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Giu 26, 2020

XIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - "Saper prendere la propria croce" - 28 giugno 2020

Le letture liturgiche di questa domenica ci presentano due temi: le condizioni di seguire Gesù, e il tema dell’accoglienza e dell’ospitalità.
Nella prima lettura, tratta dal II libro dei Re, ci viene narrata una storia edificante che dimostra come l’ospitalità data ad un inviato del Signore, è una benedizione. La donna sunammita riceve il profeta Eliseo perchè riconosce in lui un uomo di Dio e Dio la benedice dimostrandosi donatore di vita.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S. Paolo ai Romani, l’apostolo basandosi sul rito del battesimo spiega il suo significato sacramentale. Ora se il segno sacramentale è segno efficace , le conseguenze pratiche sono inevitabili. Fondato su questa fede il cristiano deve considerarsi come Cristo morto al peccato una volta per sempre, per vivere per Dio , in Cristo, cioè come figlio di Dio.
Nel brano tratto dal Vangelo secondo Matteo, leggiamo che non si può anteporre niente e nessuno a Gesù e chi non prende la propria croce e non lo segue, non è degno di Lui.. Deve entrare nel nostro cuore il concetto che l’amore per Gesù non esclude gli altri amori, ma nella totale appartenenza a Lui, che è il compendio di ogni amore, potremo fare ordine nella nostra vita ed amare nel giusto amore tutti i nostri cari: genitori, coniugi,figli, parenti,amici, tutti coloro che possiamo avvicinare.

Dal secondo libro dei Re
Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era un’illustre donna, che lo trattenne a mangiare. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei.Ella disse al marito: «Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare».
Un giorno che passò di lì, si ritirò nella stanza superiore e si coricò.
Egli disse a Giezi, suo servo: «Chiama questa Sunammita». La chiamò e lei si presentò a lui. Eliseo (disse a Giezi, suo servo) «Che cosa si può fare per lei?». Giezi disse: «Purtroppo lei non ha un figlio e suo marito è vecchio».
Eliseo disse:«Chiamala!». La chiamò; ella si fermò sulla porta. Allora disse: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia».
2Re 4,8-11.14-16

Il Secondo libro dei Re, insieme al primo, in origine formavano un unico libro. Entrambi fanno parte dei Libri storici per il canone cristiano e dei cosiddetti “profeti anteriori‘” per il canone ebraico. E’ stato composto, secondo alcuni studiosi, intorno al VI secolo a.C. dallo stesso autore che ha scritto il libro del Deuteronomio; per questo lo si definisce autore ''Deuteronomista'‘. Per ricostruire le vicende dei due regni di Israele, egli attinge a materiali d'archivio, alle tradizioni orali e alla memoria storica del suo popolo. Una delle caratteristiche dell'autore è il continuo ricorso a formule fisse per delineare i regni dei vari sovrani e in particolare, il secondo libro dei Re, descrive la vicenda del popolo ebraico dal IX al VI secolo a.C., cioè dalla fine del regno di Acazia (circa 852 a.C.) fino alla distruzione del regno di Giuda nel 587 a.C..
Le vicende di Elia e di Eliseo sono narrate in due cicli che occupano la parte centrale dei due libri dei Re (1Re 17-22; 2Re 1-17). Eliseo, il quale operò sotto i re Ioram (852-841), Ieu (841-814), Ioacaz (814-798), Ioas (798-783), è protagonista di numerosi racconti popolari spesso interrotti da riferimenti alle vicende politiche. Il suo ciclo si apre con il rapimento di Elia in cielo, del quale egli è l’unico testimone (2Re 2,1-8). Divenuto così erede spirituale del suo maestro, Eliseo compie alcuni miracoli di carattere umanitario.
Il brano liturgico ci presenta Eliseo che viene invitato insistentemente da una donna sunammita benestante a fermarsi presso di lei. Egli accetta e, siccome il fatto si ripete, la donna, rendendosi conto che Eliseo è un uomo di Dio, chiede al marito: “Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare”.
In un’epoca in cui la gente comune dormiva, si sedeva e mangiava per terra, questi oggetti sono chiaramente segni di agiatezza. Eliseo accetta di buon grado questa generosa ospitalità, ma sente anche il desiderio di ricompensare la donna per quanto aveva fatto per lui. Nei versetti non riportati dalla liturgia, sappiamo che egli la fa chiamare e, quando essa si trova davanti a lui, le fa chiedere da Giezi che cosa può fare per lei, ma la donna risponde che non ha bisogno di nulla, perché ha la fortuna di abitare in mezzo al suo popolo.
Eliseo si consulta allora con Giezi, il quale lo informa che la donna non ha figli e suo marito è vecchio. Allora Eliseo la fa nuovamente chiamare e le promette: “L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia”.
Il racconto mette in luce il potere di Eliseo, il quale dimostrerà di avere da Dio il potere non solo di far avere un figlio a una donna sterile, ma anche di risuscitarlo quando morirà. (cfr 2Re 4,17)
Il racconto dell’incontro di Eliseo con la Sunammita presenta aspetti molto importanti. Il primo è quello dell’ospitalità da parte della donna, la quale accoglie spontaneamente Eliseo nella sua casa in quanto uomo di Dio, e gli dà ospitalità senza aspettarsi nulla in cambio.
Anche quando il profeta si dice disposto a ricambiare la sua generosità, lei non chiede nulla per sé: le basta il privilegio di stare in mezzo al suo popolo. Questa figura di donna è un esempio di generosità, determinata unicamente dalla fede nel Dio al cui servizio si trova Eliseo.
Proprio in quanto uomo di Dio, Eliseo appare molto distaccato nei confronti delle persone e delle cose che lo circondano.
Egli non conosce nulla della situazione della donna e ha bisogno di essere informato dal suo servo, e quando la chiama per parlarle, la fa persino restare sulla porta della stanza. In nulla egli permette ai suoi sentimenti di prevalere e non è disposto a familiarizzare con lei, nonostante la generosità dimostrata nei suoi confronti. Egli è tutto dedito unicamente alla sua missione, tuttavia non è insensibile alle attenzioni della donna e le è grato profondamente, tanto che per ricambiare in qualche modo i favori ricevuti sarebbe disposto a procurarle dei benefici materiali. Quando poi viene a sapere che non ha figli, capisce subito che per lei poterne avere uno è la cosa più importante e quasi istintivamente mette in azione i suoi poteri profetici promettendole la nascita di un figlio.
La storia di Eliseo e della Sunammita accenna in modo rilevante le caratteristiche del profeta, ne lascia intendere i limiti e mette in luce i poteri che gli sono conferiti. Ma più ancora rivela la devozione popolare nei confronti dell’uomo di Dio e mostra come proprio attraverso il contatto con uomini che hanno dedicato tutta la loro vita al rapporto con Dio si apre anche per la gente comune la possibilità di avere accesso a una autentica esperienza religiosa.

Salmo 88/89 - Canterò per sempre l’amore del Signore
Canterò in eterno l’amore del Signore,
di generazione in generazione
farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà,
perché ho detto: «È un amore edificato per sempre;
nel cielo rendi stabile la tua fedeltà».

Beato il popolo che ti sa acclamare:
camminerà, Signore, alla luce del tuo volto;
esulta tutto il giorno nel tuo nome,
si esalta nella tua

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.

Perché tu sei lo splendore della sua forza
e con il tuo favore innalzi la nostra fronte.
19 Perché del Signore è il nostro scudo,
il nostro re, del Santo d’Israele

Il salmo probabilmente è il frutto di più autori, tuttavia non va affatto smembrato, poiché rivela una “unità orante”. Il salmo cosi come si presenta pone come autore un re vilipeso, che va ricercato in Ioacaz (2Re 23,33-34). Il fatto che il salmo presenti una totalità di mura abbattute e di fortezze diroccate, impone di pensare ad una sequenza di rovesci militari subiti da Israele, certamente dalle armate assire ed Egiziane (2Re 18,13, 23,33).
Il salmo esordisce facendo memoria delle promesse di Dio a Davide e alla sua discendenza (2Sam 7,8s), prosegue poi inneggiando alla potenza di Dio, quindi, con estensione, ritorna sulle promesse fatte a Davide; infine manifesta lo sconcerto di fronte alla catastrofe che si è abbattuta su Israele nonostante tutte le promesse di stabilità riguardanti la discendenza di Davide.
Il salmista sottolinea lo scarto infinito tra Dio e gli dei concepiti dai pagani: “Chi sulle nubi è uguale al Signore”; come pure sottolinea la distanza infinita tra lui e la sua corte celeste: “Chi è simile al Signore tra i figli degli dei?”. Non manca poi il salmista di affermare l'unicità di Dio: “Tuoi sono i cieli, tua è la terra, tu hai fondato il mondo e quanto contiene”. D'obbligo poi la menzione della vittoria di Dio su Raab (nome di un mostro mitico personificante il caos primordiale), cioè sull'Egitto: “Tu hai ferito e calpestato Raab”.
Il “consacrato”, cioè il re, è stato ripudiato da Dio: “Ti sei adirato contro il tuo consacrato; hai infranto l'alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona”. Egli è ricoperto di ingiurie mentre dal faraone Necao, suo vincitore, è condotto prima a Ribla e poi in Egitto: “I tuoi nemici insultano, insultano i passi del tuo consacrato”.
Il re, che ha visto le mura della reggia abbattute, come pure le sue fortezze, è nella più acuta sofferenza e domanda a Dio fin quando tutto questo continuerà: “Fino a quando, Signore, ti terrai nascosto: per sempre? Arderà come fuoco la tua collera?”. Afflitto, chiede a Dio di ricordarsi che la sua vita è breve e che forse non potrà vedere neppure giorni di pace, e lo interroga sul perché ha creato l'uomo, visto che a volte sembra che non ci sia disegno di pace per lui: “invano forse hai creato ogni uomo?”. L'uomo è ben poca cosa, eppure Dio dispone che debba sopportare lungamente pene e disagi prima di ridargli giorni di pace e di gioia. Al salmista pare che Dio abbia delle lentezze nell'intervenire, visto anche che i tempi di Dio sorpassano spesso i brevi anni di un uomo: “Chi è l'uomo che vive e non vede la morte? Chi potrà sfuggire alla mano degli inferi?".
Ma certo il salmista non rimane fermo a questo - le lentezze di Dio, infatti, sono unicamente causate dalle lentezze degli uomini nel ritornare a lui -, poiché conclude il suo salmo benedicendo Dio: “Benedetto il Signore in eterno. Amen, amen”.
Commento “ di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?
Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.
Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo
che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui.
Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio.
Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in
Cristo Gesù.
Rm 6,3-4.8-11

Nei primi 5 capitoli della sua lettera ai Romani, S.Paolo ha portato molte argomentazioni sulla dottrina della giustificazione per mezzo della fede, ed ha delineato i problemi più importanti:
se questo è il piano di Dio, perché il popolo eletto non ha accettato il vangelo? L’abbandono della legge non rischia di aumentare il peccato? Per allontanarsi dal peccato e ottenere una nuova vita è sufficiente aderire a Cristo? Investire tutto sulla fede piuttosto che sulle opere non significa mettere in pericolo
la possibilità stessa di essere fedeli a Dio?
Paolo affronta questo problema a partire dall’esperienza del battesimo, nel quale egli vede una svolta radicale. La morte al peccato richiama alla mente di Paolo il segno battesimale, al quale si riferisce con la domanda che troviamo all’inizio del brano: “Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?”
Agli inizi del cristianesimo i neofiti venivano battezzati per immersione, come dice il verbo stesso (battezzare = immergere). Il battesimo era conferito ”nel nome di Gesù Cristo” (At 2,38) perché ricevendolo il credente entra in un profondo rapporto di comunione con Lui. Ciò avviene in quanto, ricevendo il battesimo, egli è stato immerso “nella sua morte”, cioè è stato coinvolto in un’intima partecipazione al dono supremo di sé che Egli ha compiuto sulla croce. Il fatto che il verbo sia all’aoristo (dal greco ἀόριστος χρόνος "tempo indefinito") significa che questo evento, capitato nel passato, è definitivo e irrevocabile. L’apostolo sviluppa questa immagine affermando che, “Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte “anche qui l’uso dell’aoristo significa che si tratta di un gesto che ha creato una situazione irreversibile. Ciò è avvenuto “affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova”.
L’Apostolo interpreta quindi il rito battesimale, in forza del quale il neofita si immerge nell’acqua e poi ne esce, come un morire e risuscitare con Cristo. La risurrezione di Gesù, e di conseguenza anche la vita nuova del credente, vengono viste come una manifestazione speciale della potenza di Dio Padre.
Nei successivi vv. 5-7 non riportati dal brano, Paolo approfondisce queste riflessioni osservando come i credenti siano “completamente uniti a Cristo”,un po’ come un ramo che viene innestato in un altro e cresce fino a formare con esso un’unica cosa; questa compartecipazione avviene “a somiglianza della sua morte”, in quanto la Sua morte in croce diventa il modello a cui essi devono ispirare la loro vita
. Di conseguenza anch’essi riceveranno un giorno una risurrezione simile alla sua; il loro “uomo vecchio”, è stato crocifisso con Lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, ossia scomparisse tutto ciò che aveva a che fare con il peccato “Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato” (Rm, 6,7) . L’uso del verbo al perfetto significa che il battesimo, una volta ricevuto, conferisce una liberazione dal peccato i cui effetti si fanno sentire durante tutta la vita.
Nella seconda parte del brano Paolo approfondisce ulteriormente il significato del battesimo, sottolineando però questa volta l’impegno che esso richiede da parte del credente.
Egli afferma “Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui!”, Egli riprende qui quanto aveva affermato, ponendo però l’accento sul fatto che il credente parteciperà un giorno pienamente a quella vita che non avrà mai fine e che Cristo ha acquistato con la Sua morte e risurrezione.
A questo punto l’Apostolo approfondisce il significato della risurrezione di Cristo. “Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui”. egli infatti “morì per il peccato una volta per tutte” e di conseguenza ora “vive per Dio”.
La vittoria sul peccato (che però Cristo, diversamente dal cristiano, non ha mai sperimentato in se stesso), consiste nel rifiuto di “vivere per sé”, e di conseguenza apre la strada alla vita piena, che consiste nel “vivere per Dio”.
Dopo questa precisazione sulla vita di Cristo risorto, il discorso di Paolo passa all’esortazione: “anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù”
È chiaro che per l’uomo “morire con Cristo” significa sostanzialmente lasciarsi coinvolgere, mediante la fede, nell’amore che Egli ha dimostrato morendo sulla croce, al punto tale da accettare liberamente ed anche gioiosamente la propria morte fisica, quando e come essa si verificherà.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse: Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.
Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa.
Mt 10,30-42

Continua il discorso missionario con cui Gesù invia in missione i dodici apostoli. Dopo le raccomandazioni che il brano liturgico non riporta riguardanti le discordie che vi possono essere in famiglia a causa dell'adesione alla fede, il discorso continua sul tema dei legami famigliari e sul dono della vita
“Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me”; Quanto detto si riallaccia ai versetti precedenti in cui Gesù diceva di essere venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera (vv35-36). Non si tratta qui di fare una graduatoria di chi amare per prima, ma dell’adesione personale a Cristo e della totale appartenenza a Lui, che è il compendio di ogni amore. E’ amando Lui per primo che potremo amare nel giusto amore tutti i nostri cari: genitori, coniugi,figli, parenti,amici, tutti coloro che possiamo avvicinare.
Gesù prosegue affermando: “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me”.
Questa è la prima volta che nel testo evangelico compare la parola croce che ricomparirà in Mt 16,24, in un detto simile a questo e poi ovviamente nella scena della crocifissione. Il supplizio della crocifissione era ben nota ai Giudei dei tempi di Gesù, ma la croce che il discepolo è chiamato a prendere su di sé non è certo quella di Gesù, ma la propria. Ognuno nella propria vita ha la sua croce, cioè le sue sofferenze e rinunce, che il più delle volte non implicano la morte fisica, ma il dono di sé nel servizio degli altri.
“Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”.
Questo detto sul perdere la propria vita per trovarla è il più citato di tutti i detti di Gesù, lo ritroviamo sei volte in tutti e quattro i vangeli. Senza dubbio è quello cha caratterizza meglio di ogni altro il suo insegnamento. La sequela di Gesù comporta che il discepolo perda e ritrovi la propria vita e questo non indica che si debba desiderare una morte prematura per conseguire un’eternità beata, ma una radicale trasformazione del senso della propria vita. Seguendo Gesù, il discepolo impara a staccarsi da una vita proiettata su se stesso per mettere al centro il Regno di Dio e i rapporti nuovi che esso implica.
“Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”.
Il discorso ora si sposta sull'accoglienza che spetta all'inviato e sul risultato positivo della missione. Fino ad ora si sono elencate soprattutto le difficoltà, le persecuzioni, le divisioni familiari, ora l'accento è posto sulla ricompensa dovuta a chi "accoglie“. L'inviato del Signore deve essere accolto perché è Gesù che lo manda, quindi è come se si accogliesse Lui stesso. Ma chi accoglie Gesù, accoglie il Padre che l'ha mandato.
“Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto”.
Quindi l'accoglienza avrà la sua ricompensa proporzionata al valore di colui che è stato accolto.
La ricompensa del profeta non è tanto quella che riceverà un profeta, ma quella che ci si spetta da un profeta (cf. 2 Re 4,13: Eliseo ottiene da Dio che la sua ospite abbia il figlio che tanto desiderava).
“Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.
Colpisce come anche il semplice dare un “bicchiere d’acqua” diventa un atto prezioso degno della “ricompensa” divina. Secondo la tradizione durante le feste ebraiche, la porta di ogni casa doveva restare socchiusa. Infatti se il Messia avesse deciso di venire, l’avrebbe trovata aperta e si sarebbe seduto a mensa con quella famiglia fortunata. Ma se non fosse venuto il Messia, i poveri che vagano per le strade anche nei giorni di festa avrebbero potuto varcare quella soglia prendendo parte alla comune allegria. E sarebbe stato come accogliere il Messia, nascosto nella loro sofferenza.

*****

“L’odierna liturgia ci presenta le ultime battute del discorso missionario del capitolo 10 del Vangelo di Matteo, con il quale Gesù istruisce i dodici apostoli nel momento in cui per la prima volta li invia in missione nei villaggi della Galilea e della Giudea.
In questa parte finale Gesù sottolinea due aspetti essenziali per la vita del discepolo missionario: il primo, che il suo legame con Gesù è più forte di qualunque altro legame; il secondo, che il missionario non porta sé stesso, ma Gesù, e mediante Lui l’amore del Padre celeste. Questi due aspetti sono connessi, perché più Gesù è al centro del cuore e della vita del discepolo, più questo discepolo è “trasparente” alla sua presenza. Vanno insieme, tutti e due.
«Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me…», dice Gesù. L’affetto di un padre, la tenerezza di una madre, la dolce amicizia tra fratelli e sorelle, tutto questo, pur essendo molto buono e legittimo, non può essere anteposto a Cristo. Non perché Egli ci voglia senza cuore e privi di riconoscenza, anzi, al contrario, ma perché la condizione del discepolo esige un rapporto prioritario col maestro. Qualsiasi discepolo, sia un laico, una laica, un sacerdote, un vescovo: il rapporto prioritario. Forse la prima domanda che dobbiamo fare a un cristiano è: “Ma tu ti incontri con Gesù? Tu preghi Gesù?”. Il rapporto. Si potrebbe quasi parafrasare il Libro della Genesi: Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a Gesù Cristo e i due saranno una sola cosa (cfr Gen 2,24).
Chi si lascia attrarre in questo vincolo di amore e di vita con il Signore Gesù, diventa un suo rappresentante, un suo “ambasciatore”, soprattutto con il modo di essere, di vivere. Al punto che Gesù stesso, inviando i discepoli in missione, dice loro: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Bisogna che la gente possa percepire che per quel discepolo Gesù è veramente “il Signore”, è veramente il centro della sua vita, il tutto della vita.
Non importa se poi, come ogni persona umana, ha i suoi limiti e anche i suoi sbagli – purché abbia l’umiltà di riconoscerli –; l’importante è che non abbia il cuore doppio - e questo è pericoloso. Io sono cristiano, sono discepolo di Gesù, sono sacerdote, sono vescovo, ma ho il cuore doppio. No, questo non va. Non deve avere il cuore doppio, ma il cuore semplice, unito; che non tenga il piede in due scarpe, ma sia onesto con se stesso e con gli altri. La doppiezza non è cristiana. Per questo Gesù prega il Padre affinché i discepoli non cadano nello spirito del mondo. O sei con Gesù, con lo spirito di Gesù, o sei con lo spirito del mondo.
E qui la nostra esperienza di sacerdoti ci insegna una cosa molto bella, una cosa molto importante: è proprio questa accoglienza del santo popolo fedele di Dio, è proprio quel «bicchiere d’acqua fresca» di cui parla il Signore oggi nel Vangelo, dato con fede affettuosa, che ti aiuta ad essere un buon prete! C’è una reciprocità anche nella missione: se tu lasci tutto per Gesù, la gente riconosce in te il Signore; ma nello stesso tempo ti aiuta a convertirti ogni giorno a Lui, a rinnovarti e purificarti dai compromessi e a superare le tentazioni. Quanto più un sacerdote è vicino al popolo di Dio, tanto più si sentirà prossimo a Gesù, e quanto più un sacerdote è vicino a Gesù, tanto più si sentirà prossimo al popolo di Dio.
La Vergine Maria ha sperimentato in prima persona che cosa significa amare Gesù distaccandosi da sé stessa, dando un nuovo senso ai legami familiari, a partire dalla fede in Lui. Con la sua materna intercessione, ci aiuti ad essere liberi e lieti missionari del Vangelo.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 2 luglio 2017

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