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Set 9, 2020

XXIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - "Il perdono" - 13 settembre 2020

La liturgia di questa domenica tratta un tema difficile: il perdono. Con la nostra mentalità umana vorremmo stabilire una misura, una norma che ci dia soddisfacimento. Perdonare, sì, ma quante volte? L’arte del perdonare è difficile, ma non impossibile.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Siracide, troviamo un brano il cui contenuto supera non solo la legge del taglione, ma è una vera anticipazione sulla dottrina del “Padre “nostro” e del discorso della montagna. Tale dottrina si fonda sulla condivisione che si è tutti bisognosi di perdono.
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera ai romani, parla delle relazioni fra i cristiani di diversa tradizione, che a motivo appunto della loro diversità determinano pluralismo nell’espressione della fede. L’amore del prossimo è la legge nuova di Cristo, fonte, maestro e modello della carità senza limiti e senza distinzioni.
Nel Vangelo, Matteo ci riporta che, per rispondere alla domanda di Pietro su quante volte deve perdonare il fratello che commette una colpa, il Signore Gesù formula la sua risposta riprendendo il bel numero simbolico di 7 che aveva proposto Pietro, in una moltiplicazione tale da proporre una completezza senza limiti: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” vale a dire “Bisogna perdonare sempre” E poi espone la parabola il cui senso è che Dio perdona gratuitamente il peccato a chi gli chiede perdono, dimostrando una benevolenza e una misericordia senza limiti.

Dal libro del Siràcide
Rancore e ira sono cose orribili,
e il peccatore le porta dentro.
Chi si vendica subirà la vendetta del Signore,
il quale tiene sempre presenti i suoi peccati.
Perdona l’offesa al tuo prossimo
e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.
Un uomo che resta in collera verso un altro uomo,
come può chiedere la guarigione al Signore?
Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile,
come può supplicare per i propri peccati?
Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore,
come può ottenere il perdono di Dio?
Chi espierà per i suoi peccati?
Ricòrdati della fine e smetti di odiare,
della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti.
Ricorda i precetti e non odiare il prossimo,
l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.
Sir 27, 30 - 28, 9

Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico.
Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo.
È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C. che nel prologo spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C.. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.
Il libro è composto da 51 capitoli e si divide in due grandi sezioni, nella prima delle quali sono esposti gli insegnamenti della Sapienza (Sir 1,1-42,14), mentre nella seconda si descrive l’opera della Sapienza nella natura e nella storia (Sir 42,15-50,26). Il punto culminante della prima di queste due sezioni è rappresentato dal carme chiamato “elogio della Sapienza” (Sir 24,1-21): questo brano divide la sezione in due parti, di cui la prima (Sir1,1-23,27) focalizza l’attenzione sulla sapienza che ogni essere umano percepisce nella sua coscienza, mentre la seconda (Sir 24,1-42,14) mette maggiormente in luce la sapienza che proviene dalla legge.
Da questa seconda parte è tratto il brano liturgico che consiste in una piccola raccolta di massime riguardanti il perdono.
Nella prima massima si dà un giudizio molto severo su due atteggiamenti abbastanza comuni nei confronti del prossimo: “Rancore e ira sono cose orribili,e il peccatore le porta dentro.” Mentre l’ira implica una reazione immediata ed emotiva nei confronti di chi ha arrecato un’offesa, il rancore cova il desiderio di vendetta che uno tiene dentro di sè magari per lungo tempo. Ciascuno di questi due atteggiamenti sono consideriate “cose orribili” e sono quindi considerati come peccati di carattere religioso.
Le cinque massime successive approfondiscono le implicazioni religiose di alcuni comportamenti negativi in campo sociale. Anzitutto si affronta il tema della vendetta: “Chi si vendica subirà la vendetta del Signore,il quale tiene sempre presenti i suoi peccati”. Si suppone che ogni essere umano abbia dei conti in sospeso con Dio: chi si vendica per le offese che riceve si pone nella situazione di ricevere su di sé, di rimando, la vendetta di Dio per le offese che lui stesso gli ha arrecato.
La massima successiva riguarda invece il perdono:”Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.” La preghiera che uno rivolge a Dio per ottenere il perdono dei suoi peccati è fruttuosa solo se egli per primo perdona il suo prossimo.
Ritorna poi il tema della collera: “Un uomo che resta in collera verso un altro uomo,come può chiedere la guarigione al Signore?” La malattia veniva spesso considerata come la punizione per un peccato commesso, perchè se uno mantiene in sé la collera verso il prossimo pone un ostacolo al perdono di Dio e quindi impedisce la guarigione che solo il perdono prima concesso potrebbe favorire.
La massima successiva parla della misericordia: “Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile,
come può supplicare per i propri peccati?”
Il termine “misericordia” di Dio si esprime con la radice r-h-m da cui il termine ebraico rahamim, plurale o accrescitivo di rehem, utero, seno materno. (V Is 54,8): essa indica dunque l’atteggiamento di compassione e di tenerezza della madre per il proprio figlio. Dio dimostra questa misericordia verso Israele Suo popolo soprattutto perdonando i suoi peccati. Ma nessuno può aspettarsi la misericordia da parte di Dio se la persona stessa non la esercita verso il suo “simile”.
Un’altra massima riprende il tema del rancore: “Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore,
come può ottenere il perdono di Dio? Chi espierà per i suoi peccati?“ Dio ha più motivi per conservare rancore, poiché la Sua dignità è infinitamente superiore a quella dell’uomo che lo offende; se quindi l’uomo che è solo una creatura debole e limitata, mantiene rancore verso uno che è sul suo stesso livello, non può aspettarsi di veder perdonati i propri peccati da parte di Colui che gli è immensamente superiore.
Le ultime due massime del brano richiamano l’attenzione sul rapporto tra perdono e osservanza dei comandamenti. Ambedue iniziano con l’invito a ricordare: ciò che il Signore ha fatto per il popolo durante il cammino dell’esodo. Questa è la premessa e la condizione essenziale, come è scritto nel Deuteronomio, per poter osservare la legge di Dio (8,18-19).
La prima massima è formata da due frasi parallele: “Ricòrdati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti”.. Il ricordo qui ha per oggetto la propria fine, con il binomio “dissoluzione e morte”. Il ricordo di quello che lo aspetta in quel momento avrà come esito da un lato l’eliminazione dell’odio e dall’altro l’osservanza dei comandamenti. Il pensiero della propria fine comporta dunque l’osservanza dei comandamenti che a sua volta si manifesta nel perdono.
Nella frase successiva l’ordine è capovolto: “Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui”. Questa volta è il ricordo dei comandamenti che produce come effetto principale il “non odiare il prossimo”, perché il ricordo dell’alleanza invita a non tener conto dell’offesa subita.
Per sintetizzare il Siracide ci vuole dire che il rancore nei confronti del fratello è come uno schermo che interrompe anche il dialogo con Dio. Se tu perdoni al fratello, anche Dio ti perdonerà; se tu sei implacabile, anche Dio lo sarà con te.

Salmo 103 - Il Signore, è buono e grande nell’amore

Benedici il Signore, anima mia!
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici

Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia

Non è in lite per sempre,
non rimane adirato in eterno.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe.

Perchè quanto il cielo è alto sulla terra
Così la sua misericordia è potente
Su quelli che lo temono;
Quanto dista l’oriente dall’occidente,
Così egli allontana da noi le nostre colpe.

La critica è incline a datare la composizione di questo salmo nel tardo postesilio.
Il salmista esorta se stesso a benedire il Signore, e a non “dimenticare tutti i suoi benefici”. Questo ricordare è importantissimo nei momenti dolorosi per non cadere nello scoraggiamento e al contrario stabilirsi in una grande fiducia in Dio. Il salmista non presenta grandi tormenti storici della nazione; pare di poter indovinare normalità di vita attorno a lui. Egli si presenta a Dio come colpevole di numerose mancanze, ma ha sperimentato la misericordia di Dio, che lo ha salvato da angosce e anche probabilmente da una malattia grave: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità; salva dalla fossa la tua vita”.
Il salmista non cessa di celebrare la bontà, la giustizia di Dio, e prova una grande dolcezza nel fare questo: una dolcezza pacificante: “Ti circonda di bontà e di misericordia”.
Il salmista, fedele all'alleanza, loda Dio per la legge data per mezzo di Mosè: “Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele ”. Ma Dio non ha dato a Mosè solo la legge, ha anche dato l'annuncio del Cristo futuro, dal quale abbiamo la grazia e la verità (Cf. Gv 1,17). La misericordia di Dio celebrata dal salmista si è manifestata per mezzo di Gesù Cristo.
Il salmista si sente sicuro, compreso da Dio, che agisce sul suo popolo con la premura di un padre verso i figli. Un padre che “ricorda che noi siamo polvere”, e che perciò pur rilevando le colpe è pronto a perdonare pienamente: “Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno”.
L'alleanza osservata è fonte di bene, di unione con Dio. Egli effonde “la sua giustizia”, cioè la sua protezione dal male, sui “figli dei figli”.
Il salmista pieno di gioia conclude invitando tutti gli angeli a benedire Dio. Gli angeli non hanno bisogno di essere esortati a benedire Dio, ma certo possono essere invitati a rafforzare il nostro benedire Dio. Per una lode universale sono invitate a benedire Dio tutte le cose create (Cf. Ps 18,1s): “Benedite il Signore, voi tutte opere sue”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai romani
Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore.
Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.
Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.
Rm 14, 7-9

L’Apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Romani esorta all’accoglienza reciproca, mettendo così a fuoco il problema che divide la comunità (Rm 14,1-12); suggerisce poi i criteri a cui devono ispirarsi per dirimere la controversia (Rm 14,13-21).
In seguito si concentra brevemente sul tema della fede (Rm 14,22-23) e, rivolgendosi ai forti, presenta loro Cristo come modello di comportamento (Rm 15,1-6). Infine riprende nuovamente il tema dell’accoglienza ponendo l’accento sull’esempio di Cristo (Rm 15,7-13).
Il testo liturgico si limita a proporre alcuni versetti del capitolo 14. Nei versetti non citati dal brano liturgico si riporta
che nella comunità di Roma si contrappongono due fazioni: alla primo appartiene chi “crede di poter mangiare di tutto”, mentre all’altra, quello dei deboli, aderisce chi “mangia solo legumi”. La preoccupazione per l’osservanza di particolari norme alimentari era una consuetudine anche nell’antichità .Tuttavia le parole di Paolo contemplano l’ambito giudaico, dove esistevano norme minuziose circa la purità dei cibi: la consumazione di soli legumi richiama in particolare il comportamento dei tre giovani deportati a Babilonia, i quali si limitavano a questo cibo per non contaminarsi con i pasti serviti a corte (Dn 1,8.11-13). Le due fazioni si contrappongono anche per quanto riguarda l’osservanza di particolari feste religiose ereditate dal giudaismo.
Paolo riconosce la legittimità di questi diversi comportamenti: infatti sia chi si preoccupa di cibi o di feste, sia chi non vi presta attenzione, non lo fa per motivi egoistici, ma per il Signore, cioè allo scopo di rendergli onore e ringraziamento.
A questo punto ha inizio il brano liturgico, nel quale Paolo fa alcune considerazioni conclusive di carattere generale. Anzitutto egli afferma: “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso”
I due verbi “vivere” e “morire” indicano la totalità dell’esistenza umana. Per Paolo il credente, in quanto tale, non può vivere una vita egoistica, tutta orientata alla ricerca del proprio interesse e della propria soddisfazione personale; in questa prospettiva anche la morte non può essere vissuta come un evento che riguarda unicamente l’individuo. La vita del credente deve essere orientata diversamente: “perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore”.
Tutta la vita del credente, fino al momento conclusivo della morte, assume il suo vero significato solo se è vissuta “per il Signore”, cioè in un rapporto esistenziale con Colui che l’ha donata (V Gal 2,20 e ciò implica la totale appartenenza al Signore Gesù.
Il brano si conclude con l’affermazione: “Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi”. L’espressione “vivi e morti” indica la totalità degli esseri umani, che si trovano rispettivamente in questo mondo o nel regno dei morti. A motivo della Sua morte e risurrezione Cristo è diventato la “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20) ossia Colui che un giorno darà la vita a coloro che credono in Lui. Il cristiano che ha accettato di diventare partecipe della morte e risurrezione di Cristo è talmente attratto da Lui che può dire come Paolo (Gal2,20) che non è più lui che vive, ma è Cristo che vive in lui. E’ rapportandosi a Cristo il credente ritrova il senso vero della sua vita, e di conseguenza trova spontaneo aprirsi all’altro e amarlo come Cristo lo ama.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Mt 18, 21-35

Il brano liturgico riporta la seconda parte del quarto discorso di Gesù iniziato domenica scorsa in cui l’evangelista Matteo ha composto come una piccola catechesi sul tema della vita ecclesiale.
Questa parte si apre con una domanda di Pietro, il quale si avvicina a Gesù e gli chiede: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
La domanda di Pietro ha per oggetto il tema del perdono, che nella Bibbia è intimamente connesso con quello dell’amore (V. Lv 19,17-18). Alcuni testi biblici invitavano a concedere il perdono per almeno tre volte, come Dio “che perdona l’uomo due, tre volte ” secondo quanto è scritto nel Libro di Giobbe (33,29)
Pietro sicuramente si sarà sentito generoso proponendo un perdono fino a sette volte, un numero che simboleggia la perfezione, ma che pone comunque un limite al perdono.
Gesù allora gli risponde: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.”
Gesù perciò va oltre spezzando ogni concezione quantitativa del perdono.
Egli ribalta il terribile canto della violenza pronunziato da Lmech in Genesi 4,24 “Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette”.ed esige così dai suoi discepoli il perdono illimitato, espresso attraverso la cifra simbolica esorbitante di “settanta volte sette”.
Qui Gesù aggiunge una parabola dimostrativa che inizia con la .consueta introduzione:
“Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi”…
È chiaro che la parabola non vuole descrivere che cosa avviene nel regno dei cieli, ma solo proporre una situazione che può illustrarne un aspetto particolare. Il re simboleggia chiaramente Dio. I suoi servi non sono certamente dei semplici servitori, ma dei collaboratori ad alto livello, come apparirà subito dal primo e unico che è stato chiamato a rapporto. Colui che si presenta al re per rendere conto è un personaggio che gli deve ben diecimila talenti . Questa somma era quanto mai esorbitante basti pensare che il valore del talento oscillava tra i seimila e diecimila denari, che corrispondevano ad altrettante dracme. Per un confronto, basti pensare che, secondo G. Flavio, il reddito annuo dei possedimenti di Archelao era di 600 talenti, di Erode Antipa era di 200 talenti (Antichità giudaiche 17,318-320).
È chiaro dunque che si tratta di un debito enorme: colui che l’ha contratto deve quindi essere un dignitario di corte o forse un gran possidente.
Siccome costui non può restituire la somma dovuta, il re ordina che sia venduto come schiavo con tutta la sua famiglia e che tutti i suoi beni siano confiscati . Questi però supplica il re di avere pazienza e gli promette di restituirgli la somma dovuta; il re allora si impietosisce e gli condona il debito.
Nella seconda scena la situazione si capovolge. Colui a cui è stato condonato questo debito, incontra un suo collega debitore nei suoi confronti di cento denari, lo afferra e quasi lo soffoca pretendendo la restituzione immediata del dovuto. La somma di cento denari, che corrisponde al salario di cento giornate lavorative di un operaio ordinario, messa a confronto con i diecimila talenti è una cifra irrisoria. Questo servo reagisce esattamente come aveva fatto lui con il re: si butta a terra e lo supplica di avere pazienza e quanto prima restituirà il dovuto. Ma la finale invece è totalmente diversa perchè questa volta il servo non ne vuole sapere e lo fa gettare in carcere finché non abbia pagato il debito.
Il confronto tra i due comportamenti è spontaneo, e viene fatto da coloro che ne sono testimoni: essi ne restano molto addolorati e vanno a riferirlo al re. Il Signore allora fa comparire davanti a sé il servo a cui aveva condonato l’enorme debito e, chiamandolo “servo malvagio”, gli ricorda che gli aveva condonato tutto il debito semplicemente perché lo aveva implorato e gli chiede: “Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”.
Questa domanda si ispira alla regola d’oro che impone di fare agli altri quello che si desidera per sé. In essa ciò che viene condannato è l’assenza non tanto del condono, quanto piuttosto della pietà che lo avrebbe dovuto ispirare. Il racconto termina con il gesto del padrone che, adirato, revoca il condono accordato precedentemente e getta il servo in carcere finché abbia pagato tutto il dovuto
L’applicazione della parabola non richiede molte parole: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”
La lezione che Gesù dà ai suoi discepoli e a noi oggi è limpida e non ammette eccezioni. Il discepolo deve essere sempre pronto e gioioso nel concedere il perdono senza ricorrere a scusanti o a distinzioni vane sul modello del “perdonare ma non dimenticare”. Ma questo perdono dato al fratello ha una radice profonda: dobbiamo infatti riconoscere che noi per primi siamo dei perdonati da Dio.
Scriveva S.Agostino: “Perdonati, perdoniamo!” , “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7) .

*****

“Il brano evangelico di questa domenica ci offre un insegnamento sul perdono, che non nega il torto subito ma riconosce che l’essere umano, creato ad immagine di Dio, è sempre più grande del male che commette.
San Pietro domanda a Gesù: «Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». A Pietro sembra già il massimo perdonare sette volte a una stessa persona; e forse a noi sembra già molto farlo due volte. Ma Gesù risponde: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette», vale a dire sempre: tu devi perdonare sempre. E lo conferma raccontando la parabola del re misericordioso e del servo spietato, nella quale mostra l’incoerenza di colui che prima è stato perdonato e poi si rifiuta di perdonare.
Il re della parabola è un uomo generoso che, preso da compassione, condona un debito enorme – “diecimila talenti”: enorme – a un servo che lo supplica. Ma quello stesso servo, appena incontra un altro servo come lui che gli deve cento denari – cioè molto meno –, si comporta in modo spietato, facendolo gettare in prigione. L’atteggiamento incoerente di questo servo è anche il nostro quando rifiutiamo il perdono ai nostri fratelli. Mentre il re della parabola è l’immagine di Dio che ci ama di un amore così ricco di misericordia da accoglierci, e amarci e perdonarci continuamente.
Fin dal nostro Battesimo Dio ci ha perdonati, condonandoci un debito insolvibile: il peccato originale. Ma, quella è la prima volta. Poi, con una misericordia senza limiti, Egli ci perdona tutte le colpe non appena mostriamo anche solo un piccolo segno di pentimento. Dio è così: misericordioso. Quando siamo tentati di chiudere il nostro cuore a chi ci ha offeso e ci chiede scusa, ricordiamoci delle parole del Padre celeste al servo spietato: «Io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». Chiunque abbia sperimentato la gioia, la pace e la libertà interiore che viene dall’essere perdonato può aprirsi alla possibilità di perdonare a sua volta.
Nella preghiera del Padre Nostro, Gesù ha voluto inserire lo stesso insegnamento di questa parabola. Ha messo in relazione diretta il perdono che chiediamo a Dio con il perdono che dobbiamo concedere ai nostri fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» . Il perdono di Dio è il segno del suo straripante amore per ciascuno di noi; è l’amore che ci lascia liberi di allontanarci, come il figlio prodigo, ma che attende ogni giorno il nostro ritorno; è l’amore intraprendente del pastore per la pecora perduta; è la tenerezza che accoglie ogni peccatore che bussa alla sua porta.
Il Padre celeste – nostro Padre – è pieno, è pieno di amore e vuole offrircelo, ma non lo può fare se chiudiamo il nostro cuore all’amore per gli altri.
La Vergine Maria ci aiuti ad essere sempre più consapevoli della gratuità e della grandezza del perdono ricevuto da Dio, per diventare misericordiosi come Lui, Padre buono, lento all’ira e grande nell’amore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 settembre 2017

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