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Feb 17, 2016

II Domenica di Quaresima 21 Febbraio

II Domenica di Quaresima – Anno C – La Trasfigurazione di Gesù - 21 febbraio 2016

Le letture liturgiche di questa domenica sono all’insegna di un grande simbolo biblico, quello della rivelazione-manifestazione gloriosa di Dio all’interno della storia umana. Il tempo quaresimale è tempo di penitenza, di attesa, di fede, di preghiera e le letture liturgiche ci offrono testi su cui meditare.

Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, vediamo che Dio stipula l’alleanza con Abramo. E’ Dio stesso che prende l’iniziativa e si manifesta ad Abramo, facendogli una promessa e stabilendo con lui un’alleanza.

Nella seconda lettura, S.Paolo nella sua lettera ai Filippesi afferma che la trasfigurazione di Gesù è figura e promessa della nostra trasfigurazione con Lui. “il Signore Gesù trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso”.

Nel Vangelo di Luca, con la sua gloriosa trasfigurazione Gesù ci invita a meditare sulla Sua prossima morte; lo fa per ricordarci che la Sua morte è l’antefatto della Sua risurrezione.
Morte e vita, penitenza e rigenerazione, Quaresima e Pasqua, Purgatorio e Paradiso, fede e salvezza, giustizia e amore, peccato e grazia sono i contrapposti binomi su cui si fondano la coscienza, l’esperienza e la speranza cristiana.

Dal libro della Gènesi
In quei giorni, Dio condusse fuori Abram e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza». Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
E gli disse: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra». Rispose: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?». Gli disse: «Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo». Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli. Gli uccelli rapaci calarono su quei cadaveri, ma Abram li scacciò. Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono.
Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram:
“Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume,il fiume Eufrate”.
Gen 15,5-12.17-18

Il Libro della Genesi (in ebraico בראשית bereshìt, "in principio"), è il primo libro del Pentateuco (cinque libri; in origine tutti in un unico rotolo: la Tôrah), e tratta delle origini dell’universo, del genere umano del peccato originale, della storia dei patriarchi prediluviani, della chiamata di Abramo fino alla morte di Giacobbe. È stato scritto in ebraico e, secondo gli esperti, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11, dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi, Abramo, Isacco,Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente del II millennio a.C. (attorno al 1800-1700 a.C).
Con la chiamata di Abramo (Gn 12,1-9) Dio inizia una fase nuova della storia della salvezza. Essa è accompagnata da una "benedizione": "in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra". La promessa della discendenza "Farò di te un grande popolo” si completa con una seconda promessa: "Tutto il paese che tu vedi lo darò a te e alla tua discendenza per sempre" (13,15).
In questo brano il Signore, rispondendo ad Abramo, che si lamenta di non avere figli, gli assicura un erede: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle… Tale sarà la tua discendenza”. L’erede sarà dunque un figlio di Abram, e da lui nascerà una discendenza numerosa come le stelle del cielo. Dio non dà ad Abram nessuna garanzia, se non la sua parola. Di fronte a questa promessa , Abram “credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia” . Alla promessa di Dio, Abram risponde con la fede.

Il Signore rinnova inoltre ad Abram la promessa di dargli la terra di Canaan, e alla richiesta di Abram di una garanzia, Dio gli dice di sacrificare alcuni animali, di dividerli ciascuno in due parti e di disporle l’una di fronte all’altra. Si tratta dei preparativi per un arcaico rito di alleanza, nel quale ciascuno dei due contraenti deve passare attraverso le vittime squartate, scongiurando le divinità di riservargli, in caso di infedeltà agli impegni presi, la sorte toccata a esse.
Finiti i preparativi Abram cade in un profondo torpore accompagnato da terrore, segno dello smarrimento provocato nell’uomo dalla presenza di Dio.

Il brano termina con il commento: In quel giorno il Signore concluse quest’alleanza con Abram, e le parole di Dio: “Alla tua discendenza io do questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume,il fiume Eufrate”
La fiaccola ardente che passa tra le vittime spezzate rappresenta DIO stesso che in questo modo “conclude” un’alleanza con Abram, in base alla quale si impegna ad attuare la promessa di dare la terra di Canaan non tanto a lui ma alla sua discendenza. Il fatto che Dio solo passi fra le parti degli animali indica il carattere unilaterale e gratuito dell’alleanza. Per Abram questo è un segno che conferma in modo indiscutibile l’attuazione di quanto Dio gli aveva promesso.
Il racconto dell’alleanza tra DIO e Abramo mette in luce come la fede sia la caratteristica fondamentale di Abramo. Questa fede non consiste nell’accettazione di particolari concezioni religiose, ma nell’adesione al piano di Dio che da lui vuole far nascere un grande popolo.

Nonostante la piena disponibilità di Abramo alla chiamata di Dio, la sua fede non è sempre stata all’altezza delle aspettative divine. Diverse volte egli viene meno, cercando soluzioni umane alla dolorosa situazione in cui si trovava, a motivo della sterilità di Sara. Ma Dio non lo abbandona e sempre il patriarca trova la forza di rialzarsi e di riprendere il suo cammino. Nella sua alleanza con DIO questa fede emerge come la scelta fondamentale che ispira tutta la sua vita. Egli diventa così il modello di Israele che, nonostante le sue frequenti infedeltà, resta legato a DIO e trae spunto anche dalle proprie cadute per approfondire la sua fede.
San Paolo, proprio in forza della sua fede, nella sua lettera ai Romani, prenderà ad esempio Abramo come modello anche per i cristiani (V. Rm 4).

Salmo 26- Il Signore è mia luce e mia salvezza.

Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?

Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il mio cuore ripete il tuo invito:
«Cercate il mio volto!».
Il tuo volto, Signore, io cerco.

Non nascondermi il tuo volto,
non respingere con ira il tuo servo.
Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi,
non abbandonarmi, Dio della mia salvezza.

Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.

"Il Signore è mia luce”, dice il salmista. La luce è fonte di vita, fa vedere le cose, dona letizia e il salmista trova in Dio la sua luce, la sua sorgente di letizia, la sua conoscenza delle cose. E il Signore è pure sua salvezza assistendolo contro i nemici, che altrimenti prevarrebbero su di lui e gli strazierebbero la carne, tanto lo odiano. Ma col Signore non vede perché dovrebbe avere paura: “Di chi avrò timore;... di chi avrò paura?”.
E’ tanto sicuro nel Signore che se anche un esercito si accampasse contro di lui il suo cuore non temerebbe, e se si arrivasse alla battaglia e ne fosse nel folto anche allora avrebbe fiducia di vincere.
Egli non ha ambizioni di potere, di onori e ricchezze. Ha chiesto una sola cosa al Signore e questa sola cerca: “Abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Noi chiediamo di vivere sempre centrati nell’Eucaristia, nella viva appartenenza alla Chiesa, in ammirazione della sua bellezza di pace, di carità, di fede, di speranza, di sacrificio, di testimonianza, di operosità instancabile.
“La casa del Signore” è per il salmista il luogo di rifugio offertogli dal Signore nel giorno della sventura, quando c’è la prova, la tribolazione. In essa si sente protetto, come nascosto, dalla turba degli uomini, e nello stesso tempo come posto su di una rupe inattaccabile.

Confortato nella casa del Signore non è pavido, ma in pieno sole rialza la testa da vincente; ha il coraggio di lottare certo della vittoria, che celebrerà nell’esultanza: “Immolerò nella sua tenda sacrifici di vittoria”. Noi non immoleremo tori o capri, bensì faremo offerte dei risultati del superamento del giorno in cui eravamo prossimi alla rovina, e faremo banchetti con i fratelli poveri.
Il salmista ritorna sulla sua situazione di dolore, trovando sempre conforto nella fede.
Umile, non può che presentarsi come reo di molti peccati davanti al Signore e chiede di non essere respinto con ira da Signore.
Egli ha un programma: “Cercare il volto del Signore”, per conoscerlo sempre di più e così sempre di più amarlo. E, ancora, cerca il volto del Signore per riceverne la volontà e la benevolenza. Il salmista mostra le sue ferite passate, la sua storia di dolore: “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”.

Ora è saldo e sicuro, ma insidiato da falsi testimoni che lo vogliono trascinare in giudizio e per questo diffondono negli animi violenza contro di lui. Ma anche se costoro avessero da prevalere egli è certo di “contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”; nel cielo e poi un giorno nella risurrezione, nella creazione rinnovata.

Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo.
La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose.
Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi!
Fil 3,17-4,1

La Lettera ai Filippesi è stata scritta da Paolo fra il 53 e il 62, mentre si trovava in carcere, probabilmente durante la sua detenzione a Efeso, ed è ispirata da sentimenti di amicizia per la comunità cristiana di Filippi, la prima fondata da Paolo in Europa e con la quale l'apostolo aveva un legame particolarmente armonico e affettuoso. Filippi è una città nel nord della Grecia, situata a circa 15 chilometri dal mare, e i cristiani di questa comunità erano prevalentemente di origine pagana, e questo lo si deduce dal fatto che nella lettera Paolo, a parte una breve allusione, non cita mai l'Antico Testamento. Nella lettera non vengono trattati grandi temi, né vengono risolte particolari questioni: l'apostolo vuole semplicemente informare i filippesi della sua situazione, ringraziarli per l'attenzione dimostrata nei suoi confronti ed esortarli a proseguire sulla via dell'amore evangelico.
In questo brano Paolo contrappone i nemici della croce di Cristo agli amici di quella croce.

I primi sono coloro che rivolti unicamente alle cose della terra, hanno per loro Dio il loro ventre e la loro fine sarà la perdizione. Paolo non rimane inerte di fronte a questa constatazione, ma ne soffre fino alle lacrime, consapevole che Cristo è morto per tutti.
Ciò che Paolo afferma è attuale oggi più che mai in cui il materialismo più sfrenato ha contagiato anche molti credenti, affascinati dalla concezione del cogliere l'occasione e soddisfare tutti i bisogni compresi quelli immorali.
Paolo ha ancora toni molto forti quando afferma che: La nostra cittadinanza è nei cieli... Il nostro Salvatore Gesù trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso".
Nell’ultimo versetto ha un tono particolarmente affettuoso quando dice : fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete in questo modo saldi nel Signore, e aggiunge quel carissimi come un ultimo abbraccio.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme. Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
Lc 9: 28b-36

Luca inizia il suo racconto dicendo: «Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Non dice di quale monte si tratta, a lui interessa solo indicare con il monte un luogo adatto alla preghiera, sia per la solitudine che vi regna, sia perché è simbolo del luogo più vicino a Dio, che metaforicamente abita nei cieli. Questo monte è stato identificato con il Tabor, situato nei pressi di Nazaret, o con l’Hermon, nel Libano meridionale; in senso simbolico indica comunque però il luogo in cui Dio si rivela al suo popolo.
Luca prosegue : «Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» poi all'improvviso Gesù non è più solo: «Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.» Diversamente da Marco, Luca segnala anche che essi parlavano con Gesù degli eventi che avrebbero avuto luogo a Gerusalemme. L’allusione è chiaramente alla morte e alla risurrezione di Gesù, che vengono sintetizzate con il termine “esodo”. E’ chiaro qui anche il riferimento all’esodo degli israeliti dall’Egitto, che troverà nella morte e risurrezione di Gesù il suo compimento. Non stupisce il fatto che siano Mosè ed Elia a parlare con Gesù di questo, in quanto per Luca, Mosè e i profeti avevano predetto la sofferenza di Gesù. La scena lascia quanto mai impressionati i discepoli che ne sono testimoni: «Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.» . Il sonno che coglie i discepoli (menzionato solo da Luca) non è un fenomeno fisiologico, ma l’espressione della fragilità e deficienza dell’uomo di fronte alla manifestazione divina. È la stessa reazione che ebbe Abramo (v. 1^ lettura) e quella che coglierà i discepoli nell’orto degli Ulivi (Lc 22,45). Sotto l’influsso di questa esperienza soprannaturale Pietro interviene e fa una proposta: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Diversamente da quanto afferma Marco, Pietro si fa avanti solo quando Mosè ed Elia si stavano ormai separando da Gesù. Luca infatti li fa scomparire prima che si senta la voce divina. È tipico di Luca che quando Gesù si manifesta, la legge e i profeti hanno già portato a termine il loro ruolo. Luca subito commenta che Pietro non sapeva quello che diceva. Perchè la richiesta di Pietro, di prolungare l’esperienza della gloria, suona come una totale incomprensione del doloroso “esodo” che attende Gesù a Gerusalemme.

Dopo aver visto la gloria di Gesù i discepoli fanno un’altra esperienza straordinaria: «Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all'entrare in quella nube, ebbero paura». Il racconto di Luca raggiunge il suo culmine con l’intervento diretto di Dio: «E dalla nube uscì una voce, che diceva: Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo». Il significato della trasfigurazione di Gesù, così come è presentato da Luca, è simile a quello che riporta Marco, ma Luca dimostra di essere più interessato al suo “esodo”, che abbraccia tutti gli eventi che coronano l’esperienza di Gesù in questo mondo. Il fatto che questo esodo avrà luogo in Gerusalemme sottolinea il tema della centralità della città santa nella storia della salvezza.
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Come Pietro, vorremmo restare tutti sul Tabor a gustare pezzetti di Paradiso in terra. Vorremmo seguire noi stessi, chiusi nel nostro egoismo, ma la strada che indica Gesù è un’altra:
"Qui è il punto cruciale: la trasfigurazione è anticipo della risurrezione, ma questa presuppone la morte. Gesù manifesta agli Apostoli la sua gloria, perché abbiano la forza di affrontare lo scandalo della croce, e comprendano che occorre passare attraverso molte tribolazioni per giungere al Regno di Dio”.
(Benedetto XVI - Angelus, 17 febbraio 2008)

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