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Apr 11, 2019

Domenica delle Palme - Anno C - "L'ingresso del Signore in Gerusalemme" - 14 aprile 2019

Le letture liturgiche di questa ultima domenica di quaresima, conosciuta anche come domenica di Passione, ci introducono alla Settimana Santa, (santa perchè dobbiamo essere più vicini al Santo) e ci rendono quanto mai partecipi delle sofferenze di Cristo che affronta la Sua dolorosa passione per la nostra salvezza.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia attraverso il canto del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo la vita e la passione di Gesù. Il suo atteggiamento di fiducia in Dio e di amore per i fratelli lo lascia in una suprema libertà di fronte ad ogni prova. Egli ha la certezza che la sua missione non è vana.
Nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Filippesi, S.Paolo, con l’Inno Cristologico, rivela il mistero dell’abbassamento di Cristo e l’intervento di Dio in Suo favore: il Padre lo esalta, ponendolo al di sopra di tutte le cose e di tutti gli esseri viventi.
Il racconto della passione, tratta dal Vangelo di Luca, riporta l’istituzione del eucaristia incorniciata nei giorni della passione di Gesù, e le sue ultime parole: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». che è come la sintesi di una lunga lezione che Gesù ha distribuito nel Vangelo di Luca

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”».
Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno».
Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:
«Benedetto colui che viene,
il re, nel nome del Signore!.
Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».
Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
Lc 19, 28-40

Dal capitolo 19 del vangelo di Luca, è stato tratto questo brano per commentare l’entrata di Gesù a Gerusalemme
“Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme”. Gesù, qui appare come il pastore davanti al gregge, che cammina “salendo verso Gerusalemme”.
“Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo «Andate nel villaggio di fronte;”
Per comprendere questo brano bisogna rifarsi alla profezia di Zaccaria al capitolo 9, dove il profeta annunzia l’arrivo di un re, di un messia, completamente diverso da quelli attesi. Non un messia che viene con potenza, con la forza delle armi, non con i carri o con i cavalli, ma un messia di pace. E per indicare questo messia di pace, anziché presentarlo vittorioso sopra una cavalcatura regale, il profeta Zaccaria lo fa vedere che cavalca un asino, un puledro, figlio di asina. Bisogna perciò tener conto di questa profezia per comprendere quello che l’evangelista ci vuol dire.
“entrando,troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui”.
L’evangelista vuole evidenziare che questa profezia è stata considerata di meno valore delle altre, e tra le tante attese di un messia trionfatore, non era stata neanche presa in considerazione. Il verbo slegare, relativo all’ordine di Gesù: “slegatelo!” riferito al puledro, sarà ripetuto in questo brano per ben quattro volte. Gesù è venuto a sciogliere quella profezia che era rimasta legata, nascosta, quella di un messia di pace, che nessuno poteva immaginare.
“E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”.
Il Signore dunque è colui che slega la profezia, colui che libera, mentre i capi del popolo la tenevano legata.
“Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada”.
Era tipico nell’investitura regale, che il popolo, come segno di sottomissione, stendesse il mantello sulla strada e il re vi passasse sopra, come segno di dominio. Quindi vediamo che ci sono coloro che accettano questo messia di pace ma anche una parte della folla, che attendendo un messia dominatore, è pronta a sottomettersi a questo re.
“Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto” e, citando il Salmo 119, dicevano «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore!. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».”
Di fronte a questa reazione del popolo, i rappresentanti religiosi “alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli».
E’ pronta la risposta di Gesù:«Io vi dico, se questi taceranno, grideranno le pietre».
E’ importante tenere presente che la discesa del monte degli Ulivi, all’ingresso di Gerusalemme, passa attraverso la valle di Giosafat, chiamata anche la valle del giudizio, che era disseminata di pietre tombali. Per questo Gesù dice che se anche i vivi taceranno, i morti, cioè gli israeliti che hanno vissuto prima di loro e che da sempre hanno vissuto e costruito questa attesa di un messia, saranno loro, rappresentati dalle pietre tombali, a gridare.
Quindi l’evangelista assicura che, anche se si mettono a tacere i discepoli, la forza della vita che è insita anche in quest’ambito di morte, proclamerà il dono di Dio all’umanità, cioè un messia che porta la pace.

Dal libro del profeta Isaia
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
Is 50,4-7

In questo carme del Servo sofferente, il profeta (Deuteroisaia) presenta un personaggio misterioso che percorre la via della sofferenza, della fedeltà alla Parola, fino alla donazione di se stesso, in mezzo a torture “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,” insulti “non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.” e oltraggi di ogni specie “le mie guance a coloro che mi strappavano la barba”.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il Suo progetto nonostante tutte le contestazioni.
Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale, ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Fa impressione vedere come la profezia del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo di 550 anni, la vita e la passione di Gesù.

Salmo 21 Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno forato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.

Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe.

Il salmo presenta un giusto sofferente e perseguitato, pieno di speranza in Dio.
L’autore del salmo guarda alla sua esperienza di dolore, ma anche intende proporre un modello di sofferente che sostenga i fedeli nel momento della prova più terribile, cioè quando sono rifiutati, colpiti, dalla loro stessa gente. Il risultato presenta una tale aderenza nella descrizione di molte delle sofferenze di Cristo da dire che l’ispirazione ha modellato il giusto del salmo sul Cristo crocifisso.
Le prime parole del salmo sono un’invocazione sgomenta dinanzi a Dio; sgomenta, ma senza alcun rimprovero. E’ un gemito rivelatore del suo grande tormento interiore: essere di fronte all’abbandono di Dio, al silenzio di Dio, che sembra assente, mentre egli è il Dio presente come attesta il tempio.
Il punto che lo sconvolge, è che il suo popolo, quello che vive all’ombra del tempio e che dovrebbe essere laudante attorno al trono di Dio “Tu siedi in trono fra le lodi di Israele” rifiuta la giustizia, e così anche la propria storia di popolo chiamato a proclamare i benefici di Dio. “In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li hai liberasti” dice, alludendo alla liberazione dall’Egitto.
Ma, ecco, egli è diventato “rifiuto degli uomini”, schiacciato a terra come un verme, privato della dignità di uomo. Di fronte a sé ha solo schernitori che si sfoggiano un sentirsi a posto con Dio, visto che Dio è dalla loro parte poiché non porta aiuto a colui che ora è nelle loro mani e che si diceva suo amico: “Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!”. Ma il giusto perseguitato e colpito continua a confidare in Dio; non raccoglie la velenosa provocazione che lo vorrebbe rendere dubbioso davanti a Dio. Dio lo ha tratto dal grembo di sua madre; cioè il Padre ha dato al Figlio una natura umana, e, una sola persona (Figlio) in due nature, lo ha tratto dal grembo di una donna, e al suo nascere lo ha preso subito sulle sue ginocchia (Cf. Gn 50,23; Is 46,3) in riconoscimento della sua paternità.
L’aggressione che egli subisce è violenta, implacabile: “Mi circondano tori numerosi, mi assediano grossi tori di Basan…" (Basan è una regione ricca di pascoli a sud di Damasco). “Io sono come acqua versata”, buttato via, gettato via, come acqua. Colpito, strattonato, è pieno di dolore: “sono slogate tutte le mie ossa”. Il suo cuore cede per il dolore e lo sforzo d’amare; ed egli avverte che viene meno come colpito da infarto: “Il mio cure è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere”.
E’ disidratato e la sete lo attanaglia; la sua gola è riarsa e non può muovere che a stento la lingua: “La mia lingua si è incollata alla gola”. Egli si trova “su polvere di morte” senza scampo.
Gli avversari si sono ancora di più incattiviti vedendo la sua perseveranza, sono diventati un “branco di cani” che addentano. Premuto, assediato da ogni parte, gli vengono trafitti i piedi e le mani così da impedire che si muovesse o si difendesse dai colpi: l’autore del salmo non pensava alla crocifissione, pena di morte introdotta più tardi dai romani. “Posso contare tutte le mie ossa”, l’espressione rende l’idea complessiva del dolore che gli viene da ogni parte del corpo, ma la traduzione della Volgata di san Gerolamo - “hanno contato tutte le mie ossa” - è sicuramente proveniente da un manoscritto migliore in questo punto perché fa vedere anche la crudeltà degli aggressori, che hanno badato a che nessuna parte del corpo del giusto giustiziato fosse senza ferita e dolore.
Gli aggressori si compiacciono ferocemente dei dolori del giusto giustiziato : “essi stanno a guardare e mi osservano”. E sono tanto noncuranti di lui che giocano a dadi le sue vesti, secondo il diritto che si aveva sui condannati: “sulla mia tunica gettano la sorte”.
Di fronte a questo stato di strazio il giusto giustiziato non cessa di pregare e domanda aiuto a Dio per sfuggire non già alla morte, ma alla morte cui segue la consunzione della tomba, e questo mediante la risurrezione.
“Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”, dice. Risorto darà luce ai suoi fratelli, loderà il Padre nell’assemblea dei credenti (Cf. 1Cor 15,6).
Egli dirà: “Lodate il Signore, voi suoi fedeli, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza di Israele…”. E nella Chiesa, nella grande assemblea, loderà il Padre. Nella Grande Assemblea dove egli sarà presente con la sua Parola, con la sua reale presenza Eucaristica e col dono dello Spirito Santo.
Nel banchetto della carità “i poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano”.
La visione diventa universale, perché la salvezza del Cristo è universale: “Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli”.
I popoli all’annunzio del Vangelo ricorderanno ciò che avevano dimenticato, che l’uomo è capace di Dio, che Dio è uno solo e che è bontà. Che il regno del mondo (Ap 11,15) è di Dio, e sue sono tutte le nazioni. E non solo ricorderanno e torneranno, che equivale a convertirsi, ma insieme a ciò crederanno alla lieta notizia evangelica, quella del regno dei cieli presente nella Chiesa per lievitare tutta la terra conquistata dal Cristo.
A Dio solo, liberi in eterno da ogni influsso di idolatria, si prostreranno, nel giorno della risurrezione, quanti ora dormono sotto terra.
Il grande Giusto giustiziato esprime la sua certezza che egli vivrà, risorgerà da morte e celebrerà in eterno il Padre: “Ma io vivrò per lui”.
E la sua discendenza, la Chiesa, servirà in lui, nel dono dello Spirito Santo, il Padre, portando la salvezza da lui ottenuta per tutte le genti. “Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia”, e la sua giustizia del Padre è Cristo, che ha espiato le colpe degli uomini. “Ecco l’opera del Signore”, diranno alle generazioni che si susseguono. E “l’opera del Signore” è Cristo, Cristo vivente nella Chiesa.
Commento di P. Paolo Berti

Dalla lettera di S Paolo apostolo ai Filippesi
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,6-11

Questo brano, tratto dalla lettera ai Filippesi, è conosciuto come Inno Cristologico. Con tutta probabilità era un inno già diffuso tra le comunità cristiane e Paolo lo inserisce nella sua lettera, per esortare i Filippesi a non agire per rivalità o vanagloria ma ad avere in sé gli stessi sentimenti di Cristo.
“Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio,”
Qui si afferma che Gesù aveva forma di Dio e si sottolinea il paradosso del gesto libero e volontario con cui Gesù vi ha rinunciato. “La forma di Dio”, che giustamente è stato tradotto con “condizione di Dio,” comporta dominio, autorità e dignità. Gesù non ha voluto sfruttare a suo vantaggio queste sue prerogative.
“ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo,”
Svuotando se stesso, ha messo da parte le qualità divine che non erano compatibili con la realtà dell'incarnazione. Questo svuotamento è servito dunque per assumere la condizione di servo, l'esatto opposto della condizione di Dio. Durante la sua vita terrena Egli non volle comportarsi come Dio e Signore degli uomini, ma come servo, privo di ogni dignità, autorità e potere, completamente dedito all'umile servizio degli altri. C’è un chiaro riferimento al Servo di JHWH di cui si parla in Isaia 52,13-53,12 che sopporta la sofferenza per riconciliare gli uomini tra di loro e con Dio.
“diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”.
Gesù è divenuto simile agli uomini, ma non solo: è stato riconosciuto in tutto e per tutto come un uomo. Non solo: in mezzo agli uomini Egli si è ulteriormente umiliato, ha portato il suo svuotamento fino in fondo. Ciò non vuol dire che Gesù ha cessato di essere uguale a Dio, ma che si è spogliato, nella sua umanità, della sua gloria divina manifestata solo nella trasfigurazione. Il farsi obbediente fino alla morte quindi non è solo la descrizione di un itinerario che lo ha portato alla morte, ma un atteggiamento costante, che ha caratterizzato l'obbedienza e la mitezza di Gesù per tutta la sua vita.
Gesù inoltre è arrivato alla morte, ma ad una morte di croce. L’Apostolo ha voluto fare questa precisazione perchè gli Efesini, molti dei quali avevano cittadinanza romana, sapevano che la morte di croce era l'umiliazione più degradante, il colmo dell'abiezione.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome,”
Il soggetto qui non è più Gesù bensì Dio, il Padre. Proprio perché Cristo ha accettato di umiliarsi fino in fondo, il Padre lo ha esaltato. Inoltre Dio Padre gli ha donato,un nome che è al di sopra di tutti gli altri
“perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra,”
Gesù viene esaltato perché davanti al suo nome ogni creatura si prostri in adorazione.
“e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!»,a gloria di Dio Padre”.
L'inno raggiunge il massimo in questo versetto. Ogni lingua proclamerà che Gesù è Dio, è il Signore, il Kyrios.
Gesù che durante la sua esistenza terrena ha voluto toccare il fondo dello svuotamento e dell'umiliazione, è stato innalzato alla suprema dignità.
Al termine abbiamo poi l'espressione: a gloria di Dio Padre. Con queste parole si vuole affermare che Gesù Cristo Signore non è il sostituto né un concorrente di Dio, in quanto la confessione della signoria di Cristo ritorna alla fine a gloria di Dio Padre.

Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca

Seguendo Gesù nella passione ogni credente è chiamato ad immedesimarsi in alcuni personaggi che si trovano nel racconto di Luca: Simone di Cirene e le donne, non sono spettatori o testimoni neutri, ma sono quasi dei modelli della sequela di Gesù. Di Simone, Luca nota che: “ gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù” e questa espressione Luca la usa per definire il discepolo di Gesù “che porta ogni giorno la sua croce” per seguire il suo Signore fino alla fine. Le donne “si battevano il petto” e questo gesto sarà ripetuto dalla folla che “se ne tornava battendosi il petto”.
Gesù sulla croce offre al discepolo di ogni tempo e di ogni luogo, un altro grande esempio da concretizzare nella vita, quello del perdono dei peccatori e delle offese ricevute: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». In questa linea d’amore, di perdono e di donazione sino all’ultimo si colloca anche l’episodio riferito da Luca, del malfattore pentito a cui Gesù offre il dono della salvezza nel Regno. Con quest’uomo noi tutti dobbiamo ripetere: Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E con queste parole di conversione anche per noi si spalancheranno le braccia dell’amore misericordioso di Dio.
Anche nella Sua morte, Gesù, agli occhi di Luca, diventa il segno di un’altra vita da seguire, quella del perfetto abbandono nelle mani di Dio. Come è noto, è solo Luca a citarne un’altra preghiera finale di Gesù moribondo, oltre a quella del salmo 21 . «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Infatti riprendendo il salmo 31, Gesù esclama: : «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». E’ come la sintesi di una lunga lezione che Gesù ha distribuito nel Vangelo di Luca … l’ultima parola che affiora sulle labbra di Gesù è, secondo Luca, in quel “Padre!” finale, pronunziato con serenità e fiducia.

 

*****

Le parole di Papa Francesco

“Benedetto colui che viene nel nome del Signore», gridava festante la folla di Gerusalemme accogliendo Gesù. Abbiamo fatto nostro quell’entusiasmo: agitando le palme e i rami di ulivo abbiamo espresso la lode e la gioia, il desiderio di ricevere Gesù che viene a noi. Sì, come è entrato a Gerusalemme, Egli desidera entrare nelle nostre città e nelle nostre vite. Come fece nel Vangelo, cavalcando un asino, viene a noi umilmente, ma viene «nel nome del Signore»: con la potenza del suo amore divino perdona i nostri peccati e ci riconcilia col Padre e con noi stessi.
Gesù è contento della manifestazione popolare di affetto della gente, e quando i farisei lo invitano a far tacere i bambini e gli altri che lo acclamano risponde: «Se questi taceranno, grideranno le pietre» . Niente poté fermare l’entusiasmo per l’ingresso di Gesù; niente ci impedisca di trovare in Lui la fonte della nostra gioia, la gioia vera, che rimane e dà la pace; perché solo Gesù ci salva dai lacci del peccato, della morte, della paura e della tristezza.
Ma la Liturgia di oggi ci insegna che il Signore non ci ha salvati con un ingresso trionfale o mediante potenti miracoli. L’apostolo Paolo, nella seconda Lettura, sintetizza con due verbi il percorso della redenzione: «svuotò» e «umiliò» sé stesso . Questi due verbi ci dicono fino a quale estremo è giunto l’amore di Dio per noi. Gesù svuotò sé stesso: rinunciò alla gloria di Figlio di Dio e divenne Figlio dell’uomo, per essere in tutto solidale con noi peccatori, Lui che è senza peccato. Non solo: ha vissuto tra noi in una «condizione di servo»: non di re, né di principe, ma di servo. Quindi si è umiliato, e l’abisso della sua umiliazione, che la Settimana Santa ci mostra, sembra non avere fondo.
Il primo gesto di questo amore «sino alla fine» è la lavanda dei piedi. «Il Signore e il Maestro», si abbassa fino ai piedi dei discepoli, come solo i servi facevano. Ci ha mostrato con l’esempio che noi abbiamo bisogno di essere raggiunti dal suo amore, che si china su di noi; non possiamo farne a meno, non possiamo amare senza farci prima amare da Lui, senza sperimentare la sua sorprendente tenerezza e senza accettare che l’amore vero consiste nel servizio concreto.
Ma questo è solo l’inizio. L’umiliazione che Gesù subisce si fa estrema nella Passione: viene venduto per trenta denari e tradito con un bacio da un discepolo che aveva scelto e chiamato amico. Quasi tutti gli altri fuggono e lo abbandonano; Pietro lo rinnega tre volte nel cortile del tempio. Umiliato nell’animo con scherni, insulti e sputi, patisce nel corpo violenze atroci: le percosse, i flagelli e la corona di spine rendono il suo aspetto irriconoscibile. Subisce anche l’infamia e la condanna iniqua delle autorità, religiose e politiche: è fatto peccato e riconosciuto ingiusto. Pilato, poi, lo invia da Erode e questi lo rimanda dal governatore romano: mentre gli viene negata ogni giustizia, Gesù prova sulla sua pelle anche l’indifferenza, perché nessuno vuole assumersi la responsabilità del suo destino.
E penso a tanta gente, a tanti emarginati, a tanti profughi, a tanti rifugiati, a coloro dei quali molti non vogliono assumersi la responsabilità del loro destino. La folla, che poco prima lo aveva acclamato, trasforma le lodi in un grido di accusa, preferendo persino che al suo posto venga liberato un omicida. Giunge così alla morte di croce, quella più dolorosa e infamante, riservata ai traditori, agli schiavi, ai peggiori criminali. La solitudine, la diffamazione e il dolore non sono ancora il culmine della sua spogliazione. Per essere in tutto solidale con noi, sulla croce sperimenta anche il misterioso abbandono del Padre. Nell’abbandono, però, prega e si affida: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Appeso al patibolo, oltre alla derisione, affronta l’ultima tentazione: la provocazione a scendere dalla croce, a vincere il male con la forza e a mostrare il volto di un dio potente e invincibile. Gesù invece, proprio qui, all’apice dell’annientamento, rivela il volto vero di Dio, che è misericordia. Perdona i suoi crocifissori, apre le porte del paradiso al ladrone pentito e tocca il cuore del centurione. Se è abissale il mistero del male, infinita è la realtà dell’Amore che lo ha attraversato, giungendo fino al sepolcro e agli inferi, assumendo tutto il nostro dolore per redimerlo, portando luce nelle tenebre, vita nella morte, amore nell’odio.
Può sembrarci tanto distante il modo di agire di Dio, che si è annientato per noi, mentre a noi pare difficile persino dimenticarci un poco di noi. Egli viene a salvarci; siamo chiamati a scegliere la sua via: la via del servizio, del dono, della dimenticanza di sé. Possiamo incamminarci su questa via soffermandoci in questi giorni a guardare il Crocifisso, è la “cattedra di Dio”.
Vi invito in questa settimana a guardare spesso questa “cattedra di Dio”, per imparare l’amore umile, che salva e dà la vita, per rinunciare all’egoismo, alla ricerca del potere e della fama. Con la sua umiliazione, Gesù ci invita a camminare sulla sua strada. Rivolgiamo lo sguardo a Lui, chiediamo la grazia di capire almeno qualcosa di questo mistero del suo annientamento per noi; e così, in silenzio, contempliamo il mistero di questa Settimana.”

Papa Francesco Omelia tenuta del Papa nella domenica delle Palme del 2016

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