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S.Messe (settimana)
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Le letture che la liturgia di questa domenica ci propone, ci aiutano a capire come Dio sia paziente e giusto e che il regno dei cieli instaurato da Gesù non s’impone con la forza, ma con un’attenzione attiva ai segni dei tempi che puntualmente faranno la loro comparsa.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, Dio viene presentato come il grande paziente, che ha nelle mani la forza e il potere, ma attende che i peccatori si pentano perchè vuole salvarli.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo afferma che alla nostra preghiera, talvolta vuota, viene in aiuto lo Spirito, Egli è realmente in noi: prega dentro di noi e ci suggerisce le parole da rivolgere al Padre.
Nel Vangelo di Matteo troviamo una infinità di parabole: chicchi di senape e di frumento, erbe buone e maligne, terra scavata per nascondere tesori, falò dove si brucia la zizzania, e i relativi personaggi umani: il seminatore e il contadino suo nemico, i servi e il padrone della fattoria. Gesù, servendosi di questi paragoni ci fa crescere nella fede per farci comprendere che Dio non interviene subito, in modo clamoroso, nella storia dell’uomo. Egli è paziente e sa aspettare. Il Regno cresce a poco a poco in silenzio e con efficacia.

Dal libro della Sapienza
Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose,
perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto.
La tua forza infatti è il principio della giustizia,
e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti.
Mostri la tua forza
quando non si crede nella pienezza del tuo potere,
e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono.
Padrone della forza, tu giudichi con mitezza
e ci governi con molta indulgenza,
perché, quando vuoi, tu eserciti il potere.
Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo
che il giusto deve amare gli uomini,
e hai dato ai tuoi figli la buona speranza
che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.
Sap 12,13,16-19

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico.
È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) .
L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco, anche la prima parte (1-5) , per la quale alcuni hanno ipotizzato, a torto, un originale ebraico. L'unità della composizione è confermata dall'unità della lingua, che risulta flessibile e ricca, scorrevole e senza forzature nelle diverse forme della retorica.
Il brano che la Liturgia ci propone, indirizzato in particolare ai Giudei della diaspora, che si chiedevano perché Dio non intervenisse a distruggere gli idolatri, l’autore, dopo essersi domandato perché il Signore è stato tanto misericordioso con l'Egitto e Canaan nell'Esodo, giunge a concludere: “Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto”
Questa affermazione che ribadisce che: “Non c’è Dio fuori di te…” che abbia cura di tutte le cose, ci fa comprendere che Dio non lo si può definire, è al di sopra della nostra comprensione umana, e ci impedisce di chiuderlo in uno schema.
Noi possiamo solo cercare di fare nostro l'atteggiamento di Dio che con la Sua indulgenza e la Sua misericordia ci insegna ad amare il prossimo, e restare aperti al perdono, alla fiducia e all'indulgenza.
In quest’opera, la dottrina biblica sulla sapienza raggiunge gli ultimi sviluppi ed è come il sintomo dell’insegnamento del Nuovo Testamento sulla grazia; a sua volta il Nuovo Testamento aiuta a capire la dottrina dell’antico sulla sapienza.
La speranza beata nell’aldilà è espressa con rara chiarezza, illuminando il problema dell’umano destino. E’ l’ultimo passo verso la rivelazione cristiana: Cristo, sapienza di Dio incarnata tra gli uomini, è la fonte della vita e della felicità eterna.
Questo spiega l’influsso che il libro ha esercitato nella cristologia di Giovanni e di Paolo…

Salmo 85: Tu sei buono, Signore, e perdoni.

Tu sei buono, Signore, e perdoni,
sei pieno di misericordia con chi t’invoca.
Porgi l’orecchio, Signore, alla mia preghiera
e sii attento alla voce delle mie suppliche.

Tutte le genti che hai creato verranno
e si prostreranno davanti a te, Signore,
per dare gloria al tuo nome.
Grande tu sei e compi meraviglie:
tu solo sei Dio.

Ma tu, Signore, Dio misericordioso e pietoso,
lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà,
volgiti a me e abbi pietà.

Al centro Il salmo è stato scritto da un pio Giudeo che resiste intrepido di fronte alla pressione di nemici arroganti e violenti che si gloriano dei loro dei. L'epoca della composizione del salmo è probabilmente quella che precedette la grande reazione dei Maccabei contro la pressione ellenistica.
Il salmista si presenta “povero e misero”, alla ricerca di una via per organizzarsi, per difendersi, e camminare così nella verità in quella situazione nella quale si sente messo al bando. Questa via la chiede a Dio, che già la conosce: “Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini”.
Di fronte agli dei pagani il salmista dichiara che nessuno di loro regge al confronto con Jahvéh: “Fra gli dei nessuno è come te, Signore, e non c'è nulla come le tue opere”; ma non solo afferma la supremazia di Dio, afferma anche l'unicità di Dio: “Tu solo sei Dio”. Gli dei pagani sono inesistenti, sono il prodotto dei vaneggiamenti umani e, pur senza dichiararlo esplicitamente, il salmista fa intendere come all'ombra delle concezioni pagane del divino strisci il serpente ingannatore, autore di prodigi, che però non reggono di fronte allo splendore di quelli di Dio: “Non c'è nulla come le tue opere”. I prodigi dei maghi d'Egitto furono un nulla rispetto al dispiegarsi della potenza di Dio (Cf. Es 15,11).
Il salmista afferma che il tempo in cui tutti i popoli della terra riconosceranno Dio verrà: “Tutti i popoli che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te Signore, per dare gloria al tuo nome”.
Nel pericolo il salmista chiede a Dio di non cadere in dissipazioni: “tieni unito il mio cuore, perché tema il tuo nome”, con ciò avrà una lode autentica, espressa “con tutto il cuore”. Egli si presenta a Dio ringraziandolo per la misericordia che gli ha accordato quando era ormai senza speranza di vita: “dal profondo degli inferi”.
L'assalto degli arroganti è incessante, ma il salmista si rifugia in Dio, che è “Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà”. Egli ha trovato pace e forza nella fiducia in Dio, propria di un cuore semplice che teme Dio.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.
Rm 8,26-27

L’Apostolo Paolo, continuando la sua lettera ai Romani, dopo aver mostrato nella parte precedente come la giustificazione mediante la fede, abbia aperto la strada a una vita nuova, ora sviluppa alcune intuizioni, che aveva già anticipato precedentemente. Nel capitolo 8 l’apostolo mostra anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato (vv. 1-13) e prosegue mettendo in luce come lo Spirito stesso trasformi intimamente non solo il credente ma anche tutto l’universo.
Nel versetto precedente del brano liturgico Paolo aveva parlato della speranza come attesa perseverante delle cose promesse, che ancora non sono oggetto di esperienza. Proprio in questo campo si rivela però tutta la debolezza dei credenti, Paolo infatti in questo brano dopo aver affermato che: lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, continua spiegando il perché,”non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente”. Chi prega, per essere esaudito, deve presentare a Dio richieste che siano conformi alla Sua volontà, ma se non si sa che cosa chiedere la preghiera viene privata di efficacia perché rischia di imporre a Dio qualcosa che Egli non è disposto a concedere. Per pregare efficacemente è quindi necessario sapere prima che cosa Dio è disposto a dare, ma proprio questo non rientra nella facoltà dell’uomo.
Quello che i credenti da soli non possono raggiungere, viene loro conferito da Dio mediante lo Spirito, “che intercede con gemiti inesprimibili”. Lo Spirito non può non conoscere ciò che Dio vuole, perché forma con Lui un’unica cosa. perciò viene incontro ai credenti in quanto, non solo suggerisce loro ciò che devono chiedere a Dio, ma Lui stesso, presente nei loro cuori, prega per loro e in loro usando un linguaggio che è sconosciuto agli esseri umani. La presenza dello Spirito è percepibile ai credenti in quanto si identifica con lo Spirito di Gesù, cioè la forza e il fascino che promanano dalla Sua predicazione e da tutta la Sua vita.
La preghiera ispirata e guidata dallo Spirito perciò ha tutte le garanzie di essere esaudita perché “Egli che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.”
Dio non si ferma alle apparenze: Egli è l’unico in grado di scrutare i cuori (Sal 139,1; Ger 12,3; 1Cr 29,17), cioè di vedere quali sono veramente i pensieri e le scelte profonde dell’uomo. Guardando l’intimo dei cuori, Dio vede se in essi vi siano veramente i desideri, cioè il modo di pensare e di agire suggerito dallo Spirito. In questo caso è lo Spirito stesso che intercede per i credenti “secondo i disegni di Dio”, cioè in sintonia con i Suoi disegni e la Sua volontà.
In altre parole una preghiera autentica non può scaturire se non da un cuore immerso in Dio e nel Suo piano di salvezza che riguarda tutta l’umanità. Ciò avviene nella misura in cui il credente fa proprio lo Spirito di Gesù, la Sua mentalità, il Suo modo di pensare. In lui è lo Spirito di Gesù che rivolge al Padre una preghiera che non può non essere esaudita.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo:
«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”».
Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».
Mt 13, 24-43

L’Evangelista Matteo ci presenta la stessa ambientazione di domenica scorsa: Gesù è salito su di una barca e parla alla folla in parabole. Dopo aver riportato la parabola del seminatore e la relativa spiegazione, ora Gesù espone la parabola della zizzania, del granello di senape, e del lievito. Ed inizia così: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo… Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, ..
Nella prima parabola si possono distinguere tre momenti: un proprietario terriero fa seminare del buon grano nel suo campo ma successivamente un suo avversario semina nel campo della zizzania; i servi, che si sono accorti di quanto è accaduto, chiedono al padrone di poter eliminare subito la zizzania; il padrone invece dice di aspettare e di lasciar crescere insieme il buon grano e la zizzania per evitare che, togliendo questa, si danneggi anche quello; la separazione è rimandata al momento della mietitura
Anche in questa parabola si tratta della sorte del seme. Mentre in quella del seminatore la buona riuscita del raccolto viene messa a rischio dai terreni non adatti, ora l’ostacolo è la zizzania che un nemico semina in tutto il campo, proprio in mezzo al buon grano. La zizzania è in effetti un’erbaccia le cui radici, nella crescita, si intrecciano con quelle del frumento e quindi non può essere estirpata senza danneggiarlo; per questo il padrone decide di attendere la mietitura per procedere alla separazione. Il punto centrale della parabola consiste dunque nel fatto che il buon grano, pur dovendo coesistere con la zizzania, non ne viene condizionato e al momento della mietitura può essere raccolto e depositato nel granaio.
L’applicazione al regno di Dio è chiara. Gesù rivolgeva la Sua parola a tutti, compresi i peccatori, e attraverso la Sua azione, era Dio stesso che spargeva il buon seme nel cuore degli uomini. Ma non tutti accoglievano il Suo messaggio: una parte degli ascoltatori si rifiutava di convertirsi. Per i buoni c’era dunque la tentazione di separarsi e di formare un gruppo chiuso, una comunità di puri, come facevano per esempio i farisei e gli esseni di Qumran.
Gesù invece esige che i Suoi discepoli vivano insieme ai malvagi, condividendo i momenti ordinari della vita. La parabola poteva anche significare che anche all’interno del gruppo di Gesù erano presenti persone buone e altre incerte, legate a interessi diversi da quelli del regno: la presenza tra queste di Giuda ne sarà il segno più evidente.
Anche le altre parabole che Gesù propone iniziano con questa espressione: Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. …...«Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Il punto centrale di entrambe è dato dal contrasto tra un inizio modesto e un finale straordinario e grandioso. Tra esse la diversità più significativa consiste nel fatto che la prima si riferisce al lavoro dell’uomo, la seconda a quello della donna.
Nella parabola del granello di senape si sottolinea il contrasto tra la piccolezza del seme di senape e la grandezza della pianta che ne deriva. Il seme si riferisce alla predicazione e all’attività pubblica di Gesù, che sembravano infruttuose. Egli invita chi lo ascolta ad aver fiducia nella Sua opera, nonostante il suo apparente insuccesso, perché in essa è già presente e operante il regno dei cieli. Il dettaglio degli uccelli del cielo che vengono a fare il nido tra i rami del grande albero stanno a significare la totalità dei popoli che un giorno entrerà a far parte del regno di Dio (Ez 17,23; 31,6; Dn 4,9.18). Si allude così al pellegrinaggio delle genti verso la Città Santa, predetto dai profeti (V. Mt 8,11-12).
L’entusiastica adesione al vangelo di numerosi pagani costituiva certamente già per i primi cristiani un segno della potenza spirituale del vangelo e una manifestazione della regalità di Dio nel mondo, annunciata da Gesù. Lo scopo della parabola è anche quello di infondere fiducia in coloro che soffrivano per gli scandali che si presentavano e per la lentezza con cui il regno di Dio si stava manifestando.
Anche nella parabola del lievito il punto di maggior rilievo consiste nel contrasto tra la situazione iniziale della farina, nella quale una donna nasconde la sera un po’ di lievito, e l’enorme quantità di pasta lievitata che si ritrova il mattino seguente.
Il detto citato fa pensare alle usanze domestiche del tempo di Gesù in cui le donne preparavano il pane in casa. Uno staio di farina corrispondeva a circa 10 kg, la donna della parabola quindi ne ha impastata una quantità enorme, sufficiente per una cinquantina di pezzi di pane.
Nella Bibbia il lievito di solito simboleggia qualcosa di negativo, (V.Mt 16,6.12; 1 Cor 5,6.8), qui invece Gesù se ne serve per esprimere la forza trasformatrice del vangelo. Il paragone serve ad illustrare la sproporzione tra la fase iniziale piuttosto impercettibile del regno, che corrisponde al periodo della predicazione di Gesù, e quella finale nel suo compimento escatologico. Gesù rassicura così i discepoli scoraggiati, mostrando loro che Dio è sempre all’opera nella Sua missione
Il brano termina quando Gesù congedata la folla entrò in casa e i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo” Dietro richiesta dei discepoli, Gesù spiega loro la parabola della zizzania.:Il seminatore è il Figlio dell’uomo, il campo rappresenta il mondo, il buon seme sono i figli del regno, cioè tutti coloro che hanno corrisposto alla chiamata divina. La zizzania simboleggia i figli del malvagio, cioè tutti gli operatori d’iniquità; il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura si riferisce al giorno del giudizio, i mietitori sono gli angeli. i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».
Dalla parabola della zizzania emerge una lezione essenziale: bisogna nutrire la massima fiducia nell’efficacia dell’annuncio della parola di Dio, nonostante la persistenza del male nel mondo. Rientra nel piano di Dio lasciare che il bene e il male esistano l’uno accanto all’altro per un periodo indefinito, ma la separazione avrà certamente luogo alla fine.
Sforziamoci però di arrivare all’ottica di Dio, perché le Sue vie non sono le nostre vie, i Suoi giudizi non sono i nostri giudizi: Gesù, infatti, si fa amico dei pubblicani e dei peccatori, dialoga e pranza con loro così come dialoga e pranza con le persone giuste e pie. Egli spera sino all’ultimo di essere più il “medico” che il giudice. Egli sa che il dominio universale della storia rende il Signore “indulgente con tutti.,,,Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza;ci governi con molta indulgenza, perché il potere lo eserciti quando vuoi…. perché tu concedi dopo i peccati la possibilità di pentirsi” (Sap 12,16.18-19) .

*****

“L’odierna pagina evangelica propone tre parabole con le quali Gesù parla alle folle del Regno di Dio. Mi soffermo sulla prima: quella del grano buono e della zizzania, che illustra il problema del male nel mondo e mette in risalto la pazienza di Dio. Quanta pazienza ha Dio! Anche ognuno di noi può dire questo: “Quanta pazienza ha Dio con me!”. Il racconto si svolge in un campo con due opposti protagonisti. Da una parte il padrone del campo che rappresenta Dio e sparge il buon seme; dall’altra il nemico che rappresenta Satana e sparge l’erba cattiva.
Col passare del tempo, in mezzo al grano cresce anche la zizzania, e di fronte a questo fatto il padrone e i suoi servi hanno atteggiamenti diversi. I servi vorrebbero intervenire strappando la zizzania; ma il padrone, che è preoccupato soprattutto della salvezza del grano, si oppone dicendo: «Non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano». Con questa immagine, Gesù ci dice che in questo mondo il bene e il male sono talmente intrecciati, che è impossibile separarli ed estirpare tutto il male. Solo Dio può fare questo, e lo farà nel giudizio finale. Con le sue ambiguità e il suo carattere composito, la situazione presente è il campo della libertà, il campo della libertà dei cristiani, in cui si compie il difficile esercizio del discernimento fra il bene e il male.
E in questo campo si tratta dunque di congiungere, con grande fiducia in Dio e nella sua provvidenza, due atteggiamenti apparentemente contradditori: la decisione e la pazienza. La decisione è quella di voler essere buon grano - tutti lo vogliamo -, con tutte le proprie forze, e quindi prendere le distanze dal maligno e dalle sue seduzioni. La pazienza significa preferire una Chiesa che è lievito nella pasta, che non teme di sporcarsi le mani lavando i panni dei suoi figli, piuttosto che una Chiesa di “puri”, che pretende di giudicare prima del tempo chi sta nel Regno di Dio e chi no.
Il Signore, che è la Sapienza incarnata, oggi ci aiuta a comprendere che il bene e il male non si possono identificare con territori definiti o determinati gruppi umani: “Questi sono i buoni, questi sono i cattivi”. Egli ci dice che la linea di confine tra il bene e il male passa nel cuore di ogni persona, passa nel cuore di ognuno di noi, cioè: Siamo tutti peccatori. A me viene la voglia di chiedervi: “Chi non è peccatore alzi la mano”. Nessuno! Perché tutti lo siamo, siamo tutti peccatori. Gesù Cristo, con la sua morte in croce e la sua risurrezione, ci ha liberato dalla schiavitù del peccato e ci dà la grazia di camminare in una vita nuova; ma con il Battesimo ci ha dato anche la Confessione, perché abbiamo sempre bisogno di essere perdonati dai nostri peccati. Guardare sempre e soltanto il male che sta fuori di noi, significa non voler riconoscere il peccato che c’è anche in noi.
E poi Gesù ci insegna un modo diverso di guardare il campo del mondo, di osservare la realtà. Siamo chiamati a imparare i tempi di Dio - che non sono i nostri tempi - e anche lo “sguardo” di Dio: grazie all’influsso benefico di una trepidante attesa, ciò che era zizzania o sembrava zizzania, può diventare un prodotto buono. E’ la realtà della conversione. E’ la prospettiva della speranza!
Ci aiuti la Vergine Maria a cogliere nella realtà che ci circonda non soltanto la sporcizia e il male, ma anche il bene e il bello; a smascherare l’opera di Satana, ma soprattutto a confidare nell’azione di Dio che feconda la storia.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 23 luglio 2017

Pubblicato in Liturgia

Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta, hanno come filo conduttore il seme della parola di Dio – il suo potere e il terreno adatto per meglio accoglierla.
Nella prima lettura, Il profeta Isaia paragona la parola di Dio alla pioggia e la neve che scendono dal cielo per irrorare il terreno e non tornano a Lui senza aver compiuto loro missione. La parola uscita dalla bocca e dal cuore di Dio realizza sempre quello che annuncia.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo afferma che Gesù ha portato nel mondo la salvezza, non solo agli uomini , ma a tutta la creazione. Anch’essa perciò attende con ansia il compimento finale della salvezza.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù racconta la parabola del seminatore. Il seme è la parola di Dio che viene predicata con abbondanza, per poter raggiungere ogni tipo di terreno. Ci vogliono però delle particolari condizioni per poter far crescere questo seme e garantirne il frutto.

Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore:
«Come la pioggia e la neve scendono dal cielo
e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare,
perché dia il seme a chi semina
e il pane a chi mangia,
così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:
non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero
e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».
Is 55,10-11

Questo brano fa parte dei testi (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Forse era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che dalla sue profezie prendono speranza.
Era accaduto che a partire dal 550 a.C. un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re, Ciro, (590-530 a.C.) in pochi anni sottomisero l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, Ciro sembrò come un liberatore. Da allora nella comunità degli Ebrei esiliati si videro apparire racconti, oracoli, canti che esaltavano l’opera di Dio nella storia del mondo. Era finito il tempo in cui dominavano gli idoli, il vero Dio, il solo Dio apparve loro il padrone degli avvenimenti che agiva per la liberazione e la salvezza del suo popolo.
Con la caduta di Babilonia nel 539, Ciro con un editto autorizzò gli Israeliti, nel 538 non solo di fare ritorno in patria, ma di ricostruire il tempio di Gerusalemme. In questo modo il sovrano ottenne anche il controllo dell'area fenicio-palestinese. Si pensò persino che Ciro fosse l’inviato del Signore, un messia, un uomo di Dio, che avrebbe realizzato ovunque la pace. Ma per quanto Ciro fosse una figura gloriosa della storia, l’inviato di Dio sarebbe arrivato secoli dopo sotto spoglie più umili, quelle di un Giusto, che espia nel dolore le colpe degli uomini.
In questo brano c’è un’unica frase che contiene un paragone tra ciò che avviene nella natura e l’attuazione della Parola divina: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia”
In questa descrizione, ricavata dall’esperienza agricola, quello su cui si fa leva è l’efficacia dell’acqua che, sotto forma di pioggia o di neve, non scende mai sulla terra senza fecondarla, facendole produrre il frumento che l’agricoltore utilizzerà sia come seme sia per la semina dell’anno successivo, sia per fare il pane che serve al nutrimento della sua famiglia.
“così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”.
La parola divina avrà dunque la stessa efficacia dell’acqua che scende sui campi: una volta che è pronunziata essa non può rimanere senza effetto, cioè senza attuare la volontà divina in essa formulata.
Si può notare che al delicato paragone della Parola con la pioggia ristoratrice, in Geremia (23,29) il paragone si sostituisce con il fuoco e il martello “La mia parola non è forse come il fuoco e come un martello che spacca la roccia?” mentre nella lettera agli Ebrei (4,12) si ha una metafora ancora più forte “la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore.”

Salmo 64 Tu visiti la terra, Signore, e benedici i suoi germogli.
Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi di ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu prepari il frumento per gli uomini.

Così prepari la terra:
ne irrighi i solchi, ne spiani le zolle,
la bagni con le piogge
e benedici i suoi germogli.

Coroni l’anno con i tuoi benefici,
i tuoi solchi stillano abbondanza.
Stillano i pascoli del deserto
e le colline si cingono di esultanza.

I prati si coprono di greggi,
le valli si ammantano di messi:
gridano e cantano di gioia!

Il salmo è un inno di lode e di ringraziamento a Dio composto in occasione di un pellegrinaggio a Gerusalemme per l’annuale celebrazione della Pasqua Cf. Lv 23,5s). Il tempio è la meta di arrivo: “Ci sazieremo dei beni della tua casa, delle cose sacre del tuo tempio”.
Il salmo ha un grande respiro universalistico presentando Dio non solo quale salvezza di Israele, ma quale fiducia di tutte le genti, poiché gli uomini tendono nella preghiera al “Dio ignoto” (At 17,23), di cui ne colgono l'esistenza e la bontà: “Fiducia degli estremi confini della terra e dei mari lontani”. “I mari lontani” non sono solo distese di acqua, ma sono mari con isole (Cf. Ps 96,1).
Il salmista conosce il valore di incontro con Dio che il tempio offre, perciò prova una santa invidia per coloro che hanno un’opportunità costante di frequentarlo; cioè coloro che sono diventati gli abitanti di Gerusalemme: “Beato chi hai scelto perché ti stia vicino: abiterà nei tuoi atri”. Il tempio è quello eretto da Salomone poiché il salmo dice come Dio abbia fermato e fermi il tumulto dei popoli: è tempo di pace, di libertà, il momento del massimo splendore di Israele. Dio è in pace col suo popolo: “Tu visiti la terra e la disseti, la ricolmi di ricchezze. Il fiume di Dio è gonfio di acque; tu prepari il frumento per gli uomini”. “Il fiume di Dio” è, con immagine poetica, il calare dell’acqua dal cielo; è la pioggia (Cf. Ps 103,3).
Questo salmo noi lo recitiamo in Cristo, così la casa del Signore è la chiesa dove è presente l’Eucaristia. Ed è beato chi ha lasciato tutto per seguire più da vicino il Signore poiché può “abitare nei suoi atrii”.
“In Sion”, nelle chiese, deve sempre innalzarsi la lode e i ringraziamento per la salvezza ricevuta in Cristo, per la sua presenza sull’altare. I voti, che uno puo’ aver fatto, di maggior partecipazione alla vita ecclesiale, apostolica, trovano il momento del loro scioglimento, o meglio la forza per essere adempiuti, nella partecipazione viva all’Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
Rm 8,18-23

Paolo, continuando la sua lettera ai Romani, dopo aver mostrato nella parte precedente come la giustificazione mediante la fede, abbia aperto la strada a una vita nuova, ora sviluppa alcune intuizioni, che aveva già anticipato precedentemente, mostrando anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato. Qui afferma che : “le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi.“
L’apostolo in un’altra lettera aveva osservato che ”il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria (2Cor 4,17). Qui sottolinea che le sofferenze a cui i credenti sono sottoposti nella vita terrena non sono nulla di fronte alla gloria che Dio ha riservato per loro. Naturalmente questa gloria, che un giorno sarà rivelata in essi da Dio, appartiene a loro già fin d’ora, ma in modo ancora nascosto agli occhi della gente.
“La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.”
L’apostolo intravede quindi per tutte le creature non solo la liberazione dal peccato al quale sono state sottomesse, ma una vera e propria trasformazione, che le metterà in sintonia con la nuova condizione dei redenti. La liberazione delle creature infatti è orientata verso la “libertà della gloria” (che sarà propria) “dei figli di Dio”. Paolo qui sembra che pensi a un nuovo Eden nel quale l’universo, completamente rinnovato, sarà in piena sintonia con l’uomo glorificato.
“Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.”
L’attesa del creato viene paragonata da Paolo a quella di una donna incinta che geme e soffre le doglie del parto “fino ad oggi” Si tratta quindi di un’attesa molto lunga, che è già cominciata nel momento della prima caduta.
“Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”.
Insieme alla creazione anche noi credenti “gemiamo interiormente “(in noi stessi), aspettando ancora “l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”. In altre parole noi possiedono già lo Spirito, ma in modo ancora parziale e provvisorio, e attendiamo con impazienza ciò che si manifesterà in tutte le sue potenzialità (V. 1Gv 3,2) mediante la risurrezione dei corpi.
Nei successivi vv. 24-25 (non riportati nel brano liturgico), Paolo conclude che anche i credenti, come tutto il creato, sono stati salvati “nella speranza”. Il concetto stesso di speranza esige che quanto si spera non sia ancora visto, perché in questo caso non sarebbe più oggetto di speranza. Ma proprio perché si spera in ciò che non si vede, si è capaci di attenderlo con pazienza, cioè senza venir meno di fronte alle prove della vita.

Dal vangelo secondo Matteo
Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole.
E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice:
“Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca!”.
Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».
Mt 13, 1-23

L’Evangelista Matteo ci riporta in questo brano la prima di una serie di parabole raccolte in un intero capitolo e tutte queste parabole hanno come tema il mistero del regno dei cieli. Quasi tutte si ispirano al tema del seme, della semina e della mietitura. Un'altra caratteristica di questo capitolo è che per le prime due parabole (quella del seminatore e quella della zizzania) vi è una netta separazione tra i discepoli e le folle: le parabole sono per le folle ma la loro spiegazione è riservata unicamente ai discepoli. Le ultime cinque parabole invece non hanno alcuna spiegazione.
Il brano inizia riportando che Gesù uscì di casa, in cui aveva ricevuto poco prima la visita di sua madre e dei suoi fratelli, e si reca presso il lago di Genesaret, o lago di Tiberiade. e sedette in riva al mare.
E' la prima volta che Matteo parla in modo chiaro della casa abitata da Gesù (si tratta in effetti della casa di Pietro a Cafarnao). Tutto questo capitolo si muove tra la casa e il mare. Gesù, uscito dalla casa si siede lungo il mare, si siede per insegnare come un Rabbi. Ma il discorso che egli fa, non è un insegnamento tipico, ma piuttosto un annuncio, una predicazione.
“Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia”.Dalla spiaggia Gesù si trasferisce sulla barca, dalla quale poteva essere ascoltato e visto meglio dalla folla che si era radunata.
“Egli parlò loro di molte cose con parabole.” Con il termine "molte cose" si può anche intendere che parlò loro a lungo. La parabola indica normalmente un paragone, una similitudine, qualche volta un po' enigmatica, con la realtà naturale o sociale, che serve ad illustrare in modo velato, un po' misterioso, una realtà che non è dell'ordine naturale, come appunto il regno di Dio.
“E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare”.
Nonostante lo spreco e l'insuccesso possiamo constatare che questo seminatore riesce comunque a ottenere un raccolto straordinario. Non viene spiegato chi sia, ma la circostanza lascia facilmente pensare che Gesù stia parlando proprio di se stesso, è Lui che semina la "parola del regno". In un certo senso è una parabola in via di realizzazione e si può dire dire che Gesù spiega quello che succede nel momento stesso in cui sta parlando.
“Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno”.
Ci può sembrare un po’ strano questo modo di seminare, ma è da tener presente che in Palestina la semina precede l'aratura: si poteva seminare un po' dovunque, tanto poi si sarebbe passati con l'aratro! Ma la parabola però non parla di nessuna aratura! Gli elementi ricordati nella parabola sono tipici dell'agricoltura palestinese: il terreno è sempre più sassoso del nostro, le spine servivano da siepi di recinzione, i sentieri dei campi venivano arati. Però non ci si può fermare troppo ai particolari della parabola, ciò che conta è il suo significato E’ evidente anche che una spiga che produce cento grani è una vera e propria esagerazione.
“Chi ha orecchi, ascolti”.
Ossia chi ha orecchi, cioè capacità di comprendere attentamente, si metta in ascolto e cerchi di capire!
“Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato”.
Qui come si è visto precedentemente (Mt 12,46-50), vi è una distinzione tra le folle e i discepoli. Alle folle Gesù parla in parabole, mentre ai discepoli, in disparte, spiega i misteri del regno dei cieli.
Il termine ”misteri” non si trova nei vangeli, eccetto che in questa occasione e qui sta a significare ‘segreto', qualcosa che viene svelato ad alcuni e che essi possono rivelare ad altri. Per Matteo invece vi sono più "segreti" legati al regno: il regno è fatto di un insieme di cose misteriose e umanamente inspiegabili.
“Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha”.
Uno di questi segreti è il fatto che ad alcuni sia dato conoscere e ad altri invece sia negato: agli uni il regno si rivela, agli altri invece si nasconde. “A chi ha sarà dato..." è un principio tratto dalla vita economica: il capitale dell'uomo ricco produce interessi, mentre il povero che non ha da investire, impoverisce sempre di più. Le parabole hanno precisamente questo doppio effetto: aggiungono e tolgono. Più uno già sa, più è in grado di aggiungere conoscenze al suo sapere.
“Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono”.
Nelle folle c’è già di per sé una certa incomprensione e non è originata dal linguaggio parabolico di Gesù, che non fa altro che renderla più evidente. Comunque sia dobbiamo ammettere che c’è un paradosso in questa affermazione.
“Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”.
Il testo di Isaia, che è uno dei più citati nel Nuovo Testamento, serve a spiegare l'insuccesso della predicazione di Gesù, come già quella di Isaia stesso: non si tratta di un giudizio di condanna.
“Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!” Dopo le enigmatiche parole di Isaia, Matteo riporta delle parole di approvazione rivolte da Gesù ai suoi discepoli. La comprensione è un dono gratuito, tanti uomini giusti del passato non hanno potuto vedere e ascoltare quello che invece oggi i discepoli possono vedere e udire.
“Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore”.
Voi dunque che potete capire e non avete il cuore indurito, ascoltate la spiegazione della parabola. Essa viene chiamata la parabola del seminatore, ma la si può chiamare anche "dei quattro terreni".
“Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada”
I quattro tipi di terreni possono corrispondere a diverse persone oppure sempre alla stessa persona in momenti diversi della propria vita. Il primo terreno corrisponde alla semente gettata lungo la strada e su questo terreno il seme non ha neppure il tempo di germogliare perché arriva il Maligno . Il termine “maligno", è un’espressione tipica di Matteo e Giovanni, che si collega all’impulso cattivo che lotta con quello buono nel cuore dell'uomo.
“Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada
I quattro tipi di terreni possono corrispondere a diverse persone oppure sempre alla stessa persona in momenti diversi della propria vita. Il primo terreno corrisponde alla semente gettata lungo la strada e su questo terreno il seme non ha neppure il tempo di germogliare perché arriva il Maligno . Il termine “maligno", è un’espressione tipica di Matteo e Giovanni, che si collega all’impulso cattivo che lotta con quello buono nel cuore dell'uomo.
“Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno”.
Il secondo terreno corrisponde al seme gettato sui terreni pietrosi, che lasciano spuntare solo qualche germoglio debole, rivelano gli incostanti, i fragili, i deboli, che nel momento della prova non sono in grado di superarla.
“Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto”
Il terzo terreno è quello infestato da spine, che sono l’emblema dei superficiali, degli instabili legati ai miti del facile benessere e dell’orgoglio.
“Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno”
Il quarto terreno è quello che dà frutto, ma in proporzioni diverse (cento, sessanta, trenta). Uno studioso ha paragonato questi tre rendimenti con l'osservanza del triplice comandamento che gli ebrei ripetevano ogni giorno nella loro preghiera quotidiana: “Ascolta Israele, amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza”. Nella comune interpretazione rabbinica "con tutta l'anima" significa "perfino se egli ti strappa l'anima", cioè fino al martirio; mentre "con tutta la forza" significa "con tutte le tue ricchezze“.
Quelli che producono il cento sono coloro che hanno un cuore talmente obbediente da sacrificare non solo la loro proprietà , ma anche la cosa più preziosa di tutte, la loro vita, cioè i martiri.
Quelli che producono il sessanta hanno un cuore obbediente e danno via i loro averi, ma non si trovano nell'occasione di dare le loro vite a causa della parola.
Quelli che producono il trenta hanno pure un cuore obbediente e indiviso, ma non si trovano nell'occasione di offrire, per amore di Dio, né la loro vita né la loro proprietà.
Gesù, spiegando la parabola ai suoi discepoli non dice chi sia il seminatore, ma chiarisce solo come l’accoglienza della sua “Parola” (il seme) possa cambiare il cuore di chi l’ascolta. È il cuore il luogo dove viene accettata o rifiutata la salvezza, che dipende solo dalla libera responsabilità umana. Auguriamoci di essere terreni fertili e fruttuosi per la parola di Dio che riceviamo così saremo tra coloro che il Signore Gesù ha detto: “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano”.

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“Gesù, quando parlava, usava un linguaggio semplice e si serviva anche di immagini, che erano esempi tratti dalla vita quotidiana, in modo da poter essere compreso facilmente da tutti. Per questo lo ascoltavano volentieri e apprezzavano il suo messaggio che arrivava dritto nel loro cuore; e non era quel linguaggio complicato da comprendere, quello che usavano i dottori della Legge del tempo, che non si capiva bene ma che era pieno di rigidità e allontanava la gente. E con questo linguaggio Gesù faceva capire il mistero del Regno di Dio; non era una teologia complicata. E un esempio è quello che oggi porta il Vangelo: la parabola del seminatore.
Il seminatore è Gesù. Notiamo che, con questa immagine, Egli si presenta come uno che non si impone, ma si propone; non ci attira conquistandoci, ma donandosi: butta il seme. Egli sparge con pazienza e generosità la sua Parola, che non è una gabbia o una trappola, ma un seme che può portare frutto. E come può portare frutto? Se noi lo accogliamo.
Perciò la parabola riguarda soprattutto noi: parla infatti del terreno più che del seminatore. Gesù effettua, per così dire, una “radiografia spirituale” del nostro cuore, che è il terreno sul quale cade il seme della Parola. Il nostro cuore, come un terreno, può essere buono e allora la Parola porta frutto – e tanto – ma può essere anche duro, impermeabile. Ciò avviene quando sentiamo la Parola, ma essa ci rimbalza addosso, proprio come su una strada: non entra.
Tra il terreno buono e la strada, l’asfalto – se noi buttiamo un seme sui “sanpietrini” non cresce niente – ci sono però due terreni intermedi che, in diverse misure, possiamo avere in noi. Il primo, dice Gesù, è quello sassoso. Proviamo a immaginarlo: un terreno sassoso è un terreno «dove non c’è molta terra» , per cui il seme germoglia, ma non riesce a mettere radici profonde. Così è il cuore superficiale, che accoglie il Signore, vuole pregare, amare e testimoniare, ma non persevera, si stanca e non “decolla” mai. È un cuore senza spessore, dove i sassi della pigrizia prevalgono sulla terra buona, dove l’amore è incostante e passeggero. Ma chi accoglie il Signore solo quando gli va, non porta frutto.
C’è poi l’ultimo terreno, quello spinoso, pieno di rovi che soffocano le piante buone. Che cosa rappresentano questi rovi? «La preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza», così dice Gesù, esplicitamente. I rovi sono i vizi che fanno a pugni con Dio, che ne soffocano la presenza: anzitutto gli idoli della ricchezza mondana, il vivere avidamente, per sé stessi, per l’avere e per il potere. Se coltiviamo questi rovi, soffochiamo la crescita di Dio in noi. Ciascuno può riconoscere i suoi piccoli o grandi rovi, i vizi che abitano nel suo cuore, quegli arbusti più o meno radicati che non piacciono a Dio e impediscono di avere il cuore pulito. Occorre strapparli via, altrimenti la Parola non porterà frutto, il seme non si svilupperà.
Cari fratelli e sorelle, Gesù ci invita oggi a guardarci dentro: a ringraziare per il nostro terreno buono e a lavorare sui terreni non ancora buoni. Chiediamoci se il nostro cuore è aperto ad accogliere con fede il seme della Parola di Dio. Chiediamoci se i nostri sassi della pigrizia sono ancora numerosi e grandi; individuiamo e chiamiamo per nome i rovi dei vizi. Troviamo il coraggio di fare una bella bonifica del terreno, una bella bonifica del nostro cuore, portando al Signore nella Confessione e nella preghiera i nostri sassi e i nostri rovi. Così facendo, Gesù, buon seminatore, sarà felice di compiere un lavoro aggiuntivo: purificare il nostro cuore, togliendo i sassi e le spine che soffocano la Parola.
La Madre di Dio, che oggi ricordiamo col titolo di Beata Vergine del monte Carmelo, insuperabile nell’accogliere la Parola di Dio e nel metterla in pratica (cfr Lc 8,21), ci aiuti a purificare il cuore e a custodirvi la presenza del Signore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 16 luglio 2017

Pubblicato in Liturgia

Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta, si può dire che sono un concentrato di paradossi e il paradosso più grande lo incontriamo
nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Zaccaria, in cui il re messianico appare in atteggiamento mite ed umile, evidenziato dal fatto che cavalca un asinello e non un cavallo da guerra. Egli è re di pace che spezza i simboli e gli strumenti di guerra. E’ il paradosso di un re umile eppure dominatore del mondo.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo sottolinea come la libertà ottenuta in Cristo fa sì che il principio di azione dominante in noi non sia più il peccato, ma lo spirito che dà vita.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù benedice e ringrazia il Padre che ha scelto di rivelare ai piccoli e agli umili i segreti dei suo cuore, mentre li ha tenuti nascosti ai sapienti e agli intelligenti. Poi fa un invito che è un vero e proprio programma di vita per ogni cristiano: Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Gesù chiama alla sua libertà, ad un incondizionato attaccamento a lui, al suo giogo, che è il solo a poter rendere tutto leggero, perché si presenta umile davanti a Dio e mite con gli uomini.

Dal libro del profeta Zaccaria
Così dice il Signore:
«Esulta grandemente, figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina.
Farà sparire il carro da guerra da Èfraim
e il cavallo da Gerusalemme,
l’arco di guerra sarà spezzato,
annuncerà la pace alle nazioni,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal Fiume fino ai confini della terra».
Za 9, 9-10

Il profeta Zaccaria, vissuto intorno al 500 a.C., undicesimo dei 12 profeti minori, i cui scritti chiudono l'Antico Testamento, si impegnò a sostenere con la parola di Dio gli Israeliti, rientrati a Gerusalemme dopo l'esilio di Babilonia, delusi per la mancanza di segni della benedizione divina per le dure prove sostenute. Il libro, che porta il suo nome, si divide in due sezioni, di cui solo la prima (cc. 1-8) raccoglie gli oracoli di questo profeta.
La seconda sezione (cc. 9-14), diversa dalla prima per stile e contenuto, attribuita ad un autore anonimo del tempo di Alessandro Magno, a sua volta si divide in tre parti: nella prima parte si annunzia la venuta del regno di Dio, che coincide con il raduno dei giudei dispersi e con la caduta dei regni di questo mondo (9,1-11,3); nella seconda (cc.11,4-14,21) si parla della liberazione di Gerusalemme mediante la sofferenza dei suoi rappresentanti, il buon pastore (cc-11,4-16; 13,7-9) e colui che è stato trafitto (cc.12,10-14); nella terza infine si annunzia che JHWH combatterà contro le nazioni e stabilirà su tutto il mondo la sua regalità (cc.14,1-21).
Il brano che abbiamo si apre con un invito alla gioia: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme!” rivolto agli abitanti di Gerusalemme. L’espressione “figlia di Sion” come la successiva “figlia di Gerusalemme” è un semitismo per indicare gli appartenenti alla collina di Sion, cioè gli abitanti di Gerusalemme.
Il motivo del giubilo viene indicato subito dopo con questa espressione: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”.
La particella “Ecco” indica che l’evento di cui si sta per parlare è imminente e l’espressione “a te viene il tuo re” indica che l’evento in questione è la venuta a Gerusalemme del Messia. Il Messia non sarà solo giusto, ma anche “vittorioso” ed umile. Egli “cavalca un asino”: mentre guerrieri forti e valorosi manifestano la loro dignità servendosi di cavalli, egli mostra la sua umiltà e mitezza cavalcando un asinello!
A questo re, che entra trionfalmente in Gerusalemme, vengono attribuite due azioni: prima di tutto egli “Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme”. Il nome Efraim è quello di uno dei due figli di Giuseppe e indica la tribù maggioritaria del Nord e quindi tutto il regno di Israele in contrasto con il regno di Giuda, indicato con il nome della sua capitale, Gerusalemme.
Sia in Israele che in Giuda egli farà dunque sparire tutti gli strumenti di guerra. Ciò significa che nell’era messianica non vi sarà più divisione fra il regno di Israele e quello di Giuda e il re messianico regnerà quindi su tutto Israele. . Oltre a far scomparire carri da guerra e cavalli, il re spezzerà per sempre l’arco, l’arma ordinaria in dotazione all’esercito di Israele.
Questo Messia dunque eliminerà la guerra per sempre! Si afferma ancora che il Messia “annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra”.
La missione principale del Messia sarà quella di proclamare la pacificazione fra i popoli, come già avevano annunziato Isaia (Is 11,6) e Osea (Os 2,20). La sua missione pacificatrice si estenderà da un mare, il Mediterraneo, a un altro mare, il golfo Persico, e dal fiume, il Nilo, sino ai confini della terra: tutte e quattro le indicazioni geografiche, che ritornano anche nel Salmo 72,8, indicano simbolicamente l’universalità del regno messianico.
In questo brano si preannunzia in calde note la venuta del “Re Messia“ che è presentato come una persona giusta e mite. Ciò che lo caratterizza non è tanto la vittoria sui nemici, quanto piuttosto la capacità di dare una salvezza che consiste, non nel reprimere la violenza con la violenza, ma nel creare rapporti nuovi tra le nazioni e gli individui. Di conseguenza la pace che egli porta, elimina alla radice la possibilità stessa di nuove violenze. Mediante la sua umiltà, e non violenza, il Messia descritto da Zaccaria manifesta la vera immagine di Dio, che attua la Sua salvezza non mediante il ricorso a minacce e castighi, ma toccando il cuore delle persone.

Salmo 144 - Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.

O Dio, mio re, voglio esaltarti
e benedire il tuo nome in eterno e per sempre.
Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza.

Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano in questa composizione, che tuttavia risulta bellissima nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode.
Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C. .Esso inizia rivolgendosi a Dio quale re:
“O Dio, mio re, voglio esaltarti (...) in eterno e per sempre”. “In eterno e per sempre”, indica in modo incessante e continuativo nel tempo. Segue uno sguardo su come la trasmissione, di generazione in generazione, delle opere di Dio non sia sentita solo come fatto prescritto (Cf. Es 13,14), ma come gioia di comunicazione, poiché le opere di Dio sono affascinanti: “Il glorioso splendore della tua maestà e le tue meraviglie voglio meditare. Parlino della tua terribile potenza: anch’io voglio raccontare la tua grandezza. Diffondano il ricordo della tua bontà immensa, acclamino la tua giustizia".
Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate (Cf. Ps 148). Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore.
La lode a Dio sul labbro dei fedeli diventa annuncio a tutti gli uomini: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno”. “Il regno” (malkut) è Israele e le “imprese” sono quelle della liberazione dall'Egitto, ecc. Terminata la successione monarchica dopo la deportazione a Babilonia, Israele, pur senza scartare minimamente la tensione verso il futuro re, il Messia, si collegò alla tradizione premonarchica dove il re era unicamente Dio. Nel libro dell'Esodo si parla di Israele come regno (19,6): “Un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Israele come regno di Dio si manifesta in modo evidente mediante l'osservanza della legge data sul Sinai; ma Israele non è solo suddito di Dio, ma anche figlio (Cf. Es 4,22).
Il salmista continua a celebrare la bontà di Dio verso gli uomini: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie (...). Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge tutti i malvagi”.
Il salmista termina la sua composizione esortandosi alla lode a Dio e invitando, in una visione universale, “ogni vivente” a benedirlo: “Canti la mia bocca la lode del Signore e benedica ogni vivente il suo santo nome, in eterno e per sempre”. “Ogni vivente”; anche gli animali, le piante - ovviamente a loro modo - celebrano la gloria di Dio (Cf. Ps 148,9-10).
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete.
Rm 8, 9. 11-13

Continuando la sua lettera ai Romani, Paolo affronta il tema della vita nuova che si apre a colui che è diventato giusto mediante la fede. A tal fine egli riprende e rielabora alcune delle intuizioni che aveva già anticipato precedentemente.
In questo brano invita i Romani allora, e anche noi oggi, a considerare fino in fondo la nuova situazione in cui si trovano: “voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene”. Lo Spirito di Dio quindi non è altro che lo Spirito di Cristo, perciò proprio in forza dello Spirito che è in loro appartengono a Cristo.
Poi prosegue: “E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”. In altre parole lo stesso Spirito, mediante il quale Dio ha risuscitato Gesù dai morti, darà una nuova vita anche a coloro nei quali, in forza della giustificazione, è venuto ad abitare.
L’apostolo poi conclude il suo pensiero: “Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete”
Egli ricorda così che, se si vive secondo la carne,(ossia secondo la mentalità del mondo) si andrà incontro alla morte; ma se con l’aiuto dello Spirito si fanno morire le opere del mondo, si vivrà.
Lo Spirito dà dunque la vera vita all’uomo, in quanto gli permette di liberarsi dai condizionamenti della carne (ossia del mondo) cioè di evitare il peccato che porta inevitabilmente alla morte.
Questa tesi, affermata con grande forza da Paolo contro tutte le accuse che gli venivano fatte dai suoi avversari, mette chiaramente in luce la dignità della persona umana.
All’uomo, in quanto creatura dotata di ragione e di libertà, non conviene un agire imposto da una legge esterna, da una legge dettata da un relativismo sempre più pressante. L’uomo deve poter agire per una spinta interiore, che lo orienti al bene pur lasciandolo libero di fare le sue scelte. Lo Spirito svolge questo compito, in quando rendendo viva l’esperienza di Cristo nel suo cuore, può muovere l’uomo dall’interno e al tempo stesso garantisce la sua libertà.
Lo Spirito dunque è una forza piena di dinamismo, che fa tendere alla piena partecipazione alla vita di Cristo, alla resurrezione, dato che la risurrezione di Cristo è strettamente legata alla nostra. Ma questa realtà , che è operata in noi dallo dono dello Spirito, rimane sempre una nostra scelta libera che si ripropone ogni giorno.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Mt 11, 25-30

Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte della “sezione narrativa” che si era aperta con le domande fatte a Gesù da parte di due discepoli di Giovanni il Battista, poi c’è l’elogio che Gesù fa del Battista a cui segue un giudizio di Gesù sul Battista: “… tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista…” ; .
L’inno che Gesù proclama in questo brano è stato definito “una gemma giovannea” incastonata nel Vangelo di Matteo. Lo stile solenne, la tonalità intensa, la ricchezza teologica accostano infatti questa “benedizione” alla grandiosa preghiera sacerdotale con cui Gesù chiude nel Vangelo di Giovanni il testamento dedicato ai suoi discepoli nell’ultima sera della Sua vita terrena.
Per comprendere meglio questo inno è importante capire in quale contesto è stato pronunciato.
Nel paragrafo precedente Matteo ha descritto il rifiuto che Gesù subisce da parte delle autorità delle città di Tiberiade, Corazin, Betsàida., Cafarnao, indifferenti alla Sua parola e alla Sua azione.
Gesù qui dichiara “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.”
Gesù ringrazia il Padre perché dal mistero del regno di Dio, cioè dal progetto di salvezza che Dio sta attuando attraverso di Lui, Suo figlio, è caduto il velo, e gli occhi non altezzosi, non pieni di sé dei poveri e degli umili, possono contemplare il “Signore del cielo e della terra”. I sapienti, gli intelligenti orgogliosi hanno invece occhi spenti, offuscati dai loro pregiudizi, che vedono in Gesù solo un modesto predicatore di Nazareth, figlio di un carpentiere, degno solo di ironia.
Poi Gesù fa l’invito consolante: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”.
Gesù così invita tutti coloro che si sentono affaticati e gravati dalle prescrizioni giudaiche, a mettersi alla sua sequela, E’ interessante notare che l’immagine del “giogo” era usata nella tradizione giudaica per indicare la Legge e le sue esigenze, imposte dal Signore ad Israele. Gesù ripropone questo simbolo ma lo spoglia del suo aspetto di imposizione e lo presenta con una dimensione più “dolce” , ma non per questo meno esigente. Infatti la totalità degli molteplici impegni della religione e della morale è sintetizzata in un unico totalizzante impegno, il “giogo” dell’amore.
La relazione con Dio non è più regolata da un freddo dovere o dalla paura del giudizio, è invece fondata sull’amore filiale e spontaneo ed è per questo molto più esigente e piena . La comunità dei “piccoli” che ha scoperto i misteri del Regno deve allora avviarsi su questa strada di luce e come dice il profeta Geremia, “strada buona e prendendola troveremo pace per le nostre anime”.Ger 6,16

 

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“Nel Vangelo di oggi Gesù dice: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro»
Il Signore non riserva questa frase a qualcuno dei suoi amici, no, la rivolge a “tutti” coloro che sono stanchi e oppressi dalla vita. E chi può sentirsi escluso da questo invito? Il Signore sa quanto la vita può essere pesante. Sa che molte cose affaticano il cuore: delusioni e ferite del passato, pesi da portare e torti da sopportare nel presente, incertezze e preoccupazioni per il futuro.
Di fronte a tutto questo, la prima parola di Gesù è un invito, un invito a muoversi e reagire: “Venite”. Lo sbaglio, quando le cose vanno male, è restare dove si è, coricato lì. Sembra evidente, ma quanto è difficile reagire e aprirsi! Non è facile. Nei momenti bui viene naturale stare con se stessi, rimuginare su quanto è ingiusta la vita, su quanto sono ingrati gli altri e com’è cattivo il mondo, e così via. Tutti lo sappiamo. Alcune volte abbiamo subito questa brutta esperienza. Ma così, chiusi dentro di noi, vediamo tutto nero. Allora si arriva persino a familiarizzare con la tristezza, che diventa di casa: quella tristezza ci prostra, è una cosa brutta questa tristezza. Gesù invece vuole tirarci fuori da queste “sabbie mobili” e perciò dice a ciascuno: “Vieni!” – “Chi?” - “Tu, tu, tu…”. La via di uscita è nella relazione, nel tendere la mano e nell’alzare lo sguardo verso chi ci ama davvero.
Infatti uscire da sé non basta, bisogna sapere dove andare. Perché tante mete sono illusorie: promettono ristoro e distraggono solo un poco, assicurano pace e danno divertimento, lasciando poi nella solitudine di prima, sono “fuochi d’artificio”. Per questo Gesù indica dove andare: “Venite a me”. E tante volte, di fronte a un peso della vita o a una situazione che ci addolora, proviamo a parlarne con qualcuno che ci ascolti, con un amico, con un esperto… È un gran bene fare questo, ma non dimentichiamo Gesù! Non dimentichiamo di aprirci a Lui e di raccontargli la vita, di affidargli le persone e le situazioni. Forse ci sono delle “zone” della nostra vita che mai abbiamo aperto a Lui e che sono rimaste oscure, perché non hanno mai visto la luce del Signore. Ognuno di noi ha la propria storia. E se qualcuno ha questa zona oscura, cercate Gesù, andate da un missionario della misericordia, andate da un prete, andate… Ma andate a Gesù, e raccontate questo a Gesù. Oggi Egli dice a ciascuno: “Coraggio, non arrenderti ai pesi della vita, non chiuderti di fronte alle paure e ai peccati, ma vieni a me!”.
Egli ci aspetta, ci aspetta sempre, non per risolverci magicamente i problemi, ma per renderci forti nei nostri problemi. Gesù non ci leva i pesi dalla vita, ma l’angoscia dal cuore; non ci toglie la croce, ma la porta con noi. E con Lui ogni peso diventa leggero, perché Lui è il ristoro che cerchiamo.
Quando nella vita entra Gesù, arriva la pace, quella che rimane anche nelle prove, nelle sofferenze.
Andiamo a Gesù, diamogli il nostro tempo, incontriamolo ogni giorno nella preghiera, in un dialogo fiducioso, personale; familiarizziamo con la sua Parola, riscopriamo senza paura il suo perdono, sfamiamoci del suo Pane di vita: ci sentiremo amati, ci sentiremo consolati da Lui.È Lui stesso che ce lo chiede, quasi insistendo. Lo ripete ancora alla fine del Vangelo di oggi: «Imparate da me […] e troverete ristoro per la vostra vita». E così, impariamo ad andare da Gesù e, mentre nei mesi estivi cercheremo un po’ di riposo da ciò che affatica il corpo, non dimentichiamo di trovare il ristoro vero nel Signore.
Ci aiuti in questo la Vergine Maria nostra Madre, che sempre si prende cura di noi quando siamo stanchi e oppressi e ci accompagna da Gesù. ..”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 9 luglio 2017

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci presentano due temi: le condizioni di seguire Gesù, e il tema dell’accoglienza e dell’ospitalità.
Nella prima lettura, tratta dal II libro dei Re, ci viene narrata una storia edificante che dimostra come l’ospitalità data ad un inviato del Signore, è una benedizione. La donna sunammita riceve il profeta Eliseo perchè riconosce in lui un uomo di Dio e Dio la benedice dimostrandosi donatore di vita.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S. Paolo ai Romani, l’apostolo basandosi sul rito del battesimo spiega il suo significato sacramentale. Ora se il segno sacramentale è segno efficace , le conseguenze pratiche sono inevitabili. Fondato su questa fede il cristiano deve considerarsi come Cristo morto al peccato una volta per sempre, per vivere per Dio , in Cristo, cioè come figlio di Dio.
Nel brano tratto dal Vangelo secondo Matteo, leggiamo che non si può anteporre niente e nessuno a Gesù e chi non prende la propria croce e non lo segue, non è degno di Lui.. Deve entrare nel nostro cuore il concetto che l’amore per Gesù non esclude gli altri amori, ma nella totale appartenenza a Lui, che è il compendio di ogni amore, potremo fare ordine nella nostra vita ed amare nel giusto amore tutti i nostri cari: genitori, coniugi,figli, parenti,amici, tutti coloro che possiamo avvicinare.

Dal secondo libro dei Re
Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era un’illustre donna, che lo trattenne a mangiare. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei.Ella disse al marito: «Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare».
Un giorno che passò di lì, si ritirò nella stanza superiore e si coricò.
Egli disse a Giezi, suo servo: «Chiama questa Sunammita». La chiamò e lei si presentò a lui. Eliseo (disse a Giezi, suo servo) «Che cosa si può fare per lei?». Giezi disse: «Purtroppo lei non ha un figlio e suo marito è vecchio».
Eliseo disse:«Chiamala!». La chiamò; ella si fermò sulla porta. Allora disse: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia».
2Re 4,8-11.14-16

Il Secondo libro dei Re, insieme al primo, in origine formavano un unico libro. Entrambi fanno parte dei Libri storici per il canone cristiano e dei cosiddetti “profeti anteriori‘” per il canone ebraico. E’ stato composto, secondo alcuni studiosi, intorno al VI secolo a.C. dallo stesso autore che ha scritto il libro del Deuteronomio; per questo lo si definisce autore ''Deuteronomista'‘. Per ricostruire le vicende dei due regni di Israele, egli attinge a materiali d'archivio, alle tradizioni orali e alla memoria storica del suo popolo. Una delle caratteristiche dell'autore è il continuo ricorso a formule fisse per delineare i regni dei vari sovrani e in particolare, il secondo libro dei Re, descrive la vicenda del popolo ebraico dal IX al VI secolo a.C., cioè dalla fine del regno di Acazia (circa 852 a.C.) fino alla distruzione del regno di Giuda nel 587 a.C..
Le vicende di Elia e di Eliseo sono narrate in due cicli che occupano la parte centrale dei due libri dei Re (1Re 17-22; 2Re 1-17). Eliseo, il quale operò sotto i re Ioram (852-841), Ieu (841-814), Ioacaz (814-798), Ioas (798-783), è protagonista di numerosi racconti popolari spesso interrotti da riferimenti alle vicende politiche. Il suo ciclo si apre con il rapimento di Elia in cielo, del quale egli è l’unico testimone (2Re 2,1-8). Divenuto così erede spirituale del suo maestro, Eliseo compie alcuni miracoli di carattere umanitario.
Il brano liturgico ci presenta Eliseo che viene invitato insistentemente da una donna sunammita benestante a fermarsi presso di lei. Egli accetta e, siccome il fatto si ripete, la donna, rendendosi conto che Eliseo è un uomo di Dio, chiede al marito: “Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare”.
In un’epoca in cui la gente comune dormiva, si sedeva e mangiava per terra, questi oggetti sono chiaramente segni di agiatezza. Eliseo accetta di buon grado questa generosa ospitalità, ma sente anche il desiderio di ricompensare la donna per quanto aveva fatto per lui. Nei versetti non riportati dalla liturgia, sappiamo che egli la fa chiamare e, quando essa si trova davanti a lui, le fa chiedere da Giezi che cosa può fare per lei, ma la donna risponde che non ha bisogno di nulla, perché ha la fortuna di abitare in mezzo al suo popolo.
Eliseo si consulta allora con Giezi, il quale lo informa che la donna non ha figli e suo marito è vecchio. Allora Eliseo la fa nuovamente chiamare e le promette: “L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia”.
Il racconto mette in luce il potere di Eliseo, il quale dimostrerà di avere da Dio il potere non solo di far avere un figlio a una donna sterile, ma anche di risuscitarlo quando morirà. (cfr 2Re 4,17)
Il racconto dell’incontro di Eliseo con la Sunammita presenta aspetti molto importanti. Il primo è quello dell’ospitalità da parte della donna, la quale accoglie spontaneamente Eliseo nella sua casa in quanto uomo di Dio, e gli dà ospitalità senza aspettarsi nulla in cambio.
Anche quando il profeta si dice disposto a ricambiare la sua generosità, lei non chiede nulla per sé: le basta il privilegio di stare in mezzo al suo popolo. Questa figura di donna è un esempio di generosità, determinata unicamente dalla fede nel Dio al cui servizio si trova Eliseo.
Proprio in quanto uomo di Dio, Eliseo appare molto distaccato nei confronti delle persone e delle cose che lo circondano.
Egli non conosce nulla della situazione della donna e ha bisogno di essere informato dal suo servo, e quando la chiama per parlarle, la fa persino restare sulla porta della stanza. In nulla egli permette ai suoi sentimenti di prevalere e non è disposto a familiarizzare con lei, nonostante la generosità dimostrata nei suoi confronti. Egli è tutto dedito unicamente alla sua missione, tuttavia non è insensibile alle attenzioni della donna e le è grato profondamente, tanto che per ricambiare in qualche modo i favori ricevuti sarebbe disposto a procurarle dei benefici materiali. Quando poi viene a sapere che non ha figli, capisce subito che per lei poterne avere uno è la cosa più importante e quasi istintivamente mette in azione i suoi poteri profetici promettendole la nascita di un figlio.
La storia di Eliseo e della Sunammita accenna in modo rilevante le caratteristiche del profeta, ne lascia intendere i limiti e mette in luce i poteri che gli sono conferiti. Ma più ancora rivela la devozione popolare nei confronti dell’uomo di Dio e mostra come proprio attraverso il contatto con uomini che hanno dedicato tutta la loro vita al rapporto con Dio si apre anche per la gente comune la possibilità di avere accesso a una autentica esperienza religiosa.

Salmo 88/89 - Canterò per sempre l’amore del Signore
Canterò in eterno l’amore del Signore,
di generazione in generazione
farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà,
perché ho detto: «È un amore edificato per sempre;
nel cielo rendi stabile la tua fedeltà».

Beato il popolo che ti sa acclamare:
camminerà, Signore, alla luce del tuo volto;
esulta tutto il giorno nel tuo nome,
si esalta nella tua

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.

Perché tu sei lo splendore della sua forza
e con il tuo favore innalzi la nostra fronte.
19 Perché del Signore è il nostro scudo,
il nostro re, del Santo d’Israele

Il salmo probabilmente è il frutto di più autori, tuttavia non va affatto smembrato, poiché rivela una “unità orante”. Il salmo cosi come si presenta pone come autore un re vilipeso, che va ricercato in Ioacaz (2Re 23,33-34). Il fatto che il salmo presenti una totalità di mura abbattute e di fortezze diroccate, impone di pensare ad una sequenza di rovesci militari subiti da Israele, certamente dalle armate assire ed Egiziane (2Re 18,13, 23,33).
Il salmo esordisce facendo memoria delle promesse di Dio a Davide e alla sua discendenza (2Sam 7,8s), prosegue poi inneggiando alla potenza di Dio, quindi, con estensione, ritorna sulle promesse fatte a Davide; infine manifesta lo sconcerto di fronte alla catastrofe che si è abbattuta su Israele nonostante tutte le promesse di stabilità riguardanti la discendenza di Davide.
Il salmista sottolinea lo scarto infinito tra Dio e gli dei concepiti dai pagani: “Chi sulle nubi è uguale al Signore”; come pure sottolinea la distanza infinita tra lui e la sua corte celeste: “Chi è simile al Signore tra i figli degli dei?”. Non manca poi il salmista di affermare l'unicità di Dio: “Tuoi sono i cieli, tua è la terra, tu hai fondato il mondo e quanto contiene”. D'obbligo poi la menzione della vittoria di Dio su Raab (nome di un mostro mitico personificante il caos primordiale), cioè sull'Egitto: “Tu hai ferito e calpestato Raab”.
Il “consacrato”, cioè il re, è stato ripudiato da Dio: “Ti sei adirato contro il tuo consacrato; hai infranto l'alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona”. Egli è ricoperto di ingiurie mentre dal faraone Necao, suo vincitore, è condotto prima a Ribla e poi in Egitto: “I tuoi nemici insultano, insultano i passi del tuo consacrato”.
Il re, che ha visto le mura della reggia abbattute, come pure le sue fortezze, è nella più acuta sofferenza e domanda a Dio fin quando tutto questo continuerà: “Fino a quando, Signore, ti terrai nascosto: per sempre? Arderà come fuoco la tua collera?”. Afflitto, chiede a Dio di ricordarsi che la sua vita è breve e che forse non potrà vedere neppure giorni di pace, e lo interroga sul perché ha creato l'uomo, visto che a volte sembra che non ci sia disegno di pace per lui: “invano forse hai creato ogni uomo?”. L'uomo è ben poca cosa, eppure Dio dispone che debba sopportare lungamente pene e disagi prima di ridargli giorni di pace e di gioia. Al salmista pare che Dio abbia delle lentezze nell'intervenire, visto anche che i tempi di Dio sorpassano spesso i brevi anni di un uomo: “Chi è l'uomo che vive e non vede la morte? Chi potrà sfuggire alla mano degli inferi?".
Ma certo il salmista non rimane fermo a questo - le lentezze di Dio, infatti, sono unicamente causate dalle lentezze degli uomini nel ritornare a lui -, poiché conclude il suo salmo benedicendo Dio: “Benedetto il Signore in eterno. Amen, amen”.
Commento “ di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?
Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.
Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo
che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui.
Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio.
Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in
Cristo Gesù.
Rm 6,3-4.8-11

Nei primi 5 capitoli della sua lettera ai Romani, S.Paolo ha portato molte argomentazioni sulla dottrina della giustificazione per mezzo della fede, ed ha delineato i problemi più importanti:
se questo è il piano di Dio, perché il popolo eletto non ha accettato il vangelo? L’abbandono della legge non rischia di aumentare il peccato? Per allontanarsi dal peccato e ottenere una nuova vita è sufficiente aderire a Cristo? Investire tutto sulla fede piuttosto che sulle opere non significa mettere in pericolo
la possibilità stessa di essere fedeli a Dio?
Paolo affronta questo problema a partire dall’esperienza del battesimo, nel quale egli vede una svolta radicale. La morte al peccato richiama alla mente di Paolo il segno battesimale, al quale si riferisce con la domanda che troviamo all’inizio del brano: “Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?”
Agli inizi del cristianesimo i neofiti venivano battezzati per immersione, come dice il verbo stesso (battezzare = immergere). Il battesimo era conferito ”nel nome di Gesù Cristo” (At 2,38) perché ricevendolo il credente entra in un profondo rapporto di comunione con Lui. Ciò avviene in quanto, ricevendo il battesimo, egli è stato immerso “nella sua morte”, cioè è stato coinvolto in un’intima partecipazione al dono supremo di sé che Egli ha compiuto sulla croce. Il fatto che il verbo sia all’aoristo (dal greco ἀόριστος χρόνος "tempo indefinito") significa che questo evento, capitato nel passato, è definitivo e irrevocabile. L’apostolo sviluppa questa immagine affermando che, “Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte “anche qui l’uso dell’aoristo significa che si tratta di un gesto che ha creato una situazione irreversibile. Ciò è avvenuto “affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova”.
L’Apostolo interpreta quindi il rito battesimale, in forza del quale il neofita si immerge nell’acqua e poi ne esce, come un morire e risuscitare con Cristo. La risurrezione di Gesù, e di conseguenza anche la vita nuova del credente, vengono viste come una manifestazione speciale della potenza di Dio Padre.
Nei successivi vv. 5-7 non riportati dal brano, Paolo approfondisce queste riflessioni osservando come i credenti siano “completamente uniti a Cristo”,un po’ come un ramo che viene innestato in un altro e cresce fino a formare con esso un’unica cosa; questa compartecipazione avviene “a somiglianza della sua morte”, in quanto la Sua morte in croce diventa il modello a cui essi devono ispirare la loro vita
. Di conseguenza anch’essi riceveranno un giorno una risurrezione simile alla sua; il loro “uomo vecchio”, è stato crocifisso con Lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, ossia scomparisse tutto ciò che aveva a che fare con il peccato “Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato” (Rm, 6,7) . L’uso del verbo al perfetto significa che il battesimo, una volta ricevuto, conferisce una liberazione dal peccato i cui effetti si fanno sentire durante tutta la vita.
Nella seconda parte del brano Paolo approfondisce ulteriormente il significato del battesimo, sottolineando però questa volta l’impegno che esso richiede da parte del credente.
Egli afferma “Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui!”, Egli riprende qui quanto aveva affermato, ponendo però l’accento sul fatto che il credente parteciperà un giorno pienamente a quella vita che non avrà mai fine e che Cristo ha acquistato con la Sua morte e risurrezione.
A questo punto l’Apostolo approfondisce il significato della risurrezione di Cristo. “Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui”. egli infatti “morì per il peccato una volta per tutte” e di conseguenza ora “vive per Dio”.
La vittoria sul peccato (che però Cristo, diversamente dal cristiano, non ha mai sperimentato in se stesso), consiste nel rifiuto di “vivere per sé”, e di conseguenza apre la strada alla vita piena, che consiste nel “vivere per Dio”.
Dopo questa precisazione sulla vita di Cristo risorto, il discorso di Paolo passa all’esortazione: “anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù”
È chiaro che per l’uomo “morire con Cristo” significa sostanzialmente lasciarsi coinvolgere, mediante la fede, nell’amore che Egli ha dimostrato morendo sulla croce, al punto tale da accettare liberamente ed anche gioiosamente la propria morte fisica, quando e come essa si verificherà.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse: Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.
Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa.
Mt 10,30-42

Continua il discorso missionario con cui Gesù invia in missione i dodici apostoli. Dopo le raccomandazioni che il brano liturgico non riporta riguardanti le discordie che vi possono essere in famiglia a causa dell'adesione alla fede, il discorso continua sul tema dei legami famigliari e sul dono della vita
“Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me”; Quanto detto si riallaccia ai versetti precedenti in cui Gesù diceva di essere venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera (vv35-36). Non si tratta qui di fare una graduatoria di chi amare per prima, ma dell’adesione personale a Cristo e della totale appartenenza a Lui, che è il compendio di ogni amore. E’ amando Lui per primo che potremo amare nel giusto amore tutti i nostri cari: genitori, coniugi,figli, parenti,amici, tutti coloro che possiamo avvicinare.
Gesù prosegue affermando: “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me”.
Questa è la prima volta che nel testo evangelico compare la parola croce che ricomparirà in Mt 16,24, in un detto simile a questo e poi ovviamente nella scena della crocifissione. Il supplizio della crocifissione era ben nota ai Giudei dei tempi di Gesù, ma la croce che il discepolo è chiamato a prendere su di sé non è certo quella di Gesù, ma la propria. Ognuno nella propria vita ha la sua croce, cioè le sue sofferenze e rinunce, che il più delle volte non implicano la morte fisica, ma il dono di sé nel servizio degli altri.
“Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”.
Questo detto sul perdere la propria vita per trovarla è il più citato di tutti i detti di Gesù, lo ritroviamo sei volte in tutti e quattro i vangeli. Senza dubbio è quello cha caratterizza meglio di ogni altro il suo insegnamento. La sequela di Gesù comporta che il discepolo perda e ritrovi la propria vita e questo non indica che si debba desiderare una morte prematura per conseguire un’eternità beata, ma una radicale trasformazione del senso della propria vita. Seguendo Gesù, il discepolo impara a staccarsi da una vita proiettata su se stesso per mettere al centro il Regno di Dio e i rapporti nuovi che esso implica.
“Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”.
Il discorso ora si sposta sull'accoglienza che spetta all'inviato e sul risultato positivo della missione. Fino ad ora si sono elencate soprattutto le difficoltà, le persecuzioni, le divisioni familiari, ora l'accento è posto sulla ricompensa dovuta a chi "accoglie“. L'inviato del Signore deve essere accolto perché è Gesù che lo manda, quindi è come se si accogliesse Lui stesso. Ma chi accoglie Gesù, accoglie il Padre che l'ha mandato.
“Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto”.
Quindi l'accoglienza avrà la sua ricompensa proporzionata al valore di colui che è stato accolto.
La ricompensa del profeta non è tanto quella che riceverà un profeta, ma quella che ci si spetta da un profeta (cf. 2 Re 4,13: Eliseo ottiene da Dio che la sua ospite abbia il figlio che tanto desiderava).
“Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.
Colpisce come anche il semplice dare un “bicchiere d’acqua” diventa un atto prezioso degno della “ricompensa” divina. Secondo la tradizione durante le feste ebraiche, la porta di ogni casa doveva restare socchiusa. Infatti se il Messia avesse deciso di venire, l’avrebbe trovata aperta e si sarebbe seduto a mensa con quella famiglia fortunata. Ma se non fosse venuto il Messia, i poveri che vagano per le strade anche nei giorni di festa avrebbero potuto varcare quella soglia prendendo parte alla comune allegria. E sarebbe stato come accogliere il Messia, nascosto nella loro sofferenza.

*****

“L’odierna liturgia ci presenta le ultime battute del discorso missionario del capitolo 10 del Vangelo di Matteo, con il quale Gesù istruisce i dodici apostoli nel momento in cui per la prima volta li invia in missione nei villaggi della Galilea e della Giudea.
In questa parte finale Gesù sottolinea due aspetti essenziali per la vita del discepolo missionario: il primo, che il suo legame con Gesù è più forte di qualunque altro legame; il secondo, che il missionario non porta sé stesso, ma Gesù, e mediante Lui l’amore del Padre celeste. Questi due aspetti sono connessi, perché più Gesù è al centro del cuore e della vita del discepolo, più questo discepolo è “trasparente” alla sua presenza. Vanno insieme, tutti e due.
«Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me…», dice Gesù. L’affetto di un padre, la tenerezza di una madre, la dolce amicizia tra fratelli e sorelle, tutto questo, pur essendo molto buono e legittimo, non può essere anteposto a Cristo. Non perché Egli ci voglia senza cuore e privi di riconoscenza, anzi, al contrario, ma perché la condizione del discepolo esige un rapporto prioritario col maestro. Qualsiasi discepolo, sia un laico, una laica, un sacerdote, un vescovo: il rapporto prioritario. Forse la prima domanda che dobbiamo fare a un cristiano è: “Ma tu ti incontri con Gesù? Tu preghi Gesù?”. Il rapporto. Si potrebbe quasi parafrasare il Libro della Genesi: Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a Gesù Cristo e i due saranno una sola cosa (cfr Gen 2,24).
Chi si lascia attrarre in questo vincolo di amore e di vita con il Signore Gesù, diventa un suo rappresentante, un suo “ambasciatore”, soprattutto con il modo di essere, di vivere. Al punto che Gesù stesso, inviando i discepoli in missione, dice loro: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Bisogna che la gente possa percepire che per quel discepolo Gesù è veramente “il Signore”, è veramente il centro della sua vita, il tutto della vita.
Non importa se poi, come ogni persona umana, ha i suoi limiti e anche i suoi sbagli – purché abbia l’umiltà di riconoscerli –; l’importante è che non abbia il cuore doppio - e questo è pericoloso. Io sono cristiano, sono discepolo di Gesù, sono sacerdote, sono vescovo, ma ho il cuore doppio. No, questo non va. Non deve avere il cuore doppio, ma il cuore semplice, unito; che non tenga il piede in due scarpe, ma sia onesto con se stesso e con gli altri. La doppiezza non è cristiana. Per questo Gesù prega il Padre affinché i discepoli non cadano nello spirito del mondo. O sei con Gesù, con lo spirito di Gesù, o sei con lo spirito del mondo.
E qui la nostra esperienza di sacerdoti ci insegna una cosa molto bella, una cosa molto importante: è proprio questa accoglienza del santo popolo fedele di Dio, è proprio quel «bicchiere d’acqua fresca» di cui parla il Signore oggi nel Vangelo, dato con fede affettuosa, che ti aiuta ad essere un buon prete! C’è una reciprocità anche nella missione: se tu lasci tutto per Gesù, la gente riconosce in te il Signore; ma nello stesso tempo ti aiuta a convertirti ogni giorno a Lui, a rinnovarti e purificarti dai compromessi e a superare le tentazioni. Quanto più un sacerdote è vicino al popolo di Dio, tanto più si sentirà prossimo a Gesù, e quanto più un sacerdote è vicino a Gesù, tanto più si sentirà prossimo al popolo di Dio.
La Vergine Maria ha sperimentato in prima persona che cosa significa amare Gesù distaccandosi da sé stessa, dando un nuovo senso ai legami familiari, a partire dalla fede in Lui. Con la sua materna intercessione, ci aiuti ad essere liberi e lieti missionari del Vangelo.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 2 luglio 2017

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica, ci presentano il tema della persecuzione e della missione profetica
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Geremia, nelle pagine delle sue “confessioni”, il profeta denuncia le insidie dei suoi calunniatori che lo deridono mentre egli mette in guardia il suo popolo dalla sventura: la conquista di Gerusalemme e la deportazione in Babilonia. La fedeltà alla vocazione è per Geremia una conquista quotidiana che conosce dubbi e crisi e che talora pesa come una maledizione, soprattutto quando si sperimenta il silenzio di Dio.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S.Paolo ai Romani, l’apostolo afferma che Cristo è l’uomo nuovo, l’iniziatore di una nuova umanità e fa risaltare questa verità contrapponendo l’opera di Cristo all’opera di Adamo
Nel brano tratto dal Vangelo secondo Matteo, Gesù parla ai suoi discepoli delle sofferenze che dovranno affrontare e lo fa con tale concretezza di particolari che sembra descrivere la Chiesa dei nostri tempi. Il centro dell’annuncio cristiano può portare derisione, persecuzione, tutto ciò comunque non deve stupire i discepoli del Signore, perchè anche i profeti hanno vissuto questo e Gesù stesso è passato attraverso l’incomprensione e la persecuzione.
La fede dei cristiani si fonda sul grande paradosso che anche quando per il mondo si è perdenti, nessuno è mai perduto da Dio.

Dal libro del profeta Geremìa
Sentivo la calunnia di molti:«Terrore all’intorno!Denunciatelo! Sì, lo denunceremo».
Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,ci prenderemo la nostra vendetta».
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,per questo i miei persecutori vacilleranno
e non potranno prevalere;arrossiranno perché non avranno successo,
sarà una vergogna eterna e incancellabile.
Signore degli eserciti, che provi il giusto,che vedi il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di loro,
poiché a te ho affidato la mia causa!
Cantate inni al Signore,lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.
Ger 20,10-13

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico. Il momento più difficile sicuramente fu quando si sente tradito persino da Dio e cade in una crisi dolorosa che lo porta quasi a rifiutare la sua vocazione. Dio però, senza togliergli le sue sofferenze, anzi annunziandogliene di più grandi, gli rinnova la sua chiamata, chiedendogli di abbandonarsi interamente a Lui.
In una drammatica e celebre “confessione” (20,7-18) che precede di qualche versetto questo brano, il profeta si lamenta con Dio di averlo sedotto, e lui di essersi lasciato sedurre, di averlo attratto con l'inganno, affidandogli un annunzio di sventura che non si è attuato, e di averlo così abbandonato allo scherno dei suoi avversari (vv. 7-8). Egli afferma poi di aver voluto rinunziare a parlare in nome di DIO, ma sentiva nel suo cuore come un fuoco ardente, chiuso nelle sue ossa; si sforzava di contenerlo, ma non poteva. …
A questo punto inizia il brano liturgico in cui Geremia denunzia le macchinazioni che vengono fatte contro di lui. Anzitutto rivela che molti riprendono con sarcasmo il suo messaggio di minaccia:
«Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo”. La sventura che egli annunzia è l’imminente conquista di Gerusalemme da parte dei babilonesi e la sua distruzione, che egli presenta come castigo di DIO per i peccati del popolo.
Geremia immagina il pensiero dei suoi amici che spiano la sua caduta: ”Forse si lascerà trarre in inganno,così noi prevarremo su di lui,ci prenderemo la nostra vendetta”. Se questi “amici” erano le persone di cui lui si fidava, Geremia sperimentò anche l'offesa e il dolore atroce del tradimento. L’abbattimento morale del profeta dovette durare a lungo ed essere ben visibile ai suoi avversari, i quali osservano le sue sofferenze con l’intento di coglierlo in fallo, cioè di fargli dire qualcosa di compromettente per riferirlo poi alle autorità e così demolirlo definitivamente.
“Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere;arrossiranno perché non avranno successo,sarà una vergogna eterna e incancellabile”. Qui però il profeta esprime la sua fiducia incrollabile in Dio, che sente al suo fianco come un prode valoroso.
Geremia aveva certamente presente la promessa fattagli dal Signore al momento della sua vocazione (Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti” (1.19) e questo lo rende sicuro della sua vittoria.
Guidato dalla sua incrollabile fiducia in Dio, Geremia fa una preghiera,
“Signore degli eserciti, che provi il giusto,che vedi il cuore e la mente,possa io vedere la tua vendetta su di loro,poiché a te ho affidato la mia causa!”
Il profeta sa che il Signore è “colui che prova il giusto e scruta il cuore e la mente” ( la prerogativa del Dio di Israele è precisamente quella di non fermarsi alle apparenze, ma di scrutare il cuore e la mente, cioè l’intimo dell’uomo) ed è certo di fare gli interessi di Dio e quindi non ha paura del Suo giudizio. A Dio egli chiede di poter vedere la sua vendetta sui suoi avversari, poiché a Lui ha affidato la sua causa. Egli non pensa di vendicarsi personalmente, ma attende da Dio la vendetta, cioè la giusta punizione dei suoi persecutori. E per di più chiede una vendetta che riguarda non lui personalmente, ma Dio. Egli si è talmente identificato con Lui da ritenere che la sua causa non è altro che la causa di Dio e la sua vendetta la vendetta di Dio!!. Qui è evidente che il profeta sembra avere un eccesso di zelo, in quanto dimentica che Dio non vuole arrivare alla vendetta, ma al perdono.
Il brano termina con un invito a cantare inni al Signore “perché ha liberato la vita del povero
dalle mani dei malfattori”.
Ma subito dopo, nei versetti non riportati dalla liturgia, il profeta prorompe in una terribile maledizione, imprecando persino contro il giorno in cui è nato (vv. 14-18).
Questo brano è il più drammatico delle confessioni, perché vi appare il rifiuto non solo della vita, ma anche e soprattutto della vocazione profetica, che aveva ricevuto fin dal seno materno (1,5).
Le confessioni di Geremia mettono in luce la profonda umanità del profeta. Egli non è un uomo violento o aggressivo, se ne starebbe volentieri per proprio conto, non cerca notorietà o potere. Invece è coinvolto in una situazione drammatica, nella quale è costretto, per il bene dei suoi connazionali, ad annunziare una terribile sciagura che potrà essere evitata solo con un gesto che poteva sembrare un tradimento della patria: aprire le porte ai nemici. La sofferenza più grande del profeta non è stata quella di essere incompreso e perseguitato, ma di vedere avvicinarsi la rovina del suo popolo senza poterla impedire.
Geremia si può dire che è il profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù. Quando si sente abbandonato sembra scorgere in lui il Cristo nell’orto del Getsemani. Egli rimane per il suo popolo, ed anche per tutti i cristiani, un testimone della speranza e fedeltà alla propria vocazione nonostante le sofferenze fisiche e morali.

Salmo 68 - Nella tua grande bontà rispondimi, o Dio.

Per te io sopporto l’insulto e la vergogna mi copre la faccia;
sono diventato un estraneo ai miei fratelli,
uno straniero per i figli di mia madre.
Perché mi divora lo zelo per la tua casa,
gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me.

Ma io rivolgo a te la mia preghiera,
Signore, nel tempo della benevolenza.
O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi,
nella fedeltà della tua salvezza.
Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore;
volgiti a me nella tua grande tenerezza

Vedano i poveri e si rallegrino;
voi che cercate Dio, fatevi coraggio,
perché il Signore ascolta i miseri
non disprezza i suoi che sono prigionieri.
A lui cantino lode i cieli e la terra,
i mari e quanto brùlica in essi.

La lettura attenta del salmo porta a datarlo al tempo di Ezechia, dopo la campagna di Sennacherib contro la Giudea e il fallito assedio di Gerusalemme (ca. 701) a causa di un’epidemia nell’esercito (2Re 18,13s.35). L’azione militare di Sennacherib aveva devastato la Giudea. Gli annali di Sennacherib rivelano che furono espugnate 46 città. In questo contesto il pio giudeo del salmo si trova ad urtare contro coloro che guardano all’Egitto come soluzione dei mali nazionali mettendo in dubbio Dio, la fedeltà di Dio, e abbracciando il relativismo religioso. Il pio giudeo prega, digiuna, indossa un abito di sacco, segno penitenziale, e zela per la “casa del Signore”, cioè il tempio, e ciò che il tempio significa. Egli propone la conversione a Dio e ha un certo numero di persone che guardano a lui. E’ il tempo della benevolenza, cioè l’anno sabbatico, ed egli spera la pace nei cuori: “Ma io rivolgo a te la mia preghiera, Signore, nel tempo della benevolenza”. Per noi il tempo della benevolenza è quello che ha promulgato Cristo e che durerà sino alla fine del mondo (Cf. Mt 4,19). Il pio giudeo però è osteggiato e perseguitato da molti; proprio a causa della sua fede. Viene beffeggiato e deriso nella sua azione penitenziale, e quando entra a Gerusalemme quelli che mercanteggiano e sostano divertendosi alla porta, dalla quale passa per entrare in città, lo deridono, senza che alcuno si metta dalla sua parte: “Sparlavano di me quanti sedevano alla porta, gli ubriachi mi deridevano”. La sua situazione si presenta drammatica perché viene calunniato di furto: “Quanto non ho rubato, dovrei forse restituirlo?”. Tutto ciò gli ha creato il vuoto attorno: “Sono diventato un estraneo ai miei fratelli, un straniero per i figli di mia madre“. Egli avverte tutta la sua debolezza e invoca Dio affinché gli dia forza, poiché non vuole diventare una delusione per coloro che fanno riferimento a lui: “Per causa mia non si vergogni chi ti cerca, Dio d’Israele”. Le espressioni che usa per presentare a Dio la sua situazione sono di un’intensità pari alla drammaticità della sua situazione: “L’acqua mi giunge alla gola. Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno... Sono sfinito dal gridare, la mia gola è riarsa…”. Ma il pio giudeo non desiste dalla preghiera, dalla fiducia in Dio; ed è sostenuto dalla speranza che Dio continuerà a difendere Sion, e che le città di Giuda saranno riedificate: “Perché Dio salverà Sion, ricostruirà le città di Giuda”. Questa speranza rimarrà nel nucleo fervente d’Israele anche quando, a causa dei peccati e della loro mancata penitenza, Israele sperimenterà la distruzione di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Riguardo la Chiesa, di cui Sion è una figura, risuonano queste parole di Gesù: (Mt 16,18) “Le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”.
Questo salmo è ricco di profezia riguardo le sofferenze di Cristo (Cf. Gv 2,17; 15,25).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato…
Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti.
Rm 5,12-15

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme. La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali.
Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
Questo brano tratto dal capitolo 5 rappresenta l’ultimo anello della lunga esposizione riguardante la giustificazione mediante la fede che aveva avuto inizio al capitolo 1. In esso l’apostolo, dopo aver messo in luce la prospettiva escatologica della giustificazione (vv. 1-11), passa a trattare il tema della vittoria sul peccato che essa comporta (vv. 12-21). Egli aveva già affrontato questo secondo tema quando, dopo aver descritto la rivelazione dell’ira di Dio, causata appunto dal peccato dell’uomo, aveva presentato l’opera di Cristo come una redenzione e una espiazione (3,21-26). Ora lo riprende sottolineando come la liberazione dal peccato implichi il passaggio dell’uomo dalla solidarietà con l’umanità peccatrice (vv. 12-14) alla solidarietà con Cristo (vv. 15-19).
Il brano inizia con questa affermazione: “come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato”.
In questo versetto la situazione in cui si trovava l’umanità prima di Cristo viene descritta alla luce di quanto la Genesi dice di colui che è stato il primo peccatore. Il brano inizia con un “come” esemplificativo, mediante il quale Paolo ricollega quanto sta per dire al brano precedente, indicando così l’intenzione di dare ulteriori spiegazioni circa il ruolo svolto da Cristo nella riconciliazione dell’umanità con Dio. L’apostolo prosegue con un “così”, che introduce il confronto tra Adamo e Cristo.
Dopo aver qualificato Adamo come colui che ha introdotto il peccato e la morte nel mondo, Paolo prosegue con il secondo termine di paragone, cioè la figura e il ruolo di Cristo, ma approfondisce ulteriormente le conseguenze del gesto di Adamo. Il peccato di Adamo ha avuto effetti devastanti in quanto tutti gli uomini, con i loro peccati personali, si sono resi partecipi e corresponsabili di quella situazione di morte a cui egli ha dato inizio.
Dopo aver segnalato l’ingresso nel mondo del peccato e della morte, Paolo prosegue: “Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, …La situazione di peccato e di morte determinata dal primo uomo si è protratta fino al momento in cui Dio ha conferito la legge a Israele.
Paolo pone però un’obiezione: come è possibile ciò “se il peccato non può essere imputato quando manca la legge?” Se non c’è una legge che proibisce una certa azione, il commetterla non può essere considerato come peccato, se si intende per peccato la trasgressione di un precetto. Ma per Paolo non esiste nessun essere umano che non abbia avuto, se non la legge mosaica, almeno qualcosa di simile: tutti infatti hanno conosciuto Dio, venendo così a conoscere quella legge morale che hanno trasgredito. Perciò risponde all’obiezione osservando che “la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo”. Ossia siccome la morte, vista come un fatto non solo fisico ma anche spirituale, ha manifestato i suoi effetti devastanti anche su coloro che non avevano ricevuto come Adamo un precetto esplicito, ciò è sufficiente per dire che anch’essi non sono esenti dal peccato.
Dopo aver nominato espressamente due volte il nome di Adamo, Paolo aggiunge che egli “è figura di colui che doveva venire”. Con queste parole riporta il discorso all’intenzione originaria, che era quella di confrontare Adamo con Cristo.
Tutti gli uomini si sono resi corresponsabili del peccato commesso dal primo uomo, cioè si sono lasciati liberamente coinvolgere nella situazione che da lui ha avuto origine.
Paolo sviluppa la sua dimostrazione mediante tre argomenti. Anzitutto egli afferma: “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti”.
La superiorità di Cristo su Adamo appare anzitutto dal fatto che “il dono di grazia”non è come la “caduta”: infatti se la caduta di uno solo ha fatto sì che “tutti” morissero, molto di più grazie a un solo uomo, Gesù Cristo, la grazia di Dio ha abbondato “su tutti”. In altre parole, proprio per la sua funzione di Uomo (Figlio dell’uomo, nuovo Adamo), Cristo ha portato a tutta l’umanità una realtà di grazie che supera immensamente la realtà di morte di cui è stato portatore Adamo.
Paolo non pensa dunque che il peccato di Adamo si trasmetta misteriosamente da lui a ognuno dei suoi discendenti, ma lo considera come l’inizio di una “situazione di peccato” in cui tutti, non senza loro colpa e con le debite eccezioni, sono coinvolti.
Circa Adamo e il suo peccato, Paolo riprende questa suggestiva immagine biblica per mostrare come Dio abbia inviato un nuovo Adamo, capostipite di un’umanità riconciliata, al quale ognuno è chiamato ad associarsi mediante la fede.
Riguardo al rapporto tra peccato e morte, Paolo non vuole certo affermare che, senza il peccato di Adamo, la morte in senso fisico non sarebbe esistita, al contrario egli ritiene che, a causa del peccato, la morte cambi profondamente significato: senza di esso l’uomo avrebbe terminato la sua esistenza terrena nella comunione con Dio e nella serena fiducia di una sopravvivenza in Lui; il peccato, invece, fa sì che la morte diventi il simbolo e il marchio del suo fallimento, trasformandola quindi in una realtà ostile, che l’uomo tende continuamente a rimuovere.
In questa sua opera, che lo accomuna al Servo del Signore, Gesù appare come il nuovo Adamo da cui ha origine un’umanità riconciliata con Dio.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.
E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:voi valete più di molti passeri!
Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Mt 10,26-33

Questo brano tratto dal capitolo 10 del Vangelo di Matteo riporta il discorso apostolico che Gesù fa ai suoi discepoli prima di inviarli in missione. Matteo raccoglie una serie di massime, che mettono in luce l’atteggiamento che il discepolo deve assumere di fronte alle pressioni che gli vengono dall’esterno.
Gesù inizia con l’invitare il discepolo a non temere coloro che lo perseguitano:
“Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto”.
Dai termini usati possiamo capire che quanto viene detto si rifà al genere apocalittico: Dio rivela gli avvenimenti futuri al suo inviato, affinché li scriva in un libro che sarà letto quando staranno per avverarsi. La persecuzione degli apostoli, come è detto nel versetto precedente, sarà inevitabile: “è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (Mt 10,25).
Quello che si afferma in questo versetto è in sintonia con quanto detto nei versetti precedenti. Il discepolo deve raggiungere il livello del suo maestro, deve essere disponibile ad annunciare il vangelo con tutta franchezza, senza lasciarsi intimorire dalle minacce dei suoi oppositori.
Gesù fa un altro invito ai discepoli: “Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze”.
L'insegnamento di Gesù ha sempre qualcosa di misterioso, qualcosa che Egli dice ai suoi discepoli e non alle folle (es. l'utilizzo delle parabole invece dei discorsi espliciti, Mt 13,10-11), ma questo messaggio Lui vuole che deve essere poi predicato dalle terrazze che fanno da tetto alle case della Palestina, cioè da luoghi alti e scoperti, in modo che tutti lo possano sentire.
Infine Gesù invita i discepoli a non avere “paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”; ma piuttosto di “colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo”.
Egli così prospetta loro la possibilità di una morte violenta, ma li esorta a non temere gli uomini che possono al massimo privarli della vita fisica. Devono temere piuttosto Dio che nel giudizio può condannarli alla dannazione eterna nell'inferno (= geenna). La vita terrena non è nulla in confronto alla vita imperitura che il Padre darà loro in cielo.
Benché Matteo distingua l'anima dal corpo, non prende in considerazione l'esistenza dell'anima separata dal corpo dopo la morte, cioè nel tempo intermedio prima della parusia di Gesù. Per il semita è inconcepibile la vita senza il corpo. Il detto si riferisce quindi alla totalità della vita dell'uomo, che può essere conservata da Dio anche dopo la morte.
L’esortazione si prolunga in un detto riguardante positivamente la fiducia.
Gesù afferma: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro”
Il "soldo" è la moneta romana più piccola. Il passero, il piccolo uccello mangiato dai poveri, era il genere di carne meno cara che si poteva trovare sul mercato. Eppure la caduta a terra del passero, cioè la sua morte, non avverrà senza che Dio lo sappia e lo permetta. Se Dio si prende cura dei passeri, quanta maggiore cura avrà per gli uomini!
E prosegue “Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:voi valete più di molti passeri!
Gesù illustra con questi esempi la cura premurosa di Dio per i discepoli: essi non potranno subire alcun danno senza che egli lo permetta, e se lo permette ciò è certamente per poter attribuire loro un bene maggiore.
Gli ultimi due versetti contengono un parallelismo antitetico: “chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Il detto riguarda la confessione pubblica di Gesù, (quella che Pietro non aveva saputo fare al momento del processo), e nell’annunzio del vangelo. Si può notare che mentre nel detto precedente Gesù parlava di Dio come “Padre vostro”, ora lo definisce “Padre mio”. Il richiamo insistente del Padre richiama il motivo della paternità divina che rappresenta la novità centrale del messaggio evangelico: Gesù ha fatto per primo l’esperienza del rapporto speciale che Dio ha stabilito con l’umanità e l’ha comunicata ai suoi discepoli.
La bontà di Dio deve essere di conforto e di incoraggiamento nelle sofferenze e nella morte che aspettano i discepoli. Nei confronti di Dio la paura non ha più ragione di essere. È vero che Gesù accenna al timore che bisogna avere per colui che può mandare l’anima e il corpo nella geenna, ma questo riferimento alla paura serve a sottolineare la responsabilità del discepolo e a fargli capire che il rinnegare può avere conseguenze dannose sia per lui stesso che per gli altri. Non deve però essere la paura a motivare le sua scelte ma la fiducia nel Padre e soprattutto la solidarietà con Gesù, il quale ha dimostrato che proprio attraverso la sofferenza si attua la salvezza.
In questo senso Gesù è il modello e la guida di tutti coloro che cercano Dio. Rinnegare Gesù, quando lo si è adeguatamente conosciuto, significa rifiutare il progetto divino di salvezza.

*****

“Nel Vangelo di oggi il Signore Gesù, dopo aver chiamato e inviato in missione i suoi discepoli, li istruisce e li prepara ad affrontare le prove e le persecuzioni che dovranno incontrare. Andare in missione non è fare turismo, e Gesù ammonisce i suoi: “Troverete persecuzioni”. Così li esorta: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato […]. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce. […] E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima» (vv. 26-28). Possono uccidere soltanto il corpo, non hanno il potere di uccidere l’anima: di questi non abbiate paura. L’invio in missione da parte di Gesù non garantisce ai discepoli il successo, così come non li mette al riparo da fallimenti e sofferenze. Essi devono mettere in conto sia la possibilità del rifiuto, sia quella della persecuzione. Questo spaventa un po’, ma è la verità.
Il discepolo è chiamato a conformare la propria vita a Cristo, che è stato perseguitato dagli uomini, ha conosciuto il rifiuto, l’abbandono e la morte in croce. Non esiste la missione cristiana all’insegna della tranquillità! Le difficoltà e le tribolazioni fanno parte dell’opera di evangelizzazione, e noi siamo chiamati a trovare in esse l’occasione per verificare l’autenticità della nostra fede e del nostro rapporto con Gesù. Dobbiamo considerare queste difficoltà come la possibilità per essere ancora più missionari e per crescere in quella fiducia verso Dio, nostro Padre, che non abbandona i suoi figli nell’ora della tempesta. Nelle difficoltà della testimonianza cristiana nel mondo, non siamo mai dimenticati, ma sempre assistiti dalla sollecitudine premurosa del Padre. Per questo, nel Vangelo di oggi, per ben tre volte Gesù rassicura i discepoli dicendo: «Non abbiate paura!».
Anche ai nostri giorni, fratelli e sorelle, la persecuzione contro i cristiani è presente. Noi preghiamo per i nostri fratelli e sorelle che sono perseguitati, e lodiamo Dio perché, nonostante ciò, continuano a testimoniare con coraggio e fedeltà la loro fede. Il loro esempio ci aiuta a non esitare nel prendere posizione in favore di Cristo, testimoniandolo coraggiosamente nelle situazioni di ogni giorno, anche in contesti apparentemente tranquilli. In effetti, una forma di prova può essere anche l’assenza di ostilità e di tribolazioni. Oltre che come «pecore in mezzo ai lupi», il Signore, anche nel nostro tempo, ci manda come sentinelle in mezzo a gente che non vuole essere svegliata dal torpore mondano, che ignora le parole di Verità del Vangelo, costruendosi delle proprie effimere verità. E se noi andiamo o viviamo in questi contesti e diciamo le Parole del Vangelo, questo dà fastidio e ci guarderanno non bene.
Ma in tutto questo il Signore continua a dirci, come diceva ai discepoli del suo tempo: “Non abbiate paura!”. Non dimentichiamo questa parola: sempre, quando noi abbiamo qualche tribolazione, qualche persecuzione, qualche cosa che ci fa soffrire, ascoltiamo la voce di Gesù nel cuore: “Non abbiate paura! Non avere paura, vai avanti! Io sono con te!”. Non abbiate paura di chi vi deride e vi maltratta, e non abbiate paura di chi vi ignora o “davanti” vi onora ma “dietro” combatte il Vangelo. Ci sono tanti che davanti ci fanno sorrisi, ma da dietro combattono il Vangelo. Tutti li conosciamo. Gesù non ci lascia soli perché siamo preziosi per Lui. Per questo non ci lascia soli: ognuno di noi è prezioso per Gesù, e Lui ci accompagna.
La Vergine Maria, modello di umile e coraggiosa adesione alla Parola di Dio, ci aiuti a capire che nella testimonianza della fede non contano i successi, ma la fedeltà, la fedeltà a Cristo, riconoscendo in qualunque circostanza, anche le più problematiche, il dono inestimabile di essere suoi discepoli missionari.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 25 giugno 2017

Pubblicato in Liturgia

La festa del Corpus Domini, più propriamente chiamata solennità del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, è una delle principali solennità dell'anno liturgico e la celebrazione, chiudendo il ciclo delle feste del dopo Pasqua, vuole celebrare il mistero dell'Eucaristia. Questa festa è stata istituita nel lontano 11 agosto 1264, a seguito del miracolo eucaristico di Bolsena, da Papa Urbano IV, con la promulgazione della bolla “Transiturus de hoc mundo”. Nello stesso anno il papa conferì l'incarico di scrivere l'officio per la solennità e per la relativa Messa a Tommaso d’Aquino, che compose, fra l'altro, il celebre inno eucaristico “Pange lingua”, le cui ultime due strofe (note come Tantum Ergo Sacramentum), sono attualmente cantate dai fedeli al termine di ogni celebrazione liturgica che si concluda con la benedizione eucaristica.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio, leggiamo che Dio ha messo alla prova Israele nel deserto, ma non lo ha abbandonato. La manna e l’acqua che sprizza dalla rupe durissima e arida per dissetare i figli d’Israele, sono segni della parola che “esce dalla bocca del Signore”.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, San Paolo raccogliendo le dichiarazioni di Gesù a Cafarnao, formula in modo chiaro e limpido il senso di ogni celebrazione eucaristica.
Nel Vangelo di Giovanni viene riportato il discorso tenuto da Gesù a Cafarnao davanti ad un gruppo di ebrei allibiti: …Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Attraverso l’eucaristia il credente entra in comunione col Cristo, è strappato al suo destino di morte ed inserito nel mistero della vita divina.

Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.
Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».
Dt. 8,2-3.14b-16


Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea , sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali. Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
Il brano che abbiamo inizia con un invito pressante rivolto da Mosè al popolo di Israele che si trova nelle steppe di Moab, pronto ad attraversare il Giordano e ad entrare nella terra promessa: “Ricordati di tutto il cammino …”La generazione uscita dall’Egitto è ormai scomparsa e davanti a Mosè si trovano soltanto quelli che sono nati nel deserto e che hanno fatto l’esperienza delle sofferenze che comportava il muoversi continuamente in un territorio inospitale. In realtà il discorso è rivolto a coloro che già si trovano nella terra di Canaan e rischiano di dimenticare le difficoltà che i loro progenitori hanno dovuto superare prima di prenderne possesso. Mosè attribuisce queste sofferenze a un’esplicita decisione di Dio, il quale anzitutto voleva in tal modo “umiliare”, o meglio, rendere umile” il popolo, spezzare il loro orgoglio e la loro presunzione di credere di poter attuare da soli la propria liberazione. Le difficoltà incontrate erano dunque un mezzo predisposto da Dio per verificare se essi in tali circostanze avrebbero avuto fiducia in Lui, senza lamentarsi e senza rimpiangere ”i comodi” che la schiavitù in Egitto forniva.
Nel versetto successivo si riprende lo stesso tema specificando meglio come Dio si è comportato con Israele: “Egli dunque ti ha umiliato, …. , ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore”.La manna e l’acqua che sprizza dalla rupe durissima e arida per dissetare i figli di Israele sono segni della parola che esce dalla bocca del Signore. Senza questo cibo l’uomo si svuota interiormente e si irrigidisce nella morte dell’indifferenza e della superficialità. La manna è quindi il simbolo della parola di Dio e mangiare la manna significa essere aperti alla parola di Dio, essere disposti a osservarla, fidarsi di Lui e delle benedizioni contenute nell’alleanza. Nella manna è dunque simboleggiata la forza che Dio dà a chi crede in Lui, in modo che non gli manchi né il pane materiale né quello spirituale.
In mezzo alla civiltà dei consumi e del benessere che offusca la coscienza risuona l’appello del Deuteronomio, (e mai come in questo tempo di pandemia giunge così opportuno) a ritrovare la fame e la sede del deserto spirituale, cioè il desiderio della parola di Dio.

Salmo 147 - Loda il Signore, Gerusalemme.

Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli

Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.

Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi.

Il salmo è postesilico, ed è un invito a Gerusalemme (Sion è usato come sinonimo) a glorificare, a lodare, Dio.
Gerusalemme riedificata ha visto consolidata la sua sicurezza di fronte ai popoli confinanti che ora la temono e hanno sospeso le ostilità contro di essa: “Ha rinforzato le sbarre delle tue porte (...). Egli mette pace nei tuoi confini”.
Dio ha benedetto i gli abitanti di Gerusalemme - “in mezzo a te” - e di riverbero tutti gli abitanti di Giuda. Non manca per questo la prosperità materiale: “Ti sazia con fiore di frumento”, cioè con la miglior qualità di farina.
Egli invia la sua Parola a Israele per mezzo dei profeti postesilici, ed essa si diffonde velocemente.
Ma la sua Parola oltre che essere luce per gli uomini è anche creatrice. E' per la sua parola creatrice che viene il freddo, scende la neve, la grandine, la brina, ma segue però il caldo, lo scioglimento delle nevi, lo scorrere delle acque dai nevai. Inverno, temporali, bel tempo sono sotto il comando della sua Parola. La natura non è lasciata a se stessa, ma governata da Dio a favore dell'uomo (Cf. At 14,17).
“Annuncia a Giacobbe la sua parola”; il salmista riprende il tema della parola data ad Israele per mezzo dei profeti. La legge di Mosè e i suoi decreti sono ripresentati con forza dai profeti e dai sacerdoti.
“Così non ha fatto con nessun'altra nazione...”; Israele è oggetto di un'elezione divina, che lo costituisce segno di Dio in mezzo ai popoli.
La Chiesa è invitata a lodare Dio, a glorificarlo, perché ha inviato e dato il suo Figlio, la sua Parola perfetta. Egli l'assiste fortificandola con la forza dello Spirito Santo, e la nutre con fior di frumento, cioè con il pane che non è più pane, se non nelle apparenze, essendo realmente diventato il Corpo del Signore.
Commento di P. Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?
Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.
1Cor 10,16-17

La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso nel 53-54, è una delle più lunghe fra quelle scritte da Paolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli.
La lettera si contraddistingue per la molteplicità dei temi che Paolo vi affronta per chiarire dubbi o difficoltà della comunità e per correggere abusi e deviazioni. In essa l’apostolo dovrà prendere posizioni anche piuttosto critiche, che potrebbero compromettergli la simpatia dei destinatari.
Nel capitolò 10, dal quale è stato tratto questo brano, Paolo illustra con grande chiarezza e profondità il significato dell’eucaristia, e così affronta il problema delle carni sacrificate agli idoli, e che poi venivano vendute al mercato. I cristiani più intelligenti ed maturi le mangiavano senza farsi problemi. Le persone più semplici se ne facevano scrupolo e si scandalizzavano davanti al comportamento più disinvolto dei primi.
Paolo raccomanda ai Corinzi di avere a cuore queste persone più deboli e di non dare loro scandalo facendosi vedere a mangiare queste carni. Il principio che offre è quello della comunione. Chi mangia la carne sacrificata agli idoli entra in comunione con essi e con chi offre loro i sacrifici. Chi mangia la carne e il sangue di Cristo entra in comunione con Lui e con tutti coloro che mangiano insieme. Così risolvendo un problema della comunità di Corinto, Paolo ci ha lasciato una delle più belle descrizioni dell'Eucarestia.
“Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? “
Le domande che Paolo pone sono in forma retorica, perché il suo intento è di sottolineare le proprie affermazioni. Il calice della benedizione è il calice dell'Eucarestia. La benedizione era stata utilizzata da Gesù stesso nell'ultima Cena e proveniva dalle benedizioni previste per i pasti del popolo di Israele. Il termine comunione traduce la parola greca koinonìa, che indica propriamente la condivisione, la comunanza di un bene tra un certo numero di persone. Quindi ciò significa soprattutto la comunione tra i credenti che bevono allo stesso calice e mangiano lo stesso pane, il corpo e il sangue di Cristo. Gli elementi eucaristici non sono presentati come il corpo e il sangue di Cristo, ma come dei segni che hanno il potere, nel contesto del rito che commemora la morte e la resurrezione di Cristo, di stabilire un vero rapporto di comunione con Lui. Non sono dunque simboli vuoti, ma strumenti efficaci della presenza di Cristo stesso.
“ Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane”.
Paolo ci dà una chiave di interpretazione originale e molto importante. L'unico pane di cui mangiano i credenti, cioè l'unico corpo di Cristo, li mette in una condivisione tanto stretta che essi possono sentirsi un solo corpo. Questo corpo è la Chiesa. La Chiesa è un corpo unico armonizzato nelle sue diverse parti (V.1Cor 12,12-26), non tanto perché le sue parti sono solidali le une con le altre, ma perché esse compongono il corpo di Cristo.
Paolo in poche parole formula chiaramente il senso di ogni celebrazione eucaristica: da quella che si svolgeva a Corinto in Grecia a quella che oggi si compie in tutte le chiese delle nostre città. Attraverso il calice e il pane posti sull’altare, Cristo comunica con noi il Suo corpo, cioè la Sua vita, il Suo amore e la Sua gloria.

Dal vangelo secondo Giovanni
Gesù disse alla folla:
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Gv 6,51-58

In questo brano, Gesù sviluppa il discorso eucaristico iniziato dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani. Sta parlando nella sinagoga di Cafarnao e afferma che per mezzo del Figlio dell’uomo il Padre dà il vero pane dal cielo, nel quale si concretizza in modo simbolico la salvezza promessa dai profeti. In seguito alla domanda posta dai presenti, Gesù prosegue affermando che questo pane non è qualcosa di separato da Lui, ma si identifica con la Sua stessa persona; Egli infatti è stato mandato dal Padre a portare la vita a chi crede in Lui.
In seguito alle ulteriori mormorazioni dei giudei, Gesù sottolinea che per mezzo di Lui si attua l’attesa di un insegnamento conferito direttamente da Dio e infine, con chiaro riferimento all’episodio biblico della manna, Gesù si presenta nuovamente come il pane della vita. E’ con le Sue parole che ha inizio il brano:e lo rende più radicale affermando: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Il pane che Gesù darà non solo si identifica con la Sua persona, ma è la Sua stessa carne che deve essere mangiata perché possa comunicare la vita.
Nel linguaggio biblico la carne non è altro che la persona umana, vista però in tutta la sua limitatezza e fragilità. In Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, il Verbo si è fatto carne, e ora dà la Sua carne in cibo all’umanità. L’identificazione del pane della vita con la “carne” di Gesù ci porta a pensare all’ultima cena in cui Gesù darà ai suoi discepoli il pane e il vino come segno del Suo corpo.
Il brano prosegue riportando che i giudei esprimono di nuovo la loro incredulità chiedendosi: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù non risponde alla loro domanda, ma prosegue il Suo discorso: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. “
Con queste parole Gesù, invece di chiarire il significato dell’affermazione precedente, accentua la sua realtà sottolineando come per avere la vita sia necessario non solo mangiare la Sua carne ma anche bere il Suo sangue. Poi Gesù ancora precisa: : “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.”
Con queste espressioni Egli non fa altro che ribadire quanto affermato precedentemente, sottolineando che la Sua carne è “vero” cibo e il Suo sangue è “vera” bevanda: l’effetto di questo mangiare e bere è la vita eterna che appare come una realtà già presente e al tempo stesso futura, in quanto coincide con la risurrezione che avrà luogo “nell’ultimo giorno”.
Il significato della vita promessa a chi mangia la Sua carne e beve il Suo sangue viene ulteriormente specificato da Gesù con queste parole:. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”.
Tra Gesù e colui che mangia il Suo corpo e beve il Suo sangue, si instaura dunque un’intima comunione di vita, che si modella su quella che unisce Gesù al Padre, anzi ne è la conseguenza e lo sviluppo logico: come il Figlio, che è stato mandato dal Padre, attinge da Lui tutta la Sua vita, così chi si nutre del Figlio attinge da Lui quella stessa vita che Egli ha ricevuto dal Padre.
Gesù giunge alla fine del Suo discorso dicendo: “Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Con queste parole Gesù, riprendendo espressioni già usate precedentemente afferma di essere Lui il pane disceso dal cielo, perché, diversamente dalla manna, Lui dà una vita che dura eternamente.
La Sua persona, donata sulla croce per la salvezza di tutta l’umanità e rappresentata nei segni eucaristici del pane e del vino, è dunque il nutrimento dei tempi escatologici, dal quale scaturisce la vita piena nella comunione con il Padre.
Il credente è ora invitato alla comunione con la Sapienza divina e con Cristo attraverso l’Eucaristia. Non è una comunione automatica, superficiale come purtroppo spesso avviene nelle nostre celebrazioni eucaristiche distratte, abitudinarie, tradizionali, deve essere invece una comunione che è dialogo e reciprocità.
Ricordiamolo sempre: la comunione eucaristica trasforma il credente, lo rende inno di lode, lo rende Corpo di Cristo e sua Parola vivente :“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”, queste Sue parole non le dovremmo mai dimenticare!!

*****

“In Italia e in molti Paesi si celebra in questa domenica la festa del Corpo e Sangue di Cristo – si usa spesso il nome latino: Corpus Domini o Corpus Christi. Ogni domenica la comunità ecclesiale si stringe intorno all’Eucaristia, sacramento istituito da Gesù nell’Ultima Cena. Tuttavia, ogni anno abbiamo la gioia di celebrare la festa dedicata a questo Mistero centrale della fede, per esprimere in pienezza la nostra adorazione a Cristo che si dona come cibo e bevanda di salvezza.
L’odierna pagina evangelica, tratta da San Giovanni, è una parte del discorso sul “pane di vita” .
Gesù afferma: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo. […] Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» . Egli vuole dire che il Padre lo ha mandato nel mondo come cibo di vita eterna, e che per questo Lui sacrificherà sé stesso, la sua carne. Infatti Gesù, sulla croce, ha donato il suo corpo e ha versato il suo sangue. Il Figlio dell’uomo crocifisso è il vero Agnello pasquale, che fa uscire dalla schiavitù del peccato e sostiene nel cammino verso la terra promessa. L’Eucaristia è sacramento della sua carne data per far vivere il mondo; chi si nutre di questo cibo rimane in Gesù e vive per Lui. Assimilare Gesù significa essere in Lui, diventare figli nel Figlio.
Nell’Eucaristia Gesù, come fece con i discepoli di Emmaus, si affianca a noi, pellegrini nella storia, per alimentare in noi la fede, la speranza e la carità; per confortarci nelle prove; per sostenerci nell’impegno per la giustizia e la pace. Questa presenza solidale del Figlio di Dio è dappertutto: nelle città e nelle campagne, nel Nord e nel Sud del mondo, nei Paesi di tradizione cristiana e in quelli di prima evangelizzazione. E nell’Eucaristia Egli offre sé stesso come forza spirituale per aiutarci a mettere in pratica il suo comandamento – amarci come Lui ci ha amato –, costruendo comunità accoglienti e aperte alle necessità di tutti, specialmente delle persone più fragili, povere e bisognose.
Nutrirci di Gesù Eucaristia significa anche abbandonarci con fiducia a Lui e lasciarci guidare da Lui. Si tratta di accogliere Gesù al posto del proprio “io”. In questo modo l’amore gratuito ricevuto da Gesù nella Comunione eucaristica, con l’opera dello Spirito Santo alimenta l'amore per Dio e per i fratelli e le sorelle che incontriamo nel cammino di ogni giorno. Nutriti del Corpo di Cristo, noi diventiamo sempre più e concretamente il Corpo mistico di Cristo. Ce lo ricorda l’apostolo Paolo: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1 Cor10,16-17).
La Vergine Maria, che è stata sempre unita a Gesù Pane di vita, ci aiuti a riscoprire la bellezza dell’Eucaristia, a nutrircene con fede, per vivere in comunione con Dio e con i fratelli.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus 18 giugno 2017

 

Pubblicato in Liturgia

Le letture della liturgia di questa domenica della Santissima Trinità, la prima dopo Pentecoste, ci fanno intravedere il volto di Dio invisibile, misericordioso e pietoso, il cui mistero è da cercare nell’infinita sua luce che si esprime nell’amore.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, troviamo l’antico credo che il Signore stesso insegna a Mosè nella cornice del Sinai: “il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà». Il primato di Dio non è quello della giustizia che punisce, ma quello dell’amore che perdona.
Nella seconda lettura, tratta dalla seconda lettera ai Corinzi, S. Paolo conclude la lettera con un saluto trinitario “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”, che è divenuto il saluto d’ingresso della celebrazione. La Trinità entra nell’esistenza del credente offrendo la grazia di Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo.
Nel Vangelo, Giovanni ci presenta il dialogo notturno tra Gesù e Nicodemo, simbolo dell’uomo che cerca Dio con cuore sincero. A lui Gesù dice: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna...”
C’è un dono del Padre e un dono del Figlio, ma entrambi hanno lo scopo di liberare l’uomo dal male. E’ in questa luce che la divinità penetra nella vicenda umana, in quella di ogni uomo, offrendo la grazia del Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo.

Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, Mosè si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano.
Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà».
Mosè si curvò in fretta fino a terra e si prostrò. Disse: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità».
Es 34,4b-6, 8-9

L'Esodo è il secondo libro della Bibbia e della Torah ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli; nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il periodo descritto si colloca intorno al 1300-1200 a.C.
Il libro dell'Esodo è suddiviso in tre grandi sezioni, corrispondenti ai tre momenti della narrazione:
La prima, (capitoli 11,1-15,21), comprende il racconto dell'oppressione degli Ebrei in Egitto, la nascita di Mosè, la fuga di Mosè a Madian e la scelta divina, il suo ritorno in Egitto, le dieci piaghe e l'uscita dal paese.
La seconda sezione (15,22-18,27) narra del viaggio lungo la costa del Mar Rosso e nel deserto del Sinai.
La terza (19,1-40,38) riguarda l'incontro tra Dio e il popolo eletto, mediante le tappe fondamentali del decalogo e del codice dell'alleanza, seguito dall'episodio del vitello d'oro e dalla costruzione del Tabernacolo
Nel brano che abbiamo, tratto dalla terza sezione, vediamo Mosè, che volendo ricomporre l’alleanza tra il popolo e Dio, “si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano”, perché Dio gli ridoni la legge. In questo episodio, che la Liturgia ci presenta, possiamo avere la prova che Dio è veramente un Dio di misericordia.
Nei versetti precedenti avevamo visto che per la seconda volta Dio chiama Mosè sul monte per stabilire un’alleanza con il popolo d’Israele. Quando scese dal monte la prima volta, Mosè trovò che il suo popolo si era fabbricato un vitello d’oro al quale offriva sacrifici.
L’alleanza che Dio aveva stipulato con il popolo d’Israele sul monte diceva così: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.”.(Es 19:5–6) Il popolo d’Israele non aveva avuto fede in Dio durante la traversata del Mar Rosso, nel deserto si era lamentato di Lui e adesso quest’atto di ribellione del vitello d’oro avrebbe dovuto far perdere definitivamente la pazienza a Dio.
Ma Dio non solo non perde la pazienza con questo popolo caparbio, ma è disposto ad incontrare di nuovo Mosè e rinnovare la Sua alleanza. Il contenuto di questo messaggio lo troviamo nel brano di oggi:
“Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore”.
Dio proclama il Suo nome: "Yahweh! Yahweh!“ il nome irripetibile, e spiega poi il significato di quel nome “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà....”. Sono parole di una insuperabile dolcezza che non trova eguali neanche nel Nuovo Testamento!.
DIO è “misericordioso”, cioè è dotato di quella dolcezza e tenerezza di cui è simbolo il seno materno (rehem); egli è “disposto a far grazia” , cioè a donare gratuitamente la Sua benevolenza; è “lento all’ira” (paziente), in quanto non si adira facilmente contro i Suoi eletti, anche quando essi vengono meno ai loro doveri verso di Lui; Egli è ricco di “fedeltà”, ossia è fermo nella Sua fedeltà verso coloro che ha scelto e la conserva per mille generazioni, cioè senza limiti di tempo.
E’ proprio facendo appello alla Misericordia di Dio, che Mosè curvandosi fino a terra disse:
«Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità». Lo prega per il popolo di Israele, che è si gente di “dura cervice”, ma è sempre la sua gente, e di continuare a camminare ed abitare con il Suo popolo e fare di loro la Sua eredità.
Ciò che appare in primo piano è la bontà e misericordia, di Dio che Lo rende simile a una madre che tratta con tenerezza i suoi figli. Questo aspetto è trattato anche da Osea (11,1-4) che parla dell’amore di Dio per il suo popolo con note di affetto durevole, di una passione inquieta e di una tenerezza profonda. Anche secondo l'autore del libro profetico di Giona, troviamo un Dio così pietoso capace di ricredersi dei castighi minacciati alla città di Ninive., la città empia e sanguinaria di Assiria
Anche Gesù nella parabola del Figliol prodigo dipinge a parole la misericordia di Dio nella figura del padre pietoso che aspetta il figlio degenere , lo accoglie, lo riveste della dignità persa, riportandolo alla dignità di "figlio".

Salmo Dn 3

Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto il tuo nome glorioso e santo.
A te la lode e la gloria nei secoli.

Benedetto sei tu nel tuo tempio santo, glorioso.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu sul trono del tuo regno.
A te la lode e la gloria nei secoli.

Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo
gli abissi e siedi sui cherubini.
A te la lode e la gloria nei secoli.
Benedetto sei tu nel firmamento del cielo.
A te la lode e la gloria nei secoli

Questo salmo è "Il Cantico, tradizionalmente chiamato "dei tre giovani". E’ simile ad una fiaccola che rischiara l'oscurità del tempo dell'oppressione e della persecuzione, un tempo che spesso si è ripetuto nella storia di Israele e nella stessa storia del cristianesimo".
Con queste parole Giovanni Paolo II ha commentato il Cantico Dn 3, 52-57 "Ogni creatura lodi il Signore" - delle Lodi di domenica della 4ª settimana - durante l'udienza generale di mercoledì 19 febbraio 2003, nell'Aula Paolo VI. Dopo la proclamazione dei versetti 3, 52-57, il Papa ha svolto la seguente catechesi:
1. "Quei tre giovani, a una sola voce, si misero a lodare, a glorificare, a benedire Dio nella fornace" (Dn 3, 51). Questa frase introduce al celebre Cantico che ora abbiamo ascoltato in un suo frammento fondamentale. Esso si trova all'interno del Libro di Daniele, nella parte giunta a noi solo in lingua greca, ed è intonato da testimoni coraggiosi della fede, che non hanno voluto piegarsi all'adorazione della statua del re e hanno preferito affrontare una morte tragica, il martirio nella fornace ardente.
Sono tre giovani ebrei, collocati dall'autore sacro nel contesto storico del regno di Nabucodonosor, il tremendo sovrano babilonese che annientò la città santa di Gerusalemme nel 586 a.C. e deportò gli Israeliti "lungo i fiumi di Babilonia" (cfr Sal 136). Pur nel pericolo estremo, quando le fiamme ormai lambiscono i loro corpi, essi trovano la forza di "lodare, glorificare e benedire Dio", certi che il Signore del cosmo e della storia non li abbandonerà alla morte e al nulla.
2. L'autore biblico, che scriveva qualche secolo dopo, evoca questo eroico evento per stimolare i suoi contemporanei a tenere alto il vessillo della fede durante le persecuzioni dei re siro-ellenistici del secondo secolo a.C. Proprio allora si registra la coraggiosa reazione dei Maccabei, combattenti per la libertà della fede e della tradizione ebraica. Il Cantico, tradizionalmente chiamato "dei tre giovani", è simile ad una fiaccola che rischiara l'oscurità del tempo dell'oppressione e della persecuzione, un tempo che spesso si è ripetuto nella storia di Israele e nella stessa storia del cristianesimo. E noi sappiamo che il persecutore non assume sempre il volto violento e macabro dell'oppressore, ma spesso si compiace d'isolare il giusto, con la beffa e l'ironia, chiedendogli con sarcasmo: "Dov'è il tuo Dio?" (Sal 41, 4.11).
3. Nella benedizione che i tre giovani fanno salire dal crogiolo della loro prova al Signore Onnipotente sono coinvolte tutte le creature. Essi intessono una sorta di arazzo multicolore dove brillano gli astri, scorrono le stagioni, si muovono gli animali, si affacciano gli angeli e soprattutto cantano i "servi del Signore", i "pii" e gli "umili di cuore" (cfr Dn 3, 85.87).
Il brano che è stato prima proclamato precede questa magnifica evocazione di tutte le creature. Costituisce la prima parte del Cantico, la quale evoca invece la presenza gloriosa del Signore, trascendente eppure vicina. Sì, perché Dio è nei cieli, dove "penetra con lo sguardo gli abissi" (cfr 3, 55), ma è anche "nel tempio santo glorioso" di Sion (cfr 3, 53). Egli è assiso sul "trono del suo regno" eterno e infinito (cfr 3, 54), ma è anche colui che "siede sui cherubini" (cfr 3, 55), nell'arca dell'alleanza collocata nel Santo dei Santi del tempio di Gerusalemme.
4. Un Dio al di sopra di noi, capace di salvarci con la sua potenza; ma anche un Dio vicino al suo popolo, in mezzo al quale Egli ha voluto abitare nel suo "tempio santo glorioso", manifestando così il suo amore. Un amore che Egli rivelerà in pienezza nel far "abitare in mezzo a noi" il Figlio suo Gesù Cristo "pieno di grazia e di verità" (cfr Gv 1, 14). Egli rivelerà in pienezza il suo amore nel mandare in mezzo a noi il Figlio a condividere in tutto, fuorché nel peccato, la nostra condizione segnata da prove, oppressioni, solitudine e morte.
La lode dei tre giovani al Dio Salvatore continua in modo vario nella Chiesa. Per esempio, san Clemente Romano, al termine della sua Lettera ai Corinzi, inserisce una lunga preghiera di lode e di fiducia, tutta intessuta di reminiscenze bibliche e forse riecheggiante l'antica liturgia romana. È una preghiera di gratitudine al Signore che, nonostante l'apparente trionfo del male, guida a buon fine la storia.
5. Eccone un passaggio:
"Tu apristi gli occhi del nostro cuore (cfr Ef 1, 18) perché conoscessimo te il solo (cfr Gv 17, 3) altissimo nell'altissimo dei cieli il Santo che riposi tra i santi che umìli la violenza dei superbi (cfr Is 13, 11) che sciogli i disegni dei popoli (cfr Sal 32, 10) che esalti gli umili e abbassi i superbi (cfr Gb 5, 11). Tu che arricchisci e impoverisci che uccidi e dai la vita (cfr Dt 32, 39) il solo benefattore degli spiriti e Dio di ogni carne che scruti gli abissi (cfr Dn 3, 55) che osservi le opere umane che soccorri quelli che sono in pericolo e salvi i disperati (cfr Gdt 9, 11) creatore e custode di ogni spirito che moltiplichi i popoli sulla terra e che fra tutti scegliesti quelli che ti amano per mezzo di Gesù Cristo l'amatissimo tuo Figlio mediante il quale ci hai educato, ci hai santificato e ci hai onorato"
(Clemente Romano, Lettera ai Corinzi, 59, 3: I Padri Apostolici, Roma 1976, pp. 88-89).

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano.
La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.
2Cor 13,11-13

Paolo scrive la seconda lettera al Corinzi, (si può pensare intorno agli anni 56-57) spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo si trovava ad Efeso (At 19) e venne a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stavano sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito, prendendo tutto il tempo necessario.
Mentre aspetta è pubblicamente offeso, probabilmente da uno dei suoi più vicini collaboratori (parla di un offensore e di un offeso (2,5;7,12). Sotto la spinta dell’emozione invia una lettera, che sarà giudicata troppo severa (2,3-4;8-12), in cui esige che sia riparata una tale offesa.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha però il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, nella sua mistica. E’ in questi capitoli che si può entrare nella psicologia e nel carattere appassionato di Paolo e si può affermare che per comprenderlo meglio ci si deve rifare sempre a questa lettera che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”. In nessun altro scritto traspare tanto la sua personalità, caratterizzata da un contrasto di forza e di debolezza, di audacia e di riserbo, di impetuosità e di tenerezza. Lo scopriamo organizzatore e missionario, fondatore e pastore, mistico e uomo d’azione, con una coscienza profonda della sua missione apostolica.
Il brano che la liturgia ci presenta riporta gli ultimi tre versetti della lettera ed è stato scelto per la particolare benedizione finale, in cui compaiono le persone della Trinità e le loro particolari attribuzioni (la grazia, l'amore, la comunione).
“Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi”.
Dopo averli prima ammoniti severamente, Paolo esorta ora i Corinzi alla gioia, una gioia speciale che deriva dall'appartenere a Cristo indirizzandoli ad una adesione vera e sincera.
La gioia è quindi un atteggiamento di fondo che continua anche davanti alle persecuzioni e alla perdita dell'entusiasmo iniziale. Li esorta anche alla perfezione, nel senso di ritornare sulla retta via dato che essi si erano lasciati sviare da chi aveva denigrato Paolo.
E’ da notare che li invita a farsi coraggio con il verbo parakaleo, (da cui deriva anche il termine Paraclito, attribuito soprattutto allo Spirito), in cui si possono trovare anche i significati di incoraggiare, esortare.
Paolo continua invitando i Corinzi alla concordia, alla pace, ricordando con una formula liturgia (e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi) che Dio ama coloro che vivono nella concordia e nella pace.
Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano”.
Il bacio (unito all'abbraccio) era un gesto liturgico, che ancora è rimasto nelle nostre assemblee nel segno della pace. E' un gesto concreto con cui si esprime la pace e il desiderio di superare rancori, odi e desideri di vendetta. I santi, per Paolo, sono i credenti, coloro che appartengono alla comunità cristiana e in questo caso i santi che salutano i Corinzi, sono i credenti della regione in cui si trova Paolo mentre scrive la lettera, presumibilmente la Macedonia.
“La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”.
Questa benedizione con cui Paolo conclude la lettera si differenzia da quelle da lui comunemente usate. Di solito si congeda invocando solo la grazia di Gesù Cristo. Qui la benedizione risulta tripartita. La grazia del Signore Gesù Cristo indica il dono della salvezza che Cristo fa alla Sua Chiesa. L'amore di Dio è quello che Lui manifesta nella sua azione salvifica. La comunione dello Spirito Santo può significare la partecipazione dei credenti ai doni dello Spirito.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo:
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Gv 3,16-18

In questo brano del Vangelo di Giovanni, incontriamo per la prima volta Nicodemo, un dottore della Legge, fariseo e membro del Sinedrio.. Lo troveremo ancora quando interviene in difesa di Gesù allorquando i Farisei lo volevano arrestare (7,45.51) e quando insieme a Giuseppe d’Arimatea contribuisce alla deposizione di Gesù dopo la crocifissione e lo aiuta a deporne il corpo nella tomba (19,39-42)
Nicodemo è simbolo dell’uomo che cerca Dio con cuore sincero, è incuriosito da Gesù, ne è affascinato. Sappiamo che è un uomo retto, un uomo di Legge, ma ha paura, teme il giudizio impietoso dei suoi amici farisei del Sinedrio, per cui va da Gesù di notte. Gesù lo accoglie ugualmente e lo invita a riflettere: per cambiare deve avere il coraggio di rinascere dall'alto, deve avere il coraggio di cambiare mentalità.
Cosa avrà provato Nicodemo quando Gesù gli disse:”Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna....”
C’è il verbo del dono che emerge “dare” e sarà ripreso nel Vangelo per descrivere il darsi di Gesù nella morte di croce. C’è quindi, un dono del Padre e un dono del Figlio, ma entrambi hanno come fine la liberazione dell’uomo dal male.
Sicuramente anche Nicodemo, come i discepoli e come noi oggi, ha fatto fatica a percepire l'inaudita novità di un Dio Uno e Trino. Gesù ci rivela il Padre. È l'unico che può farlo veramente; lo leggiamo nel prologo di questo vangelo: In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio: è il Figlio che svela il Padre, il Risorto che toglie il velo che ci impedisce di vedere e di percepire la realtà divina di tre Persone la cui relazione d'amore coinvolge tutti noi che formiamo la Chiesa e siamo destinatari della stessa relazione d'amore divina che ci travolge e ci porta ad una prospettiva che ci riempie di speranza gioiosa: la vita eterna!
Karl Rahner (teologo gesuita uno dei maggiori protagonisti del rinnovamento della Chiesa che portò al Concilio Vaticano II) dà un immagine suggestiva per descrivere la presenza segreta ed efficace della Trinità nella storia e nella vita umana, “La nostra esistenza è come un rivolo che serpeggia in un deserto fatto di banalità, di male, di egoismi. C’è il rischio che quella steppa riesca ad essiccarlo. Ma dietro le dune grigie dei nostri giorni, sentiamo l’eco di un mare immenso. Il nostro ruscello, anche se lentamente, è destinato ad approdare nelle onde infinite di Dio. Il Cristo stesso ci estrae dalle secche, ci aiuta ad uscire dal deserto del peccato e ci fa discendere nel grande mare della pace e della luce di Dio.”

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“Le Letture bibliche di questa domenica, festa della Santissima Trinità, ci aiutano ad entrare nel mistero dell’identità di Dio. La seconda Lettura presenta le parole augurali che San Paolo rivolge alla comunità di Corinto: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» . Questa – diciamo – “benedizione” dell’Apostolo è frutto della sua esperienza personale dell’amore di Dio, quell’amore che Cristo risorto gli ha rivelato, che ha trasformato la sua vita e lo ha “spinto” a portare il Vangelo alle genti. A partire da questa sua esperienza di grazia, Paolo può esortare i cristiani con queste parole: «Siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, […] vivete in pace» .
La comunità cristiana, pur con tutti i limiti umani, può diventare un riflesso della comunione della Trinità, della sua bontà, della sua bellezza. Ma questo – come lo stesso Paolo testimonia – passa necessariamente attraverso l’esperienza della misericordia di Dio, del suo perdono.
E’ ciò che accade agli ebrei nel cammino dell’esodo. Quando il popolo infranse l’alleanza, Dio si presentò a Mosè nella nube per rinnovare quel patto, proclamando il proprio nome e il suo significato. Così dice: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). Questo nome esprime che Dio non è lontano e chiuso in sé stesso, ma è Vita che vuole comunicarsi, è apertura, è Amore che riscatta l’uomo dall’infedeltà. Dio è “misericordioso”, “pietoso” e “ricco di grazia” perché si offre a noi per colmare i nostri limiti e le nostre mancanze, per perdonare i nostri errori, per riportarci sulla strada della giustizia e della verità. Questa rivelazione di Dio è giunta al suo compimento nel Nuovo Testamento grazie alla parola di Cristo e alla sua missione di salvezza. Gesù ci ha manifestato il volto di Dio, Uno nella sostanza e Trino nelle persone; Dio è tutto e solo Amore, in una relazione sussistente che tutto crea, redime e santifica: Padre e Figlio e Spirito Santo.
E il Vangelo di oggi “mette in scena” Nicodemo, il quale, pur occupando un posto importante nella comunità religiosa e civile del tempo, non ha smesso di cercare Dio. Non pensò: “Sono arrivato”, non ha smesso di cercare Dio; e ora ha percepito l’eco della sua voce in Gesù. Nel dialogo notturno con il Nazareno, Nicodemo comprende finalmente di essere già cercato e atteso da Dio, di essere da Lui personalmente amato. Dio sempre ci cerca prima, ci attende prima, ci ama prima. È come il fiore del mandorlo; così dice il Profeta: “Fiorisce prima” (cfr Ger 1,11-12). Così infatti gli parla Gesù: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Che cosa è questa vita eterna? È l’amore smisurato e gratuito del Padre che Gesù ha donato sulla croce, offrendo la sua vita per la nostra salvezza. E questo amore con l’azione dello Spirito Santo ha irradiato una luce nuova sulla terra e in ogni cuore umano che lo accoglie; una luce che rivela gli angoli bui, le durezze che ci impediscono di portare i frutti buoni della carità e della misericordia.
Ci aiuti la Vergine Maria ad entrare sempre più, con tutto noi stessi, nella Comunione trinitaria, per vivere e testimoniare l’amore che dà senso alla nostra esistenza.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 11 giugno 2017

Pubblicato in Liturgia

La festa della Pentecoste rievoca la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e la loro investitura missionaria, avvenuta cinquanta giorni dopo la Pasqua di resurrezione.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, viene sottolineato che lo Spirito scendendo sugli apostoli dà loro il potere di esprimersi in tutte le lingue. Da quel momento la Chiesa proclama un unico linguaggio, quello di Cristo e dell’amore. La diversità delle culture, delle razze e dei doni personali non è sorgente di incomprensione e di ostilità, ma diventa una “sinfonia” di voci che secondo i timbri e totalità differenti annunziano la stessa gioia e la stessa speranza.
Nella seconda lettura, tratta dalla 1^ lettera ai Corinzi, Paolo affronta il tema dell'unità nella diversità paragonando la comunità al corpo umano. E’ lo Spirito Santo l’anima del corpo che è la Chiesa. E’ lo Spirito il criterio di verifica dell’autenticità della fede.
Nel Vangelo, Giovanni presenta la prima Pentecoste ambientata nella stessa sera del giorno di Pasqua. Nel cenacolo, il Cristo risorto compie innanzitutto un atto simbolico “soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo….” Lo Spirito di Dio è soffio della vita, la sorgente della creazione, il principio di una nuova esistenza interiore. Nella Pentecoste narrata da Giovanni Cristo appare come il creatore dell’uomo nuovo, libero dal peccato e dal male. Infatti le parole che accompagnano il gesto simbolico del soffio sono emblematiche: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.

Dagli Atti degli Apostoli
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
At 2,1-11

Luca inizia il suo racconto indicando il momento e il luogo in cui si è verificato l’evento: “Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste si trovavano tutti insieme nello stesso luogo.” In realtà stava per compiersi non tanto il giorno di Pentecoste, che era solo iniziato, ma il conto delle sette settimane, a partire dalla Pasqua, al termine delle quali ha luogo la Pentecoste . 1*
Anche se non viene precisato chi fosse presente all’avvenimento, si può supporre che insieme ai discepoli fosse presente Maria insieme ad altre donne. Luca dicendo “si trovavano tutti insieme” vuole sottolineare non solo la presenza fisica nello stesso luogo ma anche l’unione che regnava tra coloro che costituivano il primo nucleo della Chiesa.
“Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano”.
I termini che Luca usa si ricollegano alla terminologia usata per descrivere la teofania
(V. 1Re 19,11), e il termine “vento” allude già allo Spirito (pneuma), che ad esso viene spesso assimilato (Ez 37,9; Gv 3,8). Il fragore venuto dal cielo “riempie” tutta la casa, così come lo Spirito “riempirà” tutti i presenti.
“Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”.
Il fuoco, a cui le lingue assomigliavano, è anch’esso un’immagine ricavata dalla rappresentazione biblica della teofania (Es 19,18). È indicativo inoltre che, la parola di Dio ha preso la forma di una torcia di fuoco.
Il fatto che i presenti parlino “altre lingue” richiama la leggenda giudaica secondo la quale al Sinai la parola di Dio si divideva in 70 lingue. A prima vista sembra quindi che essi parlassero ognuno una lingua diversa dall’altra, ma dal seguito del racconto appare che si trattava piuttosto di un miracolo di audizione, simile a quello che, secondo le leggende giudaiche, si era verificato al Sinai: in realtà essi parlavano normalmente e i presenti li comprendevano nella propria lingua originaria.
Questo fenomeno non è conosciuto altrove nel N.T- perciò diversi studiosi pensano che originariamente si trattasse non di un ”parlare in altre lingue”, ma del “parlare in lingue”, cioè della “glossolalia”, un carisma che consiste nel lodare Dio in una lingua sconosciuta.
Il fragore della teofania viene udito anche all’esterno della casa in cui si trovavano gli apostoli, e subito si raduna una piccola folla di curiosi, pieni di stupore e di meraviglia, “perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua… delle grandi opere di Dio”. La gente che si era radunata era composta di giudei della diaspora e di proseliti, cioè pagani convertiti in modo pieno al giudaismo, venuti a stabilirsi a Gerusalemme. I loro paesi di origine sono elencati in modo tale da dare l’impressione che si tratti di tutto il mondo allora conosciuto. Pur essendo giudei di nascita o di religione, i testimoni della Pentecoste cristiana sono presentati come i rappresentanti delle nazioni alle quali sarà rivolto l’annunzio evangelico.
Lo Spirito Santo con la Sua discesa sugli Apostoli e Maria ha completato l’opera dell’Incarnazione di Dio: al momento della Sua prima discesa, lo Spirito Santo aveva compiuto nella santa Vergine l’Incarnazione del Verbo, permettendo che il Verbo divenisse, nel suo corpo, il Dio-Uomo, per esserlo nell’eternità. Al momento della Sua seconda discesa, durante la Pentecoste, lo Spirito Santo discende per dimorare nel Suo corpo che è la Chiesa.
Maria è presente poiché è l’unica che possa confermare la presenza e l’azione dello Spirito, in quanto lei è la sola che ne ha già fatto esperienza, avendo, per opera dello Spirito Santo, generato al mondo il Verbo consustanziale al Padre.
Gli Apostoli sono rivestiti di Spirito Santo e annunciano al mondo quel Verbo eterno, crocifisso e risorto che Maria ha generato nella carne. Essi proclamano, lei conferma! Loro annunciano, a lei è stato annunciato! Essi diffondo la Parola di Vita, lei ha dato vita alla Parola!

Salmo 103 Manda il tuo Spirito, Signore,

Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.

Togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.

Sia per sempre la gloria del Signore;
gioisca il Signore delle sue opere.
A lui sia gradito il mio canto,
io gioirò nel Signore.

Il fatto che i presenti parlino “altre lingue” richiama la leggenda giudaica secondo la quale al Sinai la parola di Dio si divideva in 70 lingue. A prima vista sembra quindi che essi parlassero ognuno una lingua diversa dall’altra, ma dal seguito del racconto appare che si trattava piuttosto di un miracolo di audizione, simile a quello che, secondo le leggende giudaiche, si era verificato al Sinai: in realtà essi parlavano normalmente e i presenti li comprendevano nella propria lingua originaria.
Questo fenomeno non è conosciuto altrove nel N.T- perciò diversi studiosi pensano che originariamente si trattasse non di un ”parlare in altre lingue”, ma del “parlare in lingue”, cioè della “glossolalia”, un carisma che consiste nel lodare Dio in una lingua sconosciuta.
Il fragore della teofania viene udito anche all’esterno della casa in cui si trovavano gli apostoli, e subito si raduna una piccola folla di curiosi, pieni di stupore e di meraviglia, “perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua… delle grandi opere di Dio”. La gente che si era radunata era composta di giudei della diaspora e di proseliti, cioè pagani convertiti in modo pieno al giudaismo, venuti a stabilirsi a Gerusalemme. I loro paesi di origine sono elencati in modo tale da dare l’impressione che si tratti di tutto il mondo allora conosciuto. Pur essendo giudei di nascita o di religione, i testimoni della Pentecoste cristiana sono presentati come i rappresentanti delle nazioni alle quali sarà rivolto l’annunzio evangelico.
Lo Spirito Santo con la Sua discesa sugli Apostoli e Maria ha completato l’opera dell’Incarnazione di Dio: al momento della Sua prima discesa, lo Spirito Santo aveva compiuto nella santa Vergine l’Incarnazione del Verbo, permettendo che il Verbo divenisse, nel suo corpo, il Dio-Uomo, per esserlo nell’eternità. Al momento della Sua seconda discesa, durante la Pentecoste, lo Spirito Santo discende per dimorare nel Suo corpo che è la Chiesa.
Maria è presente poiché è l’unica che possa confermare la presenza e l’azione dello Spirito, in quanto lei è la sola che ne ha già fatto esperienza, avendo, per opera dello Spirito Santo, generato al mondo il Verbo consustanziale al Padre.
Gli Apostoli sono rivestiti di Spirito Santo e annunciano al mondo quel Verbo eterno, crocifisso e risorto che Maria ha generato nella carne. Essi proclamano, lei conferma! Loro annunciano, a lei è stato annunciato! Essi diffondo la Parola di Vita, lei ha dato vita alla Parola!
Dio per segnare le stagioni ha fatto il sole e la luna. Ritirando a sera la luce stende “le tenebre e viene la notte”; e anche nella notte prosegue la vita: “si aggirano tutte le bestie della foresta; ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda”. Con i loro ruggiti “chiedono a Dio il loro cibo”. Il salmo presenta che gli animali carnivori sono stati creati così da Dio. Il libro della Genesi (1,30) presenta un mondo animale che si cibava di erbe nella situazione Edenica; ma è un'immagine rivolta a presentare come all'inizio non ci fosse la ferocia tra gli animali, benché non mancassero animali carnivori, creati da Dio, come il nostro salmo presenta.
L'uomo comincia il suo lavoro col sorgere del sole: “Allora l'uomo esce per il suo lavoro, per la sua fatica fino a sera”.
Il salmista loda ancora il Signore per le sue opere.
Passa quindi a considerare le creature del mare; in particolare il Leviatan, nome col quale l'autore designa la balena.
Il mondo animale è oggetto pure esso dell'assistenza divina: “Nascondi il tuo volto: li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere”. Se Dio ritrae la sua assistenza gli animali periscono, non hanno più l'alito delle narici “togli loro il respiro”.
Ma se manda il suo Spirito creatore sono creati. Lo Spirito di Dio è all'origine della creazione: (Gn 1,2).
Il salmista chiede che sulla terra ci sia la pace tra gli uomini, affinché “gioisca il Signore delle sue opere”. “Scompaiano i peccatori dalla terra e i malvagi non esistano più” dice, augurandosi un tempo dove gli uomini cessino di combattersi. Questo sarà nel tempo di pace che abbraccerà tutta la terra, quando la Chiesa porterà Cristo a tutte le genti; sarà la società della verità e dell'amore. Noi dobbiamo incessantemente impegnarci con la preghiera e la testimonianza per questo tempo che invochiamo nel Padre Nostro dicendo: “Venga il tuo regno”.
Commento di P.Paolo Berti
(Per avere un’idea più completa della bellezza di questo salmo è stato riportato il commento nella sua interezza e non solo per i versetti proposti dalla liturgia)

Dalla prima lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, nessuno può dire «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo.
Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito. Vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.
A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune.
Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo.
Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.
1Cor 12,3b-7.12-13

La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso nel 53-54, è una delle più lunghe fra quelle scritte da Paolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli.
La lettera si contraddistingue per la molteplicità dei temi che Paolo vi affronta per chiarire dubbi o difficoltà della comunità e per correggere abusi e deviazioni. In essa l’apostolo dovrà prendere posizioni anche piuttosto critiche, che potrebbero compromettergli la simpatia dei destinatari.
In questo brano tratto dal capitolo 12, scelto per la solennità di Pentecoste, è indicata l'azione dello Spirito Santo come garanzia per l'appartenenza dei credenti alla Chiesa. Qui l'Apostolo affronta il tema dell'unità nella diversità paragonando la comunità al corpo umano. Ai Corinti che aspiravano al dono della profezia Paolo ricorda che nella Chiesa vi sono diversi doni, la cui fonte è sempre lo Spirito Santo, che servono tutti alla vita e alla crescita della Chiesa.
Il brano inizia con una dichiarazione iniziata nel versetto precedente “Voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti. Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: «Gesù è anàtema!, “1Cor 12,2) così
“nessuno può dire «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo”
Lo Spirito non è neutrale, è lo Spirito di Dio e parla sempre in favore di Gesù Cristo perché lo riconosce Signore. E' questo il criterio per discernere i doni di profezia all'interno della Chiesa. L'appartenenza al Signore porta alla professione di fede, a riconoscere la centralità, la signoria di Cristo.
“Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito”.
I carismi sono i doni dello Spirito, si contrappongono alle esperienze estatiche che non hanno nessuna fecondità.
“Vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore”;
Per ministeri qui s’intende i servizi, la diaconia, che richiama un ministero preciso all'interno della Chiesa, giunto fino ad oggi.
“vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti”.
La Chiesa è un organismo che ha bisogno di diverse attività, ma tutte hanno come fonte Dio e sono volte al bene di tutti i credenti.
“A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune”.
I Corinzi amavano avere qualche manifestazione spirituale, e il Signore ne aveva donate loro, ma l'unica fonte di tali doni è lo Spirito e l'unica destinazione di questi doni è il bene comune. Coloro che avevano il dono di parlare in lingue diverse sotto l'influsso di qualche spirito venivano ammirati ma non apportavano nessun bene alla Chiesa.
“Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo”.
Paolo utilizzando ampiamente l’apologo classico,che paragona la società a un corpo, il quale resta unito nonostante la diversità delle sue membra, introduce la famosa allegoria della Chiesa come corpo di Cristo: nessun membro può agire per se stesso, ma agisce in virtù della sua appartenenza alla Chiesa e compie ciò che è necessario al bene di tutto il corpo.
“Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito”.
L'evento vincolante per tutte le membra della Chiesa è il Battesimo. Grazie al battesimo si è formato questo corpo, le distinzioni etniche e sociali restano, ma perdono la loro importanza.
Ciò che ci accomuna è lo Spirito che ci ha dissetati, ci ha tolti cioè da una situazione di dolorosa precarietà e ci ha resi partecipi dello stesso corpo di Cristo.
Come i Corinzi allora, anche noi oggi, dobbiamo imparare a riconoscere non solo nei fenomeni straordinari, ma anche in quelli meno straordinari, l'azione carismatica dello Spirito; dobbiamo sapere che i fatti spettacolari, i miracoli più strepitosi, non sono l'unico modo in cui si manifestano la presenza e l'azione dello Spirito Santo.

Dal Vangelo secondo Giovanni
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Gv 20,19-23

L’evangelista Giovanni, dopo la visita dei due discepoli al sepolcro (20,1-10) e la manifestazione del Risorto a Maria Maddalena (20,11-18), narra in questo brano la duplice apparizione di Gesù agli Undici, a cui fa seguito immediatamente la prima conclusione del suo vangelo.
In questa apparizione Gesù si presenta ai discepoli per conferire loro, insieme al mandato missionario, anche il dono dello Spirito che li guiderà nel loro cammino. L’evento ha luogo nello stesso giorno della risurrezione, cioè il primo dopo il sabato: si tratta dunque del primo giorno della settimana, che, come l’inizio della creazione, segna la nascita di un mondo nuovo.
Sebbene le porte del luogo in cui si trovano i discepoli siano chiuse per timore dei giudei, Gesù non ha difficoltà a entrare perchè il Suo corpo ormai spiritualizzato non è più legato ai limiti propri dell’esistenza fisica, tipica di questo mondo. Egli presentandosi in mezzo ai discepoli, dice loro: “Pace a voi” (shalôm). Questo saluto è tipico del costume ebraico, ma qui Gesù intende esprimere qualcosa di più di un semplice saluto. Dopo essersi presentato ai discepoli, Gesù mostra loro le mani e il costato. Con questo gesto egli intende non soltanto dimostrare la realtà della Sua presenza, ma anche ricordare come sia proprio in forza della Sua morte in croce, che Egli si presenta a loro nella Sua nuova realtà.
L’apparizione di Gesù provoca nei discepoli una reazione di incontenibile e profonda gioia. Non si tratta semplicemente della soddisfazione di rivedere in vita una persona tanto amata, ma piuttosto di una gioia indescrivibile, perchè ultraterrena, che solo la presenza di Gesù porta con sé.
Poi Gesù ripete il saluto: “Pace a voi” e prosegue: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Manda proprio loro, che lo hanno abbandonato e che hanno avuto paura, a continuare la sua missione: donare agli uomini il perdono del Padre. Chi ha sperimentato la forza risanante del perdono è chiamato a donare agli altri la possibilità di vivere la stessa esperienza, testimoniando il volto di un Dio che perdona.
Gesù poi, alitando sui discepoli, dice: “Ricevete lo Spirito Santo”.
Gesù aveva promesso anche il dono dello Spirito Santo. Ne aveva parlato a più riprese nel discorso di addio dell'ultima cena. Il Paraclito sarebbe rimasto sempre con i discepoli (Gv 14,1-17); avrebbe reso testimonianza al mistero di Gesù per accompagnare i discepoli suoi testimoni (Gv 15,26), li avrebbe condotti alla verità tutta intera (Gv 16,13-15).
Ora Gesù dona questo Spirito, e lo dona come DIO ha fatto nel giorno in cui ha soffiato la vita nelle narici di Adamo. E' una nuova creazione, la storia ricomincia!
Solo lo Spirito è in grado di accomunare profondamente i discepoli al Maestro e come conseguenza di questo dono Egli dà ai discepoli il potere di rimettere i peccati: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Anche la remissione dei peccati, come la pace, era un dono promesso da DIO.. In particolare era messa in relazione con l'effusione dello Spirito di Dio. Con il suo soffio Gesù ha inaugurato una nuova creazione, una rinascita dell'uomo e dunque il perdono dei suoi peccati. Gesù aveva già detto: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. Gv 5,24
Ora dunque il potere di rimettere i peccati passa ai discepoli. E’ alquanto difficile pensare che la misericordia del Padre possa avere dei limiti ma esiste il perdono, ma esiste anche l’esclusione perché l’uomo è libero, anche di rifiutare l’amore di Dio. (È l’uomo che con la sua libertà può scegliere anche la propria rovina definitiva, la sua “morte seconda” di cui parla l’Apocalisse (Ap 20, 6).
La missione di Gesù non ha limiti e così la missione di tutti i Suoi discepoli, di ogni tempo e di ogni luogo. Uniti dobbiamo chiedere al Padre, che nel mistero della Pentecoste santifichi la Sua Chiesa in ogni popolo e nazione, diffondendo sino ai confini della terra i doni dello Spirito Santo.

 

*****

LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO

“Pentecoste arrivò, per i discepoli, dopo cinquanta giorni incerti. Da un lato Gesù era Risorto, pieni di gioia lo avevano visto e ascoltato, e avevano pure mangiato con Lui. Dall’altro lato, non avevano ancora superato dubbi e paure: stavano a porte chiuse con poche prospettive, incapaci di annunciare il Vivente.
Poi arriva lo Spirito Santo e le preoccupazioni svaniscono: ora gli Apostoli non hanno timore nemmeno davanti a chi li arresta; prima preoccupati di salvarsi la vita, ora non hanno più paura di morire; prima rinchiusi nel Cenacolo, ora annunciano a tutte le genti. Fino all’Ascensione di Gesù attendevano un Regno di Dio per loro (cfr At 1,6), ora sono impazienti di raggiungere confini ignoti. Prima non avevano quasi mai parlato in pubblico e quando l’avevano fatto avevano spesso combinato guai, come Pietro rinnegando Gesù; ora parlano con parresia a tutti.
La vicenda dei discepoli, che sembrava al capolinea, viene insomma rinnovata dalla giovinezza dello Spirito: quei giovani, che in preda all’incertezza si sentivano arrivati, sono stati trasformati da una gioia che li ha fatti rinascere. Lo Spirito Santo ha fatto questo. Lo Spirito non è, come potrebbe sembrare, una cosa astratta; è la Persona più concreta, più vicina, quella che ci cambia la vita. Come fa? Guardiamo agli Apostoli. Lo Spirito non ha reso loro le cose più facili, non ha fatto miracoli spettacolari, non ha tolto di mezzo problemi e oppositori, ma lo Spirito ha portato nelle vite dei discepoli un’armonia che mancava, la sua, perché Egli è armonia.
Armonia dentro l’uomo. Dentro, nel cuore i discepoli avevano bisogno di essere cambiati. La loro storia ci dice che persino vedere il Risorto non basta, se non Lo si accoglie nel cuore. Non serve sapere che il Risorto è vivo se non si vive da Risorti. Ed è lo Spirito che fa vivere e rivivere Gesù in noi, che ci risuscita dentro. Per questo Gesù, incontrando i suoi, ripete: «Pace a voi!» e dona lo Spirito. La pace non consiste nel sistemare i problemi di fuori – Dio non toglie ai suoi tribolazioni e persecuzioni – ma nel ricevere lo Spirito Santo. In questo consiste la pace, quella pace data agli Apostoli, quella pace che non libera dai problemi ma nei problemi, è offerta a ciascuno di noi. È una pace che rende il cuore simile al mare profondo, che è sempre tranquillo anche quando in superficie le onde si agitano. È un’armonia così profonda che può trasformare persino le persecuzioni in beatitudini. Quante volte, invece, rimaniamo in superficie! Anziché cercare lo Spirito tentiamo di rimanere a galla, pensando che tutto andrà meglio se passerà quel guaio, se non vedrò più quella persona, se migliorerà quella situazione. Ma questo è rimanere in superficie: passato un problema ne arriverà un altro e l’inquietudine ritornerà. Non è prendendo le distanze da chi non la pensa come noi che saremo sereni, non è risolvendo il guaio del momento che staremo in pace. La svolta è la pace di Gesù, è l’armonia dello Spirito.
Oggi, nella fretta che il nostro tempo ci impone, sembra che l’armonia sia emarginata: tirati da mille parti rischiamo di scoppiare, sollecitati da un nervosismo continuo che fa reagire male a ogni cosa. E si cerca la soluzione rapida, una pastiglia dietro l’altra per andare avanti, un’emozione dietro l’altra per sentirsi vivi. Ma abbiamo soprattutto bisogno dello Spirito: è Lui che mette ordine nella frenesia. Egli è pace nell’inquietudine, fiducia nello scoraggiamento, gioia nella tristezza, gioventù nella vecchiaia, coraggio nella prova. È Colui che, tra le correnti tempestose della vita, fissa l’ancora della speranza. È lo Spirito che, come dice oggi San Paolo, ci impedisce di ricadere nella paura perché ci fa sentire figli amati (cfr Rm 8,15).
È il Consolatore, che ci trasmette la tenerezza di Dio. Senza lo Spirito la vita cristiana è sfilacciata, priva dell’amore che tutto unisce. Senza lo Spirito Gesù rimane un personaggio del passato, con lo Spirito è persona viva oggi; senza lo Spirito la Scrittura è lettera morta, con lo Spirito è Parola di vita. Un cristianesimo senza lo Spirito è un moralismo senza gioia; con lo Spirito è vita.
Lo Spirito Santo non porta solo armonia dentro, ma anche fuori, tra gli uomini. Ci fa Chiesa, compone parti diverse in un unico edificio armonico. Lo spiega bene San Paolo che, parlando della Chiesa, ripete spesso una parola, “diversi”: «diversi carismi, diverse attività, diversi ministeri» (1 Cor 12,4-6).
Siamo diversi, nella varietà delle qualità e dei doni. Lo Spirito li distribuisce con fantasia, senza appiattire, senza omologare. E, a partire da queste diversità, costruisce l’unità. Fa così, fin dalla creazione, perché è specialista nel trasformare il caos in cosmo, nel mettere armonia. È specialista nel creare le diversità, le ricchezze; ognuno la sua, diversa. Lui è il creatore di questa diversità e, allo stesso tempo, è Colui che armonizza, che dà l’armonia e dà unità alla diversità. Soltanto Lui può fare queste due cose.
Oggi nel mondo le disarmonie sono diventate vere e proprie divisioni: c’è chi ha troppo e c’è chi nulla, c’è chi cerca di vivere cent’anni e chi non può venire alla luce. Nell’era dei computer si sta a distanza: più “social” ma meno sociali. Abbiamo bisogno dello Spirito di unità, che ci rigeneri come Chiesa, come Popolo di Dio, e come umanità intera. Che ci rigeneri. Sempre c’è la tentazione di costruire “nidi”: di raccogliersi attorno al proprio gruppo, alle proprie preferenze, il simile col simile, allergici a ogni contaminazione. E dal nido alla setta il passo è breve, anche dentro la Chiesa. Quante volte si definisce la propria identità contro qualcuno o contro qualcosa! Lo Spirito Santo, invece, congiunge i distanti, unisce i lontani, riconduce i dispersi. Fonde tonalità diverse in un’unica armonia, perché vede anzitutto il bene, guarda all’uomo prima che ai suoi errori, alle persone prima che alle loro azioni. Lo Spirito plasma la Chiesa, plasma il mondo come luoghi di figli e di fratelli. Figli e fratelli: sostantivi che vengono prima di ogni altro aggettivo. Va di moda aggettivare, purtroppo anche insultare. Possiamo dire che noi viviamo una cultura dell’aggettivo che dimentica il sostantivo delle cose; e anche in una cultura dell’insulto, che è la prima risposta ad un’opinione che io non condivido. Poi ci rendiamo conto che fa male, a chi è insultato ma anche a chi insulta. Rendendo male per male, passando da vittime a carnefici, non si vive bene. Chi vive secondo lo Spirito, invece, porta pace dov’è discordia, concordia dov’è conflitto. Gli uomini spirituali rendono bene per male, rispondono all’arroganza con mitezza, alla cattiveria con bontà, al frastuono col silenzio, alle chiacchiere con la preghiera, al disfattismo col sorriso.
Per essere spirituali, per gustare l’armonia dello Spirito, occorre mettere il suo sguardo davanti al nostro. Allora le cose cambiano: con lo Spirito la Chiesa è il Popolo santo di Dio, la missione il contagio della gioia, non il proselitismo, gli altri fratelli e sorelle amati dallo stesso Padre. Ma senza lo Spirito la Chiesa è un’organizzazione, la missione propaganda, la comunione uno sforzo. E tante Chiese fanno azioni programmatiche in questo senso di piani pastorali, di discussioni su tutte le cose. Sembra che sia quella strada ad unirci, ma questa non è la strada dello Spirito, è la strada della divisione. ……. Egli «viene dov’è amato, dov’è invitato, dov’è atteso» (S. Bonaventura, Sermone per la IV Domenica dopo Pasqua). Fratelli e sorelle, preghiamolo ogni giorno. Spirito Santo, armonia di Dio, Tu che trasformi la paura in fiducia e la chiusura in dono, vieni in noi. Dacci la gioia della risurrezione, la perenne giovinezza del cuore. Spirito Santo, armonia nostra, Tu che fai di noi un corpo solo, infondi la tua pace nella Chiesa e nel mondo. Spirito Santo, rendici artigiani di concordia, seminatori di bene, apostoli di speranza.”

Papa Francesco Parte dell’Omelia del 9 giugno 2019

 

1 Nota L'origine della festa di Pentecoste è ebraica e si riferisce allo Shavuot, celebrata sette settimane dopo la Pasqua ebraica.

La festività era legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio sul Monte Sinai, dove Dio ha donato al popolo ebraico la Torah.

Pubblicato in Liturgia

Siamo alla Vigilia di Pentecoste che rievoca l’attesa della discesa dello Spirito Santo sugli apostoli radunati con Maria, nel Cenacolo in attesa del compimento della promessa di Gesù.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Ezechiele, vediamo come agli ebrei esiliati il profeta Ezechiele infonde speranza. Viene descritta una visione surreale e paurosa: in una valle infernale, c’è una distesa di scheletri. Ma su di loro irrompe lo spirito creatore di Dio e sulle ossa inaridite si intesse la carne, cioè la vita. Alla fine un popolo immenso si erge in piedi, pronto per una nuova esistenza. Ciò che viene descritto è però una parabola destinata ad illustrare il ritorno-resurrezione di Israele dalla “tomba” dell’esilio di Babilonia. E’ quindi una risurrezione morale, una rinascita del coraggio e della speranza.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, l’Apostolo Paolo afferma che la nostra speranza della gloria di Dio, non paragonabile con le attuali sofferenze, non sarà delusa r tutta la vita cristiana è protesa tra il già e il non-ancora. Poi riferendosi allo Spirito Santo afferma che noi non sappiamo nemmeno come pregare, cosa chiedere al Signore, ma lo Spirito viene in nostro aiuto e intercedendo per noi, si mette in mezzo tra noi e Dio e chiede a Lui ciò che è meglio per noi, con un linguaggio che noi non sappiamo comprendere, ma che è ben chiaro al Signore.
Nel Vangelo di Giovanni, le parole di Gesù prendono spunto dal rito dell’acqua che aveva luogo durante la festa delle capanne. Gesù osserva il rito e rivolto alle folle afferma “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva, chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”. Gesù è la fonte dell'acqua viva, il credente che si è rivolto a Lui e che ha bevuto diventa a sua volta sorgente grazie al suo legame con Gesù.

Dal Libro del profeta Ezechiele
In quei giorni la mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare accanto a esse da ogni parte. Vidi che erano in grandissima quantità nella distesa della valle e tutte inaridite.
Mi disse: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?». Io risposi: «Signore Dio, tu lo sai». Egli mi replicò: «Profetizza su queste ossa e annuncia loro: “Ossa inaridite, udite la parola del Signore. Così dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore”».Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai, ed ecco apparire sopra di esse i nervi; la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro.
Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza, figlio dell’uomo, e annuncia allo spirito: “Così dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano”». Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato.
Mi disse: «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa d’Israele.Ecco, essi vanno dicendo: “Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti”. Perciò profetizza e annuncia loro: “Così dice il Signore Dio: Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”».
Ez 37,1-14

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme.
Il libro di Ezechiele contiene due raccolte di oracoli, quelli composti prima della caduta di Gerusalemme (cc. 1-24) e quelli posteriori ad essa (cc. 33-39). Tra queste due raccolte si situano gli oracoli contro le nazioni (cc. 25-32). Al termine c’è una sezione chiamata “Torah di Ezechiele” (cc. 40-48), dove sono descritte le istituzioni future. Gli oracoli posteriori alla caduta di Gerusalemme hanno come tema la conversione e il ritorno degli esuli nella loro terra. I temi svolti in questa raccolta sono: il ruolo del profeta (Ez 33), Dio unico pastore di Israele (Ez 34), la rinascita del popolo (Ez 35-37), la vittoria finale sui suoi nemici (Ez 38-39). Nella sezione in cui si parla della rinascita di Israele, questa viene presentata come effetto di un dono dello Spirito (Ez 36,24-32), al quale viene poi attribuita la risurrezione di un popolo ridotto a una distesa di ossa inaridite (Ez 37,1-10).
Il questo brano Ezechiele descrive una visione surreale e paurosa: in una valle infernale una distesa di scheletri calcificati, ossa inaridite. Il testo inizia con la domanda alquanto retorica rivolta dal Signore ad Ezechiele “Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?” C’è da tenere presente che al tempo di Ezechiele non c'era ancora una fede nella risurrezione, per cui la risposta poteva essere solo negativa. Ezechiele risponde in modo alquanto vago “Signore Dio, tu lo sai” lasciando aperto una possibilità alla potenza infinita di Dio. Ezechiele riceve allora l'ordine di profetizzare su quelle ossa inaridite con le parole stesse del Signore “Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore”. Poi c’è la descrizione di ciò che avviene: il rumore e un movimento fra le ossa, che si accostano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente, il ritorno poi dei nervi, carne e pelle, ma mancava a quei corpi lo spirito, principio di vita.
Poi c’è il secondo comando del Signore indirizzato allo spirito di vita. Ezechiele obbedisce al comando e lo spirito di vita entra in quei corpi inanimati che tornano in vita e si alzano in piedi: “erano un esercito grande, sterminato”, è il commento del profeta.
In questo testo Ezechiele si serve del linguaggio della risurrezione per spiegare la liberazione del popolo dall’esilio. Non si tratta certo di una risurrezione vera e propria, ma del ritorno a una vita piena dopo l’esperienza di una sofferenza che può essere considerata come una morte, perché senza libertà la vita non è degna di essere vissuta.
La liberazione promessa è un dono gratuito di Dio, che se anche ha una componente politica, si identifica anche con la ripresa di un rapporto con Dio, che comporta una fedeltà continua a Lui. È proprio nel riconoscere in Dio, il garante della sua liberazione, che il popolo eviterà di cadere schiavo di potenze straniere, anche quando sarà politicamente sottomesso ad esse. Pur non riferendosi alla risurrezione individuale dopo la morte, l’immagine suggestiva usata da Ezechiele, anche con la solenne promessa di Dio; “Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”, ha posto le premesse per il successivo sviluppo della fede di Israele. Quando la restaurazione del popolo apparirà come un evento che si attuerà alla fine dei tempi, sorgerà il problema del destino di coloro che sono morti prima che questo evento si realizzasse, e soprattutto dei martiri che hanno dato la vita perché si attuasse la gloria finale del popolo. È allora che l’immagine della risurrezione sarà utilizzata per indicare la partecipazione di tutti i defunti alla beatitudine finale di Israele, quando alla fine tutti i giusti torneranno in vita per entrare nella beatitudine del regno di Dio.

Salmo 50 Rinnovami, Signore, con la tua grazia.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Tu gradisci la sincerità nel mio animo,
nel segreto del cuore m’insegna la sapienza.
Aspergimi con rami d’issopo e sarò puro;
Lavami e sarò più bianco della neve.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode

Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10).
Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento di p.Paolo Berti

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.
Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati.
Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.
Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.
Rm 8,22-27

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
Questo brano, tratto dal capitolo 8, è dedicato al tema dello Spirito che anima l'esistenza cristiana.
Nei versetti precedenti, non riportati dalla liturgia, l’Apostolo esprime alcune considerazioni sulla sofferenza che i cristiani di Roma stavano sopportando a causa delle persecuzioni.
“sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.”
C'è una situazione di sofferenza che dura sin dalla fondazione del mondo, del mondo materiale, creato per l’uomo, che partecipa al suo destino. Ma come il corpo dell’uomo è destinato alla gloria, così anche il mondo sarà oggetto di redenzione e parteciperà alla “libertà” dello stato glorioso.
(La filosofia greca voleva liberare lo spirito dalla materia considerata come cattiva; il cristianesimo libera la stessa materia. Uguale estensione della salvezza va al mondo non umano, ossia al mondo animale!
Su questo Paolo VI commentava: “Anche gli animali sono creature di Dio, che nella loro muta sofferenza sono un segno dell’impronta universale del peccato e dell’universale attesa della redenzione”, e ancora: “li ritroveremo i nostri amici animali nel mistero di Cristo risorto”).
“Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati.”
Coloro che hanno aderito a Cristo nella fede possiedono già le primizie dello Spirito, cioè una anticipazione della gloria futura e questo li aiuta a vivere nel tempo presente con gioia e speranza,. Ma nonostante questo anche loro gemono nella sofferenza, perché anche loro dovranno passare attraverso la morte prima che questa presenza dello Spirito si manifesti completamente.
“Ora, ciò che si spera, se è visto, non è più oggetto di speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe sperarlo? Ma, se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.”
Tutta la vita cristiana è protesa tra il già e il non-ancora. Paolo lo sottolinea contro ogni tentativo di poter comprendere umanamente il dono dello Spirito, come liberazione dai drammi della storia e come ansia verso il futuro. Egli parla di speranza, perché mediante la speranza siamo stati salvati. E' un fatto che è già avvenuto nel passato e che al tempo stesso riguarda il futuro. Si è realizzato in parte, ma per il suo pieno compimento dobbiamo ancora aspettare. Ciò che si spera mantiene viva l'attesa, ma è anche vero che ciò che si è realizzato non si spera più.
Paolo evidenzia qui ancora una volta la tensione che anima la vita del cristiano.
“Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili;”
I cristiani vivono dunque in questa attesa verso la loro completa liberazione. Se si sentono scoraggiati per le difficoltà che incontrano nel loro quotidiano, Paolo ora li aiuta a rafforzare e completare i motivi di fiducia nella glorificazione finale.
Al doloroso gemito del mondo e dei credenti, si aggiungono i gemiti inimmaginabili dello stesso Spirito, che entra attivamente nel sofferenza dell'umanità per sostenere e indirizzare l’ansia dei cristiani. Infatti noi non sappiamo nemmeno come pregare, cosa chiedere al Signore, ma lo Spirito viene in nostro aiuto e intercedendo per noi, si pone tra noi e Dio e chiede a Lui ciò che è meglio per noi, con un linguaggio che noi non sappiamo comprendere, ma che è ben chiaro al Signore.
“e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio”.
Infatti lo Spirito è il Signore stesso e tra queste due persone della Trinità vi è una perfetta intesa. Lo Spirito aiuta i santi e i santi per Paolo sono i cristiani, cioè coloro che sono stati resi santi grazie alla loro fede in Dio. Lo Spirito intercede dunque per i santi seguendo i disegni di Dio e il Signore è dunque fedele al Suo progetto e aiuta i Suoi figli a giungere alla sua piena realizzazione.

Dal vangelo secondo Giovanni
Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò:
«Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva, chi crede in me. Come dice la Scrittura:
Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva».
Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché
Gesù non era ancora stato glorificato.
Gv 7,37-39

L’evangelista Giovanni ambienta il capitolo 7, da dove è tratto questo brano, a Gerusalemme durante la festa delle Capanne. Gesù era salito a Gerusalemme quasi di nascosto e solo a metà dei giorni di festa aveva cominciato a insegnare nel tempio. La gente cominciava a credere in lui, e commentava sottovoce: “Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?” (Gv 7,31). I farisei udirono che la gente andava dicendo queste cose di lui, perciò i capi dei sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo, ma nessuno riusciva a mettere le mani su di lui.
Il brano inizia riportando che: “Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa,… “
Negli insegnamenti di Gesù riportati in questo capitolo Gesù aveva parlato della sua origine (7,25-29) e della sua prossima dipartita (7,33-36). Ora annuncia il dono dello Spirito Santo: si completa così la rivelazione del disegno di Dio a favore degli uomini.
Questo ultimo annuncio Giovanni lo ambienta nell'ultimo giorno della festa delle Capanne e in quel giorno il rito prevedeva una solenne libazione fatta con l'acqua attinta alla piscina di Siloe. Si intendeva in questo modo implorare la pioggia per l'annata che incominciava, ma si chiedeva anche il rinnovamento spirituale della città santa, annunciato da Ezechiele con il simbolo dell'acqua che scaturiva dal tempio e fecondava tutta la terra al suo passaggio (Ez 47,1-12).
Giovanni continua evidenziando: “Gesù, ritto in piedi, gridò:”
Gesù si pone dunque all'interno di una delle attese del suo popolo. Mettendosi in piedi assume l'atteggiamento del profeta che sta per annunciare cose importanti per la vita di tutto il popolo.
Anche il grido rientra nell'atteggiamento del profeta, che non può mantenere per sé la parola, la deve gridare perché tutti la sentano.
“Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me”.
La sete è un elemento forte in tutte le culture. Dio aveva legato alla sete del popolo nel deserto una manifestazione della Sua fedeltà. Da allora in poi la sete ha nella Scrittura un aspetto molto importante.
“Come dice la Scrittura:Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”.
“Fiumi di acqua viva”: è lo Spirito Santo che, quando noi riascoltiamo e imitiamo Gesù Cristo, prende del suo e ce lo riferisce” (Gv 16,14) così che noi viviamo con i Suoi pensieri, con la Sua carità senza limiti. La Chiesa ha questa vita senza limiti, come un fiume che irriga e non si può fermare!
I fiumi d'acqua viva sono anche la "vita" che Israele desiderava. Spesso nella Bibbia l'acqua è simbolo della Legge vivificante, di cui era preannunciato che, al tempo della nuova Alleanza, sarebbe stata incisa nel cuore. Gesù si presenta come colui che realizza la Promessa.
“Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato.”
L’annotazione di Giovanni evidenzia come solo dopo la glorificazione di Gesù sarebbe stato donato lo Spirito. Il messaggio del Signore, perciò, resta - secondo l’Evangelista - indirizzato alla Chiesa che nascerà, cioè a noi. Gesù, dunque, annuncia che è iniziato il tempo dello Spirito..

*****

LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO

“Anche stasera, vigilia dell’ultimo giorno del tempo di Pasqua, festa di Pentecoste, Gesù è in mezzo a noi e proclama ad alta voce: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva».
È “il fiume d’acqua viva” dello Spirito Santo che scaturisce dal grembo di Gesù, dal suo fianco trafitto dalla lancia (cfr Gv 19,36), e che lava e feconda la Chiesa, mistica sposa rappresentata da Maria, nuova Eva, ai piedi della croce.
Lo Spirito Santo sgorga dal grembo di misericordia di Gesù Risorto, riempie il nostro grembo di una “misura buona, pigiata, colma e traboccante” di misericordia (cfr Lc 6,38) e ci trasforma in Chiesa-grembo di misericordia, cioè in una “madre dal cuore aperto” per tutti!
Quanto vorrei che la gente che abita a Roma riconoscesse la Chiesa, ci riconoscesse per questo di più di misericordia – non per altre cose –, per questo di più di umanità e di tenerezza, di cui c’è tanto bisogno! Si sentirebbe come a casa, la “casa materna” dove si è sempre benvenuti e dove si può sempre ritornare. Si sentirebbe sempre accolta, ascoltata, ben interpretata, aiutata a fare un passo avanti nella direzione del regno di Dio… Come sa fare una madre, anche con i figli diventati ormai grandi.
Questo pensiero alla maternità della Chiesa mi fa ricordare che 75 anni fa, l’11 giugno del 1944, il Papa Pio XII compì uno speciale atto di ringraziamento e di supplica alla Vergine, per la protezione della città di Roma ..
Lo fece nella chiesa di Sant’Ignazio, dove era stata portata la venerata immagine della Madonna del Divino Amore. L’Amore Divino è lo Spirito Santo, che scaturisce dal Cuore di Cristo. È Lui la “roccia spirituale” che accompagna il popolo di Dio nel deserto, perché attingendone l’acqua viva possa dissetarsi lungo il cammino (cfr 1 Cor 10,4).
Nel roveto che non si consuma, immagine di Maria Vergine e Madre, c’è il Cristo Risorto che ci parla, ci comunica il fuoco dello Spirito Santo, ci invita a scendere in mezzo al popolo per ascoltare il grido, ci invia per aprire il varco a cammini di libertà che portano a terre promesse da Dio.
Lo sappiamo: c’è anche oggi, come in ogni tempo, chi cerca di costruire “una città e una torre che arrivi fino al cielo” (cfr Gen 11,4). Sono i progetti umani, anche i nostri progetti, fatti al servizio di un “io” sempre più grande, verso un cielo dove non c’è più spazio per Dio.
Dio ci lascia fare per un po’, in modo da farci sperimentare fino a che punto di male e di tristezza siamo capaci di arrivare senza di Lui… Ma lo Spirito del Cristo, Signore della storia, non vede l’ora di buttare all’aria tutto, per farci ricominciare! Noi siamo sempre un po’ “stretti” di sguardo e di cuore; lasciati a noi stessi finiamo per perdere l’orizzonte; arriviamo a convincerci di aver compreso tutto, di aver preso in considerazione tutte le variabili, di aver previsto cosa accadrà e come accadrà… Sono tutte costruzioni nostre che si illudono di toccare il cielo. Invece lo Spirito irrompe nel mondo dall’Alto, dal grembo di Dio, lì dove il Figlio è stato generato, e fa nuove tutte le cose.
Che cosa celebriamo oggi, tutti insieme, in questa nostra città di Roma? Celebriamo il primato dello Spirito, che ci fa ammutolire di fronte all’imprevedibilità del piano di Dio, e poi trasalire di gioia: “Allora era questo che Dio aveva in grembo per noi!”: questo cammino di Chiesa, questo passaggio, questo Esodo, questo arrivo alla terra promessa, la città-Gerusalemme dalle porte sempre aperte per tutti, dove le varie lingue dell’uomo si compongono nell’armonia dello Spirito, perché lo Spirito è l’armonia.
E se abbiamo presenti le doglie del parto, comprendiamo che il nostro gemito, quello del popolo che abita in questa città e il gemito del creato intero non sono altro che il gemito stesso dello Spirito: è il parto del mondo nuovo. Dio è il Padre e la madre, Dio è la levatrice, Dio è il gemito, Dio è il Figlio generato nel mondo e noi, Chiesa, siamo al servizio di questo parto. Non al servizio di noi stessi, non al servizio delle nostre ambizioni, di tanti sogni di potere, no: al servizio di questo che Dio fa, di queste meraviglie che Dio fa.
«Se l’orgoglio e la presunta superiorità morale non ci ottundono l’udito, ci renderemo conto che sotto il grido di tanta gente non c’è altro che un gemito autentico dello Spirito Santo. È lo Spirito che spinge ancora una volta a non accontentarsi, a cercare di rimettersi in cammino; è lo Spirito che ci salverà da ogni “risistematizzazione” diocesana» (Discorso al Convengo diocesano , 9 maggio 2019).
Il pericolo è questa voglia di confondere le novità dello Spirito con un metodo di “risistematizzare” tutto. No, questo non è lo Spirito di Dio. Lo Spirito di Dio sconvolge tutto e ci fa incominciare non da capo, ma da un nuovo cammino.
Lasciamoci allora prendere per mano dallo Spirito e portare in mezzo al cuore della città per ascoltarne il grido, il gemito.
A Mosè Dio dice che questo grido nascosto del Popolo è arrivato sino a Lui: Egli lo ha udito, ha visto l’oppressione e le sofferenze… E ha deciso di intervenire inviando Mosè per suscitare e alimentare il sogno di libertà degli Israeliti e rivelare loro che questo sogno è la sua stessa volontà: fare di Israele un Popolo libero, il suo Popolo, legato a Lui da un’alleanza d’amore, chiamato a testimoniare la fedeltà del Signore davanti a tutte le genti.
Ma perché Mosè possa realizzare la sua missione, Dio vuole invece che egli “scenda” con Lui in mezzo agli Israeliti. Il cuore di Mosè deve diventare come quello di Dio, attento e sensibile alle sofferenze e ai sogni degli uomini, a quello che gridano di nascosto quando alzano le mani verso il Cielo, perché non hanno più appigli sulla terra. È il gemito dello Spirito, e Mosè deve ascoltare, non con l’orecchio, con il cuore.
Oggi chiede a noi, cristiani, di imparare ad ascoltare con il cuore. E il Maestro di questo ascolto è lo Spirito. Aprire il cuore perché Lui ci insegni ad ascoltare con il cuore. Aprirlo.
E per metterci in ascolto del grido della città di Roma, anche noi abbiamo bisogno che il Signore ci prenda per mano e ci faccia “scendere”, scendere dalle nostre posizioni, scendere in mezzo ai fratelli che abitano nella nostra città, per ascoltare il loro bisogno di salvezza, il grido che arriva fino a Lui e che noi abitualmente non udiamo.
Non si tratta di spiegare cose intellettuali, ideologiche. A me fa piangere quando vedo una Chiesa che crede di essere fedele al Signore, di aggiornarsi quando cerca strade puramente funzionalistiche, strade che non vengono dallo Spirito di Dio. Questa Chiesa non sa scendere, e se non si scende non è lo Spirito che comanda. Si tratta di aprire occhi e orecchie, ma soprattutto il cuore, ascoltare con il cuore. Allora ci metteremo in cammino davvero. Allora sentiremo dentro di noi il fuoco della Pentecoste, che ci spinge a gridare agli uomini e alle donne di questa città che è finita la loro schiavitù e che è Cristo la via che porta alla città del Cielo. Per questo ci vuole la fede, fratelli e sorelle. Chiediamo oggi il dono della fede per andare su questa strada.”

Papa Francesco Parte dell’Omelia dell’8 giugno 2019

Pubblicato in Liturgia

Le letture che la liturgia di questa settima domenica di Pasqua, in cui celebriamo l’Ascensione del Signore, hanno la stessa scenografia che ha come sfondo il cielo!
Già dalla prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci racconta che Gesù dal monte degli ulivi ascende verso le nubi del cielo, per cui dall’orizzonte terrestre la Sua figura penetra negli infiniti orizzonti celesti.
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera agli efesini, effonde il suo canto di benedizione nell'inno di ringraziamento a Dio, che "ci ha benedetti" in Cristo Gesù e per mezzo di Lui ci ha predestinati ad essere "figli adottivi" del Padre suo.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù, prima di salire in cielo affida ai suoi discepoli, e a tutta la chiesa, la missione di portare a tutti i popoli l’annunzio della parola di salvezza. Anche se questa missione può aver lasciato un po’ sgomenti gli apostoli che si sentivano non preparati a tale compito , Gesù con le sue ultime parole: io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» dà a loro, a noi e a tutti i cristiani di ogni tempo, una sicurezza ed una forza che nessuna potenza umana al mondo può dare.

Dagli Atti degli Apostoli
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
At 1,1-11

In questo brano viene riportato il prologo degli Atti degli Apostoli e Luca lo inizia dedicando il suo libro a Teofilo, lo stesso al quale aveva dedicato il suo vangelo. Luca ricorda che nel suo primo racconto aveva già trattato di tutto quello “che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo”.
Il gruppo dei Dodici, che dopo il tradimento di Giuda è ridotto a undici, viene così presentato fin dall’inizio come la cerchia degli intimi di Gesù, chiamati esplicitamente con l’appellativo di “apostoli”.
Dopo aver accennato all’ascensione di Gesù, Luca ci riporta al periodo precedente, affermando che Gesù è apparso agli apostoli per quaranta giorni.
Anche qui il numero 40 è un numero simbolico, che spesso è usato per indicare il tempo di preparazione a una particolare rivelazione divina (Mosè trascorre 40 giorni sul Sinai prima di ricevere le tavole dell’alleanza (Es 24,18), il popolo peregrina 40 anni nel deserto prima di giungere alla terra promessa (Nm 14,33), Elia cammina 40 giorni nel deserto verso il monte di Dio (1Re 19,8); nel giudaismo Esdra resta quaranta giorni con Dio quando gli sono consegnati i libri sacri (4Esd 14,23-45) e Baruc istruisce il popolo per quaranta giorni prima della sua assunzione in cielo (2Bar 76,1-4). Anche Gesù aveva trascorso 40 giorni nel deserto, digiunando, prima di iniziare la sua vita pubblica (Lc 4,1-2). Un tempo analogo è necessario anche agli apostoli per essere adeguatamente istruiti “con molte prove” circa il regno di Dio.
L’annunzio del regno di Dio era stato il programma di Gesù durante la Sua vita terrena, ora Egli lo affida agli apostoli e Luca si limita a riferire che Egli ingiunse loro di non lasciare Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre che essi avevano inteso da lui: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”.
Il battesimo mediante lo Spirito santo viene inteso qui non come il rito cristiano che si sostituisce a quello del Battista, ma come il dono dello Spirito fatto alla nascente comunità cristiana nel giorno di Pentecoste. Come Gesù, all’inizio della Sua attività pubblica, ha ricevuto lo Spirito Santo in occasione del battesimo di Giovanni, così anche la Chiesa, all’inizio del suo cammino nel mondo, deve essere contrassegnata dalla presenza dello Spirito.
La domanda dei discepoli a Gesù: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele”, dimostra che essi pensavano che fosse ormai imminente il momento in cui i regni di questo mondo sarebbero stati distrutti e di conseguenza instaurata la sovranità di Dio
mediante il popolo di Israele, come aveva profetizzato il profeta Daniele (7,27), ma Gesù risponde: “Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra”.
Anche per Gesù solo il Padre conosce i tempi in cui si attua il Suo progetto: ciò significa che l’instaurazione del regno non coincide con la fine del mondo perchè in realtà il regno è già stato inaugurato da Gesù, ma dovrà passare ancora un lungo periodo di tempo prima della Sua venuta piena e definitiva. Questo nuovo periodo che inizierà appunto con la venuta dello Spirito sarà contrassegnato dalla testimonianza degli apostoli che si estenderà da Gerusalemme alla Giudea e alla Samarìa e fino agli estremi confini della terra.
Per Luca, Gerusalemme è il centro della salvezza, mentre gli estremi confini della terra sono il mondo dei pagani e in particolare Roma che, come capitale dell’impero romano, rappresenta, rispetto a Gerusalemme, l’estremo opposto del mondo.
In questo versetto, che delinea il progressivo espandersi del cristianesimo, Luca indica anche il piano della sua opera: egli intende narrare lo sviluppo dell’annunzio evangelico a Gerusalemme poi in Giudea e Samaria e infine, per mezzo di Paolo, in Anatolia e in Grecia.
Nel racconto dell’ascensione Luca si ispira anche a quanto scrive il profeta Daniele, che descrive l’apparizione, sulle nubi del cielo, di uno simile a un figlio di uomo, il quale si presenta davanti al trono di Dio e riceve potere, gloria e regno (Dn 7,13-14).
Di questa scena nel racconto degli Atti rimane il particolare della nuvola, simbolo della manifestazione misteriosa di Dio che sottrae Gesù dallo sguardo degli apostoli, che incantati rimasero a guardare in cielo, fino a quando apparvero loro due uomini che li richiamarono alla realtà dicendo loro: “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”.
E proprio nell’impegno che noi oggi, Sua Chiesa, abbiamo di testimoniarlo, si sperimenta la Sua presenza, si scopre che Gesù non solo è venuto e verrà, ma che viene, oggi, nell’oggi di ognuno di noi, e lo colma di sé, della Sua gioia. La nostra testimonianza diviene allora indicazione di una presenza sperimentata, amata, e perciò comunicata.

Salmo 46 - Ascende il Signore tra canti di gioia.

Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
grande re su tutta la terra

Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.

Perché Dio è re di tutta la terra,
cantate inni con arte.
Dio regna sulle genti,
Dio siede sul suo trono santo.

Il salmo è un inno festoso a Dio re dell’universo. Il salmo invita tutti i popoli ad applaudire il Signore. Dopo il momento terribile delle vittorie filistee e dei popoli della terra di Canaan, ecco la vittoria per Israele. La terra promessa sta per essere totalmente conquistata e Gerusalemme è stata sottratta ai Gebusei. Un corteo festante porta l’arca dentro la Città di Davide: “Ascende Dio tra le acclamazioni”.
La conquista della terra promessa, la presa di Gerusalemme sono solo una tappa di un disegno più ampio di Dio che riguarda tutti i popoli.
Israele ha visto come Dio ha posto ai suoi piedi le nazioni, e dunque nessuna nazione può resistergli.
Egli è “re di tutta la terra”. Il popolo di Abramo è come un germe chiamato ad attirare a sé i popoli. Il salmista vede profeticamente già attuato questo: “I capi dei popoli si sono raccolti come popolo del Dio di Abramo”. Questo avverrà per mezzo del futuro Messia, che produrrà la nuova ed eterna alleanza. Il segno della sua vittoria sarà la risurrezione, la sua salita al cielo - “ascende Dio tra le acclamazioni” -, il suo stare alla destra del Padre (Cf. Ps 110,1).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore.
Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti
e lo fece sedere alla sua destra nei cieli,al di sopra di ogni Principato e Potenza,
al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato
non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro.
Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi
e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui,
la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.
Ef 1,17-23

La Lettera agli Efesini è una delle lettere che Paolo, secondo molti studiosi, avrebbe scritto durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62.
Il brano che fa parte di uno dei tre grandi inni cristologici, ci aiuta a farci riflettere sul ruolo di Gesù nel progetto di amore del Padre. Ci parla anche della predestinazione dei credenti e del Padre, che sin dall'inizio dei tempi, aveva pensato a noi, per renderci santi, per renderci Suoi figli, per cui ciascuno di noi è chiamato a questa via di santità, cioè a una relazione di amore forte e incondizionato con il Signore. Il brano inizia con la benedizione e ringrazimento
“il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui;”
Paolo, dopo aver avuto notizia della fede che si era diffusa anche presso gli abitanti di Efeso ringrazia il Signore e augura ai credenti che Dio elargisca loro lo spirito di sapienza e di rivelazione cioè la maturità cristiana che permette ai credenti di scrutare sempre più profondamente il mistero di Dio e di gioire del proprio essere cristiani.
“illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi”
Il Signore illumini anche i cuori dei credenti e faccia comprendere loro che li aspetta la gloria, la partecipazione all'eredità di tutti i santi. Questa è la speranza che anima quanti hanno aderito a Cristo nella fede.
“e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore”.
Dio è stato potente nel suo agire verso di noi che abbiamo accolto la Sua parola. Le Sue promesse si sono avverate.
“Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli,”
Il momento in cui davvero si è manifestata la potenza di Dio è stato la risurrezione di Cristo dai morti e quando Gesù è stato innalzato alla Sua destra.
“al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro”.
I Principati e le Potenze, le Forze e le Dominazioni erano gli spiriti, le forze che secondo la cosmologia pagana facevano funzionare il cosmo, i pianeti, i fenomeni atmosferici. Nella teologia cristiana questi termini vennero utilizzati per indicare le diverse schiere degli angeli a servizio di Dio. Gesù dunque è al di sopra di tutte queste potenze, di tutti gli dei e di tutti coloro che sono stati invocati nel passato o saranno invocati nel futuro
“Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.”
Dio dunque ha dato al Figlio ogni potere e lo ha reso capo del nuovo popolo, la Chiesa, definita qui anche come Sua “pienezza”, in quanto abbraccia tutto il mondo, che sotto l’autorità di Cristo, Signore e Capo, partecipa all’universale rigenerazione, perché solo in Cristo ogni cosa diventa possibile e realizzabile.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Mt 28, 16-20

Con questo brano si conclude il Vangelo di Matteo che a differenza degli altri tre evangelisti, che terminano il loro vangelo con una considerazione o uno spunto narrativo, riporta le ultime parole di Gesù: “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
Analizzando il contenuto del brano si può notare che Matteo senza descrivere i dettagli di questa ultima apparizione di Gesù, riporta immediatamente il messaggio conferito agli Undici dal Risorto.
Possiamo immaginare lo stato d’animo dei discepoli per i quali Gesù era stato tutto: padre, madre, fratello, maestro, amico…. e il pensiero di doverlo perdere di nuovo dopo la Sua risurrezione, doveva essere per loro insopportabile. Dovevano affrontare dure prove, e gli anni che si presentavano per loro erano pieni di incognite per le responsabilità tremende che dovevano assumersi. Gesù aveva loro prospettato dure prove come persecuzioni, carcere, torture, morte e l’accusa di essere visionari, sacrileghi, impostori. In più loro erano consapevoli di essere ignoranti, impreparati, incapaci. Ma Gesù però li rincuora.
Prima asserisce : “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. ..
In forza della Sua morte e risurrezione è stato quindi conferito a Gesù il potere stesso di Dio, che consiste nella capacità di instaurare il Suo regno e di portare la salvezza a tutta l’umanità. La pienezza di questo potere è sottolineata dall’espressione “in cielo e sulla terra”, che indica i due estremi che racchiudono ogni realtà creata.
Poi Gesù li sprona dicendo: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli,…” ma la forza e la carica più grande che dà a loro, è quando aggiunge:
”Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
Questa frase ha certamente dato la carica a loro come tutti i cristiani di ogni tempo, ed anche a noi oggi, perché ci dice che Gesù è presente, è vivo accanto a noi per cui ogni morte, ogni paura, ogni male sono sconfitti.
Il Vangelo di Matteo non poteva terminare con una frase migliore!

****************

Stavo rimpiangendo il passato
e temendo il futuro.
Improvvisamente il Signore parlò:
Mi chiamo: Io sono .
Tacque
Attesi
Egli continuò:
Quando vivi nel passato,
coi suoi errori e i suoi rimpianti è duro:
Io non ci sono.
Il mio nome non è: io ero.
Quando vivi nel futuro,
coi suoi problemi e le sue paure, è duro:
Io non ci sono.
Il mio nome non è: io sarò.
Quando vivi nel momento presente
non è difficile.
Io ci sono,
il mio nome è IO SONO

*****

“Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra l’Ascensione di Gesù al cielo, avvenuta quaranta giorni dopo la Pasqua. La pagina evangelica , quella che conclude il Vangelo di Matteo, ci presenta il momento del definitivo commiato del Risorto dai suoi discepoli. La scena è ambientata in Galilea, il luogo dove Gesù li aveva chiamati a seguirlo e a formare il primo nucleo della sua nuova comunità. Adesso quei discepoli sono passati attraverso il “fuoco” della passione e della risurrezione; alla vista del Signore risorto gli si prostrano davanti, alcuni però sono ancora dubbiosi. A questa comunità spaurita, Gesù lascia il compito immenso di evangelizzare il mondo; e concretizza questo incarico con l’ordine di insegnare e battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
L’Ascensione di Gesù al cielo costituisce perciò il termine della missione che il Figlio ha ricevuto dal Padre e l’avvio della prosecuzione di tale missione da parte della Chiesa. Da questo momento, dal momento dell’Ascensione, infatti, la presenza di Cristo nel mondo è mediata dai suoi discepoli, da quelli che credono in Lui e lo annunciano. Questa missione durerà fino alla fine della storia e godrà ogni giorno dell’assistenza del Signore risorto, il quale assicura: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
E la sua presenza porta fortezza nelle persecuzioni, conforto nelle tribolazioni, sostegno nelle situazioni di difficoltà che incontrano la missione e l’annuncio del Vangelo. L’Ascensione ci ricorda questa assistenza di Gesù e del suo Spirito che dà fiducia, dà sicurezza alla nostra testimonianza cristiana nel mondo. Ci svela perché esiste la Chiesa: la Chiesa esiste per annunciare il Vangelo, solo per quello! E anche, la gioia della Chiesa è annunciare il Vangelo. La Chiesa siamo tutti noi battezzati.
Oggi siamo invitati a comprendere meglio che Dio ci ha dato la grande dignità e la responsabilità di annunciarlo al mondo, di renderlo accessibile all’umanità. Questa è la nostra dignità, questo è il più grande onore di ognuno di noi, di tutti i battezzati!
In questa festa dell’Ascensione, mentre rivolgiamo lo sguardo al cielo, dove Cristo è asceso e siede alla destra del Padre, rafforziamo i nostri passi sulla terra per proseguire con entusiasmo e coraggio il nostro cammino, la nostra missione di testimoniare e vivere il Vangelo in ogni ambiente. Siamo però ben consapevoli che questa non dipende prima di tutto dalle nostre forze, da capacità organizzative e risorse umane. Soltanto con la luce e la forza dello Spirito Santo noi possiamo adempiere efficacemente la nostra missione di far conoscere e sperimentare sempre più agli altri l’amore e la tenerezza di Gesù.
Chiediamo alla Vergine Maria di aiutarci a contemplare i beni celesti, che il Signore ci promette, e a diventare testimoni sempre più credibili della sua Risurrezione, della vera Vita.”

Papa Francesco Angelus 28 maggio 2017

Pubblicato in Liturgia
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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
e-mail: email
Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

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