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Apr 11, 2021

II Domenica di Pasqua - Anno B - 11 aprile 2021

La prima domenica dopo Pasqua, prima di chiamarsi della Divina Misericordia, era chiamata "domenica in albis". Questo nome era dovuto perchè ai primi tempi della Chiesa il battesimo era amministrato durante la notte di Pasqua, ed i battezzandi indossavano una tunica bianca che portavano poi per tutta la settimana successiva, fino alla prima domenica dopo Pasqua, detta perciò "domenica in cui si depongono le vesti bianche" ("in albis depositis"). Questa domenica dal 2000 è stata proclamata Festa della Divina Misericordia per volontà del Papa Giovanni Paolo II, come testimonia la sua seconda Enciclica “Dives in Misericordia”, scritta nel 1980.
Le letture liturgiche però non hanno subito variazioni.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca sottolinea la crescita della prima comunità cristiana con una espressione che ci può dare un quadro di come era: “un cuor solo e un’anima sola!” la comunità dei credenti uniti nell’amore che si esprime nella generosità di mettere i propri beni a disposizione degli altri.
Nella seconda lettura, l’apostolo Giovanni nella sua lettera, afferma come Cristo continua a realizzare il mistero pasquale attraverso i sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristie e a offrirci il dono dello Spirito
Il Vangelo di Giovanni riporta l’incontro di Gesù risorto con gli apostoli e il suo saluto: “Pace a Voi !” L’episodio di Tommaso, con i suoi umanissimi dubbi, è particolarmente utile per tutti coloro che procedono a tentoni in una valle oscura alla ricerca di Dio. Tommaso alla fine è stato in grado di proclamare la sua fede con una purezza straordinaria, forse la più alta del quarto Vangelo, esclamando : “Mio Signore e mio Dio!”

Dagli Atti degli Apostoli
La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune.
Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.
At 4,32-35

L’evangelista Luca, negli Atti degli Apostoli dà una panoramica di come viveva la prima comunità cristiana descrivendo alcuni modelli di vita. Mentre nel capitolo 2 descrive la comunità nei suoi vari aspetti, mettendo in risalto la pietà che avevano, nel brano attuale evidenzia il tema della comunione dei beni, e descrive la sintonia profonda che univa “coloro che erano diventati credenti”, facendo così comprendere che chi ispirava il loro comportamento era la fede che li univa alla persona di Gesù.
Luca descrive il loro tipo di vita con tre espressioni: “un cuore solo e un’anima sola” e “nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva”, e infine “fra loro tutto era comune”.
La condivisione dunque non riguardava solo i beni materiali, ma si estendeva a tutto ciò che uno possedeva, come i talenti, la cultura, le amicizie, le esperienze umane e religiose.
Luca indica anche quale era la fonte da cui derivava la comunione tra i membri della comunità, sottolineando che “Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore.” Gli apostoli dunque davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù!. Era proprio la fede nel Crocifisso, glorificato da Dio con la risurrezione, tema centrale della predicazione apostolica, che permetteva ai membri della comunità di abbandonare ogni interesse personale, per assumere quello stesso atteggiamento di amore e di condivisione con gli ultimi, che Gesù aveva insegnato, fino all’atto estremo della Sua vita.
Nell’ultima parte del brano Luca riprende la prima affermazione sottolineando l’agire forse più appariscente, in cui i primi credenti esercitavano il loro rapporto di comunione. Anzitutto egli mette in luce il risultato di questo comportamento: “Nessuno tra loro era bisognoso”. Questa espressione ha un riferimento al Dt 15,4, dove si afferma che nel popolo eletto non ci sarà nessun bisognoso, perché Dio lo favorirà di larghe benedizioni se sarà fedele alla Sua voce e obbedirà ai Suoi comandamenti. In forza della sua fedeltà a Cristo si è dunque attuata nella comunità cristiana la promessa fatta a Israele nel contesto dell’alleanza!.
A questo risultato i discepoli sono giunti perché hanno istituito una cassa comune a cui attingevano le risorse necessarie per venire incontro ai bisogni dei più poveri. Questa cassa, la cui responsabilità era affidata agli apostoli, in quanto erano considerati come i membri più autorevoli della comunità, veniva alimentata dal ricavato della vendita di case e terreni da parte dei membri più facoltosi della comunità (v.2,45). Si può dedurre, anche se non è specificato, che le vendite riguardassero i beni non direttamente utilizzati dai proprietari, e non ciò che serviva loro per la propria sussistenza. In altre parole non si tratta di una vera e propria “comunione dei beni”, ma della rinunzia ad una parte dei propri beni da parte di coloro che avevano più del necessario in favore dei più bisognosi.
A Luca sembra comunque interessare la comunione che sta alla base di questa ridistribuzione di beni materiali, per cui il rapporto di solidarietà e di comunione tra i membri della comunità va ben al di là dei beni materiali. Essa riguarda la totalità della vita e di ciò che uno possiede, perché alla base di tutto ciò si mette in comune il cuore, cioè la persona stessa nella sua espressione più profonda.

Salmo 117 Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.

Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».

La destra del Signore si è alzata,
La destra del Signore ha fatto prodezze.
Non morirò, ma resterò in vita
e annuncerò le opere del Signore.
Il Signore mi ha castigato duramente,
ma non mi ha consegnato alla morte.

La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo!

Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi.
Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare.
Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici.
Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
“La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
“Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male.
Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”.
Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore.
Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Giovanni Apostolo
Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato.
In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi.
Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.
E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità.
1 Gv 5,1-6

La Prima lettera di Giovanni è considerata la quarta delle cosiddette “lettere cattoliche”. Il contenuto, la terminologia e lo stile della lettera presentano delle evidenti affinità con il Vangelo secondo Giovanni, per cui alcuni studiosi moderni ritengono che l'autore della Prima lettera e del "quarto vangelo“, siano la stessa persona.
La lettera nella sua stesura finale potrebbe essere stata scritta verso la fine del 1^secolo probabilmente ad Efeso. I destinatari della lettera sono i pagani delle comunità dell'Asia Minore che si sono convertiti al Cristianesimo.
Nella lettera l'autore si sofferma molto sul modo in cui si manifesta la comunione con Dio e come sia possibile rimanervi per sempre.
Questo brano è tratto dalla parte finale della lettera e come tutti i finali è un po’ riassuntivo e sottolinea le caratteristiche di colui che ama Dio ed è in comunione con Lui..
“Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio;e chi ama colui che ha generato,ama anche chi da lui è stato generato”.
Chiunque crede in Gesù figlio di Dio, diviene a sua volta figlio di Dio. In forza di questa adozione diviene anche un fratello nei confronti di tutti coloro che amano Dio, perché non si può pretendere di amare Dio senza amare coloro di cui Egli è Padre.
“In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti.”
Possiamo dire perciò di amare veramente i fratelli se amiamo Dio e osserviamo i comandamenti. C’è uno stretto legame tra la dimensione orizzontale (verso i fratelli) e quella verticale (verso Dio) dell'amore.
“In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti;e i suoi comandamenti non sono gravosi”.
Nell’osservare i comandamenti di Dio si distingue ogni vero credente. I fedeli di Giovanni devono crescere in questa osservanza, in questa fede operativa. Egli li rassicura ricordando loro che i comandamenti di Dio non sono troppo pesanti da osservare.
“Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo;e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?”
Per “mondo” qui si intendono i falsi profeti che avevano diffuso dottrine erronee facendo deviare alcuni cristiani della comunità a cui è rivolta questa lettera. In virtù della loro fede essi hanno potuto vincere i falsi profeti e le loro false dottrine.
“E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?”
Questa vittoria è assicurata a quanti credono che Gesù è Figlio di Dio, quindi capace di donare la salvezza.
“Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue”. L'acqua ricorda il battesimo di Gesù e il sangue la Sua morte sulla croce, ma rammenta anche l'acqua e il sangue sgorgati dal costato di Gesù a seguito del colpo di lancia del soldato (Gv 19,34). Essi sono anche segno dei sacramenti della Chiesa.
“Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità”.
Riguardo alla testimonianza interiore dello Spirito, essa consiste nel manifestare al credente il suo potere salvifico, la verità dei fatti qui ricordati, e condurlo alla conoscenza di Gesù Cristo.
Lo Spirito è la verità perché noi sappiamo che proprio dallo Spirito è resa presente e attiva nella Chiesa la verità portata da Gesù.
La nostra fede ha delle basi incrollabili. Non solo si fonda sulla testimonianza di coloro che ci hanno trasmesso la fede e l'hanno vissuta fino in fondo, ma si basa su una testimonianza di Dio, che è di gran lunga più importante, e Dio Padre ha reso testimonianza al Figlio facendolo risorgere.
Ci sono anche vari esempi all'interno del Vangelo, in cui Dio Padre dichiara Gesù il Suo figlio amato.

Dal vangelo secondo Giovanni
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo»
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».
Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Gv 20, 19-31

L’evangelista Giovanni, dopo la visita dei due discepoli al sepolcro e la manifestazione del Risorto a Maria Maddalena, narra la duplice apparizione di Gesù agli Undici, a cui fa seguito immediatamente la prima conclusione del vangelo.
Il racconto di Giovanni si avvicina a quello dei sinottici in particolare a Luca, con il quale ha in comune alcuni particolari come l’aspetto corporeo di Gesù, la gioia, la missione, la remissione dei peccati, il dono dello Spirito.
L’evento ha luogo nello stesso giorno della risurrezione cioè “il primo dopo il sabato”. Si tratta dunque del primo giorno della settimana, che, come l’inizio della creazione, segna la nascita di un mondo nuovo. Sebbene le porte del luogo in cui si trovano i discepoli siano chiuse per timore dei giudei, Gesù non ha difficoltà a entrare. L’evangelista non dice che Gesù ha attraversato le porte chiuse, ma intende dire che Egli è capace di rendersi presente ai suoi discepoli in ogni circostanza., non è più legato ai limiti propri dell’esistenza fisica, tipica di questo mondo.
“Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».” Questo saluto è tipico del costume ebraico; ma si può dopo comprendere che con esso Gesù intende esprimere qualcosa di più di un semplice saluto.
“Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco”. Con questo gesto Gesù intende non soltanto dimostrare la realtà della Sua presenza, ma anche ricordare come sia proprio in forza della Sua morte in croce che Egli si presenta a loro nella Sua nuova realtà. In questo momento, in cui Gesù sta per donare lo Spirito ai Suoi discepoli, l’evangelista non può non ricordare che dal fianco squarciato del crocifisso erano usciti sangue ed acqua, simbolo dello Spirito .
” E i discepoli gioirono al vedere il Signore” Non si tratta semplicemente della soddisfazione di rivedere in vita una persona cara, ma piuttosto della gioia escatologica, strettamente collegata con la pace, che la presenza di Gesù porta con sé. Questo ”vedere ” realizza la promessa di Gesù: “il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. (Gv 14,19) La gioia nasce da questo vedere il Signore, che costituisce anche un riconoscimento e causa il ricordo delle parole di Gesù, secondo il pensiero di Giovanni.
Poi Gesù ripete il saluto: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Il dono della pace non riguarda solo i discepoli, ma deve essere esteso a tutta l’umanità, non riguarda perciò i semplici Apostoli, ma tutti i discepoli, quelli presenti alla Sua apparizione, ma anche quelli futuri di tutti i tempi e di tutte i luoghi.
“Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati»”. Gesù poi, alitando sui discepoli, conferisce loro lo Spirito, che era stato promesso durante l’ultima cena. Il gesto di alitare ricorda il racconto della creazione del primo uomo, che è diventato un essere vivente solo in forza del soffio divino (v.Gen 2,7), rammentando così nuovamente che la venuta dello Spirito rappresenta una nuova creazione.
Lo Spirito viene direttamente da Gesù, rappresenta quindi la potenza di Dio che promana dalla Sua persona, dalla Sua opera e dalla Sua morte in croce, dove Egli “ha dato lo Spirito”. Come effetto di questo dono Egli dà ai discepoli il potere di rimettere i peccati, e i discepoli, guidati e animati dallo Spirito, dovranno rendere presente la salvezza operata da Cristo, che comporta l’eliminazione del peccato e la riconciliazione di tutti gli uomini con Dio e tra di loro
Il racconto dell’apparizione di Gesù ai discepoli ha dunque lo scopo di mostrare come Egli abbia ormai realizzato il compito ricevuto dal Padre e affida alla Chiesa, guidata dallo Spirito, la missione di rendere presenti i frutti della salvezza, portando avanti nel mondo e nella storia l’esperienza di una vita riconciliata.
L’evangelista Giovanni precisa nel suo racconta che al momento di questa venuta di Gesù era assente uno dei Dodici, Tommaso detto Didimo (Gemello). Egli apparteneva al gruppo dei Dodici, anche se in questo momento essi sono rimasti solo in undici.
Sentendo che gli altri “avevano visto il Signore”, Tommaso, invece di unirsi a loro nella fede, afferma: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” Per Tommaso il desiderio di fare un’esperienza personale e diretta del Risorto, come l’avevano fatta gli altri discepoli, è legittimo, in quanto anche lui, insieme con loro, dovrà testimoniare quello che ha visto. E' interessante che nella sua richiesta Tommaso faccia di nuovo riferimento ai segni della morte in croce di Gesù (piaghe alle mani e al costato).
Esattamente otto giorni dopo la Pasqua, quindi nuovamente nel giorno di domenica, Gesù, come la prima volta, riappare ai discepoli e li saluta nello stesso modo: “Pace a voi” . Questa volta è presente tra loro anche Tommaso. È a lui che Gesù si rivolge direttamente con queste parole: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!”. Con queste parole Gesù dimostra di conoscere, come aveva fatto con Natanaele che cosa il discepolo desiderava fare. Egli non critica Tommaso per la sua richiesta, anzi si dichiara disponibile a soddisfarla. Per l’evangelista il fatto che Tommaso, incredulo com’era, abbia potuto vedere e toccare il corpo di Gesù risorto è chiaramente una conferma della sua realtà.
Alle parole di Gesù Tommaso risponde: “Mio Signore e mio Dio!”. Quando Gesù gli appare, egli non sente più il bisogno di toccare le Sue ferite, ma subito, come gli altri, passa dall’incredulità alla fede più piena e compie qui una confessione di fede assoluta dicendo: “Mio Signore e mio Dio!”. Con questa dichiarazione afferma che Gesù è Kyrios (Signore) ossia il Messia inviato da Dio e poi Theos (ossia Dio stesso).
Gesù allora conclude: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”.
Tommaso è dunque entrato nel gruppo di coloro che, avendo visto, hanno creduto. Le parole di Gesù non sono certo una critica nei confronti di coloro che appartengono a questa categoria, ma piuttosto esprimono un grande apprezzamento per tutti quelli che, pur non avendo avuto un’esperienza diretta di Gesù, hanno creduto sulla parola dei testimoni oculari .
Papa Benedetto XVI su questo punto aveva commentato: Noi tutti siamo Tommaso, l'incredulo; ma noi tutti possiamo, come lui, toccare il Cuore scoperto di Gesù; quindi toccare, guardare il Logos stesso, e così, con la mano e gli occhi rivolti a questo cuore, giungere alla confessione di fede: “Mio Signore e mio Dio!”
“Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Questi versetti sono la prima conclusione del vangelo di Giovanni in cui la vita di Gesù viene qui sintetizzata attraverso il termine di ”segni.” L'evangelista dice di non averli riportati tutti, non tanto per riconoscere la sua limitatezza, ma anche per affermare che ha ritenuto giusto riportarne solo alcuni.
La frase con cui conclude “perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.” rappresenta una chiave di interpretazione del suo vangelo che corrisponde al fine di Dio stesso: donare la vita eterna ad ogni credente (cf. Gv 3,15).

*****

“Nel Vangelo odierno ritorna più volte il verbo vedere: «I discepoli gioirono al vedere il Signore» ; poi dissero a Tommaso: «Abbiamo visto il Signore». Ma il Vangelo non descrive come lo videro, non descrive il Risorto, evidenzia solo un particolare: «Mostrò loro le mani e il fianco». Sembra volerci dire che i discepoli hanno riconosciuto Gesù così: attraverso le sue piaghe. La stessa cosa è accaduta a Tommaso: anch’egli voleva vedere «nelle sue mani il segno dei chiodi» e dopo aver veduto credette.
Nonostante la sua incredulità, dobbiamo ringraziare Tommaso, perché non si è accontentato di sentir dire dagli altri che Gesù era vivo, e nemmeno di vederlo in carne e ossa, ma ha voluto vedere dentro, toccare con mano le sue piaghe, i segni del suo amore. Il Vangelo chiama Tommaso «Didimo», cioè gemello, e in questo è veramente nostro fratello gemello. Perché anche a noi non basta sapere che Dio c’è: non ci riempie la vita un Dio risorto ma lontano; non ci attrae un Dio distante, per quanto giusto e santo. No: abbiamo anche noi bisogno di “vedere Dio”, di toccare con mano che è risorto, e risorto per noi.
Come possiamo vederlo? Come i discepoli: attraverso le sue piaghe. Guardando lì, essi hanno compreso che non li amava per scherzo e che li perdonava, nonostante tra loro ci fosse chi l’aveva rinnegato e chi l’aveva abbandonato. Entrare nelle sue piaghe è contemplare l’amore smisurato che sgorga dal suo cuore. Questa è la strada. È capire che il suo cuore batte per me, per te, per ciascuno di noi.
Cari fratelli e sorelle, possiamo ritenerci e dirci cristiani, e parlare di tanti bei valori della fede, ma, come i discepoli, abbiamo bisogno di vedere Gesù toccando il suo amore. Solo così andiamo al cuore della fede e, come i discepoli, troviamo una pace e una gioia (cfr vv. 19-20) più forti di ogni dubbio.
Tommaso, dopo aver visto le piaghe del Signore, esclamò: «Mio Signore e mio Dio!» . Vorrei attirare l’attenzione su quell’aggettivo che Tommaso ripete: mio. È un aggettivo possessivo e, se ci riflettiamo, potrebbe sembrare fuori luogo riferirlo a Dio: come può Dio essere mio? Come posso fare mio l’Onnipotente? In realtà, dicendo mio non profaniamo Dio, ma onoriamo la sua misericordia, perché è Lui che ha voluto “farsi nostro”. E come in una storia di amore, gli diciamo: “Ti sei fatto uomo per me, sei morto e risorto per me e allora non sei solo Dio; sei il mio Dio, sei la mia vita. In te ho trovato l’amore che cercavo e molto di più, come non avrei mai immaginato”.
Dio non si offende a essere “nostro”, perché l’amore chiede confidenza, la misericordia domanda fiducia. Già al principio dei dieci comandamenti Dio diceva: «Io sono il Signore, tuo Dio» (Es 20,2) e ribadiva: «Io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (v. 5). Ecco la proposta di Dio, amante geloso che si presenta come tuo Dio. E dal cuore commosso di Tommaso sgorga la risposta: «Mio Signore e mio Dio!». Entrando oggi, attraverso le piaghe, nel mistero di Dio, capiamo che la misericordia non è una sua qualità tra le altre, ma il palpito del suo stesso cuore. E allora, come Tommaso, non viviamo più da discepoli incerti, devoti ma titubanti; diventiamo anche noi veri innamorati del Signore! Non dobbiamo avere paura di questa parola: innamorati del Signore.
Come assaporare questo amore, come toccare oggi con mano la misericordia di Gesù? Ce lo suggerisce ancora il Vangelo, quando sottolinea che la sera stessa di Pasqua, cioè appena risorto, Gesù, per prima cosa, dona lo Spirito per perdonare i peccati. Per sperimentare l’amore bisogna passare da lì: lasciarsi perdonare. Lasciarsi perdonare. Domando a me e a ognuno di voi: io mi lascio perdonare? Per sperimentare quell’amore, bisogna passare da lì. Io mi lascio perdonare? “Ma, Padre, andare a confessarsi sembra difficile…”. Di fronte a Dio, siamo tentati di fare come i discepoli nel Vangelo: barricarci a porte chiuse.
Essi lo facevano per timore e noi pure abbiamo timore, vergogna di aprirci e dire i peccati. Che il Signore ci dia la grazia di comprendere la vergogna, di vederla non come una porta chiusa, ma come il primo passo dell’incontro. Quando proviamo vergogna, dobbiamo essere grati: vuol dire che non accettiamo il male, e questo è buono. La vergogna è un invito segreto dell’anima che ha bisogno del Signore per vincere il male. Il dramma è quando non ci si vergogna più di niente. Non abbiamo paura di provare vergogna! E passiamo dalla vergogna al perdono! Non abbiate paura di vergognarvi! Non abbiate paura.
C’è invece una porta chiusa davanti al perdono del Signore, quella della rassegnazione. La rassegnazione sempre è una porta chiusa. L’hanno sperimentata i discepoli, che a Pasqua constatavano amaramente come tutto fosse tornato come prima: erano ancora lì, a Gerusalemme, sfiduciati; il “capitolo Gesù” sembrava finito e dopo tanto tempo con Lui nulla era cambiato, rassegniamoci.
Anche noi possiamo pensare: “Sono cristiano da tanto, eppure in me non cambia niente, faccio sempre i soliti peccati”. Allora, sfiduciati, rinunciamo alla misericordia. Ma il Signore ci interpella: “Non credi che la mia misericordia è più grande della tua miseria? Sei recidivo nel peccare? Sii recidivo nel chiedere misericordia, e vedremo chi avrà la meglio!”. E poi – chi conosce il Sacramento del perdono lo sa – non è vero che tutto rimane come prima. Ad ogni perdono siamo rinfrancati, incoraggiati, perché ci sentiamo ogni volta più amati, più abbracciati dal Padre. E quando, da amati, ricadiamo, proviamo più dolore rispetto a prima. È un dolore benefico, che lentamente ci distacca dal peccato. Scopriamo allora che la forza della vita è ricevere il perdono di Dio, e andare avanti, di perdono in perdono. Così va la vita: di vergogna in vergogna, di perdono in perdono. Questa è la vita cristiana.
Dopo la vergogna e la rassegnazione, c’è un’altra porta chiusa, a volte blindata: il nostro peccato, lo stesso peccato.
Quando commetto un peccato grande, se io, in tutta onestà, non voglio perdonarmi, perché dovrà farlo Dio? Questa porta, però, è serrata solo da una parte, la nostra; per Dio non è mai invalicabile. Egli, come insegna il Vangelo, ama entrare proprio “a porte chiuse” – l’abbiamo sentito –, quando ogni varco sembra sbarrato. Lì Dio opera meraviglie. Egli non decide mai di separarsi da noi, siamo noi che lo lasciamo fuori. Ma quando ci confessiamo accade l’inaudito: scopriamo che proprio quel peccato, che ci teneva distanti dal Signore, diventa il luogo dell’incontro con Lui. Lì il Dio ferito d’amore viene incontro alle nostre ferite. E rende le nostre misere piaghe simili alle sue piaghe gloriose. C’è una trasformazione: la mia misera piaga assomiglia alle sue piaghe gloriose. Perché Egli è misericordia e opera meraviglie nelle nostre miserie.
Come Tommaso, chiediamo oggi la grazia di riconoscere il nostro Dio: di trovare nel suo perdono la nostra gioia, di trovare nella sua misericordia la nostra speranza.”

Papa Francesco Parte dell’Omelia dell’ 8 aprile 2018

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