferiva al tempio vivo del suo corpo, che sarebbe stato distrutto nella morte in croce, ma sarebbe risorto il terzo giorno. Per questo “in tre giorni”. «Quando poi fu risuscitato dai morti – annota l’Evangelista – i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù».
In effetti, questo gesto di Gesù e il suo messaggio profetico si capiscono pienamente alla luce della sua Pasqua. Abbiamo qui, secondo l’evangelista Giovanni, il primo annuncio della morte e risurrezione di Cristo: il suo corpo, distrutto sulla croce dalla violenza del peccato, diventerà nella Risurrezione il luogo dell’appuntamento universale tra Dio e gli uomini. E Cristo Risorto è proprio il luogo dell’appuntamento universale - di tutti! - fra Dio e gli uomini. Per questo la sua umanità è il vero tempio, dove Dio si rivela, parla, si fa incontrare; e i veri adoratori, i veri adoratori di Dio non sono i custodi del tempio materiale, i detentori del potere o del sapere religioso, sono coloro che adorano Dio «in spirito e verità» (Gv 4,23).
In questo tempo di Quaresima ci stiamo preparando alla celebrazione della Pasqua, quando rinnoveremo le promesse del nostro Battesimo. Camminiamo nel mondo come Gesù e facciamo di tutta la nostra esistenza un segno del suo amore per i nostri fratelli, specialmente i più deboli e i più poveri, noi costruiamo a Dio un tempio nella nostra vita. E così lo rendiamo “incontrabile” per tante persone che troviamo sul nostro cammino. Se noi siamo testimoni di questo Cristo vivo, tante gente incontrerà Gesù in noi, nella nostra testimonianza. Ma - ci domandiamo, e ognuno di noi si può domandare –: il Signore si sente veramente a casa nella mia vita? Gli permettiamo di fare “pulizia” nel nostro cuore e di scacciare gli idoli, cioè quegli atteggiamenti di cupidigia, gelosia, mondanità, invidia, odio, quell’abitudine di chiacchierare e “spellare” gli altri? Gli permetto di fare pulizia di tutti i comportamenti contro Dio, contro il prossimo e contro noi stessi, come oggi abbiamo sentito nella prima Lettura? Ognuno può rispondere a sé stesso, in silenzio, nel suo cuore. “Io permetto che Gesù faccia un po’ di pulizia nel mio cuore?”. “Oh, padre, io ho paura che mi bastoni!”. Ma Gesù non bastona mai. Gesù farà pulizia con tenerezza, con misericordia, con amore. La misericordia è il suo modo di fare pulizia. Lasciamo - ognuno di noi - lasciamo che il Signore entri con la sua misericordia - non con la frusta, no, con la sua misericordia - a fare pulizia nei nostri cuori. La frusta di Gesù con noi è la sua misericordia. Apriamogli la porta perché faccia un po’ di pulizia.
Ogni Eucaristia che celebriamo con fede ci fa crescere come tempio vivo del Signore, grazie alla comunione con il suo Corpo crocifisso e risorto. Gesù conosce quello che c’è in ognuno di noi, e conosce pure il nostro più ardente desiderio: quello di essere abitati da Lui, solo da Lui. Lasciamolo entrare nella nostra vita, nella nostra famiglia, nei nostri cuori. Maria Santissima, dimora privilegiata del Figlio di Dio, ci accompagni e ci sostenga nell’itinerario quaresimale, affinché possiamo riscoprire la bellezza dell’incontro con Cristo, che ci libera e ci salva."
Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’8 marzo 2018

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