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Domenica, 11 Aprile 2021 14:17

II Domenica di Pasqua - Anno B - 11 aprile 2021

La prima domenica dopo Pasqua, prima di chiamarsi della Divina Misericordia, era chiamata "domenica in albis". Questo nome era dovuto perchè ai primi tempi della Chiesa il battesimo era amministrato durante la notte di Pasqua, ed i battezzandi indossavano una tunica bianca che portavano poi per tutta la settimana successiva, fino alla prima domenica dopo Pasqua, detta perciò "domenica in cui si depongono le vesti bianche" ("in albis depositis"). Questa domenica dal 2000 è stata proclamata Festa della Divina Misericordia per volontà del Papa Giovanni Paolo II, come testimonia la sua seconda Enciclica “Dives in Misericordia”, scritta nel 1980.
Le letture liturgiche però non hanno subito variazioni.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca sottolinea la crescita della prima comunità cristiana con una espressione che ci può dare un quadro di come era: “un cuor solo e un’anima sola!” la comunità dei credenti uniti nell’amore che si esprime nella generosità di mettere i propri beni a disposizione degli altri.
Nella seconda lettura, l’apostolo Giovanni nella sua lettera, afferma come Cristo continua a realizzare il mistero pasquale attraverso i sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristie e a offrirci il dono dello Spirito
Il Vangelo di Giovanni riporta l’incontro di Gesù risorto con gli apostoli e il suo saluto: “Pace a Voi !” L’episodio di Tommaso, con i suoi umanissimi dubbi, è particolarmente utile per tutti coloro che procedono a tentoni in una valle oscura alla ricerca di Dio. Tommaso alla fine è stato in grado di proclamare la sua fede con una purezza straordinaria, forse la più alta del quarto Vangelo, esclamando : “Mio Signore e mio Dio!”

Dagli Atti degli Apostoli
La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune.
Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.
At 4,32-35

L’evangelista Luca, negli Atti degli Apostoli dà una panoramica di come viveva la prima comunità cristiana descrivendo alcuni modelli di vita. Mentre nel capitolo 2 descrive la comunità nei suoi vari aspetti, mettendo in risalto la pietà che avevano, nel brano attuale evidenzia il tema della comunione dei beni, e descrive la sintonia profonda che univa “coloro che erano diventati credenti”, facendo così comprendere che chi ispirava il loro comportamento era la fede che li univa alla persona di Gesù.
Luca descrive il loro tipo di vita con tre espressioni: “un cuore solo e un’anima sola” e “nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva”, e infine “fra loro tutto era comune”.
La condivisione dunque non riguardava solo i beni materiali, ma si estendeva a tutto ciò che uno possedeva, come i talenti, la cultura, le amicizie, le esperienze umane e religiose.
Luca indica anche quale era la fonte da cui derivava la comunione tra i membri della comunità, sottolineando che “Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore.” Gli apostoli dunque davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù!. Era proprio la fede nel Crocifisso, glorificato da Dio con la risurrezione, tema centrale della predicazione apostolica, che permetteva ai membri della comunità di abbandonare ogni interesse personale, per assumere quello stesso atteggiamento di amore e di condivisione con gli ultimi, che Gesù aveva insegnato, fino all’atto estremo della Sua vita.
Nell’ultima parte del brano Luca riprende la prima affermazione sottolineando l’agire forse più appariscente, in cui i primi credenti esercitavano il loro rapporto di comunione. Anzitutto egli mette in luce il risultato di questo comportamento: “Nessuno tra loro era bisognoso”. Questa espressione ha un riferimento al Dt 15,4, dove si afferma che nel popolo eletto non ci sarà nessun bisognoso, perché Dio lo favorirà di larghe benedizioni se sarà fedele alla Sua voce e obbedirà ai Suoi comandamenti. In forza della sua fedeltà a Cristo si è dunque attuata nella comunità cristiana la promessa fatta a Israele nel contesto dell’alleanza!.
A questo risultato i discepoli sono giunti perché hanno istituito una cassa comune a cui attingevano le risorse necessarie per venire incontro ai bisogni dei più poveri. Questa cassa, la cui responsabilità era affidata agli apostoli, in quanto erano considerati come i membri più autorevoli della comunità, veniva alimentata dal ricavato della vendita di case e terreni da parte dei membri più facoltosi della comunità (v.2,45). Si può dedurre, anche se non è specificato, che le vendite riguardassero i beni non direttamente utilizzati dai proprietari, e non ciò che serviva loro per la propria sussistenza. In altre parole non si tratta di una vera e propria “comunione dei beni”, ma della rinunzia ad una parte dei propri beni da parte di coloro che avevano più del necessario in favore dei più bisognosi.
A Luca sembra comunque interessare la comunione che sta alla base di questa ridistribuzione di beni materiali, per cui il rapporto di solidarietà e di comunione tra i membri della comunità va ben al di là dei beni materiali. Essa riguarda la totalità della vita e di ciò che uno possiede, perché alla base di tutto ciò si mette in comune il cuore, cioè la persona stessa nella sua espressione più profonda.

Salmo 117 Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.

Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».

La destra del Signore si è alzata,
La destra del Signore ha fatto prodezze.
Non morirò, ma resterò in vita
e annuncerò le opere del Signore.
Il Signore mi ha castigato duramente,
ma non mi ha consegnato alla morte.

La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo!

Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi.
Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare.
Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici.
Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
“La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
“Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male.
Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”.
Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore.
Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Giovanni Apostolo
Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato.
In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi.
Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.
E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità.
1 Gv 5,1-6

La Prima lettera di Giovanni è considerata la quarta delle cosiddette “lettere cattoliche”. Il contenuto, la terminologia e lo stile della lettera presentano delle evidenti affinità con il Vangelo secondo Giovanni, per cui alcuni studiosi moderni ritengono che l'autore della Prima lettera e del "quarto vangelo“, siano la stessa persona.
La lettera nella sua stesura finale potrebbe essere stata scritta verso la fine del 1^secolo probabilmente ad Efeso. I destinatari della lettera sono i pagani delle comunità dell'Asia Minore che si sono convertiti al Cristianesimo.
Nella lettera l'autore si sofferma molto sul modo in cui si manifesta la comunione con Dio e come sia possibile rimanervi per sempre.
Questo brano è tratto dalla parte finale della lettera e come tutti i finali è un po’ riassuntivo e sottolinea le caratteristiche di colui che ama Dio ed è in comunione con Lui..
“Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio;e chi ama colui che ha generato,ama anche chi da lui è stato generato”.
Chiunque crede in Gesù figlio di Dio, diviene a sua volta figlio di Dio. In forza di questa adozione diviene anche un fratello nei confronti di tutti coloro che amano Dio, perché non si può pretendere di amare Dio senza amare coloro di cui Egli è Padre.
“In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti.”
Possiamo dire perciò di amare veramente i fratelli se amiamo Dio e osserviamo i comandamenti. C’è uno stretto legame tra la dimensione orizzontale (verso i fratelli) e quella verticale (verso Dio) dell'amore.
“In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti;e i suoi comandamenti non sono gravosi”.
Nell’osservare i comandamenti di Dio si distingue ogni vero credente. I fedeli di Giovanni devono crescere in questa osservanza, in questa fede operativa. Egli li rassicura ricordando loro che i comandamenti di Dio non sono troppo pesanti da osservare.
“Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo;e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?”
Per “mondo” qui si intendono i falsi profeti che avevano diffuso dottrine erronee facendo deviare alcuni cristiani della comunità a cui è rivolta questa lettera. In virtù della loro fede essi hanno potuto vincere i falsi profeti e le loro false dottrine.
“E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?”
Questa vittoria è assicurata a quanti credono che Gesù è Figlio di Dio, quindi capace di donare la salvezza.
“Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue”. L'acqua ricorda il battesimo di Gesù e il sangue la Sua morte sulla croce, ma rammenta anche l'acqua e il sangue sgorgati dal costato di Gesù a seguito del colpo di lancia del soldato (Gv 19,34). Essi sono anche segno dei sacramenti della Chiesa.
“Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità”.
Riguardo alla testimonianza interiore dello Spirito, essa consiste nel manifestare al credente il suo potere salvifico, la verità dei fatti qui ricordati, e condurlo alla conoscenza di Gesù Cristo.
Lo Spirito è la verità perché noi sappiamo che proprio dallo Spirito è resa presente e attiva nella Chiesa la verità portata da Gesù.
La nostra fede ha delle basi incrollabili. Non solo si fonda sulla testimonianza di coloro che ci hanno trasmesso la fede e l'hanno vissuta fino in fondo, ma si basa su una testimonianza di Dio, che è di gran lunga più importante, e Dio Padre ha reso testimonianza al Figlio facendolo risorgere.
Ci sono anche vari esempi all'interno del Vangelo, in cui Dio Padre dichiara Gesù il Suo figlio amato.

Dal vangelo secondo Giovanni
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo»
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».
Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Gv 20, 19-31

L’evangelista Giovanni, dopo la visita dei due discepoli al sepolcro e la manifestazione del Risorto a Maria Maddalena, narra la duplice apparizione di Gesù agli Undici, a cui fa seguito immediatamente la prima conclusione del vangelo.
Il racconto di Giovanni si avvicina a quello dei sinottici in particolare a Luca, con il quale ha in comune alcuni particolari come l’aspetto corporeo di Gesù, la gioia, la missione, la remissione dei peccati, il dono dello Spirito.
L’evento ha luogo nello stesso giorno della risurrezione cioè “il primo dopo il sabato”. Si tratta dunque del primo giorno della settimana, che, come l’inizio della creazione, segna la nascita di un mondo nuovo. Sebbene le porte del luogo in cui si trovano i discepoli siano chiuse per timore dei giudei, Gesù non ha difficoltà a entrare. L’evangelista non dice che Gesù ha attraversato le porte chiuse, ma intende dire che Egli è capace di rendersi presente ai suoi discepoli in ogni circostanza., non è più legato ai limiti propri dell’esistenza fisica, tipica di questo mondo.
“Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».” Questo saluto è tipico del costume ebraico; ma si può dopo comprendere che con esso Gesù intende esprimere qualcosa di più di un semplice saluto.
“Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco”. Con questo gesto Gesù intende non soltanto dimostrare la realtà della Sua presenza, ma anche ricordare come sia proprio in forza della Sua morte in croce che Egli si presenta a loro nella Sua nuova realtà. In questo momento, in cui Gesù sta per donare lo Spirito ai Suoi discepoli, l’evangelista non può non ricordare che dal fianco squarciato del crocifisso erano usciti sangue ed acqua, simbolo dello Spirito .
” E i discepoli gioirono al vedere il Signore” Non si tratta semplicemente della soddisfazione di rivedere in vita una persona cara, ma piuttosto della gioia escatologica, strettamente collegata con la pace, che la presenza di Gesù porta con sé. Questo ”vedere ” realizza la promessa di Gesù: “il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. (Gv 14,19) La gioia nasce da questo vedere il Signore, che costituisce anche un riconoscimento e causa il ricordo delle parole di Gesù, secondo il pensiero di Giovanni.
Poi Gesù ripete il saluto: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Il dono della pace non riguarda solo i discepoli, ma deve essere esteso a tutta l’umanità, non riguarda perciò i semplici Apostoli, ma tutti i discepoli, quelli presenti alla Sua apparizione, ma anche quelli futuri di tutti i tempi e di tutte i luoghi.
“Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati»”. Gesù poi, alitando sui discepoli, conferisce loro lo Spirito, che era stato promesso durante l’ultima cena. Il gesto di alitare ricorda il racconto della creazione del primo uomo, che è diventato un essere vivente solo in forza del soffio divino (v.Gen 2,7), rammentando così nuovamente che la venuta dello Spirito rappresenta una nuova creazione.
Lo Spirito viene direttamente da Gesù, rappresenta quindi la potenza di Dio che promana dalla Sua persona, dalla Sua opera e dalla Sua morte in croce, dove Egli “ha dato lo Spirito”. Come effetto di questo dono Egli dà ai discepoli il potere di rimettere i peccati, e i discepoli, guidati e animati dallo Spirito, dovranno rendere presente la salvezza operata da Cristo, che comporta l’eliminazione del peccato e la riconciliazione di tutti gli uomini con Dio e tra di loro
Il racconto dell’apparizione di Gesù ai discepoli ha dunque lo scopo di mostrare come Egli abbia ormai realizzato il compito ricevuto dal Padre e affida alla Chiesa, guidata dallo Spirito, la missione di rendere presenti i frutti della salvezza, portando avanti nel mondo e nella storia l’esperienza di una vita riconciliata.
L’evangelista Giovanni precisa nel suo racconta che al momento di questa venuta di Gesù era assente uno dei Dodici, Tommaso detto Didimo (Gemello). Egli apparteneva al gruppo dei Dodici, anche se in questo momento essi sono rimasti solo in undici.
Sentendo che gli altri “avevano visto il Signore”, Tommaso, invece di unirsi a loro nella fede, afferma: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” Per Tommaso il desiderio di fare un’esperienza personale e diretta del Risorto, come l’avevano fatta gli altri discepoli, è legittimo, in quanto anche lui, insieme con loro, dovrà testimoniare quello che ha visto. E' interessante che nella sua richiesta Tommaso faccia di nuovo riferimento ai segni della morte in croce di Gesù (piaghe alle mani e al costato).
Esattamente otto giorni dopo la Pasqua, quindi nuovamente nel giorno di domenica, Gesù, come la prima volta, riappare ai discepoli e li saluta nello stesso modo: “Pace a voi” . Questa volta è presente tra loro anche Tommaso. È a lui che Gesù si rivolge direttamente con queste parole: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!”. Con queste parole Gesù dimostra di conoscere, come aveva fatto con Natanaele che cosa il discepolo desiderava fare. Egli non critica Tommaso per la sua richiesta, anzi si dichiara disponibile a soddisfarla. Per l’evangelista il fatto che Tommaso, incredulo com’era, abbia potuto vedere e toccare il corpo di Gesù risorto è chiaramente una conferma della sua realtà.
Alle parole di Gesù Tommaso risponde: “Mio Signore e mio Dio!”. Quando Gesù gli appare, egli non sente più il bisogno di toccare le Sue ferite, ma subito, come gli altri, passa dall’incredulità alla fede più piena e compie qui una confessione di fede assoluta dicendo: “Mio Signore e mio Dio!”. Con questa dichiarazione afferma che Gesù è Kyrios (Signore) ossia il Messia inviato da Dio e poi Theos (ossia Dio stesso).
Gesù allora conclude: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”.
Tommaso è dunque entrato nel gruppo di coloro che, avendo visto, hanno creduto. Le parole di Gesù non sono certo una critica nei confronti di coloro che appartengono a questa categoria, ma piuttosto esprimono un grande apprezzamento per tutti quelli che, pur non avendo avuto un’esperienza diretta di Gesù, hanno creduto sulla parola dei testimoni oculari .
Papa Benedetto XVI su questo punto aveva commentato: Noi tutti siamo Tommaso, l'incredulo; ma noi tutti possiamo, come lui, toccare il Cuore scoperto di Gesù; quindi toccare, guardare il Logos stesso, e così, con la mano e gli occhi rivolti a questo cuore, giungere alla confessione di fede: “Mio Signore e mio Dio!”
“Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Questi versetti sono la prima conclusione del vangelo di Giovanni in cui la vita di Gesù viene qui sintetizzata attraverso il termine di ”segni.” L'evangelista dice di non averli riportati tutti, non tanto per riconoscere la sua limitatezza, ma anche per affermare che ha ritenuto giusto riportarne solo alcuni.
La frase con cui conclude “perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.” rappresenta una chiave di interpretazione del suo vangelo che corrisponde al fine di Dio stesso: donare la vita eterna ad ogni credente (cf. Gv 3,15).

*****

“Nel Vangelo odierno ritorna più volte il verbo vedere: «I discepoli gioirono al vedere il Signore» ; poi dissero a Tommaso: «Abbiamo visto il Signore». Ma il Vangelo non descrive come lo videro, non descrive il Risorto, evidenzia solo un particolare: «Mostrò loro le mani e il fianco». Sembra volerci dire che i discepoli hanno riconosciuto Gesù così: attraverso le sue piaghe. La stessa cosa è accaduta a Tommaso: anch’egli voleva vedere «nelle sue mani il segno dei chiodi» e dopo aver veduto credette.
Nonostante la sua incredulità, dobbiamo ringraziare Tommaso, perché non si è accontentato di sentir dire dagli altri che Gesù era vivo, e nemmeno di vederlo in carne e ossa, ma ha voluto vedere dentro, toccare con mano le sue piaghe, i segni del suo amore. Il Vangelo chiama Tommaso «Didimo», cioè gemello, e in questo è veramente nostro fratello gemello. Perché anche a noi non basta sapere che Dio c’è: non ci riempie la vita un Dio risorto ma lontano; non ci attrae un Dio distante, per quanto giusto e santo. No: abbiamo anche noi bisogno di “vedere Dio”, di toccare con mano che è risorto, e risorto per noi.
Come possiamo vederlo? Come i discepoli: attraverso le sue piaghe. Guardando lì, essi hanno compreso che non li amava per scherzo e che li perdonava, nonostante tra loro ci fosse chi l’aveva rinnegato e chi l’aveva abbandonato. Entrare nelle sue piaghe è contemplare l’amore smisurato che sgorga dal suo cuore. Questa è la strada. È capire che il suo cuore batte per me, per te, per ciascuno di noi.
Cari fratelli e sorelle, possiamo ritenerci e dirci cristiani, e parlare di tanti bei valori della fede, ma, come i discepoli, abbiamo bisogno di vedere Gesù toccando il suo amore. Solo così andiamo al cuore della fede e, come i discepoli, troviamo una pace e una gioia (cfr vv. 19-20) più forti di ogni dubbio.
Tommaso, dopo aver visto le piaghe del Signore, esclamò: «Mio Signore e mio Dio!» . Vorrei attirare l’attenzione su quell’aggettivo che Tommaso ripete: mio. È un aggettivo possessivo e, se ci riflettiamo, potrebbe sembrare fuori luogo riferirlo a Dio: come può Dio essere mio? Come posso fare mio l’Onnipotente? In realtà, dicendo mio non profaniamo Dio, ma onoriamo la sua misericordia, perché è Lui che ha voluto “farsi nostro”. E come in una storia di amore, gli diciamo: “Ti sei fatto uomo per me, sei morto e risorto per me e allora non sei solo Dio; sei il mio Dio, sei la mia vita. In te ho trovato l’amore che cercavo e molto di più, come non avrei mai immaginato”.
Dio non si offende a essere “nostro”, perché l’amore chiede confidenza, la misericordia domanda fiducia. Già al principio dei dieci comandamenti Dio diceva: «Io sono il Signore, tuo Dio» (Es 20,2) e ribadiva: «Io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (v. 5). Ecco la proposta di Dio, amante geloso che si presenta come tuo Dio. E dal cuore commosso di Tommaso sgorga la risposta: «Mio Signore e mio Dio!». Entrando oggi, attraverso le piaghe, nel mistero di Dio, capiamo che la misericordia non è una sua qualità tra le altre, ma il palpito del suo stesso cuore. E allora, come Tommaso, non viviamo più da discepoli incerti, devoti ma titubanti; diventiamo anche noi veri innamorati del Signore! Non dobbiamo avere paura di questa parola: innamorati del Signore.
Come assaporare questo amore, come toccare oggi con mano la misericordia di Gesù? Ce lo suggerisce ancora il Vangelo, quando sottolinea che la sera stessa di Pasqua, cioè appena risorto, Gesù, per prima cosa, dona lo Spirito per perdonare i peccati. Per sperimentare l’amore bisogna passare da lì: lasciarsi perdonare. Lasciarsi perdonare. Domando a me e a ognuno di voi: io mi lascio perdonare? Per sperimentare quell’amore, bisogna passare da lì. Io mi lascio perdonare? “Ma, Padre, andare a confessarsi sembra difficile…”. Di fronte a Dio, siamo tentati di fare come i discepoli nel Vangelo: barricarci a porte chiuse.
Essi lo facevano per timore e noi pure abbiamo timore, vergogna di aprirci e dire i peccati. Che il Signore ci dia la grazia di comprendere la vergogna, di vederla non come una porta chiusa, ma come il primo passo dell’incontro. Quando proviamo vergogna, dobbiamo essere grati: vuol dire che non accettiamo il male, e questo è buono. La vergogna è un invito segreto dell’anima che ha bisogno del Signore per vincere il male. Il dramma è quando non ci si vergogna più di niente. Non abbiamo paura di provare vergogna! E passiamo dalla vergogna al perdono! Non abbiate paura di vergognarvi! Non abbiate paura.
C’è invece una porta chiusa davanti al perdono del Signore, quella della rassegnazione. La rassegnazione sempre è una porta chiusa. L’hanno sperimentata i discepoli, che a Pasqua constatavano amaramente come tutto fosse tornato come prima: erano ancora lì, a Gerusalemme, sfiduciati; il “capitolo Gesù” sembrava finito e dopo tanto tempo con Lui nulla era cambiato, rassegniamoci.
Anche noi possiamo pensare: “Sono cristiano da tanto, eppure in me non cambia niente, faccio sempre i soliti peccati”. Allora, sfiduciati, rinunciamo alla misericordia. Ma il Signore ci interpella: “Non credi che la mia misericordia è più grande della tua miseria? Sei recidivo nel peccare? Sii recidivo nel chiedere misericordia, e vedremo chi avrà la meglio!”. E poi – chi conosce il Sacramento del perdono lo sa – non è vero che tutto rimane come prima. Ad ogni perdono siamo rinfrancati, incoraggiati, perché ci sentiamo ogni volta più amati, più abbracciati dal Padre. E quando, da amati, ricadiamo, proviamo più dolore rispetto a prima. È un dolore benefico, che lentamente ci distacca dal peccato. Scopriamo allora che la forza della vita è ricevere il perdono di Dio, e andare avanti, di perdono in perdono. Così va la vita: di vergogna in vergogna, di perdono in perdono. Questa è la vita cristiana.
Dopo la vergogna e la rassegnazione, c’è un’altra porta chiusa, a volte blindata: il nostro peccato, lo stesso peccato.
Quando commetto un peccato grande, se io, in tutta onestà, non voglio perdonarmi, perché dovrà farlo Dio? Questa porta, però, è serrata solo da una parte, la nostra; per Dio non è mai invalicabile. Egli, come insegna il Vangelo, ama entrare proprio “a porte chiuse” – l’abbiamo sentito –, quando ogni varco sembra sbarrato. Lì Dio opera meraviglie. Egli non decide mai di separarsi da noi, siamo noi che lo lasciamo fuori. Ma quando ci confessiamo accade l’inaudito: scopriamo che proprio quel peccato, che ci teneva distanti dal Signore, diventa il luogo dell’incontro con Lui. Lì il Dio ferito d’amore viene incontro alle nostre ferite. E rende le nostre misere piaghe simili alle sue piaghe gloriose. C’è una trasformazione: la mia misera piaga assomiglia alle sue piaghe gloriose. Perché Egli è misericordia e opera meraviglie nelle nostre miserie.
Come Tommaso, chiediamo oggi la grazia di riconoscere il nostro Dio: di trovare nel suo perdono la nostra gioia, di trovare nella sua misericordia la nostra speranza.”

Papa Francesco Parte dell’Omelia dell’ 8 aprile 2018

Pubblicato in Liturgia

La liturgia della Parola nel giorno di Pasqua, che è la massima celebrazione cristiana, offre un’ampia possibilità di scelta perché le varie celebrazioni, che hanno inizio nella notte di Pasqua, definita “la veglia madre di tutte le veglie” ripropongono la profondità del mistero, di un evento straordinario che riguarda la risurrezione di un uomo, quella stessa risurrezione che, quando San Paolo ne parlò agli ateniesi, fu deriso.
Nella celebrazione della Messa di Pasqua del giorno, abbiamo nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Pietro, in casa del centurione Cornelio, annuncia che Dio ha risuscitato Gesù dai morti e loro, i discepoli, ne sono i testimoni.
Nella seconda lettura, Paolo scrivendo ai Colossesi, afferma che il cristiano è già risorto con Cristo quando è uscito dalle acque purificatrici del Battesimo. Questo vuol dire che uniti a Cristo nel sacramento già partecipiamo alla Sua vita.
Nel Vangelo di Giovanni, il primo annuncio della resurrezione ci viene dalle donne, in particolare da Maria Maddalena, poi più concretamente da Pietro e dal “discepolo che Gesù amava” che corrono al sepolcro. Ma per primo è proprio questo discepolo che vide e credette, alla luce delle Scritture, che avevano preannunciato la risurrezione di Gesù Cristo. Questo discepolo, raffigura il volto del discepolo di Cristo di tutti i tempi. Egli riceve da Dio la certezza anche della propria risurrezione, che ha sua radice visibile in Gesù morto, sepolto e libero per sempre dalla tomba, ma il cui trionfo pieno è nel grande evento della Pasqua in cui sono coinvolti tutti gli uomini, fratelli di Cristo nella carne.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».
At 10,34a.37-43

Il libro degli Atti degli Apostoli, la cui redazione definitiva risale probabilmente attorno al 70-80, è attribuita all’evangelista Luca, che è anche autore del Vangelo che porta il suo nome. Il libro è composto da 28 capitoli e narra la storia della comunità cristiana dall'ascensione di Gesù fino all'arrivo di Paolo a Roma e copre un periodo che spazia approssimativamente dal 30 al 63 d.C.. Oltre che su Paolo, l'opera si sofferma diffusamente anche sull'operato dell'apostolo Pietro e descrive il rapido sviluppo, l'espansione e l'organizzazione della testimonianza cristiana prima ai giudei e poi agli uomini di ogni nazione.
Nella seconda parte dell’opera viene delineata l’espandersi dell’annunzio evangelico al di fuori di Gerusalemme. A tal fine Luca presenta l’opera di Filippo in Samaria, la conversione dell’eunuco della regina d’Etiopia, e la straordinaria conversione del persecutore Saulo sulla via di Damasco. Infine egli racconta un viaggio apostolico di Pietro nella zona costiera della Palestina, a conclusione del quale mette la conversione del centurione Cornelio, con tutti i suoi famigliari, facendo di loro i primi pagani che aderiscono al cristianesimo senza passare attraverso la circoncisione. Per Luca è importante sottolineare come questo evento, che apre la porta della Chiesa ai pagani, sia accaduto per opera dello stesso Pietro.
Questo brano ci riporta parte del discorso che Pietro tenne nella casa del centurione Cornelio, noto come uomo pio, alla ricerca di Dio, che viveva con tutta la sua famiglia nella città sede del governatore, Cesarea. Cornelio aveva accettato le credenze e i principi morali del giudaismo, senza però arrivare alla circoncisione con tutti gli obblighi morali che essa comportava. Luca riporta nei versetti precedenti che Cornelio a seguito di una visione di un angelo, che lo aveva chiamato per nome, invitò Pietro nella sua casa, per appagare questa sua sete di verità. In questo discorso che Pietro fa, sono chiaramente delineati i tratti fondamentali della vita di Gesù, dal battesimo, fino alla Sua morte e resurrezione. Pietro e gli altri discepoli sono dei testimoni e possono perciò affermare la storicità di Gesù che annunzia la buona novella nella Galilea e nella Giudea negli anni 30-36 non solo, ma possono anche affermarne la Sua divinità.
Per testimoniare la Sua morte e resurrezione Pietro a nome degli altri discepoli afferma: “noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.”
Pietro continua dicendo che Gesù è giudice dei vivi e dei morti, e questa espressione indica la totalità del potere acquisito da Cristo nella Sua opera di salvezza. “A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome”.
Oltre agli apostoli, anche le Scritture profetiche sono testimoni della risurrezione di Cristo. Nel suo stile Luca presenta la salvezza come "perdono dei peccati“ e la novità sta nell'estendere la salvezza cristiana a "chiunque crede in lui“.

Salmo 117 Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo

Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».

La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.

La destra del Signore si è innalzata,la destra del Signore ha fatto prodezze.
Non morirò, ma resterò in vita
e annuncerò le opere del Signore.

La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.

Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi.
Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare.
Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici.
Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
“La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
“Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male.
Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”.
Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore.
Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
Col 3,1-4

La Lettera ai Colossesi (come la lettera agli Efesini ) secondo la tradizione cristiana fu scritta con tutta probabilità da Paolo a Roma durante la sua prima prigionia, probabilmente nel 62-63. Colosse era allora una piccola città dell’entroterra dell’Asia minore, meno importante delle vicine Laodicea e Ierapoli. In tutti e tre questi centri si erano costituite delle chiese cristiane (v.4:13). Paolo aveva attraversato la regione già due volte, nel secondo e nel terzo viaggio missionario (Att. 16:6, 18:23). Con molta probabilità, la chiesa fu il risultato dell’opera di Paolo a Efeso, distante circa 160 chilometri da Colosse. L’effetto della predicazione di Paolo a Efeso fu di notevole e vasta portata, possiamo dunque immaginare che qualche cittadino di Colosse, avendo udito il Vangelo a Efeso e accettato la fede in Cristo, avesse in seguito fondato una chiesa nella sua città di origine.
Il primo capitolo della lettera contiene i saluti di Paolo (Col 1,1-23) e termina con una esposizione dei temi che si vogliono trattare. Essi sono: l’opera di Cristo per la santità dei credenti, la fedeltà al vangelo ricevuto. L’ultimo di questi temi è quello trattato per primo (1,24-2,5). Successivamente Paolo affronta il secondo tema, che riguarda la fedeltà al vangelo (2,6-23) e infine si concentra sull’opera di Cristo a vantaggio dei credenti (3,1-4,1).
Il brano liturgico riprende la prima parte del terzo capitolo in cui presenta l’opera di Cristo. Nella parte precedente Paolo aveva esposto una critica sulle teorie che mettono a rischio la fedeltà al vangelo, con l’esortazione ad abbandonare le false dottrine che venivano proposte. Queste inculcavamo la sottomissione agli elementi di questo mondo, verso i quali i colossesi dovevano ritenersi ormai “morti.” Questa morte però prelude a una vita nuova, che essi hanno già ottenuta.
Da qui ha inizio il brano liturgico:
“se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”.
La risurrezione dai morti non è più vista da Paolo come un evento escatologico, collegato con il ritorno di Gesù, ma come una realtà già realizzata. Con Cristo, anche i credenti in Lui sono già risorti, e godono la stessa vita nuova di cui Egli è entrato in possesso mediante la Sua risurrezione e ascensione al cielo.
È questa una convinzione tipica della seconda generazione cristiana, per la quale la parusia è vista ormai come un evento che si perde nella notte dei tempi, ma che ha già avuto una realizzazione anticipata mediante l’associazione del credente a Cristo Proprio per questo motivo i credenti devono considerarsi come già risorti con Cristo e sono invitati a cercare anche loro “le cose di lassù”, cioè quelle che stanno a cuore a Cristo nella Sua nuova situazione di Messia che siede alla destra del Padre. Sulle cose di lassù, dunque essi devono concentrare il loro pensiero, non più sulle cose della terra ma alle “cose di lassù”.
La situazione di morte e di vita tipica dei credenti in Cristo viene poi ulteriormente specificata con queste parole: Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!
Ciò che è visibile per il momento è solo la loro morte, perché la loro nuova vita, in quanto partecipazione alla vita di Cristo in Dio, non è visibile agli occhi del corpo. Ma “Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”.
Paolo ha già spiegato che la risurrezione dei morti non avrà luogo al momento del ritorno di Gesù, ma è già avvenuta. Tuttavia qui egli sottolinea che solo quando Cristo verrà, la loro nuova vita sarà manifestata, in quanto anche loro parteciperanno alla Sua gloria. non è più necessario quindi aspettare con impazienza la realizzazione degli eventi escatologici. Infatti la risurrezione, che avrebbe dovuto realizzarsi con il ritorno di Gesù, si è già attuata per coloro che, mediante la partecipazione alla morte e alla risurrezione di Gesù, sono diventati un’unica cosa con Lui.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Gv 20,1-9

Questo brano tratto dal Vangelo di Giovanni inizia riportando che “Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”.
Si può facilmente immaginare lo stato d’animo di Maria di Màgdala mentre si reca al sepolcro: Il suo cuore è triste, prigioniero della disperazione e dimentico della fede, forse non le viene neppure in mente l’idea della resurrezione di cui sicuramente Gesù le aveva parlato, non riesce a staccarsi da quel Gesù che aveva seguito e amato, sa solo che ora è morto, ma vuole almeno un luogo per piangerlo. Ma, arrivata là, vede la pietra ribaltata! Non ha bisogno neppure di entrare, percepisce già che il corpo non c’è più. Ha visto semplicemente una tomba aperta, ma la sua immaginazione corre più avanti:
“Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava,
In questo versetto, come altrove nel Vangelo, volutamente l’evangelista lascia anonimo il nome del discepolo per invitare ognuno di noi ad essere il discepolo che Gesù ama.
“e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Si percepisce molto movimento, ed agitazione in questo racconto
“Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro”.
Iniziano a correre insieme per arrivare al sepolcro, ma il discepolo amato corre più veloce di Pietro e giunge per primo alla tomba.
“Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò”. Pietro è più lento, ma il discepolo lo aspetta. C’è in questa attesa una particolare delicatezza del discepolo amato. Egli vede le bende a terra, ma questi oggetti, visti dal di fuori, non gli dicono nulla. Attende l’arrivo di Pietro!
“Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Pietro arriva, entra, osserva i teli e il sudario ma non capisce: quei segni non hanno significato per lui. “Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.. Il suo sguardo non si sofferma su un oggetto, o sul luogo, è un vedere che coglie l’insieme, è un vedere la luce, vale a dire è lo sguardo della fede, ecco perché: vide e credette.
Vede qualcosa che va al di là, vede l’invisibile. Prima, sulla soglia il suo sguardo si era soffermato su degli oggetti, ma senza comprendere, ora, entrato nel sepolcro, cioè nella realtà della morte, ricordando le parole di Gesù, comprende le Scritture, quelle Scritture che Gesù tante volte aveva spiegato. “che cioè egli doveva risorgere dai morti”.
Maria è mossa dall’amore, arriva fino al sepolcro, ma non ha il coraggio di entrare. Occorre entrare nella morte, nel dolore, nei segni di morte che ci sbarrano la via.
Pietro ha un rapporto con Gesù più razionale, più materiale; ha il coraggio di entrare nel sepolcro, nella morte, ma questo non basta.
Il discepolo che Gesù amava, sa amare con lo stile di Gesù, entra, vede con gli occhi della fede e del cuore!
La fede dunque è sì fede nella vita, nella potenza della resurrezione, nell’amore fino all’estremo, ma soprattutto è fede nella Scrittura, in quella Parola del Signore che ci permette di vedere e interpretare la vita dentro i segni di morte, che troviamo sul nostro cammino.

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa ultima domenica di quaresima, conosciuta anche come domenica delle Palme e della Passione del Signore, ci introducono alla Settimana Santa, e ci rendono quanto mai partecipi delle sofferenze di Cristo che affronta la Sua dolorosa passione per la nostra salvezza.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia attraverso il canto del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo la vita e la passione di Gesù. Il suo atteggiamento di fiducia in Dio e di amore per i fratelli lo lascia in una suprema libertà di fronte ad ogni prova. Egli ha la certezza che la sua missione non è vana.
Nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Filippesi, S.Paolo, con l’Inno Cristologico, rivela il mistero dell’abbassamento di Cristo e l’intervento di Dio in Suo favore: il Padre lo esalta, ponendolo al di sopra di tutte le cose e di tutti gli esseri viventi.
Il racconto della passione, tratta dal Vangelo di Marco, va meditata lentamente e in silenzio. Si può percepire così il crescendo di solitudine di Gesù a partire dall’ultima cena: solo nell’orto degli ulivi, solo davanti al Sinedrio, solo di fronte a Pilato, solo sul Golgota. Gesù in croce raccoglie in sé tutto il dolore che, da quando il peccato è entrato nel mondo, ha tormentato l'umanità. Sulla croce c'è il Dolore: ecco perché ogni uomo che soffre richiama quasi naturalmente il Crocifisso. Per Marco qui c'è il culmine del cammino di fede: riconoscere nel fallito, che pende dalla croce, la realtà di Dio che si manifesta come Amore.


Dal Vangelo secondo Marco
Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”».
Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare.
Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano:
«Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Osanna nel più alto dei cieli!».
Mc 11, 1-10

L’evangelista Marco non è certo se conobbe direttamente Gesù, ma se abitava a quel tempo a Gerusalemme deve aver perlomeno sentito parlare di Lui. Di sicuro è noto che, pochi anni dopo la morte del Maestro, gli apostoli e i discepoli si riunivano a casa di sua madre. Il fatto che sia l'unico evangelista a menzionare la fuga di un giovinetto che seguiva da lontano gli avvenimenti della cattura di Cristo nell'orto degli ulivi: (14,51-52) fa supporre che sia egli stesso questo giovinetto.
Marco nel racconto della Passione nel suo stile asciutto ed essenziale ci presenta una sequenza narrativa coinvolgente:
- Dalla congiura degli avversari di Gesù a due giorni dalla Pasqua, si passa all’unzione , che simbolicamente anticipa la sepoltura di Gesù, a Betania nella casa di Simone il lebbroso;
- Giuda offre ai sommi sacerdoti Gesù in cambio di denaro;
- “Il primo giorno degli Azzimi “ Gesù dà ordine per i preparativi della cena pasquale;
- A sera, a mensa, la crisi si impadronisce dei discepoli dopo che Gesù annuncia il tradimento di uno di loro;
- Gesù celebra la cena pasquale, ed eucaristica, inaugurazione della nuova alleanza con Dio nel suo sangue; nelle sue parole però si profila la dispersione e il tradimento dei discepoli e il loro ritorno;
-Al Getsemani, a notte fonda, Gesù prega con l’”anima triste fino alla morte” e i discepoli iniziano il tradimento con il loro sonno indifferente.
- In quella notte Giuda entra in scena con una piccola folla consegnando Gesù ai sommi sacerdoti.
- Il Sinedrio in una sessione straordinaria e un po’ tormentata condanna a morte Gesù per bestemmia.
- In attesa dell’esito del processo Pietro rinnega Gesù davanti ad una serva del sommo sacerdote e ad altri presenti.
- Gesù viene trasferito da Pilato per la convalida della sentenza capitale da parte delle autorità romane: dopo il vano tentativo di sostituzione di Gesù con Barabba, accusato di omicidio, Gesù è condannato alla crocifissione.
- Prima dell’esecuzione Gesù è flagellato e schernito dalla soldataglia romana e coronato di spine
- Passando attraverso la città, Gesù è condotto al Calvario fuori le mura di Gerusalemme: là viene crocifisso e sbeffeggiato , là avviene la sua morte dopo “un forte grido”.
- Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, ottiene da Pilato il permesso di prendere il corpo di Gesù, che avvolge con il lenzuolo e lo mette in un sepolcro scavato nella roccia.
- Poco dopo si compirà ciò che Gesù aveva preannunciato a Betania: alcune donne vorranno ungere il corpo del Signore con olio aromatico, ma il loro non sarà l’incontro con un morto, bensì con una manifestazione gloriosa di Dio.
Davanti a tutte queste sequenze di eventi possiamo lasciarci andare ad ogni possibile e libera considerazione. La più forte e dolorosa per Gesù è stata sicuramente l’abbandono: da Giuda il traditore a Pietro il discepolo definito da lui stesso roccia, fino a tutti gli altri discepoli. Ma il culmine è in quel misterioso silenzio del Padre, sperimentato da tutti i sofferenti della terra, ma unico e sconvolgente in Gesù, il Figlio. L’odio degli uomini si scatena, la paura degli amici prevale, il silenzio di Dio sconcerta. In Gesù si ritrova, quindi, tutta la vicenda del dolore umano.

Dal libro del profeta Isaia
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
Is 50,4-7

In questo carme del Servo sofferente, il profeta (Deuteroisaia) descrive la persecuzione di cui il Servo di JHWH è oggetto; poi passa a descrivere la sua reazione personale:
…Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il Suo progetto nonostante tutte le contestazioni. Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale, ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Fa impressione vedere come la profezia del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo di 550 anni, la vita e la passione di Gesù.

Salmo 21 Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno forato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.

Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe.

Il salmo presenta un giusto sofferente e perseguitato, pieno di speranza in Dio.
L’autore del salmo guarda alla sua esperienza di dolore, ma anche intende proporre un modello di sofferente che sostenga i fedeli nel momento della prova più terribile, cioè quando sono rifiutati, colpiti, dalla loro stessa gente. Il risultato presenta una tale aderenza nella descrizione di molte delle sofferenze di Cristo da dire che l’ispirazione ha modellato il giusto del salmo sul Cristo crocifisso.
Le prime parole del salmo sono un’invocazione sgomenta dinanzi a Dio; sgomenta, ma senza alcun rimprovero E’ un gemito rivelatore del suo grande tormento interiore: essere di fronte all’abbandono di Dio, al silenzio di Dio, che sembra assente, mentre egli è il Dio presente come attesta il tempio.
Il punto che lo sconvolge, è che il suo popolo, quello che vive all’ombra del tempio e che dovrebbe essere laudante attorno al trono di Dio “Tu siedi in trono fra le lodi di Israele” rifiuta la giustizia, e così anche la propria storia di popolo chiamato a proclamare i benefici di Dio. “In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li hai liberasti” dice, alludendo alla liberazione dall’Egitto.
Ma, ecco, egli è diventato “rifiuto degli uomini”, schiacciato a terra come un verme, privato della dignità di uomo. Di fronte a sé ha solo schernitori che si sfoggiano un sentirsi a posto con Dio, visto che Dio è dalla loro parte poiché non porta aiuto a colui che ora è nelle loro mani e che si diceva suo amico: “Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!”.
Ma il giusto perseguitato e colpito continua a confidare in Dio; non raccoglie la velenosa provocazione che lo vorrebbe rendere dubbioso davanti a Dio. Dio lo ha tratto dal grembo di sua madre; cioè il Padre ha dato al Figlio una natura umana, e, una sola persona (Figlio) in due nature, lo ha tratto dal grembo di una donna, e al suo nascere lo ha preso subito sulle sue ginocchia (Cf. Gn 50,23; Is 46,3) in riconoscimento della sua paternità.
L’aggressione che egli subisce è violenta, implacabile: “Mi circondano tori numerosi, mi assediano grossi tori di Basan…" (Basan è una regione ricca di pascoli a sud di Damasco). “Io sono come acqua versata”, buttato via, gettato via, come acqua. Colpito, strattonato, è pieno di dolore: “sono slogate tutte le mie ossa”. Il suo cuore cede per il dolore e lo sforzo d’amare; ed egli avverte che viene meno come colpito da infarto: “Il mio cure è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere”.
E’ disidratato e la sete lo attanaglia; la sua gola è riarsa e non può muovere che a stento la lingua: “La mia lingua si è incollata alla gola”. Egli si trova “su polvere di morte” senza scampo.
Gli avversari si sono ancora di più incattiviti vedendo la sua perseveranza, sono diventati un “branco di cani” che addentano. Premuto, assediato da ogni parte, gli vengono trafitti i piedi e le mani così da impedire che si muovesse o si difendesse dai colpi: l’autore del salmo non pensava alla crocifissione, pena di morte introdotta più tardi dai romani. “Posso contare tutte le mie ossa”, l’espressione rende l’idea complessiva del dolore che gli viene da ogni parte del corpo, ma la traduzione della Volgata di san Gerolamo - “hanno contato tutte le mie ossa” - è sicuramente proveniente da un manoscritto migliore in questo punto perché fa vedere anche la crudeltà degli aggressori, che hanno badato a che nessuna parte del corpo del giusto giustiziato fosse senza ferita e dolore.
Gli aggressori si compiacciono ferocemente dei dolori del giusto giustiziato : “essi stanno a guardare e mi osservano”. E sono tanto noncuranti di lui che giocano a dadi le sue vesti, secondo il diritto che si aveva sui condannati: “sulla mia tunica gettano la sorte”.
Di fronte a questo stato di strazio il giusto giustiziato non cessa di pregare e domanda aiuto a Dio per sfuggire non già alla morte, ma alla morte cui segue la consunzione della tomba, e questo mediante la risurrezione.
“Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”, dice. Risorto darà luce ai suoi fratelli, loderà il Padre nell’assemblea dei credenti (Cf. 1Cor 15,6).
Egli dirà: “Lodate il Signore, voi suoi fedeli, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza di Israele…”. E nella Chiesa, nella grande assemblea, loderà il Padre. Nella Grande Assemblea dove egli sarà presente con la sua Parola, con la sua reale presenza Eucaristica e col dono dello Spirito Santo.
Nel banchetto della carità “i poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano”.
La visione diventa universale, perché la salvezza del Cristo è universale: “Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli”. I popoli all’annunzio del Vangelo ricorderanno ciò che avevano dimenticato, che l’uomo è capace di Dio, che Dio è uno solo e che è bontà. Che il regno del mondo (Ap 11,15) è di Dio, e sue sono tutte le nazioni. E non solo ricorderanno e torneranno, che equivale a convertirsi, ma insieme a ciò crederanno alla lieta notizia evangelica, quella del regno dei cieli presente nella Chiesa per lievitare tutta la terra conquistata dal Cristo.
A Dio solo, liberi in eterno da ogni influsso di idolatria, si prostreranno, nel giorno della risurrezione, quanti ora dormono sotto terra.
Il grande Giusto giustiziato esprime la sua certezza che egli vivrà, risorgerà da morte e celebrerà in eterno il Padre: “Ma io vivrò per lui”.
E la sua discendenza, la Chiesa, servirà in lui, nel dono dello Spirito Santo, il Padre, portando la salvezza da lui ottenuta per tutte le genti. “Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia”, e la sua giustizia del Padre è Cristo, che ha espiato le colpe degli uomini. “Ecco l’opera del Signore”, diranno alle generazioni che si susseguono. E “l’opera del Signore” è Cristo, Cristo vivente nella Chiesa.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S Paolo apostolo ai Filippesi
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,6-11

Questo brano tratto dalla lettera ai Filippesi è il famoso inno Cristologico. Il testo, preesistente e appartenente ai testi utilizzati dai primi cristiani nella liturgia, è stato inserito dall'apostolo Paolo in un brano esortativo, ma di alto valore teologico.
Dai primi versetti ci presenta Gesù partecipe della natura divina, essendo Egli immagine di Dio, che non si è avvalso di questa condizione, ma ha scelto di condividere con la condizione umana l’esistenza di tutti gli uomini. L'abbassamento di Gesù giunge sino alla morte che l'umanità subisce a causa del peccato. E' la sua obbedienza che lo spinge ad assumere la condizione mortale che invece gli altri uomini subiscono per la loro disobbedienza.
“Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.” In questo versetto, gli esperti dicono, che sembra certa l'aggiunta di Paolo: fino alla morte e a una morte di croce, che presenta la sua “theologia crucis “e rafforza l'idea dell'umiliazione di Gesù che giunge sino all'esperienza infamante del condannato alla morte di croce.
Nella seconda parte dell'inno ci viene presentata la conseguenza del gesto di Gesù, e l'azione passa di mano ed è Dio che agisce e innalza Gesù. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!».
L'inno dunque ci presenta Gesù come l'uomo che non ha tradito il progetto originario di Dio e con la sua obbedienza si è fatto solidale con tutta l'umanità.
Paolo ricorda così ai cristiani di Filippi che essi sono inseriti vitalmente nella vicenda di Gesù e dunque nella logica del progetto del Padre, che diventa così anche indicazione per il loro agire concreto nella storia



PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO SECONDO MARCO

1Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. 2Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».

Ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura
3Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. 4Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? 5Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.
6Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. 7I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. 8Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. 9In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

Promisero a Giuda Iscariota di dargli danaro
10Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. 11Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.

Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?
12Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero:
«Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro:
«Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

Uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà
17Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. 18 Ora, mentre erano a tavola e mangiavano,
Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». 19Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?».
20Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. 21Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».

Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue dell’alleanza
22 E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai
26Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 27Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto:Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse.28Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea».
29Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». 30Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
31Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri

Cominciò a sentire paura ed angoscia
32Giunsero a un podere chiamato Getsèmani ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». 33Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. 34Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». 35 Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. 36 E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu».
37Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? 38Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». 39Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. 40Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. 41Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. 42Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino»

Arrestatelo e conducetolo via sotto buona scorta
43E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani.
44Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta»…45Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò. 46Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono. 47Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio. 48Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni. 49 Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le Scritture!».
50Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. 51 Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. 52Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.

Sei tu il Cristo, il Figlio del Bendetto?
53Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. 54 Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco.
55I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. 56 Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi. 57Alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: 58«Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”». 59Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde. 60 Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». 61 Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?».
62 Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo».
63Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? 64Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte.
65Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli:«Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano.

Non conosco quest’uomo di cui palate
66Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote 67e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». 68Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa dici». Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. 69 E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro». 70 Ma egli di nuovo negava.
Poco dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». 71 Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate».
72E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto:
«Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
E scoppiò in pianto.

Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?
1E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato.
2 Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici».
3I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. 4Pilato lo interrogò di nuovo dicendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!».
5Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito.
6A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato, a loro richiesta. 7Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. 8La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. 9Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». 10Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia.
11Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. 12 Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?».
13Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». 14 Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?».
Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!».
15 Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso

Intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo
16 Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa.
17 Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo.
18 Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». 19 E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui.20 Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.

Condussero Gesù al luogo del Golgota
21 Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo. 22 Condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», 23e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese.

Con lui crocifissero anche due ladroni
24 Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso.
25 Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. 26La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei». 27 Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e uno alla sua sinistra.

Ha salvato altri e non può salvare se stesso!
29 Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo:
«Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, 30salva te stesso scendendo dalla croce!».
31 Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! 32Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!».
E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.

Gesù, dando un forte grido, spirò
33 Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. 34 Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». 35Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». 36 Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere».
37Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
38Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. 39 Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
40Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, 41 le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
42Venuta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato,
43Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù.
44Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. 45Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. 46 Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro.
47Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto
Mc 14,1-15,47

La narrazione della Passione di Gesù dell’evangelista Marco è quella che porta più testimoni oculari (14,33; 15,21.40,43-44) ed è forse per questo la più vicina ai fatti. Solo Marco presenta la croce come vero scandalo per i discepoli e, parlando della loro totale incomprensione di fronte al destino del Maestro, vuole far rivivere ad ogni cristiano la stessa loro sofferenza.
Gesù in croce raccoglie in sé tutto il dolore che, da quando il peccato è entrato nel mondo, ha tormentato l'umanità. Sulla croce c'è il Dolore: ecco perché ogni uomo che soffre richiama quasi naturalmente il Crocifisso.
Il Padre risponderà al grido del Figlio «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» con la risurrezione, ma l'evangelista però ne scorge già la luce come anticipata in due segni, che sembrano poca cosa, ma hanno un significato profondo: "Il velo del tempio si squarciò in due".
Il vecchio tempio di Gerusalemme cederà il posto a un tempio nuovo, al Gesù risorto, aperto anche ai pagani, la cui fede è anticipata dalla confessione del centurione romano: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”, P.Cantalamessa nella sua omelia del venerdì Santo del 2015 sottolineò che il centurione romano affermando che Gesù era veramente, il Figlio di Dio lo fece perchè riconobbe nel ”forte grido” che Gesù emise morendo, un grido di vittoria, Lui era esperto di combattenti e di combattimenti, e quel grido lo conosceva. Inoltre prima di quel grido vide Gesù soffrire con tale amore, da indurlo a comprendere che soltanto il Figlio di Dio può soffrire in questo modo, soltanto Dio è capace di un amore così incredibile.
Per Marco qui c'è il culmine del cammino di fede: riconoscere nel fallito, che pende dalla croce, la realtà di Dio che si manifesta come Amore.

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““Gesù raggiunge la completa umiliazione con la «morte di croce». Si tratta della morte peggiore, quella che era riservata agli schiavi e ai delinquenti. Guardando Gesù nella sua passione, noi vediamo come in uno specchio le sofferenze dell’umanità e troviamo la risposta divina al mistero del male, del dolore, della morte.
Tante volte avvertiamo orrore per il male e il dolore che ci circonda e ci chiediamo: «Perché Dio lo permette?». Questa settimana farà bene a tutti noi guardare il crocifisso, baciare le piaghe di Gesù, baciarle nel crocifisso.
Lui ha preso su di sé tutta la sofferenza umana, si è rivestito di questa sofferenza“.”
Papa Francesco

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa V domenica di Quaresima ci invitano a meditare per arrivare a conoscere sempre di più il Signore, il mistero della Sua passione e morte per arrivare a contemplarlo nella Sua gloriosa resurrezione.
Nella prima lettura il profeta Geremia annuncia l’alleanza nuova, che Dio vuole fare con il suo popolo imprimendo la Sua legge nel cuore degli uomini e perdonando i loro peccati. L’osservanza di questa nuova alleanza dipenderà dalla qualità del rapporto di amore che ci sarà tra Dio ed ogni singola persona. Si tratterà quindi di una relazione di amore personale, che implica la fedeltà ed il desiderio profondo e sincero di piacere a Dio e di cercare sempre la Sua volontà.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, il suo straordinario autore afferma che Gesù non offrì a Dio doni e sacrifici per i peccati, ma offrì se stesso in un contesto di preghiera. Egli ha attraversato la sofferenza della morte con fedeltà filiale, perciò Dio lo ha reso perfetto, consacrato sacerdote, fonte di salvezza per tutti i credenti.
Nel Vangelo di Giovanni, viene descritta una scena posteriore all’ingresso di Gesù a Gerusalemme e appartiene a quel clima di segni e di presagi che attraversano le ore dell’avvicinamento di Gesù alla Sua morte. Raramente è dato percepire il divino e l’umano di Gesù in simbiosi così stretta, e il Suo mistero salvifico unito alla Sua sofferenza.

Dal libro del profeta Geremia
Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore.
Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore– porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.
Ger 31,31-34

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C). Incompreso, perseguitato, spesso minacciato di morte, Geremia, timido ma amico di Dio, non cessa di lanciare angosciati appelli alla conversione, non esita a mostrare a dito i responsabili che hanno deviato il popolo. Egli se la prende con la falsa coscienza dei benpensanti che si credono nel giusto, solo perchè osservano le pratiche religiose, senza viverle nell’animo. Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli fu anche l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà. La sua intimità con Dio e la religione del cuore, che egli ha vissuto e predicato, fanno di lui il profeta-maestro della vita interiore dell’uomo di ogni tempo.
Questo brano è tratto dal cosiddetto “Libro della consolazione” ed è considerato uno dei vertici spirituali dell’A.T . C’era già una alleanza, quella che sul Sinai Dio consegnò a Mosè e questa alleanza esigeva l’adesione esclusiva al Signore, che si realizzava nel compimento della legge e dei precetti. Per questo la legge era formulata con chiarezza e stilata da una duplice serie di benedizioni e maledizioni, ma l’uomo, nella storia non fu capace di essere fedele a questa legge. Ora Dio ne dona una nuova con particolari caratteristiche: Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato
È un‘alleanza definitiva, promessa di misericordia e perdono. Geremia preannuncia una conoscenza di Dio non più attraverso la mediazione della Legge, ma attraverso l’esperienza interiore per cui la conoscenza di Dio entra nel cuore dell’uomo.
Tutto ciò anche se non esclude l’importanza di seguire le indicazioni di una dottrina, ci ricorda che prima di tutto c’è il nostro rapporto personale con Dio. Questa è la grande alleanza di Dio: entrare nel cuore dell’uomo, nell’interno della sua vita, di tutto il suo essere, affinché l’uomo non possa più rifiutarlo, respingerlo, abbandonarlo, allontanarlo! Gesù stesso rievocherà la promessa di Geremia nella sera dell’ultima cena, quando definirà la coppa pasquale del vino “il calice della nuova alleanza”.
Noi come cristiani possiamo rileggere la promessa di Geremia alla luce della croce di Cristo, di quell’istante fondamentale in cui egli “elevato da terra ha attirato tutti a sé" (Gv12,32)

Salmo 51 (50) Crea in me, o Dio, un cuore puro.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Insegnerò ai ribelli le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.

Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10).
Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Eb 5,7-9

L’ autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
In questo breve brano, l’autore, dopo aver proclamato nei versetti precedenti Gesù Cristo “figlio di Dio e sacerdote in eterno” fa questa riflessione: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” L’obbedienza che Cristo imparò dalla Sua sofferenza consiste nell’adesione radicale al progetto di Dio, che lo ha guidato nelle scelte decisive della Sua vita. La sottomissione alla volontà del Padre viene presentata spesso nel N.T. come un aspetto specifico del comportamento di Gesù (V. Mc 14,36; Gv 4,34; 10,18) e Paolo in modo speciale sottolinea come l’obbedienza di Cristo si sia manifestata nella sofferenza della morte (V. Fil 2,8; Rm 5,19). Ma ciò che la lettera agli Ebrei evidenzia, in piena sintonia con il racconto evangelico della passione, è il fatto che questa obbedienza ha richiesto una fatica notevole per superare la naturale paura della sofferenza e della morte.
L’aspetto più specifico del sacerdozio di Cristo sta quindi nell’accettazione libera, anche se sofferta, della morte, che certo non è stata voluta dal Padre, ma imposta dalle circostanze concrete della storia. L’obbedienza di Cristo ha anche come risultato la salvezza eterna di tutti coloro che “gli obbediscono”. Obbedire significa qui accettare la totalità del messaggio di Cristo, ma soprattutto seguire l’esempio che Egli ha offerto a tutti nel Suo affidarsi all’amore del Padre, anche quando poteva sembrare che il Padre l’avesse abbandonato (V.Mt 27,46).
Per questa ragione, soltanto Gesù è causa di salvezza eterna, vera e definitiva per coloro che credono in Lui. Il mistero di Cristo non lo si può certo avvicinare con pigrizia, torpore e tantomeno indifferenza!

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Gv 12,20-33

La scena descritta in questo brano del Vangelo di Giovanni viene dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme e appartiene a quel clima di segni e di presagi che attraversano le ore precedenti la Sua passione.
L’evangelista nei versetti precedenti questo brano, aveva annotato un amaro commento dei farisei: “Ecco che il mondo gli è andato dietro!” E a conferma di questo egli ci riporta che in quella occasione alcuni greci avevano espresso il desiderio di vedere Gesù. Non ci dice chi erano: potevano essere anche giudei della diaspora, che parlavano la lingua greca, ma anche dei pagani che avevano aderito alla religione giudaica, senza però arrivare alla circoncisione e tutto ciò che essa comportava.
Essi si rivolsero, forse per il suo nome greco, a Filippo, il quale con Andrea, il cui nome è anch’esso greco, fece presente a Gesù la loro richiesta. Gesù rispose: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. … poi continuò portando l’esempio del chicco di grano, che se“caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”, e proseguì poi affermando che “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. Infine a tutti coloro che volevano servirlo, rivolse l’invito a seguirlo, perché siano con lui e vengano onorati dal Padre. Il concetto fondamentale espresso in tutti questi detti è quello di una morte che rivela al mondo la gloria di Dio in quanto coinvolge tutti gli uomini in una vita di comunione piena con Lui.
Anche se la risposta di Gesù non sembra in sintonia con la richiesta dei greci, con essa però l’evangelista vuole affermare che anche i non giudei potranno vedere Gesù, accettando la nuova vita da Lui annunziata, ma solo dopo che Egli, con la Sua glorificazione, avrà portato a termine l’opera che il Padre gli ha affidato.
Infine l’evangelista inserisce un brano in cui viene anticipata la preghiera di Gesù nel Getsemani con la quale Gesù svela il suo turbamento: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”.
A questo punto venne una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”.
La voce venne udita dai presenti, alcuni dei quali dissero “che era stato un tuono” mentre “Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato», ma Gesù disse: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. E l’evangelista commenta: Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Le parole con cui Gesù annunzia il suo prossimo innalzamento, provocarono un’ultima obiezione da parte della folla, che nei versetti non riportati nel brano, osservò: “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?”.
Gesù replicò “Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce”. Detto ciò si allontanò rendendosi irreperibile.
Gesù non nega dunque l’eternità del Cristo, ma afferma che la sua permanenza in questo mondo è limitata nel tempo e ha come unico scopo quello di illuminare gli uomini portandoli alla fede.
Possiamo rilevare che Gesù nel suo discorso sembra che voglia sciogliere uno dei contrasti più tragici dell’esistenza, quello tra morte e vita. Il seme sprofonda nell’oscurità della terra, nel terreno sembra che l’energia del seme sia votata a spegnersi, infatti il seme marcisce e muore … eppure quando in estate biondeggiano le messi, è svelato il segreto fecondo di quella morte.
Si percepisce come Gesù vede incombere su di sé la morte, tuttavia non la presenta come un qualcosa di irreparabile. Anche se essa è tenebra, dolore, lacerazione, e distacco, per Gesù ha la forza segreta di un parto, racchiude in sé un mistero di fecondità e di risurrezione. E’ in questa luce che Gesù formula, allora, la grande legge della croce:
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Gesù sente che deve passare attraverso la via oscura della morte di croce per portare l’umanità sulla via luminosa della vita eterna, che è sinonimo di piena e perfetta comunione con Dio.

 

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" Il Vangelo di oggi racconta un episodio avvenuto negli ultimi giorni della vita di Gesù. La scena si svolge a Gerusalemme, dove Egli si trova per la festa della Pasqua ebraica. Per questa celebrazione rituale sono arrivati anche alcuni greci; si tratta di uomini animati da sentimenti religiosi, attirati dalla fede del popolo ebraico e che, avendo sentito parlare di questo grande profeta, si avvicinano a Filippo, uno dei dodici apostoli, e gli dicono: «Vogliamo vedere Gesù». Giovanni pone in risalto questa frase, centrata sul verbo vedere, che nel vocabolario dell’evangelista significa andare oltre le apparenze per cogliere il mistero di una persona. Il verbo che utilizza Giovanni, “vedere”, è arrivare fino al cuore, arrivare con la vista, con la comprensione fino all’intimo della persona, dentro la persona.
La reazione di Gesù è sorprendente. Egli non risponde con un “sì” o con un “no”, ma dice: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato». Queste parole, che sembrano a prima vista ignorare la domanda di quei greci, in realtà danno la vera risposta, perché chi vuole conoscere Gesù deve guardare dentro alla croce, dove si rivela la sua gloria. Guardare dentro alla croce. Il Vangelo di oggi ci invita a volgere il nostro sguardo al crocifisso, che non è un oggetto ornamentale o un accessorio di abbigliamento – a volte abusato! – ma è un segno religioso da contemplare e comprendere. Nell’immagine di Gesù crocifisso si svela il mistero della morte del Figlio come supremo atto di amore, fonte di vita e di salvezza per l’umanità di tutti i tempi. Nelle sue piaghe siamo stati guariti.
Posso pensare: “Come guardo io il crocifisso? Come un’opera d’arte, per vedere se è bello o non bello? O guardo dentro, entro nelle piaghe di Gesù fino al suo cuore? Guardo il mistero del Dio annientato fino alla morte, come uno schiavo, come un criminale?”. Non dimenticatevi di questo: guardare il crocifisso, ma guardarlo dentro. C’è questa bella devozione di pregare un Padre Nostro per ognuna delle cinque piaghe: quando preghiamo quel Padre Nostro, cerchiamo di entrare attraverso le piaghe di Gesù dentro, dentro, proprio al suo cuore. E lì impareremo la grande saggezza del mistero di Cristo, la grande saggezza della croce.
E per spiegare il significato della sua morte e risurrezione, Gesù si serve di un’immagine e dice: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Vuole far capire che la sua vicenda estrema – cioè la croce, morte e risurrezione – è un atto di fecondità – le sue piaghe ci hanno guariti – una fecondità che darà frutto per molti. Così paragona sé stesso al chicco di grano che marcendo nella terra genera nuova vita. Con l’Incarnazione Gesù è venuto sulla terra; ma questo non basta: Egli deve anche morire, per riscattare gli uomini dalla schiavitù del peccato e donare loro una nuova vita riconciliata nell’amore. Ho detto “per riscattare gli uomini”: ma, per riscattare me, te, tutti noi, ognuno di noi, Lui ha pagato quel prezzo. Questo è il mistero di Cristo. Va’ verso le sue piaghe, entra, contempla; vedi Gesù, ma da dentro.
E questo dinamismo del chicco di grano, compiutosi in Gesù, deve realizzarsi anche in noi suoi discepoli: siamo chiamati a fare nostra questa legge pasquale del perdere la vita per riceverla nuova ed eterna. E che cosa significa perdere la vita? Cioè, che cosa significa essere il chicco di grano? Significa pensare di meno a sé stessi, agli interessi personali, e saper “vedere” e andare incontro ai bisogni del nostro prossimo, specialmente degli ultimi. Compiere con gioia opere di carità verso quanti soffrono nel corpo e nello spirito è il modo più autentico di vivere il Vangelo, è il fondamento necessario perché le nostre comunità crescano nella fraternità e nell’accoglienza reciproca. Voglio vedere Gesù, ma vederlo da dentro. Entra nelle sue piaghe e contempla quell’amore del suo cuore per te, per te, per te, per me, per tutti.
La Vergine Maria, che ha tenuto sempre lo sguardo del cuore fisso al suo Figlio, dalla mangiatoia di Betlemme fino alla croce sul Calvario, ci aiuti a incontrarlo e conoscerlo così come Lui vuole, perché possiamo vivere illuminati da Lui, e portare nel mondo frutti di giustizia e di pace.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 18 marzo

Pubblicato in Liturgia

Nelle letture che la Liturgia di questa IV domenica di Quaresima ci propone, possiamo scorgere numerosi motivi di gioia.
Nella prima lettura nel brano tratto dal secondo libro delle Cronache, leggiamo che Dio, dopo aver punito Israele con l’esilio per le sue numerose infedeltà, dopo 70 anni vuole recuperare il suo popolo e attraverso un re straniero, Ciro re di Persia, farà ritornare i deportati in patria.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Efesini, l’apostolo Paolo, pone in risalto l’immenso amore di Dio che si è manifestato in Cristo, e la nostra partecipazione alla sua vita mediante la fede e il Battesimo.
Nel Vangelo di Giovanni meditiamo sull’incontro di Gesù con Nicodemo, un importante membro del Sinedrio, dottore della Legge, che attratto dalla figura di Gesù, ma per timore dei giudei, si reca da Lui di notte per interrogarlo. Emerge dalla risposta che Gesù gli dà, la frase più importante e consolante di tutta la Bibbia: Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna.

Dal secondo libro delle Cronache
In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio.
Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni».
Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».
2Cr 36,14-16.19-23

I due Libri delle Cronache, (testi anche contenuti nella Bibbia ebraica) la cui redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata attorno al 330-250 a.C. in Giudea, ripropongono molte delle vicende già narrate nei due Libri di Samuele e nei due Libri dei Re. Non si tratta però di una pura e semplice riedizione, come potrebbe apparire a prima vista. Questi libri appartengono infatti alla tradizione deuteronomistica, mentre l'autore di questi due libri, definito il Cronista, appartiene alla cosiddetta Tradizione Sacerdotale, la stessa del primo capitolo della Genesi;il Cronista non si limita ad esporre i fatti, ma seleziona e rielabora i dati allo scopo di esaltare principalmente il Tempio ed il Culto in Gerusalemme, intesa come il cuore stesso della fede e dell'identità di Israele come popolo.
In questo brano, (parallelo a 2Re 25,27-30), ci viene raccontato che tutto il popolo di Israele si era dato ad ogni infedeltà e abominio, tanto che il Signore, nella Sua immensa bontà, mandò i profeti, come Geremia e Baruc, “ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo”, ma “essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine”. I profeti hanno sempre avuto vita difficile per il loro compito scomodo, quello cioè di portare alla luce del sole le cose malvagie, e chi fa il male ama più le tenebre che la luce!
Arrivarono, come predissero i profeti, i nemici “incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.” La rovina fu grande, e gli abitanti che non furono uccisi, furono deportati in Babilonia. Si attuava “così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni»”. Vi rimasero schiavi infatti per 70 anni e solo quando, ispirato dallo Spirito del Signore, venne Ciro re di Persia, poterono essere liberi e tornare alla propria terra.
La situazione descritta è quella della infedeltà del popolo e dei sacerdoti del tempio, e come potremmo dire noi oggi - un dilagare sempre più esteso della secolarizzazione con l'abbandono della pratica religiosa. Il tempio era ormai diventato un container vuoto, con riti sempre più formali e abitudinari. La relazione con Dio era sterile, la Legge, ogni riferimento alla Parola di Dio, ormai dimenticata! La Scrittura, come noi la conosciamo, ancora non c'era ed era affidata alla "tradizione orale" della Parola e la sua memoria si era ormai affievolita. E’ facile fare confronti con i nostri giorni, perchè la storia si ripete e noi dovremmo essere in grado di capire, fare un'analisi del presente per riuscire a comprendere che l'intento di Dio non è mai stato il castigo, ma la conversione e la vita e il bene del suo popolo

Salmo 136 - Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia.
Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo
e piangevamo ricordandoci di Sion.
Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.

Perché là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
allegre canzoni, i nostri oppressori:
«Cantateci canti di Sion!».

Mi si attacchi la lingua al palato
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non innalzo Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.

Questo salmo presenta un Giudeo, che, subito dopo il ritorno dall'esilio di Babilonia, ricorda le sofferenze subite in schiavitù, e si vincola ad una fermissima speranza nella ricostruzione di Gerusalemme, pur in mezzo alle ostilità dei popoli vicini, tra i quali gli Edomiti: (L'elenco dei popoli forniti dal libro di Esdra (9,1) non è quello preciso del tempo, ma è un'inserzione postuma che si rifà a Dt 7,1).
L'orante presenta il pianto degli esiliati, le umiliazioni, la determinazione con la quale appesero le cetre ai salici, vincolandosi di non cantare mai davanti agli oppressori i Canti di Sion. Lo scherno, l'insulto, l'attentato alla fede, sono espressi in maniera estremamente efficace: “Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato...”.
Poi, di fronte alla tentazione di tanti di imparentarsi con popoli stranieri per via di matrimoni (Esd 9,1.12; Nm 9,2), l'orante afferma che, dopo aver provato tanto dolore in terra straniera, non potrebbe pensare di cantare i Canti di Sion fuori della Palestina, e dimenticando Gerusalemme: “Mi si attacchi la lingua al palato (...) se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia”.
L'orante ricorda quanto con vile crudeltà fece Edom, già conquistato da Nabucodonosor, nel pieno della distruzione di Gerusalemme:”<spogliatela, spogliatela="" fino="" alle="" sue="" fondamenta="">”, e invoca su di lui la giustizia divina. La “Figlia di Babilonia” è Bozra, la città principale di Edom (Cf. Is 34,6; 63,1; Ger 48,24; 49,13s; Am 1,12). Su questa città il salmista invoca una distruzione vendicativa: “Beato chi ti renderà quanto ci hai fatto...”.
Commento di P.Paolo Berti
Questo salmo ha ispirato il coro del Nabucco ed è stato anche ripreso dal poeta Salvatore Quasimodo nell’opera poetica “Giorno dopo giorno”.

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.
Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo. Ef 2,4-10

La Lettera agli Efesini, come le lettere ai Filippesi, ai Colossesi e a Filemone, formano il gruppo delle “Lettere della prigionia” poiché Paolo, a cui viene attribuita, afferma d’essere appunto “prigioniero”. L’Apostolo fu una prima volta ad Efeso (Atti degli Apostoli 18, 19-22) e vi soggiornò (At 18,23-20) ancora durante il suo secondo viaggio missionario, allargando in questo modo il suo raggio d’azione pastorale.
Questa lettera che Paolo avrebbe scritto durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62, è centrata sull'ecclesiologia e sul rapporto di riconciliazione in Cristo tra Giudei e pagani.
Nel primo capitolo nell'inno Cristologico, l’Apostolo ha ricordato la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e alla ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. Ora nel capitolo secondo egli scende nei particolari e ricorda la miserevole situazione di quanti erano schiavi del peccato e della morte.
In questo brano l’Apostolo inizia affermando:”Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati”. Dio è ricco di misericordia.! Questo concetto si trova spesso nell'Antico Testamento (Es 34,6). E’ Dio il primo protagonista della nostra rinascita e Cristo è il secondo. Con Lui siamo stati riportati in vita, dopo che il peccato ci aveva portato alla morte. Il movente è sempre la grazia di Dio, il Suo amore gratuito. I terzi protagonisti siamo noi, morti e riportati in vita.
“Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù “
L'accento è posto sulla solidarietà salvifica che ha due aspetti: uno con Cristo, fonte e ragione del nuovo stato di salvati, l'altro con i cristiani provenienti dai gruppi distinti: ebrei e pagani. Cristo dunque non solo ci ha salvato dalla morte e dal peccato, ma ci ha reso partecipi della Sua gloria.
“per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù”. Questa straordinaria verità rifulge per tutti i secoli ed è frutto della bontà di Dio che si è riversata su tutti noi.
“Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio”;
Paolo ribadisce che la vera fonte di tutta questa bellezza è la bontà gratuita di Dio, alla quale possiamo accedere grazie alla fede. Non è un'opera umana, è solo un dono di Dio.
“né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene”. Qui si può osservare un certo tono polemico indirizzato ad alcune teorie filosofiche che gli Efesini ben conoscevano, le quali sostenevano che esercitando delle virtù si poteva arrivare alla pienezza di vita. I cristiani non possono vantarsi delle buone opere che riescono a compiere, perchè non è per merito loro se le possono realizzare. Nell'economia della salvezza del Vangelo non sono le opere buone che portano alla salvezza, ma l'amore gratuito di Dio.
“Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo”.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Gv 3,14-21

In questo brano del suo Vangelo, Giovanni ci racconta che Gesù dopo essere tornato a Gerusalemme, in occasione della Pasqua, dopo l’episodio della purificazione del tempio, trovandosi ancora a Gerusalemme, riceve la visita notturna di Nicodemo, un fariseo, capo dei giudei e dottore della legge.
Nicodemo è un profondo conoscitore della Sacra Scrittura e della Legge, ha quindi una vasta cultura, ma gli manca qualcosa, per questo sente il bisogno assoluto di andare da Gesù, sente che in quel giovane Rabbi di Nazareth c’è qualcosa di misterioso, percepisce dal profondo del cuore che c’è in Lui qualcosa di più grande, qualcosa che va oltre.
Nei versetti non riportati dal brano liturgico leggiamo che Nicodemo non pone a Gesù una domanda precisa, ma si limita a riconoscere che Egli è un maestro venuto da Dio, in quanto “nessuno può fare i segni che lui fa, se Dio non è con lui” (v. 2,23): indirettamente però egli chiede quale sia la via giusta per arrivare a Dio.
Gesù non risponde alla domanda di Nicodemo, ma imposta lui stesso il discorso e gli dice qualcosa che lui, Nicodemo, non avrebbe mai potuto immaginare: “se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio”. Siccome Nicodemo rimane alquanto perplesso, Gesù gli spiega che questa rinascita avviene mediante l’acqua e lo Spirito (v. 4-5) e soggiunge: “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito”. (v. 6-8). Ad una nuova richiesta di spiegazione da parte di Nicodemo, Gesù risponde osservando che: “noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”.
Questa ultima affermazione ammette l’incapacità da parte dell’uomo di cogliere nella sua interezza il mistero di Dio, perché egli non ha la possibilità di salire al cielo (v Pr 30,4), ma ciò è possibile solo al “Figlio dell’uomo”. Identificandosi con questo personaggio misterioso Gesù mette in luce il Suo rapporto specialissimo con Dio.
Nel brano liturgico, Gesù approfondisce poi il tema della manifestazione di Dio con queste parole: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”
Nel giudaismo il serpente di bronzo (V. Nm 21,4-9), era considerato come simbolo di quel Dio che aveva già dato nella legge un pegno di salvezza. Per Giovanni l’innalzamento di Gesù sulla croce fa di lui, ad analogia del serpente di bronzo, un segno di salvezza, e al tempo stesso manifesta il suo successo come Servo di JHWH e come Figlio dell’uomo. Su questo sfondo la morte di Gesù in croce viene vista come la Sua massima esaltazione, perché nel momento in cui si attua il Suo ritorno al Padre, al tempo stesso si realizza la vittoria sul peccato e la riconciliazione dell’umanità con Dio.
Nel versetto successivo questo concetto viene ripreso con questa espressione: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. All’innalzamento del Figlio dell’uomo, corrisponde l’amore di Dio che offre il Suo Figlio Unigenito. Con la parola “mondo” si vuole indicare l’umanità intera, non in senso negativo, ma in quanto bisognosa di salvezza. Anche qui, come nel versetto precedente, lo scopo è il conferimento della vita eterna.
In questo versetto il titolo “Figlio dell’uomo” viene sostituito con quello più considerevole di “Figlio unigenito”, per mettere in luce il rapporto specialissimo che unisce Gesù a Dio.
Nella parte successiva del discorso, Gesù affronta il tema del giudizio. Egli afferma che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”.
Il giudizio, inteso come condanna, dunque non rientra nei compiti del Figlio il quale è venuto solo per procurare la salvezza di tutti.
Al termine del brano l’evangelista Giovanni, ripete il concetto contenuto nel Prologo: “la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie.” Giovanni nell’antitesi simbolica luce-tenebre riassume tutto il segreto della storia umana: Cristo, luce del mondo, entra nel mondo, ma le tenebre tentano di soffocarlo, di cancellarlo dall’orizzonte. La luce, infatti, svela la vera natura delle cose e delle persone, impedisce che si celino le miserie e le vergogne. E’ l’eterna lotta tra il bene e il male e in questa lotta a noi oggi non viene richiesta un'auto-liberazione dal male, ma di alzare lo sguardo da noi stessi e di guardare un po' più in alto, di non restare nel buio dell'egocentrismo e accogliere quella luce che Dio ha inviato nel mondo, di non bloccarsi nell'amore per sé stessi e accorgersi di quell‘Amore che dall'alto è sceso sulla terra.

*****

“In questa quarta domenica di Quaresima, chiamata domenica “laetare”, cioè “rallegrati”, perché così è l’antifona d’ingresso della liturgia eucaristica che ci invita alla gioia: «Rallegrati, Gerusalemme […]. - così, è una chiamata alla gioia - Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza». Così incomincia la Messa. Quale è il motivo di questa gioia? Il motivo è il grande amore di Dio verso l’umanità, come ci indica il Vangelo di oggi: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Queste parole, pronunciate da Gesù durante il colloquio con Nicodemo, sintetizzano un tema che sta al centro dell’annuncio cristiano: anche quando la situazione sembra disperata, Dio interviene, offrendo all’uomo la salvezza e la gioia. Dio, infatti, non se ne sta in disparte, ma entra nella storia dell’umanità, si “immischia” nella nostra vita, entra, per animarla con la sua grazia e salvarla.
Siamo chiamati a prestare ascolto a questo annuncio, respingendo la tentazione di considerarci sicuri di noi stessi, di voler fare a meno di Dio, rivendicando un’assoluta libertà da Lui e dalla sua Parola. Quando ritroviamo il coraggio di riconoscerci per quello che siamo - ci vuole coraggio per questo! -, ci accorgiamo di essere persone chiamate a fare i conti con la nostra fragilità e i nostri limiti. Allora può capitare di essere presi dall’angoscia, dall’inquietudine per il domani, dalla paura della malattia e della morte. Questo spiega perché tante persone, cercando una via d’uscita, imboccano a volte pericolose scorciatoie come ad esempio il tunnel della droga o quello delle superstizioni o di rovinosi rituali di magia. E’ bene conoscere i propri limiti, le proprie fragilità, dobbiamo conoscerle, ma non per disperarci, ma per offrirle al Signore; e Lui ci aiuta nella via della guarigione, ci prende per mano, e mai ci lascia da soli, mai! Dio è con noi e per questo mi “rallegro”, ci “rallegriamo” oggi: “Rallegrati, Gerusalemme”, dice, perché Dio è con noi.
E noi abbiamo la vera e grande speranza in Dio Padre ricco di misericordia, che ci ha donato il suo Figlio per salvarci, e questa è la nostra gioia. Abbiamo anche tante tristezze, ma, quando siamo veri cristiani, c’è quella speranza che è una piccola gioia che cresce e ti dà sicurezza. Noi non dobbiamo scoraggiarci quando vediamo i nostri limiti, i nostri peccati, le nostre debolezze: Dio è lì vicino, Gesù è in croce per guarirci. Questo è l’amore di Dio. Guardare il Crocifisso e dirci dentro: “Dio mi ama”.
E’ vero, ci sono questi limiti, queste debolezze, questi peccati, ma Lui è più grande dei limiti e delle debolezze e dei peccati. Non dimenticatevi di questo: Dio è più grande delle nostre debolezze, delle nostre infedeltà, dei nostri peccati. E prendiamo il Signore per mano, guardiamo il Crocifisso e andiamo avanti.
Maria, Madre di misericordia, ci metta nel cuore la certezza che siamo amati da Dio. Ci stia vicino nei momenti in cui ci sentiamo soli, quando siamo tentati di arrenderci alle difficoltà della vita. Ci comunichi i sentimenti del suo Figlio Gesù, perché il nostro cammino quaresimale diventi esperienza di perdono, di accoglienza e di carità.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 11 marzo 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture di questa terza domenica di quaresima ci invitano a fare un vero e profondo esame di coscienza per capire fino a che punto siamo veri credenti.
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo, siamo di fronte al Decalogo, le dieci parole, il cuore della legge mosaica e il suggello dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Tre comandamenti garantiscono la fedeltà all’alleanza con Dio e sette regolano la corretta relazione con gli altri.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, a quanti non comprendono il valore della croce l’apostolo Paolo predica Gesù crocifisso, segno rigettato dalla sapienza greca e dalla religione giudaica, ma portatore di salvezza per l’umanità peccatrice.
Nel brano del suo Vangelo, Giovanni ci presenta Gesù in una vesta insolita: una sua reazione violenta, di sdegno, di fronte al degrado in cui gli uomini avevano ridotto il Tempio che, da luogo di preghiera, era divenuto un luogo di mercato. Le parole e i gesti di Gesù sembrano dire che il rapporto con Dio non si mercanteggia e neppure lo si vive mediante il semplice e formale ingresso nel tempio materiale, ma consiste essenzialmente, come ci dice Giovanni in un altro passo del vangelo, nell’adorare Dio “in spirito e verità”.

Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole:
«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile:
Non avrai altri dèi di fronte a me.
Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai adulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Es 20,1-17

Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nella parte precedente questo brano c’è una parte introduttiva nella quale Dio appare a Mosè e per mezzo suo manifesta agli israeliti la decisione di stringere un’alleanza con loro. A questo punto c’è il racconto della manifestazione di Dio e la proclamazione dei comandamenti (il decalogo) che la liturgia oggi ci presenta
Il decalogo si apre con una frase in cui Dio presenta se stesso e al tempo stesso fa un riassunto degli eventi passati:
“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile…”
Egli si presenta non con titoli di potenza ma semplicemente come il Dio di Israele, attribuendosi questo titolo perché ha liberato il popolo dalla schiavitù a cui era stato sottoposto in Egitto. In questa frase sono espressi la motivazione e il significato di tutti i precetti che saranno successivamente elencati: se Dio ordina qualcosa agli israeliti, lo fa solo perché Lui stesso per primo ha dato loro gratuitamente ciò che vi è di più essenziale nella vita; la libertà.
Dopo la frase introduttiva sono elencati i singoli precetti;
Il primo comandamento, che fa seguito immediatamente al prologo, contiene la clausola fondamentale dell’alleanza, che è così espressa: “Non avrai altri dèi di fronte a me.”
Questo precetto non ha lo scopo di inculcare il monoteismo, infatti qui non è negata l’esistenza di altre divinità, ma ne viene vietato il culto e di conseguenza poteri divini. Questo primo comandamento non richiede particolari atti di culto, ma solo una fedeltà totale ed esclusiva nei confronti di Dio.
Il primo comandamento è seguito da un secondo: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo…”. Nell’antico Oriente l’immagine era considerata come oggetto in cui la divinità poteva essere presente e manifestarsi; attraverso di essa si pensava quindi di poter catturare la potenza divina, utilizzandola a proprio uso e consumo. Per l’ebraismo è da tener presente che l’unica immagine di Dio è l’uomo vivente (Gen 1,26-27; Sir 17,3; Sap 2,23). A questo comandamento c’è poi un’altra aggiunta : “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai”
Al primo e secondo comandamento viene dato una motivazione: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”.
DIO è un Dio “geloso” in quanto si comporta con Israele come un marito che ama sua moglie e difende il proprio diritto esclusivo nei suoi confronti (V. Os 3,1). La Sua gelosia ha come effetto la punizione del Suo popolo quando questi si allontana da Lui. La pena colpisce quattro generazioni, cioè tutti coloro che convivono nella famiglia patriarcale (padri, figli, nipoti e pronipoti). La “bontà” divina raggiunge invece migliaia di generazioni. In altre parole, il castigo è nulla in confronto alla fedeltà che rappresenta l’agire costante di DIO nel mondo. Inoltre sia la punizione che la fedeltà riguardano non tutti indiscriminatamente, ma solo rispettivamente coloro che lo “odiano” e coloro che lo “amano”. Appare qui per la prima volta il concetto di “amore”, che non è puro sentimento, ma si manifesta nell’osservanza dei comandamenti.
Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nella parte precedente questo brano c’è una parte introduttiva nella quale Dio appare a Mosè e per mezzo suo manifesta agli israeliti la decisione di stringere un’alleanza con loro. A questo punto c’è il racconto della manifestazione di Dio e la proclamazione dei comandamenti (il decalogo) che la liturgia oggi ci presenta
Il decalogo si apre con una frase in cui Dio presenta se stesso e al tempo stesso fa un riassunto degli eventi passati:
“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile…”
Egli si presenta non con titoli di potenza ma semplicemente come il Dio di Israele, attribuendosi questo titolo perché ha liberato il popolo dalla schiavitù a cui era stato sottoposto in Egitto. In questa frase sono espressi la motivazione e il significato di tutti i precetti che saranno successivamente elencati: se Dio ordina qualcosa agli israeliti, lo fa solo perché Lui stesso per primo ha dato loro gratuitamente ciò che vi è di più essenziale nella vita; la libertà.
Dopo la frase introduttiva sono elencati i singoli precetti;
Il primo comandamento, che fa seguito immediatamente al prologo, contiene la clausola fondamentale dell’alleanza, che è così espressa: “Non avrai altri dèi di fronte a me.”
Questo precetto non ha lo scopo di inculcare il monoteismo, infatti qui non è negata l’esistenza di altre divinità, ma ne viene vietato il culto e di conseguenza poteri divini. Questo primo comandamento non richiede particolari atti di culto, ma solo una fedeltà totale ed esclusiva nei confronti di Dio.
Il primo comandamento è seguito da un secondo: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo…”. Nell’antico Oriente l’immagine era considerata come oggetto in cui la divinità poteva essere presente e manifestarsi; attraverso di essa si pensava quindi di poter catturare la potenza divina, utilizzandola a proprio uso e consumo. Per l’ebraismo è da tener presente che l’unica immagine di Dio è l’uomo vivente (Gen 1,26-27; Sir 17,3; Sap 2,23). A questo comandamento c’è poi un’altra aggiunta : “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai”
Al primo e secondo comandamento viene dato una motivazione: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”.
DIO è un Dio “geloso” in quanto si comporta con Israele come un marito che ama sua moglie e difende il proprio diritto esclusivo nei suoi confronti (V. Os 3,1). La Sua gelosia ha come effetto la punizione del Suo popolo quando questi si allontana da Lui. La pena colpisce quattro generazioni, cioè tutti coloro che convivono nella famiglia patriarcale (padri, figli, nipoti e pronipoti). La “bontà” divina raggiunge invece migliaia di generazioni. In altre parole, il castigo è nulla in confronto alla fedeltà che rappresenta l’agire costante di DIO nel mondo. Inoltre sia la punizione che la fedeltà riguardano non tutti indiscriminatamente, ma solo rispettivamente coloro che lo “odiano” e coloro che lo “amano”. Appare qui per la prima volta il concetto di “amore”, che non è puro sentimento, ma si manifesta nell’osservanza dei comandamenti.
Nono comandamento Non desidererai la casa del tuo prossimo. Originariamente qui veniva considerato il furto vero e proprio. Si è accertato infatti che in ebraico il verbo “desiderare” indica non solo l’atto per se stesso, ma tutto lo svolgimento che va dalla decisione fino all’appropriazione indebita.
Decimo comandamento Non desidererai la moglie del tuo prossimo,… In un primo momento questo precetto era tutt’uno con il precedente, in quanto la casa del prossimo, di cui si proibisce il desiderio, abbracciava tutti i beni in essa contenuti, compresa la moglie, gli schiavi e gli animali. In seguito, quando la proibizione di farsi immagini di DIO è stata inclusa nel primo comandamento e il settimo è passato a significare il furto in generale, il decimo comandamento è stato separato dal nono per indicare non più tutto il processo di appropriazione, ma il semplice atto vero e proprio, che porta di conseguenza all’azione.
Per concludere possiamo dire che questi comandamenti in sintesi richiedono un impegno verticale: amore per Dio, e orizzontale: amore per il prossimo. E’ per questo che il condensato di tutto il Decalogo è nel primo comandamento, nel quale tutti gli altri confluiscono. Non dovremmo mai dimenticare come rispose Gesù quando gli chiesero quale fosse il più grande comandamento della legge : “ Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.”
Basterà osservare bene questi due comandamenti e senza bisogno di pensarci si adempiranno interamente anche gli altri. Possiamo subito renderci conto da noi stessi che non può essere diversamente. Ad esempio: “Non avrai altri dèi di fronte a me”. Se un uomo ama Dio non occorre dirgli una cosa del genere.
“Non pronuncerai invano il nome del Signore”. Chi, amando Dio, sognerebbe di nominarlo invano, mancandogli di rispetto? “Ricordati del giorno di festa per santificarlo”. Non sarebbe egli ben felice di avere un giorno su sette da dedicare più esclusivamente a Chi ama?
Allo stesso modo a chi ama il suo prossimo è superfluo dire di onorare suo padre e sua madre. non potrebbe farne a meno. Sarebbe assurdo anche dirgli di non uccidere e un insulto suggerirgli di non rubare. Come si può derubare colui che si ama?
Superfluo anche pregarlo di non dir falsa testimonianza contro il vicino. Se lo ama è l'ultima cosa che farebbe, come anche di desiderare i suoi beni e il suo coniuge.

Salmo 18 - Signore, tu hai parole di vita eterna.

La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante.

Il salmista si esprime considerando, in stato di riflessione laudante, la grandezza, la potenza, la bellezza dei cieli, della volta stellata. I cieli “narrano la gloria di Dio” in un’incessante continuità: “Il giorno al giorno ne affida il racconto…”. L’uomo percepisce questo racconto - “senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce” - dei cieli, che glorificano il Creatore, e conduce l’uomo a considerare la potenza, la maestà, la sapienza di Dio e a adorarlo.
La potenza del sole, sfera di fuoco radiante ovunque luce e calore, dà all’orante misura della potenza di Dio. Egli si affida alle immagini della poesia per descriverlo, con un risultato altissimo. Il sole esce radioso, vivo, carico d’amore da donare, come uno sposo che esce dalla stanza nuziale ricco delle effusioni della sposa. Il suo sovrano percorrere il cielo viene paragonato all’incedere glorioso di un prode in mezzo alla strada: nessuno può resistergli.
Il Creatore dell’universo ha stretto alleanza con il suo popolo dando una legge che è perfetta, perché non può ricevere appunti, e che rinfranca il cuore liberandolo dalle tenebre dell’ingiustizia. Questa legge d’amore è portata al suo vertice dal Cristo che la stampa nel cuore dei suoi dando loro lo Spirito Santo.
La legge, portata a compimento da Cristo, è la testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini. Tale testimonianza, che è stata sigillata dal sangue di Cristo, non delude. Essa è verace, luminosa, e rende saggio colui che non si presenta a Dio col vizio di pensieri oscuri.
Il salmista ha sperimentato nella sua vita quanto sia giusta la legge del Signore, tanto che fa gioire il cuore.
La legge, i suoi comandi, sono limpidi, perché non oscurano gli occhi portandoli a veder in modo malvagio le cose, ma li liberano dalle oscurità per dare loro la capacità di un luminoso vedere la bellezza delle cose,che inneggiano al Creatore e servono l’uomo.
“Il timore del Signore è puro”, perché non è come quello di chi teme la punizione perché colpevole, ma è il timore puro di chi teme di giungere a rattristare Dio con la disobbedienza alla legge d’amore verso lui e verso gli altri.
Il salmista comincia a focalizzarsi sull’effetto della legge su di lui; di lui che è piccolo, ma che è istruito dai giudizi di Dio, che sono contenuti nella legge, poiché Dio giudica gli uomini con quella legge.
Il salmista è consapevole di avere tante mancanze di cui non si rende pienamente conto: le “inavvertenze”. Di queste chiede a Dio perdono. Egli, infatti, anche se osserva la legge non reputa per niente di osservarla perfettamente e sa che sta nell’orgoglio la ragione di una scarsa osservanza. Orgoglio che se non dominato conduce l’uomo al grande peccato, cioè al peccato di una grande e palese disobbedienza alla legge.
Per ultimo, il salmista, chiede a Dio che ascolti, nella sua bontà misericordiosa, la sua preghiera che sgorga da un cuore retto e non doppio, consapevole di non poter nascondere nulla a Dio: “Davanti a te i pensieri del mio cuore”.
Infine, il salmista, sigilla la sua preghiera dicendo: “Signore, mia roccia e mio redentore”. “Mia rupe”, perché è la sua difesa dai suoi nemici (I nemici sono innanzi tutto i demoni Cf. Ef 6,12); ed è “mio redentore”, perché con la sua legge e la sua grazia lo ha strappato dal buio dell’ignoranza e del peccato.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera dei S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
1Cor 1,22-25

Nel 52-54 San Paolo pose le fondamenta a Corinto di una comunità viva, composta soprattutto di pagani di modesta condizione. Due anni dopo, mentre si trovava ad Efeso, l’Apostolo ha sentore delle divisioni che agitano questa giovane comunità, ed alcuni corinzi lo raggiungono per sottoporgli le loro difficoltà. L’apostolo scrive attorno al 55-56 questa lettera, che noi chiamiamo prima, anche se si suppone che ce ne sia stata un’altra che però è andata perduta.
Questa prima lettera è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale. Vi si trovano infatti informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna“, purezza dei costumi, matrimonio e verginità, svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell’eucaristia, uso dei carismi; sia per i rapporti con il mondo pagano.
Nella prima sezione della lettera, da dove è stato tratto questo brano, Paolo affronta il tema della divisione della comunità in partiti, dopo che i corinzi avevano cercato una sapienza umana, quella rappresentata dagli insegnamenti dei singoli predicatori, che li ha portati alla divisione.
Paolo, nonostante la sua istruzione, non si era fatto notare a Corinto per la sua sapienza, la sua cultura o la sua eloquenza. Avrebbe contraddetto il suo insegnamento, poiché la croce di Cristo, che egli annunciava, significa proprio la fine di tutto ciò di cui l’uomo s’inorgoglisce.
Il brano inizia con parole di sfida: mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani;
In modi diversi sia gli uni che gli altri vogliono acquistare potere e dominio sulla realtà: ma così si precludono la possibilità di scoprire la vera sapienza di Dio.
In contrasto con queste aspettative umane Paolo annuncia Cristo crocifisso, proprio perchè il Crocifisso rappresenta per i giudei, con la sua debolezza, un motivo di “scandalo”, per i greci invece egli è ”stoltezza”, ossia la negazione della sapienza che essi cercano.
Ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. ossia per i “chiamati” che lo hanno accettato con fede, il Cristo annunziato da Paolo è “potenza e sapienza di Dio”.
Dio si è servito di Suo figlio, uomo crocifisso, come strumento per portare a termine la Sua creazione e per chiamare a sé tutta l’umanità.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
Gv 2, 13-25

Il Vangelo di Giovanni inizia dopo il Prologo riportando la testimonianza di Giovanni Battista (1,19-34), poi la chiamata dei primi discepoli (1,35-51) e infine il primo segno compiuto da Gesù a Cana di Galilea, il cambiamento dell’acqua in vino. (2,1-12). Subito dopo viene presentato l’episodio, che troviamo in questo brano liturgico, conosciuto come la “Cacciata dei mercanti dal tempio”,
Mentre per i sinottici questo episodio dà inizio alla settimana conclusiva della vita di Gesù, Giovanni lo pone all’inizio del Suo ministero.
Il brano si apre riportandoci che:” Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme”. Gesù sale a Gerusalemme in quanto si adegua alle feste liturgiche di Israele, ma per dare loro anche un significato nuovo. L’evangelista non precisa in quale momento delle celebrazioni pasquali l’episodio è avvenuto, mentre per i sinottici si tratta del lunedì santo.
Gesù entrato nel tempio: “Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete”. Il termine “tempio” qui non indica il luogo santo, considerato come la dimora di Dio, ma i cortili esterni, accessibili anche ai non giudei, chiamati anche “cortile dei gentili”. Gli animali venivano venduti perché i pellegrini, specialmente quelli venuti da lontano, potessero disporre di vittime per i sacrifici; i cambiavalute invece trasformavano il denaro profano nell’unica moneta ammessa nel tempio. Si trattava quindi di un’attività non solo lecita, ma anche indispensabile per il funzionamento del tempio.
Posto di fronte a questa realtà Gesù reagisce in modo molto duro: fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
Secondo Giovanni, Gesù rimprovera i giudei non perché, pur offrendo sacrifici a Dio, rifiutano il suo inviato, ma perché servendosene per usi commerciali, profanano il tempio, rendendolo inadatto al culto sacrificale. Giovanni aggiunge che i discepoli si ricordarono una frase della Scrittura che dice: Lo zelo per la tua casa mi divorerà”. La frase è del salmo 69, in cui il salmista si lamenta con Dio per la persecuzione che subisce da parte dei suoi avversari, e nel v. 10 egli sottolinea come sia pieno di un amore senza confini per il tempio di Dio, cioè per Dio stesso, e lascia intendere che proprio per questo è stato perseguitato.
In Giovanni invece il verbo “divorare” è al futuro, e sicuramente perchè vuole alludere alla morte a cui Gesù va incontro proprio in forza del rapporto speciale che lo unisce a Dio: è proprio l’amore per la casa di Dio che lo porterà sulla croce.
Finora i giudei sono rimasti in silenzio di fronte a quanto Gesù aveva fatto. Ora essi intervengono chiedendo a Gesù: Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere.
Questa volta il termine “tempio” indica il luogo santo in cui era localizzata la presenza di Dio. La frase pronunziata da Gesù richiama quella che i falsi testimoni gli attribuiranno nel corso del processo davanti al sommo sacerdote.
I giudei ribattono: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Essi si riferiscono ai lavori fatti da Erode per la restaurazione del tempio, per cui si può dedurre che questi sarebbero stati iniziati verso il 20 a.C.
L’evangelista non riporta alcuna risposta di Gesù, limitandosi a dire che egli parlava del tempio del Suo corpo. Non si tratta quindi del tempio materiale, ma della persona di Gesù, intesa come il luogo in cui Dio abita. L’evangelista fa questa riflessione “Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. “
È chiaro quindi che secondo Giovanni, Gesù parlava della Sua risurrezione, lasciando così intendere che in forza di essa il Suo corpo sarebbe diventato il vero tempio in cui Dio abita in mezzo al Suo popolo.
Ma tutto questo neppure i discepoli l’hanno capito durante la Sua vita terrena. È lo Spirito infatti che, dopo la Pasqua, farà comprendere pienamente ai discepoli le parole e i gesti di Gesù, illuminando in profondità il loro significato e permettendo di attualizzarli nel presente.
Al termine del racconto l’evangelista osserva: Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
Gesù ha compiuto numerosi miracoli nel corso della Sua vita e Giovanni definendoli come “segni”, conferisce loro il compito di suscitare la fede in Gesù. A Gerusalemme i segni da Lui operati suscitano l’entusiasmo, ma Gesù conosce l'intimo dell'uomo, le sue fragilità e non si lascia ingannare dall'entusiasmo superficiale che segue i Suoi segni. Il rapporto con Dio non si mercanteggia, sembrano dire le parole e i gesti di Gesù. E neppure lo si vive mediante il semplice e formale ingresso nel tempio materiale. Esso consiste essenzialmente nell’adorare Dio “in spirito e verità” , secondo quanto Gesù ci dice in un altro passo del Vangelo di Giovanni.

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“Il Vangelo di oggi ci presenta l’episodio della cacciata dei venditori dal tempio, Gesù «fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi» , il denaro, tutto. Tale gesto suscitò forte impressione, nella gente e nei discepoli. Chiaramente apparve come un gesto profetico, tanto che alcuni dei presenti domandarono a Gesù: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?», chi sei tu per fare queste cose? Mostraci un segno che tu hai autorità per farle.
Cercavano un segno divino, prodigioso che accreditasse Gesù come inviato da Dio. Ed Egli rispose: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli replicarono: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Non avevano compreso che il Signore si riferiva al tempio vivo del suo corpo, che sarebbe stato distrutto nella morte in croce, ma sarebbe risorto il terzo giorno. Per questo “in tre giorni”. «Quando poi fu risuscitato dai morti – annota l’Evangelista – i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù».
In effetti, questo gesto di Gesù e il suo messaggio profetico si capiscono pienamente alla luce della sua Pasqua. Abbiamo qui, secondo l’evangelista Giovanni, il primo annuncio della morte e risurrezione di Cristo: il suo corpo, distrutto sulla croce dalla violenza del peccato, diventerà nella Risurrezione il luogo dell’appuntamento universale tra Dio e gli uomini. E Cristo Risorto è proprio il luogo dell’appuntamento universale - di tutti! - fra Dio e gli uomini. Per questo la sua umanità è il vero tempio, dove Dio si rivela, parla, si fa incontrare; e i veri adoratori, i veri adoratori di Dio non sono i custodi del tempio materiale, i detentori del potere o del sapere religioso, sono coloro che adorano Dio «in spirito e verità» (Gv 4,23).
In questo tempo di Quaresima ci stiamo preparando alla celebrazione della Pasqua, quando rinnoveremo le promesse del nostro Battesimo. Camminiamo nel mondo come Gesù e facciamo di tutta la nostra esistenza un segno del suo amore per i nostri fratelli, specialmente i più deboli e i più poveri, noi costruiamo a Dio un tempio nella nostra vita. E così lo rendiamo “incontrabile” per tante persone che troviamo sul nostro cammino. Se noi siamo testimoni di questo Cristo vivo, tante gente incontrerà Gesù in noi, nella nostra testimonianza. Ma - ci domandiamo, e ognuno di noi si può domandare –: il Signore si sente veramente a casa nella mia vita? Gli permettiamo di fare “pulizia” nel nostro cuore e di scacciare gli idoli, cioè quegli atteggiamenti di cupidigia, gelosia, mondanità, invidia, odio, quell’abitudine di chiacchierare e “spellare” gli altri? Gli permetto di fare pulizia di tutti i comportamenti contro Dio, contro il prossimo e contro noi stessi, come oggi abbiamo sentito nella prima Lettura? Ognuno può rispondere a sé stesso, in silenzio, nel suo cuore. “Io permetto che Gesù faccia un po’ di pulizia nel mio cuore?”. “Oh, padre, io ho paura che mi bastoni!”. Ma Gesù non bastona mai. Gesù farà pulizia con tenerezza, con misericordia, con amore. La misericordia è il suo modo di fare pulizia. Lasciamo - ognuno di noi - lasciamo che il Signore entri con la sua misericordia - non con la frusta, no, con la sua misericordia - a fare pulizia nei nostri cuori. La frusta di Gesù con noi è la sua misericordia. Apriamogli la porta perché faccia un po’ di pulizia.
Ogni Eucaristia che celebriamo con fede ci fa crescere come tempio vivo del Signore, grazie alla comunione con il suo Corpo crocifisso e risorto. Gesù conosce quello che c’è in ognuno di noi, e conosce pure il nostro più ardente desiderio: quello di essere abitati da Lui, solo da Lui. Lasciamolo entrare nella nostra vita, nella nostra famiglia, nei nostri cuori. Maria Santissima, dimora privilegiata del Figlio di Dio, ci accompagni e ci sostenga nell’itinerario quaresimale, affinché possiamo riscoprire la bellezza dell’incontro con Cristo, che ci libera e ci salva.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’8 marzo 2018

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa seconda domenica di quaresima, hanno come sfondo spaziale un monte e si aprono entrambe ad una rivelazione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, abbiamo il monte Moria – che la tradizione identificherà simbolicamente col colle del Tempio di Gerusalemme – a raccogliere una drammatica e gloriosa rivelazione di Dio destinata ad Abramo, nostro padre nella fede, come lo definirà S.Paolo . La narrazione è la storia di un credente che scopre anche attraverso la strada impervia del silenzio di Dio, la promessa di una salvezza piena. Infatti quel terribile e silenzioso viaggio di tre giorni affrontato da Abramo verso la vetta della prova possiamo scorgere l’esempio di ogni itinerario di fede.
Nella seconda lettura, Paolo, nella sua lettera ai Romani, fa un vibrante inno all’amore di Dio, che si manifesta nel dono del Figlio. L’antica figura di Isacco è diventata realtà in Cristo: “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi”..
Nel Vangelo di Marco troviamo il racconto della Trasfigurazione di Gesù, che avviene su di un monte, il cui nome non è citato nei Vangeli, anche se la tradizione cristiana lo identificherà col monte Tabor, in Galilea.
La Trasfigurazione è l’anticipazione della gloria del risorto. Solo chi cammina con Cristo sulla via della croce, può giungere con Lui alla gloria luminosa della resurrezione.

Dal libro della Genesi
In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Gen 22,1-2,9a,10-13,15-18

Questo celeberrimo racconto rappresenta il punto culminante della vicenda di Abramo, che occupa tutta la prima sezione della seconda parte della Genesi.
Sappiamo che dopo varie vicende, fra slanci di fede e umilianti sconfitte, Abramo ha ottenuto finalmente Isacco, il figlio della promessa. Ma proprio ora avviene un terribile colpo di scena: Dio domanda ad Abramo di offrirglielo in sacrificio.
Il brano inizia riportando che “Dio mise alla prova Abramo…” Ciò che sta per chiedergli è talmente terribile da preparare chi legge al fatto che Dio non lo vuole veramente, ma intende semplicemente saggiare fino in fondo e in modo definitivo il cuore di Abramo, quanto sia forte la sua fede in Lui.
Dio pronunzia due volte il nome del patriarca: “Abramo, Abramo!” per indicare il momento solenne, decisivo dal quale dipende il futuro di Abramo e del popolo che nascerà da lui.
Con quell’“Eccomi!” Abramo si dichiara pronto per ascoltare ciò che Dio gli dice: “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
La richiesta è veramente terribile, difficile da credere che Dio che è Amore voglia un sacrificio umano di un figlio ”unigenito”, che un padre ha tanto atteso e che ora ama immensamente, più di ogni altra cosa . È importante anche la designazione del luogo in cui dovrà attuarsi il sacrificio, si tratta infatti del monte Moria, che in un altro testo (v. 2Cr 3,1) è indicato come il luogo in cui sorgerà il tempio di Gerusalemme.
Nel testo non vengono descritti i sentimenti contrastanti di Abramo e nei versetti non presenti nel brano liturgico, viene riportato che “Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato”, e alla domanda che Isacco, giunti sul monte Moria fece al padre: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” “Abramo rispose “ Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”.
Questi versetti sono importanti perchè evidenziano l’obbedienza cieca e silenziosa di Abramo, ma soprattutto la sua fede incrollabile per il suo Dio.
Molti esperti giustamente si sono chiesti: come può Abramo aver pensato che Dio gli potesse chiedere questo suo figlio tanto atteso, il figlio della promessa? E come Abramo ha potuto distinguere la vera voce di Dio?
La deduzione a cui sono giunti ci permette di fare un passo in più per comprendere il mistero di Dio: Abramo osservando i suoi contemporanei si sarà accorto che essi amavano a tal punto i loro dèi da sacrificare i loro primogeniti. Gli sembrò allora che l’amore di Dio potesse esigere da lui il sacrificio di Isacco, il figlio della promessa, tanto atteso e amato.
Ma è qui che Dio interviene e per fermarlo invia il suo angelo per dirgli: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito”. Dio non vuole la morte dell’uomo, ma la vita!
Abramo, che aveva già sacrificato Isacco nel proprio cuore, lo poté considerare così come un salvato da morte, come un risuscitato, perciò i Padri della Chiesa hanno visto nel sacrificio di Isacco, la prefigurazione del sacrificio di Cristo.
Al termina del racconto Dio rinnova ad Abramo con un solenne giuramento le promesse che gli aveva fatto precedentemente, motivandole nuovamente col fatto che egli “non ha risparmiato” il suo unico figlio “io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare. la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”

Nota: E’ da tenere presente che l’idea ebraica di Dio ai tempi di Abramo, fosse una monolatria, ossia l’adorazione di un unico Dio, ma senza escludere che gli altri popoli avessero i loro dèi, infatti non si trova prima del Deuteronomio un vero e proprio monoteismo, ovvero un Dio unico e universale. Dopo l’esilio i pochi reduci del popolo d’Israele, non solo continuano a fidarsi del loro Dio, il che è contro l’apparente logica umana, ma addirittura arrivano ad affermare che il loro è l’unico Dio! Non ce ne sono altri. Lui è il Creatore dell’universo, tutto è uscito dalla Sua opera!

Salmo 115 Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.
Ho creduto anche quando dicevo:
«Sono troppo infelice».
Agli occhi del Signore
è preziosa la morte dei suoi fedeli.

Ti prego, Signore, perché sono tuo servo;
io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.
A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.

Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo,
negli atri della casa del Signore,
in mezzo a te, Gerusalemme.

Il salmista ha provato momenti di sgomento di fronte agli inganni degli uomini. Si era trovato imprigionato, ma poi ha visto la libertà: “hai spezzato le mie catene”. Come risposta di il salmista offrirà “un sacrificio di ringraziamento".
Una parte delle vittime sacrificate spettava all'offerente, che la consumava in un convito coi famigliari, gli amici, i poveri (Cf. Ps 21,27). Durante il convito l'offerente prendeva una coppa di vino presentandola al Signore e poi ne beveva lui e tutti gli altri: “Alzerò il calice della salvezza”.
Il salmista dice che “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli”, intendendo affermare che l'ora della morte dei fedeli a Dio non è ad arbitrio degli uomini. Lui decide il dove, il come e il quando, e questo per il bene del fedele.
Il salmista offrirà "un sacrificio di ringraziamento" davanti a tutto il popolo, e con piena ortodossia nel tempio del Signore, a Gerusalemme, testimoniando così pubblicamente la sua fede nel Signore.
L'esistenza del tempio porta a pensare ad un personaggio perseguitato per la sua fedeltà a Dio da un qualche re di Gerusalemme rivolto agli dei pagani; come fu il caso di Geremia.
“Il calice della salvezza”, nel sensus plenior è quello eucaristico.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto?
Dio è colui che giustifica!
Chi condannerà? Cristo è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
Rm 8,31b-34

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità
Nel capitolo 8, da dove è tratto questo brano, Paolo riprende in chiave positiva il tema della giustificazione, mostrando come, una volta eliminata la minaccia di una legge che si impone dall’esterno all’uomo peccatore, la salvezza portata da Cristo si manifesta come una vita nuova animata e guidata dallo Spirito.
Nel brano che abbiamo, Paolo mette in risalto come nulla possa ormai pregiudicare il cammino di liberazione del credente e introduce due prime domande che riguardano il problema in generale:”se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” In forza della scelta speciale che ha fatto in loro favore, Dio è ormai dalla parte dei credenti. Nulla quindi potrà essere contro di loro. Poi prosegue: Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica!
Se Dio è giunto fino al punto di non risparmiare il proprio Figlio, anzi di “consegnarlo” per tutti loro, egli non potrà non donare loro ogni cosa insieme con Lui.
Infine pone la stessa domanda, dandone la risposta, riguardo a Cristo: Chi condannerà? Cristo è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
Certo non sarà Cristo Gesù a condannare coloro per i quali è morto ed è risorto, e ora sta alla destra di Dio dove intercede per loro. Se hanno dalla loro parte sia Dio che Suo Figlio Gesù, i credenti non hanno nulla da temere: nessuno, se non loro stessi, potrà privarli di quei beni che Gesù ha acquistato loro con la Sua morte e risurrezione.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce:
«Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente,guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti
Mc 9,2-10

L’episodio della Trasfigurazione anche nel Vangelo di Marco, come negli altri vangeli sinottici, è inserito nella fase cruciale del ministero pubblico di Gesù, cioè tra la confessione di Pietro, la rivelazione del Messia sofferente, e l’inizio dell’ultimo pellegrinaggio verso Gerusalemme.
Il brano inizia riportando che “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli”. Marco non dice quale fosse l’alto monte su cui si è verificato l’evento. Questo monte stato identificato dalla tradizione cristiana con il Tabor, un tozzo colle di 582 metri che incombe sulla fertile valle di Izreel in Galilea, in senso simbolico richiama spiritualmente il Sinai su cui il luogo in cui Dio si rivela al Suo popolo.
Possiamo ora considerare l’evento della trasfigurazione, strettamente legata alla passione del Signore e di conseguenza un anticipo della gloria della Sua risurrezione.
“Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”
L’effetto di questa trasfigurazione viene indicato mediante il candore straordinario delle sue vesti . Marco non poteva trovare altre definizioni perchè lo splendore di quelle vesti, avevano una luminosità, un candore tipica degli esseri celesti, che appartengono al mondo divino, che nessuna parola umana può descrivere. Accanto a Gesù, in atto di conversare con Lui, appaiono Elia e Mosè. Tutta la tradizione dell’AT è raccolta in queste due figure: Mosè che parlava faccia a faccia con Dio e ne ha contemplato la gloria, ed Elia, il profeta che ha sperimentato la voce del silenzio, il mistero insondabile e che Dio ha preso con sé in cielo.
La scena provoca la surreale reazione di Pietro,il quale, rivolgendosi a Gesù, gli dice: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Si manifesta ancora una volta l’incomprensione dei discepoli. Pietro percepisce che quanto vede ha a che fare con la rivelazione di Dio, tuttavia interviene interrompendo n qualche modo la visione stessa. Di fronte alla manifestazione gloriosa di Gesù rimane solo il silenzio adorante, ma questo è ancora troppo per i discepoli e sullo stupore meravigliato prevale la paura di fronte a ciò che sovrasta l’uomo.
L’evangelista non spiega che cosa intendesse effettivamente Pietro, ma sottolinea che i tre erano talmente spaventati da non sapere che cosa dire. La loro confusione mentale era anche probabilmente l’effetto del sacro terrore che accompagna di solito la manifestazione del divino.
La richiesta di Pietro è in linea con l’episodio di Cesarea di Filippo, quando egli, di fronte all’annunzio della imminente morte e risurrezione di Gesù, aveva duramente protestato (Mc 8,32-33): in ambedue i casi egli si dimostra interessato alla gloria del Cristo, piuttosto che alla Sua sofferenza e morte.
Dopo l’intervento di Pietro una nube copre con la sua ombra Gesù, Elia e Mosè e da essa esce una voce che dice: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. La presenza della nube, segno classico della presenza di Dio, rievoca l‘apparizione del Figlio dell‘uomo (Dn 7,13) e la proclamazione di Gesù come “Figlio mio, l’amato” ricorda la scena del battesimo al Giordano. ... Al Giordano però non ci sono testimoni e la voce è solo per Gesù , ora invece essa è rivolta ai discepoli. Proprio Gesù è il Figlio, e perché è il diletto, paradossalmente, è colui che sarà destinato alla morte. L’appello è di ascoltarlo!
Improvvisamente, dopo aver ascoltato la voce, i tre discepoli si guardano intorno e non vedono più nessuno se non Gesù. Questo brusco ritorno alla realtà quotidiana sottolinea il carattere singolare della visione: Gesù resta quello che era, ma i discepoli hanno compreso qualcosa di Lui che va al di là della percezione esterna e sensoriale.
Mentre scendono dalla montagna Gesù ordina ai tre di non raccontare a nessuno l’accaduto prima che avvenga la risurrezione del Figlio dell’uomo .
L’evangelista evidenzia che “essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti”. Questa incomprensione dei discepoli spiega la ragione perchè essi si troveranno del tutto smarriti e impreparati di fronte all‘evento della risurrezione.
Tra i tanti spunti che si possono trarre da questo racconto colpisce la domanda ingenua di Pietro: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne …” L’apostolo vorrebbe subito essere nella pace e nella gloria della Pasqua, cancellando la quaresima della vita col suo cammino oscuro e con la morte.
Pietro qui ci rappresenta tutti quando vogliamo che non ci sia anche per noi la via della croce, quando sogniamo una scorciatoia facile che ci porti subito dal monte della trasfigurazione, cioè dai momenti di luce e di pace, alla Gerusalemme celeste della Pasqua definitiva.
Come Abramo, invece, dobbiamo percorrere la valle oscura delle prove; come Gesù dobbiamo discendere nella pianura quotidiana della Galilea, pronti a salire verso il picco più alto della prova, il Monte Moria o il Calvario, dove però si aprirà anche la luce della promessa e della Pasqua.

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“Il Vangelo di oggi, seconda domenica di Quaresima, ci invita a contemplare la trasfigurazione di Gesù.
Questo episodio va collegato a quanto era accaduto sei giorni prima, quando Gesù aveva svelato ai suoi discepoli che a Gerusalemme avrebbe dovuto «soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (Mc 8,31). Questo annuncio aveva messo in crisi Pietro e tutto il gruppo dei discepoli, che respingevano l’idea che Gesù venisse rifiutato dai capi del popolo e poi ucciso. Loro infatti attendevano un Messia potente, forte, dominatore, invece Gesù si presenta come umile, come mite, servo di Dio, servo degli uomini, che dovrà donare la sua vita in sacrificio, passando attraverso la via della persecuzione, della sofferenza e della morte.
Ma come poter seguire un Maestro e Messia la cui vicenda terrena si sarebbe conclusa in quel modo? Così pensavano loro. E la risposta arriva proprio dalla trasfigurazione.
Che cos’è la trasfigurazione di Gesù? E’ un’apparizione pasquale anticipata.
Gesù prese con sé i tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni e «li condusse su un alto monte» e là, per un momento, mostra loro la sua gloria, gloria di Figlio di Dio. Questo evento della trasfigurazione permette così ai discepoli di affrontare la passione di Gesù in modo positivo, senza essere travolti. Lo hanno visto come sarà dopo la passione, glorioso. E così Gesù li prepara alla prova.
La trasfigurazione aiuta i discepoli, e anche noi, a capire che la passione di Cristo è un mistero di sofferenza, ma è soprattutto un dono di amore, di amore infinito da parte di Gesù. L’evento di Gesù che si trasfigura sul monte ci fa comprendere meglio anche la sua risurrezione.
Per capire il mistero della croce è necessario sapere in anticipo che Colui che soffre e che è glorificato non è solamente un uomo, ma è il Figlio di Dio, che con il suo amore fedele fino alla morte ci ha salvati. Il Padre rinnova così la sua dichiarazione messianica sul Figlio, già fatta sulle rive del Giordano dopo il battesimo, ed esorta: «Ascoltatelo!».
I discepoli sono chiamati a seguire il Maestro con fiducia, con speranza, nonostante la sua morte; la divinità di Gesù deve manifestarsi proprio sulla croce, proprio nel suo morire «in quel modo», tanto che l’evangelista Marco pone sulla bocca del centurione la professione di fede: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (15,39).
Ci rivolgiamo ora in preghiera alla Vergine Maria, la creatura umana trasfigurata interiormente dalla grazia di Cristo.
Ci affidiamo fiduciosi al suo materno aiuto per proseguire con fede e generosità il cammino della Quaresima.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 25 febbraio 2018

Pubblicato in Liturgia
Giovedì, 18 Febbraio 2021 16:28

I Domenica di Quaresima - Anno B - 21 febbraio 2021

Da mercoledì scorso, con la liturgia delle ceneri è iniziata la quaresima, tempo che ci riporta alla sostanza dell’esistenza cristiana, invitandoci a intensificare nella preghiera e nella penitenza il cammino per la preparazione alla Pasqua di risurrezione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, vediamo come una nuova umanità nasce purificata dalle acque del diluvio. L’alleanza di Dio con Noè è il primo annuncio della grande Alleanza che sarà compiuta da Cristo nella Pasqua, con il Suo sangue.
Nella seconda lettura, nella prima lettera di S.Pietro, leggiamo come il diluvio ha fatto nuova la terra, così il battesimo fa nuovo ogni uomo. E’ la novità che nasce dalla risurrezione di Cristo e abbraccia tutta l’umanità e l’intero creato.
Nel brano del suo Vangelo, Marco facendo seguire subito dopo il battesimo di Gesù l’episodio delle tentazioni, vuole indicare che il punto fondamentale della missione del Figlio di Dio è la lotta contro satana, che si può vincere solo se ci rivestiamo delle armi della fede in Colui che ha vinto il mondo. La quaresima perciò inizia con l’appello di Cristo: Convertitevi e credete al Vangelo! Nella loro essenzialità e nella loro forza, queste parole sono come un fulmine che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate della nostra esistenza umana!

Dal libro della Genesi
Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra».
Dio disse:
«Questo è il segno dell’alleanza,
che io pongo tra me
e voi e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future.
Pongo il mio arco sulle nubi,
perché sia il segno dell’alleanza
tra me e la terra.
Quando ammasserò le nubi sulla terra
e apparirà l’arco sulle nubi,
ricorderò la mia alleanza
che è tra me e voi
e ogni essere che vive in ogni carne,
e non ci saranno più le acque per il diluvio,
per distruggere ogni carne».
Gen 9,8-15

Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano lo troviamo alla conclusione del racconto del diluvio, dopo i racconti riguardanti la creazione. Il diluvio è presentato come un evento che ha sconvolto tutto l’universo, come punizione per un’ulteriore diffusione del peccato.
Il racconto, che si trova anche in altre religioni, ha solo valore teologico ed è la risposta che l’uomo si dà al perchè c’è il male nel mondo. Questo brano ci parla dell’alleanza che Dio offre a Noè liberato dalle acque del diluvio. “Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne”.
Più di un’alleanza, si può dire che è una garanzia, un impegno assunto soltanto da parte di Dio perchè non dipende dal futuro comportamento dell’uomo, perché il Signore non chiede a Noè nessun impegno in particolare. E’ perciò un puro atto di misericordia verso tutta l’umanità intera: uomini ed animali.
Come negli accordi terreni, viene stabilito anche un segno esterno che possa ricordare l’impegno assunto e questo segno sarà l’arcobaleno. L’arcobaleno, che sorge dopo ogni temporale, viene scelto perché fa pensare ad un arco da guerra deposto sulle nubi, significando così la fine di un conflitto tra Dio e il cosmo e una garanzia di pace.
Nella prospettiva biblica questa pace non si esaurisce nella stabilità delle leggi della natura, ma è l’espressione della misericordia infinita di Dio per tutta l’umanità. Infine questa alleanza si estende alle “generazioni future”, è cioè un’alleanza perenne, come quella stabilita con Abramo. Viene così confermata la misericordia di Dio che rispetta la vita di ogni vivente, specialmente dell’uomo che rappresenta il vertice di tutto il creato.

Salmo 24: Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza.

Ricordati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
Ricordati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.

Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
1Pt 3,18-22

La Prima lettera di Pietro è un testo scritto alla fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma secondo gli esperti è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire a Pietro o al suo ambiente. Non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale, che si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 - 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 - 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 - 5,11).
Il brano che abbiamo fa parte della parte centrale dello scritto, nella quale si danno direttive per la partecipazione dei cristiani alla vita sociale (2,11-4,11).
Pietro inizia ricordando che “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito”.
Egli non si limita però a richiamare le sofferenze di Cristo, ma ne mette in luce il significato ribadendo che “Cristo è morto una volta per sempre”, cioè con il suo gesto ha raggiunto pienamente, una volta per tutte, il suo scopo. Inoltre egli è morto “per i peccati” cioè per liberare l’uomo dai peccati che lo tengono schiavo.
Proprio Lui, che era giusto, ha dato la vita per uomini ingiusti, attuando così il compito di ricondurli a Dio.
Infine Pietro sottolinea che Cristo è stato “messo a morte nel corpo”, cioè nella sua realtà umana, povera e limitata, che lo accomuna a tutta l’umanità, ma è stato “reso vivo nello Spirito”, cioè in forza della potenza stessa di Dio che Egli possiede nella sua pienezza. In altre parole Pietro vuole dire che, dopo e in forza della morte che lo ha colpito come ogni altro essere umano, lo Spirito di Dio ha attuato in lui una vita nuova, che si manifesta mediante la Sua resurrezione, e da Lui si estende a tutti i credenti (questo concetto lo si può ritrovare anche in Rm 1,4).
Pietro prende lo spunto dalla morte di Cristo per parlare della sua discesa agli inferi che descrive così: “nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua”.
Pietro allude qui sicuramente allo Sheol, che era considerato come il regno dei morti, nel quale vanno a finire le anime dei trapassati, per i sadducei senza alcuna speranza di cambiamento, per i farisei in attesa della risurrezione finale. Secondo la terminologia ebraica “andare agli inferi” era semplicemente una giro di parole per indicare la morte. Pietro invece la interpreta come una visita in quella regione tenebrosa, nella quale secondo lui erano tenuti come prigionieri tutti coloro che erano vissuti al tempo del diluvio universale. Costoro, pur vedendo che Noè costruiva l’arca, invece di approfittare dell’ultima possibilità che veniva loro concessa dalla pazienza di Dio, non avevano creduto ed così salvati. In altre parole si tratterebbe dell’umanità che è stata sterminata per la sua malvagità al tempo di Noè. Ma forse Pietro pensa più in generale a tutta l’umanità vissuta prima di Cristo, che egli vede contrassegnata dallo stesso peccato che ha provocato la distruzione del diluvio.
A questi spiriti racchiusi nello Sheol come in una prigione, Cristo “andò a portare l’annuncio”. Anche se il testo non mette l’oggetto dell’annuncio ossia la “salvezza”, molti padri (tra i quali Agostino) e esegeti moderni sottintendono “annuncio di salvezza”, e una liberazione vera e propria.
Nell’ultima parte del brano si parla dell’acqua del diluvio “Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi”; Pietro intravede qui una specie di analogia tra il diluvio e il battesimo cristiano: l’acqua del diluvio, da cui solo alcuni si salvarono, simboleggia l’economia dell’antica legge, le cui prescrizioni rituali ottenevano molto spesso solo una purificazione esteriore e “carnale”.
È vero che l’acqua del diluvio è stata soprattutto strumento di morte, mentre quella del battesimo porta la salvezza, ma bisogna riconoscere che ambedue hanno in comune l’effetto di purificazione dal contagio del peccato. Il battesimo è presentato anzitutto come un mezzo di salvezza che opera “ora”.
Pietro precisa che il battesimo “non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza”, cioè la richiesta a Dio perché mantenga l’impegno da lui preso in favore di chi lo riceve con retta intenzione.
La preghiera che accompagna il rito battesimale, non può non essere esaudita se chi la pronunzia non ha una “buona coscienza ”, cioè le disposizioni del cuore che sono richieste per ritornare a Dio.
Queste disposizioni non vengono dalla buona volontà dell’uomo, ma sono anch’esse un dono di Dio, che riceviamo “in virtù della risurrezione di Gesù Cristo”.
Il brano termina con una professione di fede cristologica: questo Cristo che è risorto “è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.”
Questa espressione riprende le affermazioni delle lettere paoline circa l’esaltazione di Cristo (v. Ef 1,20-21; Col 2,15), alle quali Luca attinge riportando il racconto dell’ascensione (At 1,9), facendole poi presentare da Pietro nella sua prima predica dopo la Pentecoste.
Nel contesto del mistero pasquale, Cristo ha dunque ricevuto la pienezza dello Spirito per proporre la salvezza a tutti gli uomini, anche a quelli che erano vissuti prima di lui, non esclusi i peccatori più pervertiti, come quelli del tempo di Noè.
Pietro vuole qui affermare che la salvezza portata da Cristo opera in modo misterioso a favore di tutti gli uomini, anche di coloro che sono vissuti prima di Lui. Infatti nella sua esperienza personale si rende visibile, in modo chiaro e urgente, quella spinta che ha portato uomini di ogni razza e religione a dare la vita per i loro fratelli.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Mc 1, 12-15

Nella breve introduzione del suo vangelo, Marco, dopo aver parlato di Giovanni il Battista e il battesimo di Gesù, accenna in modo molto conciso al periodo che Gesù trascorre nel deserto. Diversamente dunque da Matteo e Luca, Marco narra la tentazione di Gesù in modo veramente molto conciso: “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano”.
Vediamo che ancora una volta, dopo la sua apparizione al battesimo, interviene nella vita di Gesù lo Spirito di Dio, per indicargli che cosa deve fare per realizzare il suo progetto di salvezza. Sotto l’azione dello Spirito, Gesù dunque si reca nel deserto, cioè nella regione desolata che si estende tra la zona montagnosa della Giudea e il mar Morto (deserto di Giuda), e lì resta quaranta giorni.
I quaranta giorni sono un periodo di tempo simbolico, che richiama i quarant’anni trascorsi dal popolo di Israele nel deserto (Nm 14,34), dove è stato messo alla prova da Dio (Dt 8,2) o i quaranta giorni trascorsi da Mosè sul Sinai (Es 24,18) o quelli impiegati da Elia per raggiungere l’Oreb (1Re 19,8). Il tema della tentazione inoltre rievoca anche la figura di Adamo, il quale era stato tentato dal serpente (Gen 3,1-7).
Sebbene sia stato sospinto nel deserto dallo Spirito, Gesù non è messo alla prova da Dio (come il popolo in Dt 8,2), ma da satana. Questo per non offuscare l’immagine di Dio i giudei del tempo di Gesù si erano abituati ad attribuire la tentazione a un non meglio precisato “avversario” (satana; v.. Gb 1-2), che con il tempo era stato considerato come un’entità diabolica personificata (v. 1Cr 21,1) Questa maggiore sensibilità teologica appare anche nella rilettura sapienziale della vicenda di Adamo, dove il serpente non è più un semplice animale, ma è identificato con il diavolo (v. Sap 2,24).
Anche l’accenno agli animali selvatici viene utilizzato per creare un quadro simbolico, ossia che Gesù vive in mezzo ad essi in piena armonia. Questo ricorda il celebre passo messianico di Isaia (11,6-8) “… Il lupo dimorerà insieme con l’agnello …., il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà.” L’ostilità tra animali selvatici e domestici, tra belve, serpenti e uomo si cancellerà e si ricomporrà l’orizzonte paradisiaco celebrato nel II capitolo della Genesi col giardino dell’Eden, dove Adamo, l’uomo del progetto creativo divino, viveva in compagnia degli animali, e su di essi dominava come guida voluta dal Signore.
Mentre stava con le fiere, “gli angeli lo servivano”: questo è chiaramente un segno inequivocabile della vicinanza di Dio, che si fa rappresentare dai Suoi messaggeri; ma diversamente da Israele, che nel deserto ha mormorato e si è ribellato contro Dio, e da Adamo che ha mangiato il frutto dell’albero proibito, Gesù non ha ceduto alle lusinghe del tentatore.
Marco introduce la predicazione di Gesù in Galilea con due versetti che rappresentano il primo dei sommari di cui è ricco il suo vangelo: “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”.
Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata da giudei, dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, Sua terra d’origine, che a quei tempi veniva chiamata “Galilea delle genti”, appellativo che richiamava il carattere misto della sua popolazione (V. Mt 4,15).
Il termine “proclamare” o predicare, con cui è indicata l’attività di Gesù in Galilea, indica la proclamazione pubblica fatta da un araldo; con esso i cristiani indicavano l’annunzio della salvezza fatto dagli apostoli (v. At 8,5; Rm 10,8; 1Cor 1,23).
Anche l’espressione “vangelo di Dio”, appartiene al linguaggio della prima comunità cristiana (v. Rm 1,1; 15,16; 2Cor 11,7) e indica non tanto la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza.
Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con una frase molto concisa. Anzitutto egli afferma, con un linguaggio che si ispira all’apocalittica giudaica, che “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” Il tempo (kairos), cioè il periodo dell’attesa, che prepara il momento attuale da quello finale e conclusivo della storia, è giunto al termine; di conseguenza il “regno di Dio”, cioè l’esercizio pieno e definitivo della sovranità divina in questo mondo, “è vicino” sta per realizzarsi in questa terra.
“convertitevi e credete nel Vangelo”. Come già aveva fatto Giovanni il Battista, Gesù invita a “convertirsi” (metanoein, cambiare mente) cioè a “ritornare” a Dio, cambiando mentalità e sottomettendosi una volta per tutte alla Sua sovranità; ma per fare ciò è necessario “credere nel vangelo”, cioè aprirsi al lieto annunzio ed essere disposti a basare su di esso tutta la propria vita. Nella loro essenzialità e nella loro forza queste parole sono come una sferzata che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate dell’esistenza umana.

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“In questa prima domenica di Quaresima, il Vangelo richiama i temi della tentazione, della conversione e della Buona notizia. Scrive l’evangelista Marco: «Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana». Gesù va nel deserto per prepararsi alla sua missione nel mondo. Egli non ha bisogno di conversione, ma, in quanto uomo, deve passare attraverso questa prova, sia per Sé stesso, per obbedire alla volontà del Padre, sia per noi, per darci la grazia di vincere le tentazioni. Questa preparazione consiste nel combattimento contro lo spirito del male, cioè contro il diavolo.
Anche per noi la Quaresima è un tempo di “agonismo” spirituale, di lotta spirituale: siamo chiamati ad affrontare il Maligno mediante la preghiera per essere capaci, con l’aiuto di Dio, di vincerlo nella nostra vita quotidiana. Noi lo sappiamo, il male è purtroppo all’opera nella nostra esistenza e attorno a noi, dove si manifestano violenze, rifiuto dell’altro, chiusure, guerre, ingiustizie. Tutte queste sono opere del maligno, del male.
Subito dopo le tentazioni nel deserto, Gesù comincia a predicare il Vangelo, cioè la Buona notizia, la seconda parola. La prima era “tentazione”; la seconda, “Buona notizia”. E questa Buona notizia esige dall’uomo conversione - terza parola - e fede. Egli annuncia: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino»; poi rivolge l’esortazione: «Convertitevi e credete nel Vangelo», credete cioè a questa Buona notizia che il regno di Dio è vicino.
Nella nostra vita abbiamo sempre bisogno di conversione - tutti i giorni! -, e la Chiesa ci fa pregare per questo. Infatti, non siamo mai sufficientemente orientati verso Dio e dobbiamo continuamente indirizzare la nostra mente e il nostro cuore a Lui. Per fare questo bisogna avere il coraggio di respingere tutto ciò che ci porta fuori strada, i falsi valori che ci ingannano attirando in modo subdolo il nostro egoismo. Invece dobbiamo fidarci del Signore, della sua bontà e del suo progetto di amore per ciascuno di noi. La Quaresima è un tempo di penitenza, sì, ma non è un tempo triste! È un tempo di penitenza, ma non è un tempo triste, di lutto. E’ un impegno gioioso e serio per spogliarci del nostro egoismo, del nostro uomo vecchio, e rinnovarci secondo la grazia del nostro Battesimo.
Soltanto Dio ci può donare la vera felicità: è inutile che perdiamo il nostro tempo a cercarla altrove, nelle ricchezze, nei piaceri, nel potere, nella carriera… Il regno di Dio è la realizzazione di tutte le nostre aspirazioni, perché è, al tempo stesso, salvezza dell’uomo e gloria di Dio. In questa prima domenica di Quaresima siamo invitati ad ascoltare con attenzione e raccogliere questo appello di Gesù a convertirci e a credere nel Vangelo. Siamo esortati a iniziare con impegno il cammino verso la Pasqua, per accogliere sempre più la grazia di Dio, che vuole trasformare il mondo in un regno di giustizia, di pace, di fraternità.
Maria Santissima ci aiuti a vivere questa Quaresima con fedeltà alla Parola di Dio e con una preghiera incessante, come fece Gesù nel deserto. Non è impossibile! Si tratta di vivere le giornate con il desiderio di accogliere l’amore che viene da Dio e che vuole trasformare la nostra vita e il mondo intero.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 18 febbraio 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta, hanno ancora come filo conduttore la sofferenza, la malattia, l’emarginazione e la guarigione
Nella prima lettura, tratta dal libro del Levitico, troviamo elencate alcune prescrizioni della legislazione mosaica riguardanti i colpiti di lebbra. Questa malattia non era solo sofferenza di tipo fisico, ma aveva una forte ripercussione morale, perchè il malato andava incontro all’emarginazione più assoluta. Certi tipi di malattia a volte contagiose, venivano considerate conseguenza di gravi peccati e, quindi, la persona che ne era affetta, doveva essere esclusa da qualsiasi tipo di relazione umana.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi, l’apostolo ci offre un’esemplare stile di vita cristiana invitandoci a fare tutto per la gloria di Dio, divenendo suoi imitatori, come lui lo è di Cristo.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta di come Gesù nei confronti di un lebbroso non si limita alla sola guarigione, ma lo tocca, pur sapendo di andare contro le severe leggi del suo ambiente. È significativo che la guarigione avvenga proprio in forza di questa trasgressione. Gesù porta la purezza proprio là dove le leggi umane, in nome di Dio, proclamavano l’impurità e imponevano una separazione che nulla aveva a che vedere con la dignità della persona umana creata da Dio.

Dal Libro del Levitico
Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.
Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».
Lv 13,1-2, 45-46

Il libro del Levitico è stato scritto in Giudea da autori ignoti intorno al VI-V secolo a.C. È composto da 27 capitoli e si presenta come la continuazione dell’Esodo, in quanto riporta una grande quantità di materiale legislativo che Dio avrebbe rivelato a Mosè mentre si trovava sul Sinai. Si tratta in sostanza di norme e prescrizioni che riguardano il servizio del tempio, il sacerdozio e la tutela della purezza rituale nei settori più disparati della vita individuale e sociale. I riti e le osservanze prescritte sono spiegati con cura, ma si dice ben poco riguardo al loro significato.
Il libro presenta due grandi sezioni contenenti molte delle formule tipiche delle “mitzvot” ebraiche che sono 613 precetti, che l'ebreo ortodosso deve seguire per adempiere al suo ruolo sacerdotale nel mondo. Nella prima sezione (cc. 1-16) si regolano ambiti cultuali, gestiti direttamente dai sacerdoti: sacrifici, il ruolo sacerdotale e la purezza; nella seconda invece (cc. 17-26) vengono trattate questioni legali riguardanti il comportamento della comunità e dei singoli sia in pubblico sia nella vita privata. Il libro termina con un’appendice relativa ai voti (c. 27).
Nella prima parte del libro uno spazio notevole è assegnato alla lebbra (cc. 13-14), che viene esaminata non dal punto di vista sanitario, ma da quello dell’impurità che essa provoca. Perciò vengono elencati i diversi tipi di lebbra, sia degli uomini, dei vestiti e delle case, le loro manifestazioni, nonché le procedure richieste per la purificazione da parte dei sacerdoti.
Il questo brano, che riprende i versetti iniziali del c. 13 (vv. 1-2), sono elencate le prescrizioni relative a coloro che erano malati di lebbra, e la diagnosi dei casi di lebbra viene assegnata da DIO a Mosè e ad Aronne e quindi ai loro successori, i sacerdoti.
“Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli.”
Ai sacerdoti non si richiedono particolari competenze mediche, perché qui il problema non è di carattere sanitario, ma rituale. Le forme di lebbra, cioè di malattie della pelle che possono andare sotto questo nome, non sono tutte uguali e non tutte hanno le stesse conseguenze perché alcune sono anche guaribili. I sacerdoti devono limitarsi a scoprire, in base a criteri tradizionali accuratamente catalogati, quali malattie della pelle siano veramente lebbra, e quindi portatrici di impurità.
Il brano prosegue riportando come deve comportarsi il lebbroso:
“Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento”.
L’impurità qui descritta non ha nulla a che vedere con la sporcizia fisica o con il peccato: si tratta semplicemente di un modo di essere che non si addice al rapporto con la divinità e neppure con gli altri membri del popolo eletto. Nelle varie forme di impurità e nei riti di purificazione, la religione israelitica si può dire che abbia conservato costumi sorpassati, che a volte sembra rasentino la superstizione.
La troppa meticolosità data per la distinzione tra puro e impuro, ha avuto l’effetto di far dimenticare, almeno nella vita pratica della gente, l’importanza dell’amore, che è la massima espressione della legge conferita da Dio al Suo popolo. La necessità di stabilire confini netti tra puro e impuro ha portato a emarginare dalla vita religiosa intere categorie di persone, creando diffidenza e disprezzo nei loro riguardi. Di riflesso le leggi di purità hanno dato origine a gruppi di persone che facevano della loro osservanza lo scopo principale della loro vita, facendoli sentire come i veri e unici rappresentanti del popolo di Dio. Le norme sulla “Purità e Impurità” sono state per questo difficilmente comprese nel mondo greco-romano, e ciò ha fatto sì che i giudei della diaspora le interpretassero in modo allegorico.
Dobbiamo ricordare che Gesù le ha dichiarate decadute e questo lo troviamo nel Vangelo di Marco quando dice: “Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo”…. (Mc 7,15). Gesù ha fatto persino gesti che, come quello di toccare un lebbroso, rappresentavano delle vere e proprie provocazioni.
Il credente che avrà la costanza di leggere questo libro, (alcune pagine sono ripetitive ed anche noiose, ma fanno anche comprendere ed arrivare fino al cuore della coscienza religiosa di Israele) avrà alla fine il vantaggio di capire meglio il valore del sacrificio mediante il quale Gesù ha salvato l’umanità con il dono della Sua vita.

Salmo 31 - Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall’angoscia.

Beato l’uomo a cui è tolta la colpa
e coperto il peccato.
Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto
e nel cui spirito non è inganno.

Ti ho fatto conoscere il mio peccato,
non ho coperto la mia colpa.
Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità»
e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato.

Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti!
Voi tutti, retti di cuore, gridate di gioia!

L’autore del salmo ha fatto la gioiosa esperienza del perdono di Dio: "Beato l'uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato". L'umiltà di ammettere il proprio peccato e chiederne perdono a Dio ottiene che la colpa venga tolta, ma anche "coperta", poiché l'umile con l'aiuto di Dio fa dimenticare agli uomini il proprio passato di peccato mediante la carità. Perciò è beato chi si è riconciliato con Dio e "nel cui spirito non c'è inganno". La conseguenza è che Dio nel giudizio “non (gli) imputa il delitto”. L’autore presenta poi la sua situazione di dolore, di agitazione, quando era nel peccato e Dio lo colpiva col suo salutare castigo: “Giorno e notte pesava su di me la tua mano, come nell'arsura estiva si inaridiva il mio vigore”; ma poi, umile, ha manifestato a Dio il proprio peccato. L’ha manifestato, confessato, ammesso. Prima non lo voleva ammettere e si poneva davanti a Dio giustificando il suo errore, ma Dio glielo imputava incessantemente gravando su di lui la mano.
A motivo della misericordia di Dio, dice il salmista, “ti prega ogni fedele nel tempo dell’angoscia”, sicuro di avere aiuto. Il “tempo dell’angoscia” è qui distinto dal tempo del castigo: è il tempo delle sventure del giusto. Ma il giusto sa che Dio è bontà infinita, proprio perché è sempre pronto al perdono. Quando si scateneranno le catastrofi sociali, “quando irromperanno grandi acque”, il giusto non sarà inghiottito dall’odio, perché Dio è il suo rifugio.
Il salmista poi fa parlare Dio. Dio promette, con promessa immutabile, che chi rimarrà con lui diventerà saggio, conoscerà la via da seguire in mezzo ai percorsi di labirinto degli uomini. Dio dice che volendo accanto a sé l’uomo è pronto ad usare le maniere forti: “il morso e le briglie”. L’autore ha sperimentato “il morso e le briglie”, cioè tutti gli impedimenti che Dio nel suo amore gli ha messo dinanzi, perché non andasse lontano da lui. L’empio, invece, che rompe “il morso e le briglie”, corre verso la rovina e i dolori. Al contrario il giusto è circondato dalle premure del Signore.
L’autore ispirato termina il salmo con un invito a prendere coscienza del grande dono dell’unione con Dio: “Rallegratevi nel Signore ed esultate, o giusti!”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.
Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.
1Cor 10,31-11,1

Paolo continuando la sua prima lettera ai Corinzi, dopo aver posto all’inizio l’accento sul rispetto della coscienza altrui, aver portato il suo esempio di disponibilità verso tutti, e sottolineato il rischio dell’idolatria, nel capitolo 10, da dove è tratto questo brano, chiude la lunga sezione dedicata alle carni sacrificate agli idoli con un’esortazione in cui propone un orientamento generale valido in tutti i campi in cui il credente si trova ad operare ed afferma:
“sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio”. Ciascuno deve porsi come meta non l’affermazione delle proprie idee e l’azione che ne deriva, ma la gloria di Dio, cioè l’attuazione della Sua volontà che consiste nella ricerca del bene comune.
Ciò deve avvenire anche nel campo alimentare (mangiare e bere) che nella cultura dell’epoca condizionava in modo determinante i rapporti tra le persone. Ma in realtà questo principio si applica in tutti i settori in cui le persone interagiscono.
L’ambito in cui i corinzi devono cercare la gloria di Dio non è dunque principalmente quello della preghiera, ma quello ben più impegnativo dei rapporti con la comunità.
Poi l’Apostolo continua con la sua esortazione: “Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza”
Il credente deve evitare di dare scandalo, cioè non deve adottare un comportamento contrario alla fede che pratica, per non dare occasione agli altri di criticare e di essere anche ostacolo nel loro cammino verso Dio.
È importante che ciò deve avvenire non solo nei confronti della comunità che già appartiene a Dio, ma anche con i giudei e con i greci..
Questa regola viene da Paolo spiegata sulla propria disponibilità verso tutti, da lui espressa precedentemente (9,19-23): egli per primo si sforza di piacere “a tutti in tutto, senza cercare il proprio interesse” ma quello di “molti”, cioè di un numero sempre maggiore di persone, “perché giungano alla salvezza”.
Su questo sfondo di impegno per gli altri Paolo conclude con l’invito: “Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo”. Attraverso il suo comportamento i corinzi devono dunque imparare a cogliere nelle loro situazioni di vita tutte le conseguenze della predicazione e dell’esempio di Cristo. Solo così anche loro possono diventare suoi discepoli.
È importante il fatto che Paolo esorti i corinzi a non provocare il biasimo non solo della Chiesa di Dio, cioè dei loro fratelli nella fede, ma anche dei giudei e dei greci. In questa frase emerge la convinzione secondo cui anche i non cristiani sono in grado di dare corretti giudizi morali, e quindi di valutare la coerenza dei cristiani con il credo che professano. Il cristiano deve dunque comportarsi in modo tale da indicare a tutti strade e percorsi per giungere a un corretto rapporto con Dio. Paolo lo sottolinea in particolare rifacendosi al proprio atteggiamento di condivisione con tutti, finalizzato esclusivamente alla loro salvezza.. Egli invita dunque tutti i credenti ad essere missionari come lui, intendendo per missione la lotta quotidiana per un mondo migliore.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.
Mc 1,40-45

L’evangelista Marco, dopo aver narrato la chiamata dei primi quattro discepoli e una “giornata-tipo”, svoltasi a Cafarnao, racconta la guarigione da parte di Gesù di un lebbroso.
Il malato si accosta a Gesù e lo supplica in ginocchio, dicendo:”Se vuoi, puoi purificarmi”. Al tempo di Gesù la lebbra comprendeva diverse malattie della pelle, di cui alcune erano guaribili. L’atteggiamento umile del malato dipende dal fatto che, secondo la legge mosaica, il lebbroso era considerato impuro e non poteva avere contatti con il resto della popolazione; sullo sfondo vi è dunque il tema della “impurità”, che separa gli esseri umani tra loro e da Dio come viene precisato nel libro del Levitico (13,45-46)., Il lebbroso in questo racconto dimostra una grande fede nei poteri straordinari di Gesù, sa cosa vuole e intuisce la possibilità nuova che Gesù può operare e la chiede. Quello che ancora non sa è se Gesù vuole guarirlo.
Marco osserva che, di fronte alla richiesta del malato, Gesù “ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!»”. Nel linguaggio biblico la compassione di Gesù, espressa con un verbo (splanchnizô), che richiama il movimento delle viscere, non è tanto un sentimento umanitario, quanto piuttosto una manifestazione di quella misericordia che spinge DIO a radunare il suo popolo e unirlo a sé (Es 34,6): si tratta dello stesso impulso che Gesù sentirà di fronte a una folla disorientata e divisa come pecore senza pastore (Mc 6,34).
Il gesto poi di toccare il lebbroso è un segno di solidarietà con l’umanità sofferente, ma al tempo stesso rappresenta una dura contestazione delle leggi di “purità e impurità”, che impedivano a chiunque di venire a contatto con questi malati. L’evangelista qui presenta il lebbroso mondato il passaggio dall’uomo vecchio a quello nuovo, reso possibile dalla compassione di Dio verso di noi, cioè dal Suo amore materno che non si dimentica del frutto delle sue viscere.
Subito dopo averlo guarito, Gesù ammonisce severamente il miracolato dicendogli “Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro”. Solo il riconoscimento da parte dei sacerdoti poteva infatti eliminare l’emarginazione sociale e religiosa provocata dalla lebbra (Lv 14,1-32).
Ma il lebbroso sanato, pur credendo e amando Gesù, non ascolta la Sua richiesta di silenzio, e pensando persino di fare del bene, vinto anche dal bisogno di parlare, lui che era stato condannato a rimanere isolato e non parlare con nessuno, diviene ora annunciatore, araldo, mettendosi a proclamare e a divulgare il fatto: la buona notizia lui la portava nella carne, era luce, sale e lievito perché recava in sé l'opera di Dio compiuta in lui.
Con la guarigione del lebbroso Gesù manifesta il Suo rifiuto nei confronti di una norma che, interpretata rigidamente, separa l’uomo dal suo prossimo e da Dio. È significativo che la guarigione avvenga proprio in forza di questa trasgressione! Gesù porta la purezza proprio là dove le leggi umane, in nome di Dio, proclamavano l’impurità e imponevano una separazione che nulla aveva a che vedere con la dignità della persona umana creata da Dio.
In questo episodio si comprende ancora di più il valore altissimo del “com-patire” dolce e forte di Gesù nei confronti del mondo degli ultimi. Oggi forse la nuova lebbra può prendere nomi diversi e può assumere i mille volti dell’emarginazione. Il vero cristiano deve allora continuare a camminare come il Signore Gesù sulle strade dei “lebbrosi” provando “compassione” vera, stendendo le sue mani, toccando le loro piaghe esterne e interne (come ha detto più volte papa Francesco) invocando l’aiuto dall’Unico che può guarire e salvare da ogni male.,

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“L’odierna pagina evangelica ci presenta la guarigione di un uomo malato di lebbra, una patologia che nell’Antico Testamento veniva considerata una grave impurità e comportava la separazione del lebbroso dalla comunità: vivevano da soli. La sua condizione era veramente penosa, perché la mentalità del tempo lo faceva sentire impuro anche davanti a Dio non solo davanti agli uomini. Anche davanti a Dio. Perciò il lebbroso del Vangelo supplica Gesù con queste parole: «Se vuoi, puoi purificarmi!».
All’udire ciò, Gesù sente compassione. È molto importante fissare l’attenzione su questa risonanza interiore di Gesù, come abbiamo fatto a lungo durante il Giubileo della Misericordia. Non si capisce l’opera di Cristo, non si capisce Cristo stesso, se non si entra nel suo cuore pieno di compassione e di misericordia. E’ questa che lo spinge a stendere la mano verso quell’uomo malato di lebbra, a toccarlo e a dirgli: «Lo voglio, sii purificato!». Il fatto più sconvolgente è che Gesù tocca il lebbroso, perché ciò era assolutamente vietato dalla legge mosaica. Toccare un lebbroso significava essere contagiati anche dentro, nello spirito, cioè diventare impuri. Ma in questo caso l’influsso non va dal lebbroso a Gesù per trasmettere il contagio, bensì da Gesù al lebbroso per donargli la purificazione. In questa guarigione noi ammiriamo, oltre alla compassione, la misericordia, anche l’audacia di Gesù, che non si preoccupa né del contagio né delle prescrizioni, ma è mosso solo dalla volontà di liberare quell’uomo dalla maledizione che lo opprime.
Fratelli e sorelle, nessuna malattia è causa di impurità: la malattia certamente coinvolge tutta la persona, ma in nessun modo intacca o impedisce il suo rapporto con Dio. Anzi, una persona malata può essere ancora più unita a Dio. Invece il peccato, quello sì che ci rende impuri! L’egoismo, la superbia, l’entrare nel mondo della corruzione, queste sono malattie del cuore da cui c’è bisogno di essere purificati, rivolgendosi a Gesù come il lebbroso: «Se vuoi, puoi purificarmi!».
E adesso, facciamo un attimo di silenzio, e ognuno di noi – tutti voi, io, tutti – può pensare al suo cuore, guardare dentro di sé, e vedere le proprie impurità, i propri peccati. E ognuno di noi, in silenzio, ma con la voce del cuore dire a Gesù: “Se vuoi, puoi purificarmi”. Lo facciamo tutti in silenzio.
“Se vuoi, puoi purificarmi”.
“Se vuoi, puoi purificarmi”.
E ogni volta che ci accostiamo al sacramento della Riconciliazione con cuore pentito, il Signore ripete anche a noi: «Lo voglio, sii purificato!». Quanta gioia c’è in questo! Così la lebbra del peccato scompare, ritorniamo a vivere con gioia la nostra relazione filiale con Dio e siamo riammessi pienamente nella comunità.
Per intercessione della Vergine Maria, nostra Madre Immacolata, chiediamo al Signore, che ha portato agli ammalati la salute, di sanare anche le nostre ferite interiori con la sua infinita misericordia, per ridonarci così la speranza e la pace del cuore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 11 febbraio 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture, che la liturgia di questa domenica ci presenta, hanno come filo conduttore la sofferenza, la malattia e la guarigione
Nella prima lettura, tratta dal libro di Giobbe, vediamo il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute. Egli vorrebbe che Dio intervenisse in suo favore, non tanto perché ciò metterebbe fine alle sue sofferenze, ma perché così egli saprebbe che gli è vicino e lo ama. La sua tentazione è quella di imporre a Dio un comportamento conforme alle sue aspettative, giudicando il suo silenzio come un’ingiustizia insopportabile.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi, l’apostolo nel suo desiderio di portare a tutti la salvezza egli afferma che non ha avuto paura di rinunziare a qualsiasi privilegio personale. In altre parole egli ritiene di poter acquistare per se stesso la salvezza contenuta nel vangelo, non semplicemente perché lo annunzia agli altri, ma perché adotta nei loro confronti quegli atteggiamenti di amore e di dedizione che il vangelo gli ispira.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta una giornata tipica di Gesù: guarisce i malati che incontra, annuncia nelle sinagoghe della Galilea la venuta del Regno, ma sa anche riservare un tempo per la preghiera dove incontra il Padre. Questo deve insegnare anche a noi che l'unica vera ricarica, dopo un'intensa giornata di lavoro, è proprio la preghiera che ci aiuta a prendere contatto con il Padre, tutto il resto anche le cose più importanti non ci ricaricano, non ci danno la forza necessaria per proseguire giorno per giorno il nostro cammino.

Dal libro di Giobbe
Giobbe parlò e disse:
«L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra
e i suoi giorni non sono come quelli
d’un mercenario?
Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario,
così a me sono toccati mesi d’illusione
e notti di affanno mi sono state assegnate.
Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”.
La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba.
I miei giorni scorrono più veloci d’una spola,
svaniscono senza un filo di speranza.
Ricordati che un soffio è la mia vita:i
il mio occhio non rivedrà più il bene».
Gb 7,1-4, 6-7

Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi di molti studiosi, la prima redazione risale all'XI-X secolo a.C., mentre la redazione definitiva, con le aggiunte in prosa, è stata composta in Giudea verso il 575 a.C.. La storia di Giobbe nasce dagli infiniti interrogativi che il problema del male porta all'umanità. Ci troviamo di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
Ambientata in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente, il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute. Sarà poi afflitto da una piaga maligna, sarà cacciato anche di casa dalla moglie che stanca di quest'uomo per la sua fedeltà incrollabile, urlerà, alla fine: Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!”. Ma egli le rispose: “Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?”.“Gb 2,9-10
Non sono pochi coloro che hanno commentato che per rendere peggiore la situazione di Giobbe, Dio gli ha lasciato quel tipo di moglie.
Il brano che la liturgia ci propone fa parte del ciclo dei dibattiti di Giobbe con i suoi amici e più specificamente dalla risposta che Giobbe dà all’intervento di Elifaz, che in base alla teoria della retribuzione, che riteneva che le sofferenze che colpiscono l’uomo non possono che essere la conseguenza dei suoi peccati, aveva sottolineato che nessun mortale può essere giusto davanti a Dio e di conseguenza aveva invitato Giobbe, torturato dalla sofferenza, a pentirsi dei suoi peccati.
Giobbe risponde riaffermando la sua innocenza e descrive la sua situazione come parte del destino che colpisce tutta l’umanità: non solo la sua sofferenza, ma anche quella dei suoi simili, rappresenta una sfida alla giustizia di Dio.
Giobbe si lamenta degli amici e di Dio, ma soprattutto di sé, e descrive la sofferenza dell’uomo sulla terra con tre immagini, quella del militare, del mercenario e dello schiavo.
Nell’antichità il servizio militare era paragonabile al lavoro forzato a causa delle dure punizioni a cui il soldato veniva facilmente sottoposto e dello spietato dispotismo dei comandanti. Il mercenario era l’operaio pagato a giornata, che faticava tutto il giorno per una misera paga, che gli serviva unicamente per sopravvivere, e non diversa, se non peggiore, era la situazione dello schiavo, che non aveva diritto ad alcun compenso per il suo lavoro. La condizione del soldato, del mercenario e dello schiavo erano evidentemente le situazioni più basse della scala sociale. Ma se ognuno di loro aspettava con impazienza la sera, quando la fatica quotidiana terminava e durante il giorno era una consolazione pensare a questa sosta alla loro sofferenza, anche se breve, Giobbe invece non ha neppure questa soddisfazione: gli sono toccati mesi di illusione e notti di dolore. Come chi soffre d’insonnia e si rigira nel letto, aspettando l’alba che non sembra arrivare mai, così anche lui passa il suo tempo nell’attesa di qualcosa di impossibile.
Poiché il dolore, pur non essendo produttivo, lo affatica più del lavoro, egli passa anche le sue notti nell’angoscia. La sua è una sofferenza senza senso, che gli è ormai diventata insopportabile e i suoi “giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza”.
E Giobbe conclude con una preghiera, che sembra un lungo lamento:
“Ricordati che un soffio è la mia vita:il mio occhio non rivedrà più il bene”.
La sensazione della brevità della vita colpisce tutti gli esseri umani, ma diventa più forte per coloro che non trovano in essa un senso, che non sperano di poter vedere a un certo punto un bene veramente sicuro e duraturo.
La sofferenza di Giobbe però è causata non tanto dal dolore fisico e dall’incomprensione dei suoi cari e amici, ma piuttosto dalla sensazione di essere abbandonato da Dio, nonostante che egli gli sia sempre stato fedele. In questa prospettiva egli vede l’esistenza umana come un seguito di avvenimenti senza senso, che gli procurano angoscia, mentre il tempo passa troppo in fretta o troppo lentamente secondo le situazioni. Egli vorrebbe che Dio intervenisse in suo favore, non tanto perché ciò metterebbe fine alle sue sofferenze, ma perché così egli saprebbe che Dio gli è vicino e lo ama ancora. La sua tentazione è quella di imporre a Dio un comportamento conforme alle sue aspettative, giudicando il suo silenzio come un’ingiustizia sempre più insopportabile.
Alla fine Dio si manifesterà a Giobbe, non per giustificare la propria condotta o per rivelargli qualche verità nascosta, ma semplicemente per renderlo consapevole del mistero che lo circonda, davanti al quale Giobbe non può far altro che abbassare la testa e credere che Dio è buono, anche se le Sue scelte restano misteriose. Nel capitolo prima dell’epilogo Giobbe dice: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere.” Gb 42,5-6 Per giungere a questa consapevolezza Giobbe deve abbandonare tante false sicurezze, prima di tutte quella di un Dio che interviene a sistemare le cose secondo un’idea di giustizia retributiva simile a quella su cui si basano i rapporti umani.
La storia di Giobbe comunque ha un lieto fine che l’epilogo del libro riporta:
“Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici; accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto…. Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni.. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.”

Salmo 146-147 Risanaci, Signore, Dio della vita.
È bello cantare inni al nostro Dio,
è dolce innalzare la lode.
Il Signore ricostruisce Gerusalemme,
raduna i dispersi d’Israele.

Risana i cuori affranti
e fascia le loro ferite.
Egli conta il numero delle stelle
e chiama ciascuna per nome.

Risana i cuori affranti
e fascia le loro ferite.
Egli conta il numero delle stelle
e chiama ciascuna per nome.

Il salmo è stato composto nel postesilio durante la ricostruzione morale ed economica di Gerusalemme, che era di invito ad altri esuli di intraprendere il viaggio di rientro in patria.
Il salmista invita alla lode dicendo che “È bello cantare inni al nostro Dio, è dolce innalzare la lode". A lui conviene la lode, e una lode adeguata, cioè che sgorga da un cuore aperto a lui, senza donazioni parziali di sé. Lodare è celebrare la bontà del Signore manifestata nelle sue opere. Lodare è rivolgersi a lui pieni di fede, compresi della sua misericordia, della sua giustizia, della sua provvidenza, della sua volontà di comunione con l'uomo; anzi è riconoscere che lui è la misericordia, la giustizia, la comunione, la bontà, la bellezza, il perdono, la vita (Vedi le lodi a Dio di san Francesco). Lodare è amare; è il ritorno a lui - mai sufficiente e perciò sempre da far crescere - dell'amore che ci dona incessantemente nel dono dello Spirito Santo (Rm 5,5). Lodare è aver sperimentato la potenza della sua Parola, accolta nella fede e nell'obbedienza. Lodare è desiderare lui; è volere lui, perciò non è sospensione del domandare a lui di crescere nell'amore verso lui. Lodare è aver sperimentato la gioia di amare i fratelli, è pregare per loro. Lodare non è sospensione del ringraziar, poiché il lodare Dio porta con sé il ringraziare di poterlo lodare, perché “è dolce innalzare la lode”. Lodare Dio è umiltà, è riconoscere che si è sue creature, bisognose di salvezza, di aiuto, e che salvezza e aiuto si riversano su ciascuno di noi inesauste e sovrabbondanti (Rm 5,20; 1Tm 1,14).
“Il Signore ricostruisce Gerusalemme”; ciò non riguarda la ricostruzione delle mura, ma l'organizzazione interna della città, la sua solidità economica, la sua capacità difensiva.
“Risana i cuori affranti e fascia le loro ferite”; con l'avvento di una normalità di vita i cuori ritornano a guardare con serenità al futuro.
Il pietoso Dio che fascia le ferite dei cuori affranti è anche colui che è sovrano dell'universo, poiché “Egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome”. Egli conosce il numero sterminato degli astri (in Terra Santa le condizioni atmosferiche permettono di vedere un cielo denso di stelle) e ogni stella è conosciuta da lui nella sua realtà: “chiama ciascuna per nome”.
Dallo sguardo all'immensità del numero delle stelle, il salmista sale a considerare la grandezza, l'onnipotenza e la sapienza di Dio: “Grande è il Signore nostro, grande nella sua potenza; la sua sapienza non si può calcolare”.
Il salmista prosegue considerando come Dio sostiene gli umili, e abbatte gli empi. Perché l'umiltà è il porsi giusto davanti al Creatore, che è pure salvatore; è il vincere il voler essere come Dio; è gioia e gratitudine di essere amati e perdonati. L'umile sa amare, sa lodare, sa riconoscere i benefici ricevuti; così il salmista invita a cantare un “canto di grazie” a Dio perché regola le stagioni a favore dell'uomo: “Egli copre il cielo di nubi, prepara la pioggia per la terra, fa germogliare l'erba sui monti”. Il bestiame tenuto al pascolo ha così cibo, ma anche gli uccelli di cui nessuno se ne cura hanno cibo dalla provvidenza di Dio.
Inutile pensare che Dio deleghi la sua assistenza contro i nemici del suo popolo alla forza dei cavalli e all'agilità dei guerrieri, quasi che non potesse agire in altro modo che per mezzo di un esercito. Questo Dio l'aveva dimostrato molte volte, e di recente sventando la coalizione armata contro Gerusalemme mentre stava ricostruendo le sue mura (Ne 4,9). Dio non si compiace dell'autosufficienza di chi crede di salvarsi per la forza dei cavalli o l'abilità dei guerrieri, ma si compiace di “chi lo teme, chi spera nel suo amore”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!
Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
1Cor 9,16-19.22-23

Paola continuando la sua prima lettera ai Corinzi , nei capitoli 8-10 affronta un altro problema, su cui i corinzi avevano chiesto il suo parere, riguardo i rapporti tra i cristiani e la società esterna, permeata com’era di riti religiosi nei quali direttamente o indirettamente era facile venire coinvolti.
Nel brano liturgico che abbiamo riguardo alla sua scelta di non farsi finanziare dalla comunità, Paolo afferma che il semplice fatto di annunziare il vangelo, non è per lui motivo di vanto, ma un obbligo che gli è stato imposto in forza della vocazione ricevuta, per questo dichiara: “guai a me se non annuncio il Vangelo!” e poi afferma: “Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato”, vale a dire se Paolo si fosse messo a servizio del vangelo di sua iniziativa, avrebbe diritto come ogni lavoratore a ricevere una ricompensa da parte di Dio; ma trattandosi di un incarico che gli è stato affidato, egli si sente come lo schiavo che non può pretendere una remunerazione per il lavoro che fa.
Quindi se vuole avere una ricompensa deve fare qualcosa di più, che egli identifica precisamente nel predicare il vangelo gratuitamente, senza usare il “diritto conferitogli dal vangelo”, quello cioè di farsi finanziare dalle comunità. Solo facendo qualcosa in più di quanto gli è richiesto, può meritarsi un premio da parte del suo Signore.
A questo punto Paolo osserva che :“pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero”. Paolo perciò se ha rinunciato a questa sua libertà, lo ha fatto per uno scopo ben preciso: “guadagnare” al vangelo il maggior numero di persone. Gli interessi del vangelo sono dunque al di sopra dei suoi interessi personali.
Infine, Paolo menziona il suo atteggiamento nei confronti dei “deboli” per cui afferma: “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli” Anche con costoro egli ha rinunciato al diritto di comportarsi secondo ciò che gli suggeriva la conoscenza e, per guadagnarli a Cristo, ha rinunziato a esercitare quelli che considerava suoi sacrosanti diritti.
Paolo conclude questi esempi esprimendo un principio generale: “mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.”
Nel suo desiderio di portare a tutti la salvezza, Paolo non ha avuto paura di rinunziare a qualsiasi privilegio personale. in altre parole egli ritiene di poter acquistare per se stesso la salvezza contenuta nel vangelo, non semplicemente perché lo annunzia agli altri, ma perché adotta nei loro confronti quegli atteggiamenti di amore e di dedizione che il vangelo gli ispira

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
Mc 1,29-39

Il brano che la liturgia ci propone, come quello della domenica scorsa, fa parte di una serie di racconti di una giornata tipo di Gesù e viene subito dopo l’episodio della liberazione dell’indemoniato.
Marco ci riferisce che :“Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei”.
Qui assistiamo ad un altro tipo di potere che Gesù ha, quello sulla malattia: ““Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.”
Dopo il tramonto del sole, cioè al termine della giornata di sabato,”gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.”
Marco qui ambienta, anche se in un episodio quotidiano e ordinario, il mistero sempre straordinario della sofferenza umana. La prima protagonista vediamo è la suocera di Pietro, inchiodata a letto dalla febbre che i rabbini al tempo di Gesù definivano “il fuoco che beve l’energia delle persone”. Gesù le si avvicina, si china su quel letto, la prende per mano, non pronunzia una sola parola, non dice neppure una preghiera, e la guarisce solo con la Sua azione diretta, con la Sua natura divina non ancora svelata agli occhi dei presenti.
Sull’onda di questa guarigione a sera si presentano una gran fila di malati che sperano in ciò che Lui solo può fare. Nella penombra di quel tramonto sembra quasi che sia stato convocato davanti a Gesù la raffigurazione di tutto il dolore del mondo!
L’evangelista sottolinea anche che Gesù impediva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano. Si può dedurre che i demòni conoscessero la realtà della sua natura, e loro malgrado, siano persino suoi testimoni. Si può inoltre notare che Gesù impone il silenzio , non solo ai demoni , ma anche ai miracolati e perfino agli apostoli, sulla sua identità messianica che sarà tolta solo dopo la Sua morte. Questo perché il popolo si faceva una idea nazionalista e combattente del Messia, molto diversa da quella che Gesù voleva incarnare, bisognava perciò a Gesù usare molta prudenza, almeno per il popolo d’Israele per evitare equivoci sulla Sua missione.
Il “segreto messianico” non è una tesi inventata più tardi da Marco come molti pensano, risponde invece a un atteggiamento storico di Gesù, benché Marco ne abbia fatto un tema su cui ama insistere.
Poi l’evangelista evidenzia che Gesù “Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”.
Simone e gli altri discepoli “si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!»”. Questo verbo “cercare” di solito in Marco è sempre negativo e qui Gesù risponde: “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”.
Gesù comincia dunque a predicare, non più a insegnare! Ha insegnato nella sinagoga dove insegnare significa annunciare qualcosa basandosi sui testi della scrittura, quindi l’Antico Testamento. Ma Gesù, dopo la delusione provata nella sinagoga, non insegna, bensì predica! Predicare significa annunziare la novità del regno di Dio senza poggiarsi sulla tradizione del passato.
Il brano conclude con l’annotazione: “E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni”. L’evangelista sembra alludere al fatto che il luogo dove i demòni sono annidati sono proprio le sinagoghe, i luoghi di culto.
Meditando sulla giornata tipica di Gesù che con tutti i suoi impegni la conclude con la preghiera, deve insegnare anche a noi che l'unica vera ricarica, dopo un'intensa giornata di lavoro, è proprio la preghiera che ci aiuta a prendere contatto con il Padre, tutto il resto anche le cose più importanti non ci ricaricano, non ci danno la forza necessaria per proseguire giorno per giorno il nostro cammino.

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“Il Vangelo di questa domenica prosegue la descrizione di una giornata di Gesù a Cafarnao, un sabato, festa settimanale per gli ebrei . Questa volta l’evangelista Marco mette in risalto il rapporto tra l’attività taumaturgica di Gesù e il risveglio della fede nelle persone che incontra. Infatti, con i segni di guarigione che compie per i malati di ogni tipo, il Signore vuole suscitare come risposta la fede.
La giornata di Gesù a Cafarnao incomincia con la guarigione della suocera di Pietro e termina con la scena della gente di tutta la cittadina che si accalca davanti alla casa dove Lui alloggiava, per portargli tutti i malati. La folla, segnata da sofferenze fisiche e da miserie spirituali, costituisce, per così dire, “l’ambiente vitale” in cui si attua la missione di Gesù, fatta di parole e di gesti che risanano e consolano.
Gesù non è venuto a portare la salvezza in un laboratorio; non fa la predica da laboratorio, staccato dalla gente: è in mezzo alla folla! In mezzo al popolo! Pensate che la maggior parte della vita pubblica di Gesù è passata sulla strada, fra la gente, per predicare il Vangelo, per guarire le ferite fisiche e spirituali.
E’ una umanità solcata da sofferenze, questa folla, di cui il Vangelo parla molte volte. È un’umanità solcata da sofferenze, fatiche e problemi: a tale povera umanità è diretta l’azione potente, liberatrice e rinnovatrice di Gesù. Così, in mezzo alla folla fino a tarda sera, si conclude quel sabato. E che cosa fa dopo, Gesù?
Prima dell’alba del giorno seguente, Egli esce non visto dalla porta della città e si ritira in un luogo appartato a pregare. Gesù prega. In questo modo sottrae anche la sua persona e la sua missione ad una visione trionfalistica, che fraintende il senso dei miracoli e del suo potere carismatico. I miracoli infatti sono “segni”, che invitano alla risposta della fede; segni che sempre sono accompagnati dalle parole, che li illuminano; e insieme, segni e parole, provocano la fede e la conversione per la forza divina della grazia di Cristo.
La conclusione del brano odierno indica che l’annuncio del Regno di Dio da parte di Gesù ritrova il suo luogo più proprio nella strada. Ai discepoli che lo cercano per riportarlo in città – i discepoli sono andati a trovarlo dove Lui pregava e volevano riportarlo in città -, che cosa risponde Gesù? «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là». Questo è stato il cammino del Figlio di Dio e questo sarà il cammino dei suoi discepoli. E dovrà essere il cammino di ogni cristiano. La strada, come luogo del lieto annuncio del Vangelo, pone la missione della Chiesa sotto il segno dell’“andare”, del cammino, sotto il segno del “movimento” e mai della staticità.
La Vergine Maria ci aiuti ad essere aperti alla voce dello Spirito Santo, che spinge la Chiesa a porre sempre più la propria tenda in mezzo alla gente per recare a tutti la parola risanatrice di Gesù, medico delle anime e dei corpi.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 4 febbraio 2018

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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