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Mag 27, 2020

VEGLIA DI PENTECOSTE - ANNO A - 30 maggio 2020 - VIENI, O SPIRITO, TU CHE SEI L'AMORE

Siamo alla Vigilia di Pentecoste che rievoca l’attesa della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli radunati con Maria, nel Cenacolo in attesa del compimento della promessa di Gesù.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Ezechiele, vediamo come agli ebrei esiliati il profeta Ezechiele infonde speranza. Viene descritta una visione surreale e paurosa: in una valle infernale, c’è una distesa di scheletri. Ma su di loro irrompe lo spirito creatore di Dio e sulle ossa inaridite si intesse la carne, cioè la vita. Alla fine un popolo immenso si erge in piedi, pronto per una nuova esistenza. Ciò che viene descritto è però una parabola destinata ad illustrare il ritorno-resurrezione di Israele dalla “tomba” dell’esilio di Babilonia. E’ quindi una risurrezione morale, una rinascita del coraggio e della speranza.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, l’Apostolo Paolo afferma che la nostra speranza della gloria di Dio, non paragonabile con le attuali sofferenze, non sarà delusa r tutta la vita cristiana è protesa tra il già e il non-ancora. Poi riferendosi allo Spirito Santo afferma che noi non sappiamo nemmeno come pregare, cosa chiedere al Signore, ma lo Spirito viene in nostro aiuto e intercedendo per noi, si mette in mezzo tra noi e Dio e chiede a Lui ciò che è meglio per noi, con un linguaggio che noi non sappiamo comprendere, ma che è ben chiaro al Signore.
Nel Vangelo di Giovanni, le parole di Gesù prendono spunto dal rito dell’acqua che aveva luogo durante la festa delle capanne. Gesù osserva il rito e rivolto alle folle afferma “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva, chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”. Gesù è la fonte dell'acqua viva, il credente che si è rivolto a Lui e che ha bevuto diventa a sua volta sorgente grazie al suo legame con Gesù.

Dal Libro del profeta Ezechiele
In quei giorni la mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare accanto a esse da ogni parte. Vidi che erano in grandissima quantità nella distesa della valle e tutte inaridite.
Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annuncia loro: “Ossa inaridite, udite la parola del Signore. Così dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore”».Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai, ed ecco apparire sopra di esse i nervi; la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro.
Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza, figlio dell’uomo, e annuncia allo spirito: “Così dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”». Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato.
Mi disse: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele.Ecco, essi vanno dicendo: “Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”. Perciò profetizza e annuncia loro: “Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”».
Ez 37,1-14

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme.
Il libro di Ezechiele contiene due raccolte di oracoli, quelli composti prima della caduta di Gerusalemme (cc. 1-24) e quelli posteriori ad essa (cc. 33-39). Tra queste due raccolte si situano gli oracoli contro le nazioni (cc. 25-32). Al termine c’è una sezione chiamata “Torah di Ezechiele” (cc. 40-48), dove sono descritte le istituzioni future. Gli oracoli posteriori alla caduta di Gerusalemme hanno come tema la conversione e il ritorno degli esuli nella loro terra. I temi svolti in questa raccolta sono: il ruolo del profeta (Ez 33), Dio unico pastore di Israele (Ez 34), la rinascita del popolo (Ez 35-37), la vittoria finale sui suoi nemici (Ez 38-39). Nella sezione in cui si parla della rinascita di Israele, questa viene presentata come effetto di un dono dello Spirito (Ez 36,24-32), al quale viene poi attribuita la risurrezione di un popolo ridotto a una distesa di ossa inaridite (Ez 37,1-10).
Il questo brano Ezechiele descrive una visione surreale e paurosa: in una valle infernale una distesa di scheletri calcificati, ossa inaridite. Il testo inizia con la domanda alquanto retorica rivolta dal Signore ad Ezechiele “Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?” C’è da tenere presente che al tempo di Ezechiele non c'era ancora una fede nella risurrezione, per cui la risposta poteva essere solo negativa. Ezechiele risponde in modo alquanto vago “Signore Dio, tu lo sai” lasciando aperto una possibilità alla potenza infinita di Dio. Ezechiele riceve allora l'ordine di profetizzare su quelle ossa inaridite con le parole stesse del Signore “Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore”. Poi c’è la descrizione di ciò che avviene: il rumore e un movimento fra le ossa, che si accostano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente, il ritorno poi dei nervi, carne e pelle, ma mancava a quei corpi lo spirito, principio di vita.
Poi c’è il secondo comando del Signore indirizzato allo spirito di vita. Ezechiele obbedisce al comando e lo spirito di vita entra in quei corpi inanimati che tornano in vita e si alzano in piedi: “erano un esercito grande, sterminato”, è il commento del profeta.
In questo testo Ezechiele si serve del linguaggio della risurrezione per spiegare la liberazione del popolo dall’esilio. Non si tratta certo di una risurrezione vera e propria, ma del ritorno a una vita piena dopo l’esperienza di una sofferenza che può essere considerata come una morte, perché senza libertà la vita non è degna di essere vissuta.
La liberazione promessa è un dono gratuito di Dio, che se anche ha una componente politica, si identifica anche con la ripresa di un rapporto con Dio, che comporta una fedeltà continua a Lui. È proprio nel riconoscere in Dio, il garante della sua liberazione, che il popolo eviterà di cadere schiavo di potenze straniere, anche quando sarà politicamente sottomesso ad esse. Pur non riferendosi alla risurrezione individuale dopo la morte, l’immagine suggestiva usata da Ezechiele, anche con la solenne promessa di Dio; “Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”, ha posto le premesse per il successivo sviluppo della fede di Israele. Quando la restaurazione del popolo apparirà come un evento che si attuerà alla fine dei tempi, sorgerà il problema del destino di coloro che sono morti prima che questo evento si realizzasse, e soprattutto dei martiri che hanno dato la vita perché si attuasse la gloria finale del popolo. È allora che l’immagine della risurrezione sarà utilizzata per indicare la partecipazione di tutti i defunti alla beatitudine finale di Israele, quando alla fine tutti i giusti torneranno in vita per entrare nella beatitudine del regno di Dio.

Salmo 50 Rinnovami, Signore, con la tua grazia.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Tu gradisci la sincerità nel mio animo,
nel segreto del cuore m’insegna la sapienza.
Aspergimi con rami d’issopo e sarò puro;
Lavami e sarò più bianco della neve.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode

Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10).
Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento di p.Paolo Berti

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.
Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati.
Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.
Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.
Rm 8,22-27

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
Questo brano, tratto dal capitolo 8, è dedicato al tema dello Spirito che anima l'esistenza cristiana.
Nei versetti precedenti, non riportati dalla liturgia, l’Apostolo esprime alcune considerazioni sulla sofferenza che i cristiani di Roma stavano sopportando a causa delle persecuzioni.
“sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.”
C'è una situazione di sofferenza che dura sin dalla fondazione del mondo, del mondo materiale, creato per l’uomo, che partecipa al suo destino. Ma come il corpo dell’uomo è destinato alla gloria, così anche il mondo sarà oggetto di redenzione e parteciperà alla “libertà” dello stato glorioso.
(La filosofia greca voleva liberare lo spirito dalla materia considerata come cattiva; il cristianesimo libera la stessa materia. Uguale estensione della salvezza va al mondo non umano, ossia al mondo animale!
Su questo Paolo VI commentava: “Anche gli animali sono creature di Dio, che nella loro muta sofferenza sono un segno dell’impronta universale del peccato e dell’universale attesa della redenzione”, e ancora: “li ritroveremo i nostri amici animali nel mistero di Cristo risorto”).
“Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati.”
Coloro che hanno aderito a Cristo nella fede possiedono già le primizie dello Spirito, cioè una anticipazione della gloria futura e questo li aiuta a vivere nel tempo presente con gioia e speranza,. Ma nonostante questo anche loro gemono nella sofferenza, perché anche loro dovranno passare attraverso la morte prima che questa presenza dello Spirito si manifesti completamente.
“Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.”
Tutta la vita cristiana è protesa tra il già e il non-ancora. Paolo lo sottolinea contro ogni tentativo di poter comprendere umanamente il dono dello Spirito, come liberazione dai drammi della storia e come ansia verso il futuro. Egli parla di speranza, perché mediante la speranza siamo stati salvati. E' un fatto che è già avvenuto nel passato e che al tempo stesso riguarda il futuro. Si è realizzato in parte, ma per il suo pieno compimento dobbiamo ancora aspettare. Ciò che si spera mantiene viva l'attesa, ma è anche vero che ciò che si è realizzato non si spera più.
Paolo evidenzia qui ancora una volta la tensione che anima la vita del cristiano.
“Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili;”
I cristiani vivono dunque in questa attesa verso la loro completa liberazione. Se si sentono scoraggiati per le difficoltà che incontrano nel loro quotidiano, Paolo ora li aiuta a rafforzare e completare i motivi di fiducia nella glorificazione finale.
Al doloroso gemito del mondo e dei credenti, si aggiungono i gemiti inimmaginabili dello stesso Spirito, che entra attivamente nel sofferenza dell'umanità per sostenere e indirizzare l’ansia dei cristiani. Infatti noi non sappiamo nemmeno come pregare, cosa chiedere al Signore, ma lo Spirito viene in nostro aiuto e intercedendo per noi, si pone tra noi e Dio e chiede a Lui ciò che è meglio per noi, con un linguaggio che noi non sappiamo comprendere, ma che è ben chiaro al Signore.
“e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio”.
Infatti lo Spirito è il Signore stesso e tra queste due persone della Trinità vi è una perfetta intesa. Lo Spirito aiuta i santi e i santi per Paolo sono i cristiani, cioè coloro che sono stati resi santi grazie alla loro fede in Dio. Lo Spirito intercede dunque per i santi seguendo i disegni di Dio e il Signore è dunque fedele al Suo progetto e aiuta i Suoi figli a giungere alla sua piena realizzazione.

Dal vangelo secondo Giovanni
Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò:
«Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva, chi crede in me. Come dice la Scrittura:
Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva».
Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché
Gesù non era ancora stato glorificato.
Gv 7,37-39

L’evangelista Giovanni ambienta il capitolo 7, da dove è tratto questo brano, a Gerusalemme durante la festa delle Capanne. Gesù era salito a Gerusalemme quasi di nascosto e solo a metà dei giorni di festa aveva cominciato a insegnare nel tempio. La gente cominciava a credere in lui, e commentava sottovoce: “Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?” (Gv 7,31). I farisei udirono che la gente andava dicendo queste cose di lui, perciò i capi dei sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo, ma nessuno riusciva a mettere le mani su di lui.
Il brano inizia riportando che: “Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa,… “
Negli insegnamenti di Gesù riportati in questo capitolo Gesù aveva parlato della sua origine (7,25-29) e della sua prossima dipartita (7,33-36). Ora annuncia il dono dello Spirito Santo: si completa così la rivelazione del disegno di Dio a favore degli uomini.
Questo ultimo annuncio Giovanni lo ambienta nell'ultimo giorno della festa delle Capanne e in quel giorno il rito prevedeva una solenne libazione fatta con l'acqua attinta alla piscina di Siloe. Si intendeva in questo modo implorare la pioggia per l'annata che incominciava, ma si chiedeva anche il rinnovamento spirituale della città santa, annunciato da Ezechiele con il simbolo dell'acqua che scaturiva dal tempio e fecondava tutta la terra al suo passaggio (Ez 47,1-12).
Giovanni continua evidenziando: “Gesù, ritto in piedi, gridò:”
Gesù si pone dunque all'interno di una delle attese del suo popolo. Mettendosi in piedi assume l'atteggiamento del profeta che sta per annunciare cose importanti per la vita di tutto il popolo.
Anche il grido rientra nell'atteggiamento del profeta, che non può mantenere per sé la parola, la deve gridare perché tutti la sentano.
“Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me”.
La sete è un elemento forte in tutte le culture. Dio aveva legato alla sete del popolo nel deserto una manifestazione della Sua fedeltà. Da allora in poi la sete ha nella Scrittura un aspetto molto importante.
“Come dice la Scrittura:Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”.
“Fiumi di acqua viva”: è lo Spirito Santo che, quando noi riascoltiamo e imitiamo Gesù Cristo, prende del suo e ce lo riferisce” (Gv 16,14) così che noi viviamo con i Suoi pensieri, con la Sua carità senza limiti. La Chiesa ha questa vita senza limiti, come un fiume che irriga e non si può fermare!
I fiumi d'acqua viva sono anche la "vita" che Israele desiderava. Spesso nella Bibbia l'acqua è simbolo della Legge vivificante, di cui era preannunciato che, al tempo della nuova Alleanza, sarebbe stata incisa nel cuore. Gesù si presenta come colui che realizza la Promessa.
“Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato.”
L’annotazione di Giovanni evidenzia come solo dopo la glorificazione di Gesù sarebbe stato donato lo Spirito. Il messaggio del Signore, perciò, resta - secondo l’Evangelista - indirizzato alla Chiesa che nascerà, cioè a noi. Gesù, dunque, annuncia che è iniziato il tempo dello Spirito..

*****

LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO

“Anche stasera, vigilia dell’ultimo giorno del tempo di Pasqua, festa di Pentecoste, Gesù è in mezzo a noi e proclama ad alta voce: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva».
È “il fiume d’acqua viva” dello Spirito Santo che scaturisce dal grembo di Gesù, dal suo fianco trafitto dalla lancia (cfr Gv 19,36), e che lava e feconda la Chiesa, mistica sposa rappresentata da Maria, nuova Eva, ai piedi della croce.
Lo Spirito Santo sgorga dal grembo di misericordia di Gesù Risorto, riempie il nostro grembo di una “misura buona, pigiata, colma e traboccante” di misericordia (cfr Lc 6,38) e ci trasforma in Chiesa-grembo di misericordia, cioè in una “madre dal cuore aperto” per tutti!
Quanto vorrei che la gente che abita a Roma riconoscesse la Chiesa, ci riconoscesse per questo di più di misericordia – non per altre cose –, per questo di più di umanità e di tenerezza, di cui c’è tanto bisogno! Si sentirebbe come a casa, la “casa materna” dove si è sempre benvenuti e dove si può sempre ritornare. Si sentirebbe sempre accolta, ascoltata, ben interpretata, aiutata a fare un passo avanti nella direzione del regno di Dio… Come sa fare una madre, anche con i figli diventati ormai grandi.
Questo pensiero alla maternità della Chiesa mi fa ricordare che 75 anni fa, l’11 giugno del 1944, il Papa Pio XII compì uno speciale atto di ringraziamento e di supplica alla Vergine, per la protezione della città di Roma ..
Lo fece nella chiesa di Sant’Ignazio, dove era stata portata la venerata immagine della Madonna del Divino Amore. L’Amore Divino è lo Spirito Santo, che scaturisce dal Cuore di Cristo. È Lui la “roccia spirituale” che accompagna il popolo di Dio nel deserto, perché attingendone l’acqua viva possa dissetarsi lungo il cammino (cfr 1 Cor 10,4).
Nel roveto che non si consuma, immagine di Maria Vergine e Madre, c’è il Cristo Risorto che ci parla, ci comunica il fuoco dello Spirito Santo, ci invita a scendere in mezzo al popolo per ascoltare il grido, ci invia per aprire il varco a cammini di libertà che portano a terre promesse da Dio.
Lo sappiamo: c’è anche oggi, come in ogni tempo, chi cerca di costruire “una città e una torre che arrivi fino al cielo” (cfr Gen 11,4). Sono i progetti umani, anche i nostri progetti, fatti al servizio di un “io” sempre più grande, verso un cielo dove non c’è più spazio per Dio.
Dio ci lascia fare per un po’, in modo da farci sperimentare fino a che punto di male e di tristezza siamo capaci di arrivare senza di Lui… Ma lo Spirito del Cristo, Signore della storia, non vede l’ora di buttare all’aria tutto, per farci ricominciare! Noi siamo sempre un po’ “stretti” di sguardo e di cuore; lasciati a noi stessi finiamo per perdere l’orizzonte; arriviamo a convincerci di aver compreso tutto, di aver preso in considerazione tutte le variabili, di aver previsto cosa accadrà e come accadrà… Sono tutte costruzioni nostre che si illudono di toccare il cielo. Invece lo Spirito irrompe nel mondo dall’Alto, dal grembo di Dio, lì dove il Figlio è stato generato, e fa nuove tutte le cose.
Che cosa celebriamo oggi, tutti insieme, in questa nostra città di Roma? Celebriamo il primato dello Spirito, che ci fa ammutolire di fronte all’imprevedibilità del piano di Dio, e poi trasalire di gioia: “Allora era questo che Dio aveva in grembo per noi!”: questo cammino di Chiesa, questo passaggio, questo Esodo, questo arrivo alla terra promessa, la città-Gerusalemme dalle porte sempre aperte per tutti, dove le varie lingue dell’uomo si compongono nell’armonia dello Spirito, perché lo Spirito è l’armonia.
E se abbiamo presenti le doglie del parto, comprendiamo che il nostro gemito, quello del popolo che abita in questa città e il gemito del creato intero non sono altro che il gemito stesso dello Spirito: è il parto del mondo nuovo. Dio è il Padre e la madre, Dio è la levatrice, Dio è il gemito, Dio è il Figlio generato nel mondo e noi, Chiesa, siamo al servizio di questo parto. Non al servizio di noi stessi, non al servizio delle nostre ambizioni, di tanti sogni di potere, no: al servizio di questo che Dio fa, di queste meraviglie che Dio fa.
«Se l’orgoglio e la presunta superiorità morale non ci ottundono l’udito, ci renderemo conto che sotto il grido di tanta gente non c’è altro che un gemito autentico dello Spirito Santo. È lo Spirito che spinge ancora una volta a non accontentarsi, a cercare di rimettersi in cammino; è lo Spirito che ci salverà da ogni “risistematizzazione” diocesana» (Discorso al Convengo diocesano , 9 maggio 2019).
Il pericolo è questa voglia di confondere le novità dello Spirito con un metodo di “risistematizzare” tutto. No, questo non è lo Spirito di Dio. Lo Spirito di Dio sconvolge tutto e ci fa incominciare non da capo, ma da un nuovo cammino.
Lasciamoci allora prendere per mano dallo Spirito e portare in mezzo al cuore della città per ascoltarne il grido, il gemito.
A Mosè Dio dice che questo grido nascosto del Popolo è arrivato sino a Lui: Egli lo ha udito, ha visto l’oppressione e le sofferenze… E ha deciso di intervenire inviando Mosè per suscitare e alimentare il sogno di libertà degli Israeliti e rivelare loro che questo sogno è la sua stessa volontà: fare di Israele un Popolo libero, il suo Popolo, legato a Lui da un’alleanza d’amore, chiamato a testimoniare la fedeltà del Signore davanti a tutte le genti.
Ma perché Mosè possa realizzare la sua missione, Dio vuole invece che egli “scenda” con Lui in mezzo agli Israeliti. Il cuore di Mosè deve diventare come quello di Dio, attento e sensibile alle sofferenze e ai sogni degli uomini, a quello che gridano di nascosto quando alzano le mani verso il Cielo, perché non hanno più appigli sulla terra. È il gemito dello Spirito, e Mosè deve ascoltare, non con l’orecchio, con il cuore.
Oggi chiede a noi, cristiani, di imparare ad ascoltare con il cuore. E il Maestro di questo ascolto è lo Spirito. Aprire il cuore perché Lui ci insegni ad ascoltare con il cuore. Aprirlo.
E per metterci in ascolto del grido della città di Roma, anche noi abbiamo bisogno che il Signore ci prenda per mano e ci faccia “scendere”, scendere dalle nostre posizioni, scendere in mezzo ai fratelli che abitano nella nostra città, per ascoltare il loro bisogno di salvezza, il grido che arriva fino a Lui e che noi abitualmente non udiamo.
Non si tratta di spiegare cose intellettuali, ideologiche. A me fa piangere quando vedo una Chiesa che crede di essere fedele al Signore, di aggiornarsi quando cerca strade puramente funzionalistiche, strade che non vengono dallo Spirito di Dio. Questa Chiesa non sa scendere, e se non si scende non è lo Spirito che comanda. Si tratta di aprire occhi e orecchie, ma soprattutto il cuore, ascoltare con il cuore. Allora ci metteremo in cammino davvero. Allora sentiremo dentro di noi il fuoco della Pentecoste, che ci spinge a gridare agli uomini e alle donne di questa città che è finita la loro schiavitù e che è Cristo la via che porta alla città del Cielo. Per questo ci vuole la fede, fratelli e sorelle. Chiediamo oggi il dono della fede per andare su questa strada.”

Papa Francesco Parte dell’Omelia dell’8 giugno 2019

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