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S.Messe (settimana)
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La terza domenica di Avvento chiamata “Gaudete”, cioè “rallegrativi” è caratterizzata dal tema della gioia. La gioia qualifica il cristiano: non in quanto non sente più la sofferenza, ma per il fatto che è consapevole che il Padre lo ama, fino a dare Suo Figlio per lui.
Nella prima lettura, il profeta Isaia, indica al popolo di Israele la fonte della vera gioia nell’intervento di Dio, che lo ricondurrà in patria dopo il lungo esilio. Il profeta sintetizza questo evento con la frase finale del brano: felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.
Nella seconda lettura, l’apostolo Giacomo, nell’attesa della venuta del Signore, invita anche noi oggi ad operare con coraggio nella pazienza, nella sincerità e nella costanza.
Il Vangelo di Matteo, ci riporta il dialogo a distanza tra Gesù e Giovanni Battista che nei suoi dubbi è sempre alla ricerca della verità. Gesù capisce le perplessità di Giovanni e tiene a rassicurarlo dicendogli di confrontare le opere che sta compiendo con le Scritture. Poi Gesù loda Giovanni e lo chiama beato, dicendo che tra i nati da donna non ce n'è uno più grande di lui nella ricerca di Dio, ma nel Regno dei cieli, il più piccolo è più grande di Giovanni, perché gode già del frutto di questa ricerca. Giovanni Battista indica a tutti noi le caratteristiche del cammino cristiano: nel dubbio, non fermarsi mai perché il cammino della ricerca della verità su questa terra non conosce limiti.

Dal libro del profeta Isaia
Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.
Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo.
Le è data la gloria del Libano,lo splendore del Carmelo e di Saron.
Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio.
Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete!
Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta,la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto.
Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa.
Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo;
felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno
e fuggiranno tristezza e pianto.
Is 35,1-6.8.10.

Questo brano, tratto da una raccolta di oracoli chiamata “piccola apocalisse”, contiene il secondo oracolo di Isaia ed inizia con un invito rivolto da Dio, per bocca del profeta:
“Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.
Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo.”
Questi versetti li ha ripresi anche il Deuteroisaia per esultare per l’abbondanza di acqua nel deserto e nella terra, un tempo arida e senza vegetazione (Is 41,18).
L’esultanza del deserto si manifesta attraverso la nascita improvvisa di fiori insoliti in quella regione. Il deserto di cui si parla è quello che separa la Mesopotamia dalla Palestina: attraverso di esso gli esuli ritornano nella loro terra. Il rifiorire del deserto è un’immagine che viene usata non soltanto per indicare la facilità con cui il deserto viene percorso dagli esuli, ma anche per evidenziare la trasformazione interiore degli esuli, che prendono coscienza di sé e della propria realtà di popolo.
All’invito corrisponde una promessa:
“Le è data la gloria del Libano,lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio.”
Il deserto sarà reso simile alle regioni più note per la loro fertilità e vegetazione, e la promessa più grande consiste nel vedere la gloria di Dio.
La venuta del Signore viene nuovamente annunziata con un invito:
“Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta,la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».
Il messaggio chiaramente è rivolto agli esuli che si sono messi in cammino. Essi sono ancora infiacchiti dal lungo periodo di esilio, non hanno fiducia in se stessi, e soprattutto non hanno la sicurezza di poter riuscire nella loro impresa. Vengono perciò incoraggiati con la promessa della presenza del Signore che li guida come aveva fatto un tempo con gli israeliti durante l’esodo dall’Egitto. Egli porta con sé oltre alla salvezza, riservata al Suo popolo, anche il castigo per i loro nemici che sono anche i Suoi nemici. La ricompensa divina non consiste in un premio guadagnato con le proprie opere buone, ma nella salvezza donata gratuitamente da Dio al Suo popolo.
Alla venuta del Signore corrisponde la guarigione di persone afflitte da diverse infermità :
“Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto”.
Gli esuli che si mettono in cammino sono paragonati a persone afflitte da mali che impediscono loro la possibilità stessa di fare un lungo cammino a piedi. Nonostante la loro inabilità, essi si mettono in cammino senza difficoltà per raggiungere la meta.
Dopo viene annunziata la creazione di una grande strada:
“Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa”.
Dopo un ulteriore accenno alla trasformazione del deserto vengono descritti coloro che camminano nella grande strada:
“Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.”
Coloro che si mettono in cammino vengono chiamati i “riscattati”, in quanto sono considerati come schiavi per la cui liberazione Dio stesso simbolicamente ha pagato un prezzo.
Il profeta sintetizza questa “risurrezione” nella frase finale: felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.
L’immagine del deserto che rifiorisce al passaggio degli esuli dà l’idea di un rinnovamento che, partendo dal cuore umano, si estende a tutto il creato. I giudei esuli in Babilonia hanno visto nel loro ritorno nella terra dei loro padri un dono meraviglioso di Dio, che ha dato compimento alle Sue promesse.
La storia ci dice che in realtà il ritorno dall’esilio ha deluso in parte le attese dei rimpatriati, i quali si sono trovati di nuovo immersi nei problemi di sempre. Inoltre essi erano portati tendenzialmente a chiudersi in se stessi, difendendosi dalle influenze esterne e così sono stati costretti a proiettare in un futuro ipotetico quella felicità che avevano atteso per la fine dell’esilio.
Hanno dovuto capire a loro spese che il regno di Dio non è una realtà che si attua nella storia, ma una meta a cui tendere, mantenendo vivi i valori in cui si crede e cercando continuamente di concretizzarli nell’oggi.

Salmo 145 Vieni, Signore, a salvarci.
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Questo salmo è stato composto nel tardo postesilio e fa pensare a un tempo di pace, di normalità, quale si ebbe verso la fine dell'epoca persiana quando Giuda divenne uno stato teocratico autonomo con propria moneta fino alla persecuzione di Antioco IV Epifane (2Mac 4,1s).
Il salmista allo scopo di rendere testimonianza e di lodare il Signore per tutta la vita, fa seguire un'ammonizione basilare: Il Signore rimane fedele per sempre ossia mai manca alla sua parola, e il suo governo è giustizia e bontà: rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati.
Poi il salmista con ritmo incalzante presenta tutti i motivi di confidenza in Dio.
“Libera i prigionieri”; intendendo ciò in senso largo: deportati, carcerati ingiustamente, irretiti in trame di calunnia.
“Ridona la vista ai ciechi”, dove il cieco è colui che ha smarrito la via della verità
“Rialza chi è caduto”, cioè chi è caduto nel peccato.
“Ama i giusti”, cioè li guida nel giusto cammino e protegge nei loro passi.
“Protegge i forestieri, egli sostiene l'orfano e la vedova”, cioè tre categorie di persone deboli, con scarsi punti di riferimento.
Poi segue una severa osservazione: “Ma sconvolge le vie dei malvagi”.
Il Signore è re, “regna per sempre”. Nessuno lo può contrastare, limitare il suo potere sovrano, nessuno può sperare di vincerlo; e il suo regnare è segnato dalla giustizia, dalla bontà e dalla misericordia.
“Il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione”; Dio ha fatto alleanza con Sion, ma l'alleanza è diventata nuova in Cristo; Sion ha rifiutato la nuova ed eterna alleanza, ma Cristo non rinuncia al popolo di Sion, ora tronco morto dell'unico popolo di Dio, il cui tronco vivo è la Chiesa, ma un giorno il tronco morto diventerà vivo, accogliendo Cristo e facendo parte della Chiesa (Rm 11,25).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina.
Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore.
Gc 5,7-10

La lettera di Giacomo, che la tradizione cristiana attribuisce a Giacomo il minore figlio di Alfeo, fratello del Signore, sarà sempre citata per la sua attenzione ai deboli, e agli afflitti, il suo senso della povertà e la sua diffidenza per la ricchezza, la sua viva denuncia dell’ingiustizia sociale, i suoi avvertimenti agli operatori commerciali. Giacomo detenne un posto di primo piano nella comunità di Gerusalemme, e Paolo lo cita fra i testimoni della risurrezione. Prese parte al Concilio di Gerusalemme in maniera determinante e nonostante la sua mentalità prettamente giudaica, dà prova di conciliazione e di accoglienza nei riguardi dei convertiti provenienti dal paganesimo (At15,13-29).
Se la lettera quindi è di questo Giacomo, si può datare attorno all’anno 60, anche se influenze ellenistiche e l’affinità con scritti cristiani più tardivi, non rendono certa questa datazione.
La lettera è rivolta alle dodici tribù disperse nel mondo ed è una maniera per dire che è indirizzata alla Chiesa sparsa nel mondo, al vero Israele. Infatti il termine “dispersione”, in greco “diàspora ”, designava l’insieme dei giudei soggiornanti fuori della Palestina. Si tratta quindi di cristiani di origine giudaica, dispersi nel mondo greco-romano.
Il brano inizia con un invito alla costanza: “Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore”. Questo invito ha come sfondo la crisi determinata dal ritardo della parusia. Dopo la prima generazione cristiana, che riteneva imminente la venuta del Signore Gesù, i cristiani si rassegnano poco per volta all’idea che il Signore non ritornerà in tempi brevi come loro si erano immaginati. Per dare valore alla sua esortazione, Giacomo porta un esempio: “Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge”. L’agricoltore non sa quando verranno le piogge, necessarie perché la terra produca i suoi frutti preziosi, ma aspetta senza scoraggiarsi, sapendo che al momento giusto esse non mancheranno. Da questo esempio Giacomo trae un motivo per dire: “Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina”.. Nonostante tutto, Giacomo continua a ritenere che la venuta del Signore sia vicina.
Questa convinzione deve quindi infondere coraggio perchè non si tratta di un’attesa inoperosa, ma di un impegno costante per superare le prove e mettere a frutto la propria fede.
Poi continua dicendo: Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Il fatto che il ritorno del Signore non sia imminente non deve essere però un motivo per lamentarsi gli uni degli altri, cioè per scaricare sull’altro il proprio malessere.
Giacomo sottolinea ancora che Gesù ritornerà come giudice, e allora chi avrà giudicato gli altri sarà lui stesso sottoposto al Suo giudizio. Ciò che sta a cuore a Giacomo è un’autentica vita comunitaria, che consista nella sopportazione vicendevole che è il frutto più importante dell’amore. Perché ciò avvenga l’apostolo propone come modello i profeti: “Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore”.
Proprio perché erano investiti di una missione a favore di tutto il popolo, i profeti sono stati perseguitati, ma hanno accettato con pazienza tutte le sofferenze a loro inflitte. Anche per i cristiani, che hanno ricevuto una missione analoga a quella dei profeti, la pazienza nei confronti delle prove, da qualsiasi parte giungano, è un atteggiamento fondamentale per prepararsi al ritorno di Gesù.
Pur affermando che il ritorno di Gesù è vicino, Giacomo mette in guardia facendo comprendere che esso può essere ancora molto lontano nel tempo. Egli perciò consiglia soprattutto la pazienza, che consiste nella capacità di fare fronte ai rischi di un’attesa prolungata. La pazienza consiste per lui nel restare saldi nella fede e di impegnarsi pienamente in una vita comunitaria, in cui tutti si accettano e si rispettano.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? «Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto:
“Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero,
davanti a te egli preparerà la tua via”.
In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».
Mt 11, 2-11

In questo brano l’evangelista Matteo ci presenta Giovanni in carcere che ha notizie sull'attività di Gesù. Egli è sorpreso di vedere realizzarsi un tipo di Messia così diverso da quello che egli attendeva. La domanda che Giovanni si pone che sia davvero lui il Messia, rispecchia il suo dubbio e l’ora cupa che sta passando.
Ogni credente riconoscerà in questo atteggiamento l’oscura tenebra che anche altri santi hanno passato e passeranno: fede e ragione devono camminare insieme per conoscere sempre più e meglio Colui al quale si è detto “sì”, per poterlo conoscere e amare più intensamente.
Gesù nel compiere la Sua missione non corrisponde ai connotati del Messia che Giovanni aveva in mente e annunziato: colui che esercita il terribile giudizio di Dio, colui che tiene in mano la "scure" e il "ventilabro" per fare piazza pulita di quanti operano il male. Gesù infatti impiega il suo tempo nell'accogliere i peccatori e nel soccorrere gli ultimi, i malati, i poveri. Giovanni in un momento di vera crisi o comunque di dubbio profondo (che lo rende molto umano, vicino a noi) decide di interpellare Gesù stesso attraverso i suoi discepoli: " Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù nel rispondere ai suoi inviati indica la via : si confrontino le sue opere con le Scritture, e, citando gli oracoli di Isaia, mostra che le sue opere inagurano veramente l’era messianica, ma sotto forma di benefici di salvezza e non di forza e di castigo. Termina poi la sua risposta dicendo "E beato colui che non si scandalizza di me", cioè non trova nel mio comportamento un ostacolo a credere. In altre parole, Gesù non si presenta come il "forte" che scatena contro i peccatori la collera di Dio, ma è la rivelazione della Sua misericordia verso i poveri, i sofferenti, i lontani. Giovanni perciò sarà beato se accetta Gesù, anche se non risponde alle sue attese che sconvolgono i suoi schemi, se si fida di Lui, insomma se si converte a Gesù, se crede in Lui.
Poi Gesù, quando gli inviati si allontanano per portare a Giovanni la risposta, fa l’elogio del Battista, ma applicando a lui il detto di Malachia “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”, dichiarando non solo che Giovanni è il Suo precursore, ma anche che Egli stesso è il Messia, e poi termina dicendo: “fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui”. Ossia la grandezza di Giovanni sta prima nel fatto di essere precursore del Messia, ma anche di aver continuato a cercare la Verità, anche dopo aver conosciuto in Gesù il Cristo. E Gesù quando afferma che nel Regno dei cieli il più piccolo è più grande di Giovanni, è perché chi è nel Regno dei cieli gode già del frutto di questa ricerca.
Si adatta al Battista l’intercessione del salterio: “A quanti cercano la verità, concedi Signore la gioia di trovarla, e il desiderio di cercarla ancora, dopo averla trovata.”

 

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“… In questo brano l’evangelista Matteo ci presenta Giovanni in carcere che ha notizie sull'attività di Gesù. Egli è sorpreso di vedere realizzarsi un tipo di Messia così diverso da quello che egli attendeva. La domanda che Giovanni si pone che sia davvero lui il Messia, rispecchia il suo dubbio e l’ora cupa che sta passando.
Ogni credente riconoscerà in questo atteggiamento l’oscura tenebra che anche altri santi hanno passato e passeranno: fede e ragione devono camminare insieme per conoscere sempre più e meglio Colui al quale si è detto “sì”, per poterlo conoscere e amare più intensamente.
Gesù nel compiere la Sua missione non corrisponde ai connotati del Messia che Giovanni aveva in mente e annunziato: colui che esercita il terribile giudizio di Dio, colui che tiene in mano la "scure" e il "ventilabro" per fare piazza pulita di quanti operano il male. Gesù infatti impiega il suo tempo nell'accogliere i peccatori e nel soccorrere gli ultimi, i malati, i poveri. Giovanni in un momento di vera crisi o comunque di dubbio profondo (che lo rende molto umano, vicino a noi) decide di interpellare Gesù stesso attraverso i suoi discepoli: " Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù nel rispondere ai suoi inviati indica la via : si confrontino le sue opere con le Scritture, e, citando gli oracoli di Isaia, mostra che le sue opere inagurano veramente l’era messianica, ma sotto forma di benefici di salvezza e non di forza e di castigo. Termina poi la sua risposta dicendo "E beato colui che non si scandalizza di me", cioè non trova nel mio comportamento un ostacolo a credere. In altre parole, Gesù non si presenta come il "forte" che scatena contro i peccatori la collera di Dio, ma è la rivelazione della Sua misericordia verso i poveri, i sofferenti, i lontani. Giovanni perciò sarà beato se accetta Gesù, anche se non risponde alle sue attese che sconvolgono i suoi schemi, se si fida di Lui, insomma se si converte a Gesù, se crede in Lui.
Poi Gesù, quando gli inviati si allontanano per portare a Giovanni la risposta, fa l’elogio del Battista, ma applicando a lui il detto di Malachia “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”, dichiarando non solo che Giovanni è il Suo precursore, ma anche che Egli stesso è il Messia, e poi termina dicendo: “fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui”. Ossia la grandezza di Giovanni sta prima nel fatto di essere precursore del Messia, ma anche di aver continuato a cercare la Verità, anche dopo aver conosciuto in Gesù il Cristo. E Gesù quando afferma che nel Regno dei cieli il più piccolo è più grande di Giovanni, è perché chi è nel Regno dei cieli gode già del frutto di questa ricerca.
Si adatta al Battista l’intercessione del salterio: “A quanti cercano la verità, concedi Signore la gioia di trovarla, e il desiderio di cercarla ancora, dopo averla trovata.””
Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’ 11 dicembre 2016

Pubblicato in Liturgia

Celebriamo oggi, nella seconda domenica di Avvento la solennità dell’Immacolata Concezione della beata Vergine Maria, il cui dogma fu promulgato da Pio IX nel 1854, ma già nel IX secolo si celebrava in Inghilterra e Normandia una festa della Concezione di Maria e il Concilio di Basilea (1439) sancì questo evento come verità di fede. Si afferma che Maria è nata senza colpa originale, concepita senza peccato: colei che doveva dare alla luce il Figlio di Dio fu preservata da ogni macchia di peccato per essere la degna dimora di Gesù.
Celebrare l’Immacolata Concezione nel tempo di Avvento è quanto mai rilevante perché ci prepara a rivivere il “mistero della Redenzione” in avvenimenti dove la grazia fa irruzione in modo sovrabbondante sull’umanità.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Genesi al primo peccato, dovuto alla disobbedienza di Adamo ed Eva, Dio non rimane indifferente e nella pienezza dei tempi manda la nuova Eva, Maria, che schiaccerà la testa al serpente.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S. Paolo agli Efesini, possiamo comprendere che ciò che si è realizzato in Maria attende oggi di realizzarsi in ciascuno di noi, anche se non come lei al momento del concepimento, ma a quello del battesimo. E’ un dono e una chiamata che ci proietta nella meravigliosa avventura della costruzione prima di noi stessi e poi del mondo, secondo il progetto di Dio e quindi nella direzione dell’amore che non conosce tramonto.
Nel Vangelo di Luca troviamo il racconto dell’annunciazione dell’Angelo Gabriele a Maria, che obbedì totalmente all’annunzio della sua maternità divina.
In questa giornata che celebra la sua concezione, e quindi tutta la sua esistenza immacolata e gradita a Dio, la liturgia ci conduce nelle viuzze di questa cittadina della Galilea, alla ricerca delle tracce di Maria e di quel grande giorno in cui ha pronunciato il suo sì e nella onniscienza di Dio tutti noi eravamo presenti.

Dal Libro della Genesi
Dopo che l'uomo ebbe mangiato del frutto dell'albero, il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente:
«Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici!
Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.
Gen 3,9-15.20


Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano tratto dal Capitolo 3 descrive la convinzione d’Israele che la condizione umana (quale appariva allora) fosse una partecipazione alla punizione meritata dalla prima trasgressione.
La scena inizia subito dopo che Adamo ebbe mangiato dell’albero, quando Dio scende nel giardino e l'uomo e la donna si nascondono per non farsi vedere. La venuta di Dio evidenzia l'intimità, ormai distrutta, che univa Dio ai nostri progenitori! Dio chiama l'uomo come se non sapesse cosa fosse successo e gli chiede persino “Dove sei?”. L'uomo risponde di aver avuto paura e di essersi nascosto perché era nudo. Più che la paura del castigo, possiamo anche pensare che ciò che lo trattiene dal presentarsi a Dio è anche il timore reverenziale, lo stesso che in Israele impediva di esporre il proprio corpo in un luogo sacro (v. Es 20,26).
Dio allora gli chiede: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”. L'uomo però non si assume la responsabilità di ciò che ha fatto e risponde: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”, quasi per evidenziare che il vero colpevole è Dio stesso, che gliel'ha data come compagna. Il peccato, invece di provocare solidarietà fra coloro che lo commettono, li pone inevitabilmente l'uno contro l'altro.
Anche la donna non assume la sua responsabilità quando risponde: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato” gettando la colpa sul serpente.
Dio emettendo la sentenza comincia col condannare il serpente, anche se non era stato neppure interrogato, che viene maledetto con una sentenza irrevocabile: “Sul tuo ventre camminerai
e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita”. Poi Dio continua affermando: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”,
Leggendo questo brano nel contesto di tutta la Bibbia, che narra la storia della salvezza, il testo diventa un annunzio di speranza per l'umanità peccatrice. Il racconto termina riportando alcuni dettagli complementari.: “L’’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi”.
La donna è chiamata Eva (vita), poiché è destinata a diventare la madre di tutti i viventi: nonostante il peccato continua dunque la vita, che è il più grande dono di Dio!
Leggiamo poi che l'uomo e la donna sono rivestiti da Dio con tuniche di pelle, e ciò vuol dire che l’amore di Dio per loro non è venuto meno. Infine, perché l'uomo non abbia accesso all'albero della vita, Dio lo scaccia dal giardino e lo manda a coltivare la terra “perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto” (3,23)
I cherubini posti a custodia del giardino e dell'albero della vita sono figure mitologiche reminiscenza delle figure babilonesi, mentre la fiamma della spada folgorante rappresenta il fulmine (vv. 22-24). L'allontanamento dal giardino si ispira al tema della rottura dell'alleanza, che comportava per Israele l'abbandono della terra donatagli da Dio (Vv. Dt 11,17; 28,15-68).
L’autore con questo racconto ha voluto dirci qualcosa riguardo l’uomo di tutti i tempi e di tutte le culture, e cioè ha voluto spiegare la sua situazione di sofferenza e di morte. A tale scopo egli ha immaginato che all’inizio della storia l’uomo si trovasse in una situazione ideale, dalla quale è decaduto a causa di un suo peccato. Così facendo egli vuol far vedere che la presenza del male, in tutti i suoi aspetti, non deriva da Dio, ma dall’uomo stesso, il quale si è precluso quella felicità che Dio gli aveva concesso all’inizio. Questo modo di raccontare, tendente in qualche modo a scagionare Dio, ha uno scopo ben preciso: mostrare come Dio, non essendo responsabile del male presente in questo mondo, continua ad offrire all’uomo la possibilità di superare i suoi limiti e di raggiungere una condizione di vita adeguata alla sua dignità.
I profeti annunzieranno una salvezza piena che si attuerà in un futuro imprecisato (vv. Is 11,6-9) e quello che per l’autore della Genesi era un paradiso perduto, per i profeti diventa un paradiso che Dio donerà un giorno al Suo popolo e a tutta l’umanità: agli esseri umani non resta che prepararsi a questo evento finale. Mediante questi due modi simbolici di esprimersi gli autori biblici vogliono semplicemente far comprendere che l’uomo è chiamato alla felicità, ma la raggiunge solo se saprà distaccarsi da tutta una serie di pesanti condizionamenti, che provengono dal suo intimo e dalla società in cui vive.
Il rapporto con Dio ha quindi significato e deve essere vissuto in questa prospettiva: il “paradiso terrestre” è sempre disponibile a tutta l’umanità, pur in mezzo a tante difficoltà e sofferenze, a patto però che sia fedele a quei principi di amore e di giustizia che Dio ha scritto nel cuore di ogni uomo.

Salmo 98 (97) Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19): “I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo.
La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Benedetto Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati
di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui siamo stati fatti anche eredi,
predestinati – secondo il progetto di colui
che tutto opera secondo la sua volontà –
a essere lode della sua gloria,
noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
Ef 1,3-6.11-12

La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato
Il brano che abbiamo, è uno dei tre grandi inni Cristologici, che preghiamo anche durante i Vespri ogni settimana e che ci fa riflettere sul ruolo di Gesù nel progetto di amore del Padre. In particolare questo inno ci parla della predestinazione dei credenti. E' il Padre che sin dall'inizio dei tempi aveva pensato a noi, per renderci santi, per renderci suoi figli. Questo inno si adatta bene in particolare a Maria che nel piano della creazione-redenzione del mondo ha avuto un ruolo molto importante perché Dio Padre l‘ha scelta per essere santa e immacolata sin dal concepimento.
Il brano inizia con una invocazione benedicente: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.”
La benedizione di Dio significa comunicazione di vita, e trova il suo compimento quando torna a Dio sotto forma di benedizione da parte dell'uomo. Il movimento della benedizione è prima discendente, poi ascendente: il dono è infatti completo solo quando è riconosciuto come tale, e il segno del riconoscimento è la lode. La comunicazione di vita, la benedizione, consiste nella chiamata alla santità. C’è un invito a contemplare in Maria la primizia, colei in cui il sogno di Dio ha trovato piena attuazione.
“In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”,
Paolo ci spiega ora in cosa consista questa benedizione: Dio ci ha scelti, ci ha eletto, come aveva scelto il popolo di Israele. C'è un'iniziativa gratuita di Dio che previene ogni pretesa umana. E' una gratuità che parte dal Padre e ha avuto inizio prima della creazione del mondo!
“predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”.
Il progetto di Dio si attua per mezzo di Gesù Cristo e consiste nel far partecipare tutti i credenti alla sua condizione di figlio unico e amato. Se si parla di adozione, non è per sminuire la realtà dell'essere figli ma per sottolineare la differenza con la figliolanza di Gesù, che è modello e fonte di quella di tutti gli altri figli. C'è un amore gratuito che si espande in tutta la sua pienezza!
“In lui siamo stati fatti anche eredi,predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo”
Non sono riportati i vv 7-10, che parlano del perdono dei peccati che abbiamo ricevuto grazie a Cristo. Con il v. 11 torniamo all'argomento dell'adozione e dell'eredità che riceviamo in quanto figli di Dio.
L’essere preservata immacolata fin dal concepimento non ha esonerato Maria dall’impegno di corrispondere alla grazia. Se l’onda che aveva preso a scorrere in lei ha potuto diventare torrente e traboccare benefica su tutta l’umanità, è stato per il suo incondizionato abbandonarsi allo Spirito. Questo è il potere di un “Sì” che eleva a collaboratori di Dio, non solo nel tessere la nostra santità, ma anche nel portare avanti il Suo disegno di salvezza a favore dell’umanità intera.
Ciò che si è realizzato in Maria attende oggi di realizzarsi in ciascuno di noi, anche se non come lei al momento del concepimento, ma a quello del battesimo. Ognuno di noi è chiamato a questa via di santità, cioè a quella relazione di amore forte e incondizionato che ha legato Maria con il Signore. Riflettendo su di lei, sulla sua esperienza di vita e di fede riusciremo a camminare nelle vie che portano alla nostra pienezza e felicità.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Sato scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
Lc 1,26-38

L’evangelista Luca inizia così il suo racconto:“l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.” L’angelo Gabriele, il cui nome derivante dall’ebraico significa “la forza di Dio” “Dio è forte”, viene mandato da Dio a Nazareth, che era in realtà un piccolo villaggio rurale della Galilea, ad una vergine , e al tempo stesso promessa sposa.
L’angelo apparendo a Maria si rivolge a lei con l’usuale saluto greco: kaire, che significa “Rallègrati” e aggiunge un elogio inusuale, unico “piena di grazia: il Signore è con te”. Le parole che l’angelo le rivolge, provocano il turbamento di Maria, per cui l’angelo la invita a non temere, sottolineando che ha “trovato grazia presso Dio” per cui Dio vuole stabilire un rapporto speciale con lei per assegnarle un compito unico e straordinario nel Suo progetto di salvezza.
L’angelo glielo annunzia con queste parole: “concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”
Queste parole alludono all’oracolo di Isaia 7,14: Maria è dunque la vergine di cui parla il profeta e suo figlio,
non è un semplice discendente della casa davidica, ma il Messia atteso per gli ultimi tempi. In sintonia poi con il testo ebraico dell’oracolo e in forza del ruolo di madre che le è assegnato, sarà lei che gli darà il nome.
All’annunzio messianico dell’angelo, Maria risponde con una domanda: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?”
In risposta alla domanda di Maria, l’angelo dà i chiarimenti che, solo chi è immerso completamente nel mistero di Dio, può accettare senza comprendere pienamente: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Dopo aver indicato nel nascituro il Figlio dell’Altissimo, l’angelo spiega che questo appellativo è dovuto al fatto che lo Spirito santo interverrà in modo speciale nel momento stesso del suo concepimento.
Al termine del suo annunzio l’angelo rivela a Maria la gravidanza di Elisabetta, sua parente. Questo evento, tenuto gelosamente segreto dai diretti interessati, diventa il segno visibile che conferma l’autenticità della rivelazione dell’angelo. Esso infatti mostra nel modo più convincente che ”nulla è impossibile a Dio” (Gen 18,14).
Alle parole dell’angelo Maria risponde: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.
Maria si rende così disponibile al progetto di Dio e ne diventa partecipe fino in fondo.
Il termine“serva” con cui Maria si autodefinisce non deve far pensare ad esortazioni sull’umiltà, la modestia, o il nascondimento. Maria ha la coscienza che in lei donna semplice e comune, Dio ha realizzato l’intervento definitivo e grandioso del suo progetto di salvezza “atteso da tutte le generazioni”.
Nella sua preghiera, il “Magnificat” che pronuncerà nell’incontro con Elisabetta, Maria intuisce di essere il terreno ideale in cui Dio celebrerà i trionfi e offrirà la salvezza del Suo Regno: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente …” L’immacolata concezione è, allora, la storia di una donazione totale ad un piano tracciato da Dio, è la storia di una grazia e di una vocazione eccezionale.
Alla luce di questo modello di “serva del Signore”, oggi l’Adamo-Eva che è in ognuno di noi è invitato a ritornare allo splendore del paradiso terrestre, cioè alla grazia. Là potrà incontrare Dio in un dialogo familiare, intimo, di amore, là potrà vivere in armonia con il creato e con il suo prossimo.

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Madre Immacolata,
nel giorno della tua festa, tanto cara al popolo cristiano,
vengo a renderti omaggio nel cuore di Roma.
Nel mio animo porto i fedeli di questa Chiesa
e tutti coloro che vivono in questa città, specialmente i malati
e quanti per diverse situazioni fanno più fatica ad andare avanti.
Prima di tutto vogliamo ringraziarti
per la premura materna con cui accompagni il nostro cammino:
quante volte sentiamo raccontare con le lacrime agli occhi
da chi ha sperimentato la tua intercessione,
le grazie che chiedi per noi al tuo Figlio Gesù!
Penso anche a una grazia ordinaria che fai alla gente che vive a Roma:
quella di affrontare con pazienza i disagi della vita quotidiana.
Ma per questo ti chiediamo la forza di non rassegnarci, anzi,
di fare ogni giorno ciascuno la propria parte per migliorare le cose,
perché la cura di ognuno renda Roma più bella e vivibile per tutti;
perché il dovere ben fatto da ognuno assicuri i diritti di tutti.
E pensando al bene comune di questa città,
ti preghiamo per coloro che rivestono ruoli di maggiore responsabilità:
ottieni per loro saggezza, lungimiranza, spirito di servizio e di collaborazione.
Vergine Santa,
desidero affidarti in modo particolare i sacerdoti di questa Diocesi:
i parroci, i viceparroci, i preti anziani che col cuore di pastori
continuano a lavorare al servizio del popolo di Dio,
i tanti sacerdoti studenti di ogni parte del mondo che collaborano nelle parrocchie.
Per tutti loro ti chiedo la dolce gioia di evangelizzare
e il dono di essere padri, vicini alla gente, misericordiosi.
A te, Donna tutta consacrata a Dio, affido le donne consacrate nella vita religiosa e in quella secolare,
che grazie a Dio a Roma sono tante, più che in ogni altra città del mondo,
e formano un mosaico stupendo di nazionalità e culture.
Per loro ti chiedo la gioia di essere, come te, spose e madri,
feconde nella preghiera, nella carità, nella compassione.
O Madre di Gesù,
un’ultima cosa ti chiedo, in questo tempo di Avvento,
pensando ai giorni in cui tu e Giuseppe eravate in ansia
per la nascita ormai imminente del vostro bambino,
preoccupati perché c’era il censimento e anche voi dovevate lasciare il vostro paese, Nazareth, e andare a Betlemme…
Tu sai, Madre, cosa vuol dire portare in grembo la vita
e sentire intorno l’indifferenza, il rifiuto, a volte il disprezzo.
Per questo ti chiedo di stare vicina alle famiglie che oggi
a Roma, in Italia, nel mondo intero vivono situazioni simili,
perché non siano abbandonate a sé stesse, ma tutelate nei loro diritti,
diritti umani che vengono prima di ogni pur legittima esigenza.
O Maria Immacolata,
aurora di speranza all’orizzonte dell’umanità,
veglia su questa città,
sulle case, sulle scuole, sugli uffici, sui negozi,
sulle fabbriche, sugli ospedali, sulle carceri;
in nessun luogo manchi quello che Roma ha di più prezioso,
e che conserva per il mondo intero, il testamento di Gesù:
“Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (cfr Gv 13,34).
Amen.

preghiera che Papa Francesco ha recitato l’8 dicembre 2018 all’Immacolata a Piazza di Spagna

Pubblicato in Liturgia

Con questa I domenica di Avvento si apre il nuovo anno liturgico e inizia con un invito che dà un senso di inquietudine: Vigilate! Tenetevi pronti!
Nella prima lettura, il profeta Isaia, considerando il giorno del Signore, predice che tutti i popoli si incammineranno da ogni angolo della terra verso il colle luminoso di Sion, verso Gerusalemme, la città santa.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nella sua lettera ai Romani, dopo aver parlato prima e a lungo dell’agire salvifico di Dio in Cristo, invita i cristiani alla consapevolezza del momento. Il kairòs di Dio, cioè il momento in cui Dio agisce per la salvezza, impone al cristiano un preciso comportamento che si concretizza nella vigilanza, nel fare le opere della luce, e nell’essere operatori di pace e non di contese.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù ci esorta a vigilare in vista della fine dei tempi, del giudizio finale, infatti dice: tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo” Vigilare e operare bene significa fare la volontà del Padre, significa vivere le parole del Vangelo, prendersi cura del prossimo che avviciniamo, pregare e avere fede in Dio, riconoscendo la Sua presenza nella nostra vita, in modo da poter affrontare tutte le difficoltà che si presentano con calma e serenità. Questo modo di vivere l’attesa è l’elemento distintivo proprio del cristiano, che dovrebbe attendere e vivere il Natale non solo per “tradizione”, ma sentendolo con gioia come un incontro con il Signore che viene.

Dal libro del profeta Isaia
Messaggio che Isaìa, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.
Alla fine dei giorni,
il monte del tempio del Signore
sarà saldo sulla cima dei monti
e si innalzerà sopra i colli,
e ad esso affluiranno tutte le genti.
Verranno molti popoli e diranno:
“Venite, saliamo sul monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe,
perché ci insegni le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri”.
Poiché da Sion uscirà la legge
e da Gerusalemme la parola del Signore.
Egli sarà giudice fra le genti
e arbitro fra molti popoli.
Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
e delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione,
non impareranno più l'arte della guerra.
Casa di Giacobbe, venite,
camminiamo nella luce del Signore.
Is 2,1-3

Il profeta Isaia (Primo Isaia) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C, quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal buon re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini.
La prima parte del libro che porta il suo nome (cc. 1-39) contiene in gran parte oracoli che con una certa sicurezza sono stati da lui composti. Essa si apre con una serie di poemi composti nel 740-736, durante il periodo in cui Iotam era re di Giuda (Is 1-5). In essi, dopo una forte requisitoria contro il popolo ribelle, divenuto preda di una completa desolazione, il profeta prospetta la pace futura, a cui corrisponde l’abbassamento dei potenti di questo mondo. Vengono poi riportati altri oracoli riguardanti la situazione drammatica di Gerusalemme, con al termine l’annunzio della venuta di un “germoglio giusto”, che è messaggio tardivo di speranza per gli esuli in Babilonia (Is 3-4). Come conclusione della raccolta si trova il “canto della vigna”, seguito da una serie di minacce (Is 5).
Nel brano che abbiamo il profeta riporta una visione contenente un messaggio che riguarda Giuda e Gerusalemme. Nell’oracolo si prospetta per questo regno, in contrasto con la drammatica situazione descritta negli oracoli precedenti, un futuro meraviglioso: “Alla fine dei giorni,il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e si innalzerà sopra i colli,”. L’espressione “fine dei giorni “ indica un imprecisato momento della storia in cui il progetto divino giunge a compimento. Si tratta dunque di un evento che rappresenta la meta a cui è necessario orientarsi nel corso della storia. Esso giunge al termine di un processo di cui Dio è l’autore, ma che si attua progressivamente con la collaborazione umana.
Nell’ambiente siro-palestinese i tempietti delle divinità locali venivano costruiti sulle alture. Anche il Signore ha la Sua dimora sulla montagna di Sion, nel tempio costruito in Suo onore e il profeta immagina questa montagna come un luogo particolarmente saldo e decisamente più alto delle montagne circostanti.
“ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno:“Venite, saliamo sul monte del Signore,al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Tre volte all’anno tutti gli israeliti dovevano recarsi al tempio portando i loro doni (Es 23,17; 34,23) e secondo questo oracolo chi si mette in cammino verso la montagna sono tutte le “genti” e molti “popoli”.
Nel testo parallelo del profeta Michea viene riportato che le nazioni sono identificate come “coloro che camminano con i propri dèi”, quindi anche i pagani(Mi 4,5). Lo scopo di questo pellegrinaggio viene colto nelle parole di coloro che si mettono in cammino. Essi vanno al “tempio del Dio di Giacobbe perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. La salita dei popoli ha una ragione: “Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli.” Il desiderio delle nazioni viene esaudito: da Sion ossia da Gerusalemme, dal luogo in cui si trova il santuario, escono sia la “la legge” che “la parola» del Signore.
L’incontro con il Signore provoca una trasformazione radicale nei rapporti fra i popoli: “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,e delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione,non impareranno più l'arte della guerra”. L’effetto del governo del Signore è la pace fra i popoli. Convertire le spade in aratri e le lance in falci è il risultato di un cambiamento di vita per tutti. In forza della parola del Signore le nazioni non solo rinunziano a farsi la guerra, ma trasformano le armi in strumenti con cui produrre ciò che è necessario per l’alimentazione della gente. La pace porta con sé un incremento del benessere anche materiale di tutti.
L’oracolo termina con un invito rivolto a Israele:”Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore”. Implicitamente si dice che la promessa di pace potrà realizzarsi solo se coloro che hanno cominciato ormai a imparare dal Signore a lasciarsi guidare da Lui prenderanno veramente a cuore il camminare nel Suo insegnamento.
Questo oracolo è ripreso in Giovanni 4,22 dove Gesù parlando con la samaritana afferma che” la salvezza viene dai Giudei”, e in Luca 24,47 dopo la Sua resurrezione dice ai suoi discepoli che “nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.”

Salmo 121- Andiamo con gioia incontro al Signore

Quale gioia, quando mi dissero:
“Andremo alla casa del Signore”.
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!

E’ là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge di Israele,
per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i troni del giudizio,
i troni della casa di Davide.

Chiedete pace per Gerusalemme:
vivano insieme sicuri quelli che ti amano,
sia pace nelle tue mura,
sicurezza nei tuoi palazzi.

Per i miei fratelli e i miei amici
Io dirò: « Su di te sia pace!».
Per la casa del Signore nostro Dio,
Chiederò per te il bene.

Questo salmo era usato per i pellegrinaggi annuali a Gerusalemme. Probabilmente venne scritto dopo la ricostruzione del tempio e delle mura di Gerusalemme al tempo del ritorno dall'esilio; infatti la grande gioia alla notizia che “Andremo alla casa del Signore”, presuppone un fatto straordinario, lungamente atteso, e non uno dei tre pellegrinaggi annuali prescritti dalla legge (Es 23,17; 34,23).
Lo stupore di fronte alla compattezza che presenta la città si apre alla lode di Dio: “Gerusalemme è costruita come città unita e compatta”. La città viene celebrata come il centro dell'unità religiosa per la presenza del tempio e come centro del governo civile: “E' là che salgono le tribù, le tribù del Signore (...) per lodare il nome del Signore. Là sono posti i troni del giudizio, i troni della casa di Davide”: benché politicamente non autonoma Gerusalemme è retta dalle leggi di Israele; la menzione di Davide dice che per l'Israelita Gerusalemme rimane legata a Davide, e quindi al futuro Messia.
Il salmista non manca di rivolgersi ai pellegrini invitandoli a pregare: “Chiedete pace per Gerusalemme”; e invoca pace su quanti la amano, cioè su quanti credono nel disegno di Dio su Gerusalemme. La pace invocata è quella che verrà portata dal Principe della pace.
A Gerusalemme si è formata la prima Chiesa particolare, che è stata la madre delle altre Chiese particolari, poiché il Vangelo è partito dalla comunità di Gerusalemme. Ma tutte le Chiese particolari, compresa quella di Gerusalemme, formano e sussistono nell'unica Chiesa di Cristo, che ha come vincolo di unità il successore di Pietro. Il pellegrinaggio dei popoli, delle dodici tribù della terra, trova il suo gioioso approdo alle “porte” della Gerusalemme messianica, pronta ad accogliere tutte le genti. La Gerusalemme messianica è la “civitas cristiana”, che ha come costitutivo fondante la Chiesa (Cf. Ap 21,9s).
Per la “civitas cristiana”, o società dell'amore, bisogna sempre pregare perché tragga costantemente dal Cristo la sua pace e la diffonda estendendosi a tutta la terra.
Il pellegrinaggio, tuttavia, non è cessato perché terminerà solo con l'ingresso nella Gerusalemme celeste.
Lo stupore di potere andare nella “casa del Signore” i cristiani lo hanno avuto nell'erezione delle prime basiliche a Roma, dopo le ondate di persecuzione per annullare la Chiesa.
Il primo stupore di fronte alla Gerusalemme messianica, o civiltà dell'amore, i cristiani lo hanno avuto quanto hanno visto il potere politico di Roma aprirsi a Cristo e alla Chiesa.
Ora il potere politico delle nazioni si sta sempre più chiudendo alla Chiesa, ma non si annullerà il germe della “civitas cristiana”; verrà infatti il giorno in cui su tutta la terra fiorirà la civiltà della verità e dell'amore.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.
La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo
Rm 13,11-14a

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere istituiti a Gerusalemme. La Lettera ai Romani è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo perchè affronta grandi temi teologici: l'universalità e la gratuità del dono della salvezza che si ottiene per mezzo della fede in Cristo; la fedeltà di Dio; i rapporti tra giudaismo e cristianesimo; la libertà di aderire alla legge dello Spirito che dà vita.
In questo brano Paolo, dopo avere esortato a non avere altro debito se non quello dell’amore vicendevole, fa una considerazione riguardante i tempi della salvezza: “questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti”. Il credente deve praticare l’amore del prossimo consapevole del “momento speciale” (kairos) in cui sta vivendo. Come per chi dorme l’arrivo del mattino segna l’ora in cui deve ormai svegliarsi dal sonno, così per il credente il tempo attuale è quello in cui deve rendersi conto che la salvezza finale è ormai più vicina di quando ha aderito alla fede. Paolo si rifà qui alla convinzione, ampiamente diffusa tra i primi cristiani, secondo cui il ritorno del Signore fosse imminente (1Ts 4,13-18), e ogni momento che passava lo rendeva più vicino.
Il confronto del mattino che si avvicina viene poi ulteriormente sviluppato: “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce”. Come coloro per i quali la notte sta ormai per passare devono disporsi alla giornata che comincia, così i credenti devono disfarsi delle “opere delle tenebre” e “rivestire le armi della luce”. Il paragone della notte che lascia il posto al giorno ispira a Paolo un’altra esortazione: “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie” .
Il credente deve “comportarsi” onestamente, come in pieno giorno. Ciò significa l’abbandono degli atteggiamenti negativi che caratterizzano quelli che operano nelle tenebre. Questo comportamento negativo viene delineato mediante un piccolo elenco che comprende tre abbinamenti di vizi, che hanno come ambito la mancanza di autocontrollo (orge e ubriachezze), i rapporti sessuali (lussurie e impurità), i rapporti vicendevoli (litigi e gelosie): ad essi Paolo si è richiamato all’inizio della lettera descrivendo il comportamento dell’umanità lontana da Cristo (Rm 1,29-30).
I credenti non devono cedere di fronte ad essi, ma reagire in modo deciso e coerente:“Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo”. Rivestirsi del Signore Gesù Cristo (Gal 3,27) significa diventare una sola cosa con Lui, cioè partecipare pienamente alla Sua esperienza di morte e di risurrezione assumendo il Suo modo di pensare e il Suo comportamento: è questo il modo migliore per resistere alle lusinghe del male.
Il credente non è uno che è già arrivato alla meta, ma uno che si dirige quotidianamente verso di essa, lottando coraggiosamente contro tutti gli ostacoli e le tentazioni che gli rendono difficile il cammino.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti, così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà portata via e l'altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo”.
Mt 24, 37-44

E’ la prima domenica di Avvento del ciclo A e il Vangelo di Matteo (il secondo per lunghezza, dopo quello di Luca), ci condurrà per tutto il percorso dell’anno liturgico.
E’ il primo dei Vangeli, non tanto per l’antichità, attribuita oggi al Vangelo di Marco, quanto per il suo strettissimo legame con l’Antico Testamento. Riporta infatti 43 citazioni veterotestamentarie, e presenta Gesù come il vero Messia che adempie le Scritture, e la Chiesa come il vero Israele. Il Vangelo di Matteo, è il frutto della predicazione dell’apostolo, ma la composizione definitiva appartiene alla sua scuola e si fa risalire intorno agli anni 80. Ambiente di origine sembra una comunità cristiana composta in maggioranza di cristiani giudei-convertiti, che attraversava un momento di particolare crisi e difficoltà.
Questo brano fa parte del discorso escatologico di Gesù, che si trova anche negli altri due vangeli sinottici. La liturgia riporta solo i versetti nei quali Matteo insiste sulla necessità della vigilanza, prendendo a tal fine come esempio il diluvio universale e altre situazioni della vita quotidiana.
Il paragone del diluvio è utilizzato da Gesù, non in quanto castigo per la corruzione prevalente al tempo di Noè, ma soltanto per il suo carattere improvviso e inatteso. Gli uomini di allora, inconsapevoli della tragica sorte che li attendeva, si preoccupavano solo di ciò che riguardava la loro sopravvivenza in tempi normali: mangiavano e bevevano, e si sposavano. Improvvisamente però, quando Noè entrò nell’arca, furono spazzati via dal diluvio. Poi l’altro paragone :… due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà portata via e l'altra lasciata è tratto dalla realtà quotidiana, dove a volte capitano disgrazie che colpiscono una persona e non un’altra, che si trova nello stesso luogo e nelle stesse condizioni. (L’immagine del “giorno del Signore” è stata immortalata dal profeta Amos in una e propria sceneggiata piena di tensione: è come quando uno fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde.(Am5,19) Questo per far capire che il giorno del Signore è inevitabile: è il punto della storia in cui Dio entra in scena in modo decisivo e inaugura il suo regno di giustizia e di pace)
Gesù insiste poi dicendo: Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa.
Questo: “cercate di capire”, ci fa pensare quanto Gesù ha a cuore la nostra sorte.. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo. Per rafforzare quanto detto prima, Gesù dice che il Figlio dell’uomo verrà nel momento in cui non si pensa: Dio ha i Suoi tempi che non sono quelli dell’uomo e viene quando meno lo si aspetta.
L’ora di cui parla Matteo richiama il giorno e il tempo di cui Paolo parla nella seconda lettura, non un semplice tempo cronologico, ma un kairos, il tempo che appartiene a Dio e in cui Dio agisce, rimane all’uomo nella sua libertà riconoscerlo vivendo la sua vita con impegno, perché all’interno anche della sua storia personale, maturi il progetto di Dio.

 

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“Oggi nella Chiesa inizia un nuovo anno liturgico, cioè un nuovo cammino di fede del popolo di Dio. E come sempre incominciamo con l’Avvento. La pagina del Vangelo ci introduce in uno dei temi più suggestivi del tempo di Avvento: la visita del Signore all’umanità. La prima visita – sappiamo tutti – è avvenuta con l’Incarnazione, la nascita di Gesù nella grotta di Betlemme; la seconda avviene nel presente: il Signore ci visita continuamente, ogni giorno, cammina al nostro fianco ed è una presenza di consolazione; infine, ci sarà la terza, l’ultima visita, che professiamo ogni volta che recitiamo il Credo: «Di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti». Il Signore oggi ci parla di quest’ultima sua visita, quella che avverrà alla fine dei tempi, e ci dice dove approderà il nostro cammino.
La Parola di Dio fa risaltare il contrasto tra lo svolgersi normale delle cose, la routine quotidiana, e la venuta improvvisa del Signore. Dice Gesù: «Come nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti»: così dice Gesù. Sempre ci colpisce pensare alle ore che precedono una grande calamità: tutti sono tranquilli, fanno le cose solite senza rendersi conto che la loro vita sta per essere stravolta. Il Vangelo certamente non vuole farci paura, ma aprire il nostro orizzonte alla dimensione ulteriore, più grande, che da una parte relativizza le cose di ogni giorno ma al tempo stesso le rende preziose, decisive. La relazione con il Dio-che-viene-a-visitarci dà a ogni gesto, a ogni cosa una luce diversa, uno spessore, un valore simbolico.
Da questa prospettiva viene anche un invito alla sobrietà, a non essere dominati dalle cose di questo mondo, dalle realtà materiali, ma piuttosto a governarle. Se, al contrario, ci lasciamo condizionare e sopraffare da esse, non possiamo percepire che c’è qualcosa di molto importante: il nostro incontro finale con il Signore: e questo è l’importante. Quello, quell’incontro. E le cose di ogni giorno devono avere questo orizzonte, devono essere indirizzate a quell’orizzonte. Quest’incontro con il Signore che viene per noi. In quel momento, come dice il Vangelo, «due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato» . È un invito alla vigilanza, perché non sapendo quando Egli verrà, bisogna essere sempre pronti a partire.
In questo tempo di Avvento, siamo chiamati ad allargare l’orizzonte del nostro cuore, a farci sorprendere dalla vita che si presenta ogni giorno con le sue novità. Per fare ciò occorre imparare a non dipendere dalle nostre sicurezze, dai nostri schemi consolidati, perché il Signore viene nell’ora in cui non immaginiamo. Viene per introdurci in una dimensione più bella e più grande.
La Madonna, Vergine dell’Avvento, ci aiuti a non considerarci proprietari della nostra vita, a non fare resistenza quando il Signore viene per cambiarla, ma ad essere pronti a lasciarci visitare da Lui, ospite atteso e gradito anche se sconvolge i nostri piani. “

Papa Francesco Parte dell’Omelia del 27 novembre 2016

Pubblicato in Liturgia

Nell’ultima domenica dell’Anno liturgico la Chiesa celebra Cristo Re dell'Universo.
La storia di questa festa parte dal 1899 con papa Leone XIII, ma fu PIO XI che la confermò come festa con l'enciclica Quas Primas dell'11 dicembre 1925. Dice il Papa nell'Enciclica: « E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun'altra cosa possa maggiormente giovare quanto l'istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re. »
Nella forma ordinaria del rito romano la festa coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico. La festa di Cristo Re è anche la festa di Cristo crocifisso e nel messaggio cristiano l’annuncio della glorificazione convive con la memoria della passione.
Nella prima lettura, tratta dal secondo libero di Samuele, si rievoca il momento in cui Davide viene riconosciuto re di tutto Israele. Davide ci viene proposto come una prefigurazione profetica di Gesù che incarnerà le promesse salvifiche del Padre.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, continuando la sua lettera ai Colossesi, nel vibrante e commosso inno cristologico contempla il significato della regalità di Cristo, che con la Sua morte in croce, e la Sua resurrezione, assicura la vita eterna a coloro che lo seguono.
Nel Vangelo di Luca, incontriamo il messia, il Salvatore, crocifisso tra due ladroni, ed è proprio uno dei ladroni a riconoscere per primo la regalità di Gesù dicendogli: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” e Gesù fa di lui il primo peccatore salvato. Karl Rahner, uno dei maggiori teologi del secolo scorso, ha scritto: “Un malfattore guardò alla morte di Cristo e ciò che vide bastò perchè comprendesse anche la sua morte, la beatitudine della sua morte. L’altro malfattore distolse lo sguardo e Gesù non gli disse nulla. Il buio e il silenzio che sovrastano quella morte ci ricordano che la morte può essere purtroppo anche l’inizio della morte eterna”.

Dal secondo libro di Samuele
In quei giorni, vennero tutte le tribù d’Israele da Davide a Ebron, e gli dissero:
«Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”».
Vennero dunque tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele.
2Sam 5,1-3

I due Libri di Samuele costituiscono, con i successivi due libri dei Re, un'opera continua ed hanno lo scopo di tratteggiare la vicenda storica del popolo di Israele dalla fine dell'epoca dei Giudici fino alla fine della monarchia con l'invasione babilonese di Nabucodonosor: un arco di tempo di circa sei secoli. La redazione definitiva dell’intera opera risale al VI secolo a.C.
Il nome "Libri di Samuele" deriva dal fatto che un'opinione talmudica tardiva ne attribuiva la compilazione al profeta Samuele, il quale però occupa un ruolo di primo piano solo nei primi 15 capitoli del primo libro.
Il secondo libro di Samuele è dominato interamente dalla grandiosa figura del re Davide, nella sua grandezza di sovrano e di guerriero così come nelle sue miserie di uomo. Esso abbraccia un arco di tempo pari a quello dell'intero regno di Davide sulle dodici tribù, che tradizionalmente va dal 1010 fino al 970 a.C.. In tutto comprende 24 capitoli, in cui si raccontano le vicende del re Davide, a partire dalla sua ascesa al trono fino alla morte.
In questo brano liturgico si narra la consacrazione di Davide, dopo varie peripezie e lotte intestine, come re di tutto Israele. L’ascesa di Davide al trono di Israele è presentata come iniziativa delle tribù interessate, le quali si recano da Davide in Ebron e gli dicono: Ecco noi siamo tue ossa e tua carne. Già prima, quando regnava Saul su di noi, tu conducevi e riconducevi Israele. Il Signore ti ha detto: “Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d’Israele”.
Coloro che si recano da Davide sono, come apparirà subito dopo, gli anziani delle tribù del Nord. In quel momento Gerusalemme non era stata ancora conquistata e Davide dimorava in Ebron, il centro più importante della tribù di Giuda, noto soprattutto perché lì si trovavano le tombe dei patriarchi.
I rappresentanti delle tribù hanno tre motivi per proporre a Davide di diventare re. Anzitutto egli appartiene al loro popolo. L’espressione “tue ossa e tua carne” è usata spesso nella Bibbia per indicare la parentela e l’appartenenza allo stesso gruppo e secondo Dt 17,15 il re deve appartenere al popolo di Israele. Come seconda motivazione essi ricordano che già quando regnava Saul, Davide “conduceva e riconduceva” Israele, letteralmente lo faceva entrare e lo faceva uscire, cioè era a capo dell’esercito di Saul: ciò costituiva una legittimazione per succedere al re defunto. Infine essi accennano alla motivazione più forte, cioè a una promessa divina in forza della quale Davide sarebbe diventato il pastore di Israele, cioè il re legittimo di tutto il popolo. Da queste tre motivazioni risulta che essi lo ritenevano la persona più adatta per regnare su tutte le tribù di Israele.
Il brano concludendo con l’annotazione: “Vennero tutti gli anziani d’Israele dal re a Ebron, il re Davide concluse con loro un’alleanza a Ebron davanti al Signore ed essi unsero Davide re d’Israele” ,dimostra che la salita al trono di Davide è effetto di una scelta fatta dai rappresentanti delle tribù. La conclusione di un’alleanza con colui che è stato designato implica la definizione di certe condizioni che definiscono i diritti e i doveri dei due contraenti. Questa alleanza viene ratificata “davanti al Signore”, il quale è invocato come garante del rispetto degli accordi presi.
La figura di Davide è stata idealizzata dalla tradizione con lo scopo di presentarlo come il re ideale, la cui fedeltà a Dio non è stata uguagliata da nessuno dei suoi successori. Ciò non ha impedito a chi scrive di ricordare che la sua ascesa al trono è avvenuta mediante soprusi e omicidi che, pur essendosi verificati a sua insaputa, gettano un’ombra negativa su di lui, rischiando di farlo apparire come un sanguinario usurpatore. Perciò è importante mostrare come egli sia stato unto re non solo dagli anziani della sua tribù, ma anche da quelli delle altre tribù: tutto Israele l’ha dunque riconosciuto come suo capo naturale. Ma la tradizione ricorda anche che già precedentemente egli era stato unto come re da parte di Samuele (1Sam 16,1-13).
Il racconto di questa unzione, avvenuta in segreto, è stato scritto allo scopo di dimostrare come Davide non fosse stato scelto dagli uomini, ma da Dio stesso.
Ciò che, secondo la tradizione, contraddistingue Davide è proprio la sua fedeltà al progetto divino riguardante la liberazione di Israele e la sua costituzione come popolo nella terra promessa. In lui e nella sua discendenza il popolo troverà un punto di riferimento molto sicuro nei suoi rapporti con Dio. Sarà la promessa a lui fatta di dare stabilità alla sua discendenza che darà origine all’attesa messianica per cui il vero unto del Signore non sarà più Davide, ma il suo discendente, il Messia promesso, mediante il quale Israele otterrà da Dio la liberazione definitiva.

Salmo 121- Andremo con gioia alla casa del Signore.

Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore!».
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!

È là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge d’Israele,
per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i troni del giudizio,
i troni della casa di Davide.

E’ uno dei più noti e appassionati canti di Sion e delle “ascensioni”, un testo messo sovente in musica a partire dallo splendido e sontuoso “Vespro della Beata Vergine” di Claudio Monteverdi (1610). La prima strofa unisce in felice sintesi psicologica l’istante in cui il pellegrino pronunziò la grande decisione «Andremo alla casa del Signore!».(la frase potrebbe essere la citazione di una delle formule tipiche dei Salmi di pellegrinaggio a Sion) e l’attuazione di quell’antico desiderio.
Nell’ebreo l’arrivo a Gerusalemme genera una gioia elementare, istintiva: il lungo cammino è dimenticato e il distacco è lacerante perché nel tempio si sperimenta la vita perfetta con Dio.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossesi
Fratelli, ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci
di partecipare alla sorte dei santi nella luce.
È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre
e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore,
per mezzo del quale abbiamo la redenzione,
il perdono dei peccati.
Egli è immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione,
perché in lui furono create tutte le cose
nei cieli e sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni, Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono.
Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa.
Egli è principio,
primogenito di quelli che risorgono dai morti,
perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.
È piaciuto infatti a Dio
che abiti in lui tutta la pienezza
e che per mezzo di lui e in vista di lui
siano riconciliate tutte le cose,
avendo pacificato con il sangue della sua croce
sia le cose che stanno sulla terra,
sia quelle che stanno nei cieli.
Col 1,12-20

La Lettera ai Colossesi, è stata scritta da Paolo durante la sua prigionia a Roma, attorno al 62; (altri esperti sostengono che l’autore della lettera sia un suo discepolo e che l’abbia scritta dopo la morte dell’Apostolo (64-67), verso fine I secolo). Probabilmente Paolo non si era mai recato a Colosse, che era allora una piccola città dell’entroterra dell’Asia minore (circa 124 km a nord di Efeso) e il Vangelo era stato portato lì da alcuni missionari da Efeso, fra questi Èpafra, al quale Paolo dà la sua approvazione all’inizio della lettera (1,7).
La lettera è composta da 4 capitoli contenenti meditazioni teologiche su Gesù, la Chiesa, la salvezza per grazia, ed infine alcune esortazioni di condotta morale.
Il brano riporta il celebre inno cristologico, che inizia con una ampia formula di ringraziamento, poi Paolo esprime mediante un dittico il primato di Cristo:
“È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore”,
Forte è il contrasto luce/tenebre. E' Dio Padre che ha liberato gli uomini e le donne dal potere delle tenebre e li ha resi parte del regno di Suo Figlio. Qui si può intravedere l'esperienza della liberazione dall'Egitto e l'entrata nella Terra Promessa, ma . quell'esperienza di liberazione era solo un modello, una piccola anticipazione della liberazione che è avvenuta tramite la morte e la risurrezione di Cristo, liberazione da ben altre tenebre, entrata in un ben altro regno. Il regno è del Padre, ma è stato dato al Figlio del Suo amore. Vi è una relazione di amore tra il Padre e il Figlio: è l'amore che ha generato il Figlio e che rigenera i figli.
“per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati”.
Per mezzo del Figlio abbiamo ricevuto la redenzione, cioè il perdono dei peccati, la cancellazione di ogni conseguenza negativa del male e del peccato. Nei versetti seguenti troviamo l'inno vero e proprio, che analizza la natura di Cristo e della Sua opera di redenzione.
“Egli è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione”,
Gesù è immagine del Dio invisibile. Nell'A.T. l'immagine appare sin dalle prime pagine, nella Genesi infatti è scritto che l'uomo è creato a immagine di Dio (1,26-27) e nei libri sapienziali, la Sapienza stessa è immagine di Dio (7,26).
Anche nell'ambiente greco si concepisce il mondo come immagine di Dio, ma il pensiero dei primi cristiani va soprattutto su Gesù come manifestazione/incarnazione della Sapienza di Dio, che rivela la grandezza del Padre e mediatrice nei confronti della creazione.
Gesù è anche il primogenito. Anche questo termine riveste grande importanza nella cultura biblica perché il primogenito è colui che ha la preminenza sui fratelli e una dignità unica nei confronti del padre. Cristo in quanto primogenito dunque non è solo mediatore nella creazione, ma in Lui, in quanto primogenito, si manifesta il volto nascosto e inaccessibile di Dio.
“perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui”.
In questo versetto si ribadisce la centralità di Cristo rispetto alla creazione. Cristo svolge il ruolo di fonte, di fondamento - consistenza e meta finale. Egli esercita la Sua signoria nei cieli e sulla terra, sulle cose visibili e quelle invisibili. I Troni, Dominazioni, Principati e Potenze erano le varie gerarchie di angeli che erano ritenuti partecipi del governo dell'universo fisico e del mondo religioso precristiano ed erano ritenuti speciali custodi della legge di Mosè e del suo sistema (V.Gal 3,19 e Col 2,15 ). Anche gli angeli sono stati dunque creati in Cristo e quindi non possono godere di un'adorazione indipendente da Lui.
“Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono”.
L'essere prima è inteso in senso di anteriorità ma anche di supremazia. La sussistenza di tutte le cose in un principio è un'affermazione che vedeva l'universo come un insieme divino e coerente.
“Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa”.
La Chiesa intesa come corpo è un tema caro a Paolo. In Rm 12 e 1Cor 12 il corpo è la comunità dei fedeli. In Colossesi ed Efesini il Cristo è la testa di questo corpo, lo governa e gli dà la vita. Parlando della Chiesa l'autore sposta l'accento dalla dimensione cosmica a quella storica: Cristo si trova concretamente in una comunità di uomini e di donne, che vive riconoscendo la Sua supremazia.
“Egli è principio,primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose.”
Mentre la prima parte dell'inno sottolineava la supremazia di Gesù sulla creazione, la seconda parte parla della riconciliazione e della pacificazione universale. Il Cristo è il principio! Questo è un tema molto caro ai greci e si ritrova nei testi biblici riguardanti la Sapienza. Poi si ripete di nuovo il termine del “primogenito” . Egli così diventa il capostipite di una nuova umanità, quella che ha vinto la morte. In base a questo si ribadisce nuovamente il primato di Cristo su tutte le cose.
“È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza”
Grazie alla sua partecipazione in prima persona alla riconciliazione di tutti gli esseri creati, Gesù Cristo riceve in se stesso ogni pienezza, cioè la pienezza di tutta la divinità, tutto quello che Dio ci vuole comunicare di se stesso in Cristo, per introdurci e perfezionarci in Lui.
“e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.”
E' Dio che ha riconciliato in Cristo e in vista di Cristo tutte le cose. E' una pacificazione totale, che coinvolge il cielo e la terra. E' una pacificazione e riconciliazione che ha avuto un preciso momento: la morte in croce di Cristo. E' questo il punto fondamentale. Se si può negare la partecipazione di Cristo alla creazione, non si può certo evitare il fatto storico della croce e risurrezione di Cristo, che ha permesso una totale riconciliazione di tutte le cose create.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
Lc 23, 35-43


Solo l’Evangelista Luca riferisce l’episodio del "buon ladrone" che non compare invece nel Vangelo di Matteo, secondo cui vennero crocifissi insieme a Gesù due ladroni, che entrambi lo oltraggiavano e lo insultavano. Sembra strano che la liturgia per la solennità di Cristo, re dell'universo, ci presenti un brano tratto dalla passione, ed è anche strano immaginare che a riconoscere la Sua regalità fosse uno dei due malfattori che fu crocifisso con Gesù. Infatti, mentre il suo compagno lo insultava e rivolgendosi a lui gli diceva: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!”, perciò lo interpella come “Cristo” senza però riconoscerlo, il buon ladrone (da alcuni vangeli apocrifi sappiamo che sia chiamava Disma) invece riconosce, in quell’uomo, orribilmente sfigurato, che sta morendo in croce come lui, il re di un regno ultraterreno. Egli prima si rivolge al suo compagno dicendogli: “Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male”. Riconosce perciò l'innocenza di Gesù, infine si rivolge a Lui : "Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno!" Colpisce il fatto che rivolgendosi a Lui lo chiama per nome (nessuno, neanche i suoi apostoli lo avevano fatto). E’ l’atto di fede più grande che Gesù ha potuto vedere. Era facile riconoscerlo messia e profeta quando era circondato dai suoi discepoli e compiva miracoli, ora invece, quando le tenebre scendono sulla terra, avviene il miracolo della conversione dell’ultimo momento: Disma ha visto accanto a sé, condannato a morte come lui, la fragilità di un uomo ma anche la forza di Dio. Lo ha riconosciuto Signore di un regno nel quale lo supplica di essere accolto, senza una parola di rimpianto per la sua vita terrena che sta finendo. Ha quella fede che Gesù si sforzava di installare nei suoi discepoli, e che ora premia nel ladrone con la breve risposta: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”.
Il primo salvato dal Figlio di Dio crocifisso è dunque, un peccatore che all’ultimo momento crede nella misericordia di Dio, e Gesù, che non è un semplice giusto, ma anche Re e Salvatore, chiama al Suo regno, nel Suo paradiso, chi confida il Lui.

 

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“La solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo corona l’anno liturgico… Il Vangelo presenta infatti la regalità di Gesù al culmine della sua opera di salvezza, e lo fa in un modo sorprendente. «Il Cristo di Dio, l’eletto, il Re» appare senza potere e senza gloria: è sulla croce, dove sembra più un vinto che un vincitore. La sua regalità è paradossale: il suo trono è la croce; la sua corona è di spine; non ha uno scettro, ma gli viene posta una canna in mano; non porta abiti sontuosi, ma è privato della tunica; non ha anelli luccicanti alle dita, ma le mani trafitte dai chiodi; non possiede un tesoro, ma viene venduto per trenta monete.
Davvero il regno di Gesù non è di questo mondo (cfr Gv 18,36); ma proprio in esso, ci dice l’Apostolo Paolo nella seconda lettura, troviamo la redenzione e il perdono. Perché la grandezza del suo regno non è la potenza secondo il mondo, ma l’amore di Dio, un amore capace di raggiungere e risanare ogni cosa. Per questo amore Cristo si è abbassato fino a noi, ha abitato la nostra miseria umana, ha provato la nostra condizione più infima: l’ingiustizia, il tradimento, l’abbandono; ha sperimentato la morte, il sepolcro, gli inferi. In questo modo il nostro Re si è spinto fino ai confini dell’universo per abbracciare e salvare ogni vivente. Non ci ha condannati, non ci ha nemmeno conquistati, non ha mai violato la nostra libertà, ma si è fatto strada con l’amore umile che tutto scusa, tutto spera, tutto sopporta (cfr 1 Cor 13,7).
Solo questo amore ha vinto e continua a vincere i nostri grandi avversari: il peccato, la morte, la paura.
Oggi, cari fratelli e sorelle, proclamiamo questa singolare vittoria, con la quale Gesù è divenuto il Re dei secoli, il Signore della storia: con la sola onnipotenza dell’amore, che è la natura di Dio, la sua stessa vita, e che non avrà mai fine (cfr 1 Cor 13,8). Con gioia condividiamo la bellezza di avere come nostro re Gesù: la sua signoria di amore trasforma il peccato in grazia, la morte in risurrezione, la paura in fiducia.
Sarebbe però poca cosa credere che Gesù è Re dell’universo e centro della storia, senza farlo diventare Signore della nostra vita: tutto ciò è vano se non lo accogliamo personalmente e se non accogliamo anche il suo modo di regnare. Ci aiutano in questo i personaggi che il Vangelo odierno presenta. Oltre a Gesù, compaiono tre figure: il popolo che guarda, il gruppo che sta nei pressi della croce e un malfattore crocifisso accanto a Gesù.
Anzitutto, il popolo: il Vangelo dice che «stava a vedere»: nessuno dice una parola, nessuno si avvicina. Il popolo sta lontano, a guardare che cosa succede. È lo stesso popolo che per le proprie necessità si accalcava attorno a Gesù, ed ora tiene le distanze. Di fronte alle circostanze della vita o alle nostre attese non realizzate, anche noi possiamo avere la tentazione di prendere le distanze dalla regalità di Gesù, di non accettare fino in fondo lo scandalo del suo amore umile, che inquieta il nostro io, che scomoda. Si preferisce rimanere alla finestra, stare a parte, piuttosto che avvicinarsi e farsi prossimi. Ma il popolo santo, che ha Gesù come Re, è chiamato a seguire la sua via di amore concreto; a domandarsi, ciascuno ogni giorno: “che cosa mi chiede l’amore, dove mi spinge? Che risposta do a Gesù con la mia vita?”
C’è un secondo gruppo, che comprende diversi personaggi: i capi del popolo, i soldati e un malfattore. Tutti costoro deridono Gesù. Gli rivolgono la stessa provocazione: «Salvi se stesso!» È una tentazione peggiore di quella del popolo. Qui tentano Gesù, come fece il diavolo agli inizi del Vangelo (cfr Lc 4,1-13), perché rinunci a regnare alla maniera di Dio, ma lo faccia secondo la logica del mondo: scenda dalla croce e sconfigga i nemici! Se è Dio, dimostri potenza e superiorità! Questa tentazione è un attacco diretto all’amore: «salva te stesso»; non gli altri, ma te stesso. Prevalga l’io con la sua forza, con la sua gloria, con il suo successo. È la tentazione più terribile, la prima e l’ultima del Vangelo.
Ma di fronte a questo attacco al proprio modo di essere, Gesù non parla, non reagisce. Non si difende, non prova a convincere, non fa un’apologetica della sua regalità. Continua piuttosto ad amare, perdona, vive il momento della prova secondo la volontà del Padre, certo che l’amore porterà frutto.
Per accogliere la regalità di Gesù, siamo chiamati a lottare contro questa tentazione, a fissare lo sguardo sul Crocifisso, per diventargli sempre più fedeli. Quante volte invece, anche tra noi, si sono ricercate le appaganti sicurezze offerte dal mondo. Quante volte siamo stati tentati di scendere dalla croce. La forza di attrazione del potere e del successo è sembrata una via facile e rapida per diffondere il Vangelo, dimenticando in fretta come opera il regno di Dio…..
Nel Vangelo compare un altro personaggio, più vicino a Gesù, il malfattore che lo prega dicendo: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» . Questa persona, semplicemente guardando Gesù, ha creduto nel suo regno. E non si è chiuso in se stesso, ma con i suoi sbagli, i suoi peccati e i suoi guai si è rivolto a Gesù. Ha chiesto di esser ricordato e ha provato la misericordia di Dio: «oggi con me sarai nel paradiso».
Dio, appena gliene diamo la possibilità, si ricorda di noi. Egli è pronto a cancellare completamente e per sempre il peccato, perché la sua memoria non registra il male fatto e non tiene sempre conto dei torti subiti, come la nostra. Dio non ha memoria del peccato, ma di noi, di ciascuno di noi, suoi figli amati. E crede che è sempre possibile ricominciare, rialzarsi.
Chiediamo anche noi il dono di questa memoria aperta e viva. Chiediamo la grazia di non chiudere mai le porte della riconciliazione e del perdono, ma di saper andare oltre il male e le divergenze, aprendo ogni possibile via di speranza. Come Dio crede in noi stessi, infinitamente al di là dei nostri meriti, così anche noi siamo chiamati a infondere speranza e a dare opportunità agli altri…, Perché, anche se si chiude la Porta santa, rimane sempre spalancata per noi la vera porta della misericordia, che è il Cuore di Cristo. Dal costato squarciato del Risorto scaturiscono fino alla fine dei tempi la misericordia, la consolazione e la speranza.
Tanti pellegrini hanno varcato le Porte sante e fuori del fragore delle cronache hanno gustato la grande bontà del Signore. Ringraziamo per questo e ricordiamoci che siamo stati investiti di misericordia per rivestirci di sentimenti di misericordia, per diventare noi pure strumenti di misericordia. Proseguiamo questo nostro cammino, insieme.
Ci accompagni la Madonna, anche lei era vicino alla croce, lei ci ha partorito lì come tenera Madre della Chiesa che tutti desidera raccogliere sotto il suo manto. Ella sotto la croce ha visto il buon ladrone ricevere il perdono e ha preso il discepolo di Gesù come suo figlio. È la Madre di misericordia, a cui ci affidiamo: ogni nostra situazione, ogni nostra preghiera, rivolta ai suoi occhi misericordiosi, non resterà senza risposta.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia del 20 novembre 2016

Pubblicato in Liturgia

Nella penultima domenica dell’anno liturgico, le letture che abbiamo ci portano ad orientare il nostro sguardo verso il futuro, sulla fine del mondo e sul destino dell’uomo oltre la morte. Questo non per spaventarci, ma per mostrarci come vivere bene il presente illuminato dalla speranza che alla fine il bene vincerà sul male.
Nella prima lettura, il profeta Malachia, annuncia, a nome di Dio, che il fuoco distruggerà “i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia” ma subito dopo assicura che “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” per coloro che temono il suo nome.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, continuando la sua seconda lettera ai Tessalonicesi, mette sotto accusa gli oziosi che vivono disordinatamente “senza far nulla e in continua agitazione”. In modo perentorio l’apostolo sentenzia: “Chi non vuole lavorare neppure mangi”. L’uomo di fede deve prepararsi alla vita ultraterrena “lavorando in pace” operando con buona volontà e carità in vita, interpretando la giustizia tra gli uomini per meritare la giustizia salvifica di Dio.
Nel Vangelo di Luca, Gesù prefigura la distruzione di Gerusalemme e la persecuzione dei cristiani, ma contemporaneamente rassicura sul fatto che il bene prevarrà sul male.
Quella di oggi è una liturgia di tensione, destinata a scuotere le coscienze, ma non a terrorizzarle. Cristo, diversamente da quanto predicano certe sètte apocalittiche contemporanee, come i Testimoni di Geova, non si è particolarmente interessato alla fine del mondo, che resta un mistero nascosto nella mente di Dio: “Quanto poi a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre”.(Mc 13,32) Nei momenti di oscurità e di tribolazione ci devono sostenere le parole di Gesù: “nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”

Dal libro del profeta Malachia
“Ecco, sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia;
quel giorno venendo,li brucerà - dice il Signore degli eserciti – fino a non lasciar loro né radice né germoglio. Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia”.
Mal 3,19-20

Malachia è l’ultimo dei profeti minori dell’A.T., che gli ebrei chiamano per questo “Sigillo dei profeti”. Del profeta Malachia, il cui nome o pseudonimo in ebraico è tutto un programma, “messaggero del Signore”, si sa solo che era della tribù di Zabulon e nacque a Sofa. Visse certamente dopo l’esilio babilonese (538 a.C.), durante la dominazione persiana, tuttavia non si può determinare con certezza se le sue profezie siano anteriori, contemporanee o posteriori al ritorno di Esdra in Palestina (sommo sacerdote ebreo, codificatore del giudaismo, V-IV secolo a.C.).
Il libro di Malachia, tratta dei problemi morali relativi alla comunità ebraica, reduce dalla prigionia babilonese, a cui rimprovera le lamentele contro la Provvidenza di Dio, spronandola a pentirsi. Egli mette in evidenza “l’elezione” d’Israele, che non è solo un privilegio onorifico di Dio, ma comporta degli obblighi, come ogni dono divino; rimprovera i sacerdoti che offendono la dignità del Signore e trascurano il culto a Lui dovuto.
Nella requisitoria contro il malcostume egli è intransigente e condanna i matrimoni misti, difende la indissolubilità del matrimonio, ecc. Il libro termina con una visione escatologica (cioè quello che seguirà alla vita terrena e alla fine del mondo), annunciante la venuta del messaggero di Dio, che farà una cernita dei buoni nel suo popolo; in questa profezia si può prefigurare la venuta di Giovanni Battista.
I Padri sono concordi nel vedere in Malachia il preannunzio profetico del sacrificio della Messa, con Gerusalemme che perde il titolo di “luogo dove bisogna adorare”, e Gesù che istituisce il rito eucaristico per tutta l’umanità.
Questo brano, che è la parte conclusiva del libro di Malachia, ed anche la pagina che chiude l'Antico Testamento, ci invita a fissare lo sguardo in quel “giorno”.
Egli lo dipinge con immagini molto forti: “sta per venire il giorno rovente come un forno”, la cui fiamma incenerisce anche i germogli ancora verdi e le radici “fino a non lasciar loro né radice né germoglio”. C’è il grande ribaltamento delle sorti: i superbi e gli ingiusti saranno finalmente sconfitti e per i giusti “sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” la trionfale manifestazione del Dio salvatore e liberatore che inaugurerà la nuova era e la nuova creazione
* Il titolo “sole di giustizia”, è stato applicato a Cristo, e ha avuto una parte importante nella formazione delle feste liturgiche del natale e dell’epifania

Salmo 97 - Il Signore giudicherà il mondo con giustizia.
Cantate inni al Signore con la cetra,
con la cetra e al suono di strumenti a corde;
con le trombe e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore.

Risuoni il mare e quanto racchiude,
il mondo e i suoi abitanti.
I fiumi battano le mani,
esultino insieme le montagne
davanti al Signore che viene
a giudicare la terra.

Giudicherà il mondo con giustizia
e i popoli con rettitudine.

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19): “I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo. La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli,sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi.
Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi.
Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza far nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.
2Ts 3:7-12

Paolo quasi al termine della sua seconda lettera ai Tessalonicesi, dà spazio a un’ultima raccomandazione. Egli inizia portando se stesso come modello da imitare: “non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi.” Commenta poi che ha lavorato non perchè non fosse suo diritto farsi sostenere dalla comunità, ma perché voleva dar loro un esempio da imitare. Dopo questa premessa ricorda la regola che aveva dato: : chi non vuole lavorare, neppure mangi e continua dicendo: Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza far nulla e sempre in agitazione.
Probabilmente il comportamento di queste persone era il risultato di quella tensione determinata dal fatto che il Signore non era ritornato e non si pensava più che ciò avvenisse a breve scadenza, per cui non si trattava di un semplice ozio, ma di un atteggiamento basato su una motivazione religiosa.
A coloro che hanno ceduto a questa tentazione egli ordina: esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità.
L’esempio di Paolo e la sua parola autorevole vengono fatti valere per affermare che nessuno deve farsi mantenere a spese della comunità.
Nei versetti seguenti, che non sono riportati nel brano, l’esortazione ha un ulteriore sviluppo. Se qualcuno non obbedisce a questa direttiva bisogna intervenire, interrompendo i rapporti con lui, cioè non provvedendogli più l’assistenza che esige dagli altri, non si deve comunque trattarlo come un nemico, ma ammonirlo come un fratello. Tutta la comunità quindi è coinvolta nel compito di aiutare i singoli membri a vivere in modo conforme all’insegnamento di Paolo.
Ogni comunità deve difendersi dal male, e come sempre capita ed è capitato, il male peggiore non è quello che viene dall’esterno, ma quello che corrode la comunità dall’interno. L’insegnamento che Paolo ci lascia è che il cristiano deve vivere serenamente, non deve mangiare gratuitamente il pane, non deve vivere alle spalle degli altri, ma cercare di adempiere con coscienza retta tutti i doveri terreni personali e sociali.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”. Gli domandarono: “Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere? “.
Rispose: “Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: "Sono io " e: "Il tempo è vicino"; non andate dietro a loro!. Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine”. Poi diceva loro: “Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagòghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome.
Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicchè tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”.
Lc 21, 5-19

Luca riporta questo discorso di Gesù, dopo l’episodio della vedova che davanti al tempio, dona i suoi spiccioli, e Gesù dice di lei che nella sua miseria ha dato tutto quanto aveva per vivere. Questo discorso di Gesù viene chiamato escatologico e come in Marco, c’è un riferimento alla distruzione di Gerusalemme, avvenuta nel 70 d.C., con la descrizione della fine dei tempi.
Nel brano leggiamo che Gesù si trovava ancora nel tempio, dove si erano svolte le dispute con i diversi gruppi dei giudei, e sentendo che alcuni di mezzo al popolo ammiravano la bellezza della costruzione e dei doni votivi disse: "Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”. Questa affermazione deve aver procurato una certa impressione perché alcuni dei presenti gli chiedono: “Maestro, quando accadranno queste cose e quale sarà il segno che ciò sta per avvenire?” Come in Marco, anche in Luca, Gesù passa a indicare i segni premonitori della distruzione di Gerusalemme. Anzitutto parla di avvenimenti riguardanti la comunità dei discepoli: “Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: "Sono io " e: "Il tempo è vicino"; non andate dietro a loro!”.
“Non lasciatevi ingannare,” ecco la prima esortazione di Gesù, Egli non intende parlare dei segni, ma esortare alla fiducia. Sicuramente questi falsi profeti, dai quali Gesù mette in guardia i suoi ascoltatori, saranno stati coloro che all'interno delle prime comunità cristiane si erano messi ad annunciare una parusia imminente. Il periodo storico immediatamente precedente la caduta di Gerusalemme, sia per la comunità cristiana sia in Palestina, era segnato da una forte tensione e Luca vuole scoraggiare una visione errata della parusia.
Poi Gesù prosegue: “Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine”. Qui c’è una seconda esortazione, relativa al tema classico della guerra e in questa Luca inserisce una prospettiva storica (con l'utilizzo di espressioni temporali: “prima …e non è subito la fine”) per riaffermare quanto appena detto. Le guerre, i disordini, le rivoluzioni appartengono alla storia e non sono segni della prossimità della fine del mondo, per questo dice:”non è subito la fine”. In quegli anni infatti, mentre la Palestina era sconvolta dalla guerra giudaica e dai disordini civili che la accompagnavano, anche Roma era segnata da disordini con Galba, Otone e Vitellio (68-69 d.C.).
Poi Gesù continua dicendo : “Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo”.
Luca sembra voglia distinguere i fatti storici ricorrenti che vivono i suoi lettori, dai segni politici, naturali e cosmici che preludono la parusia e ricorre ad espressioni apocalittici, eventi catastrofici come la guerra, la carestia, la peste. (Come è attuale questo profezia, potremo anche riconoscerla in questi ultimi eventi che stiamo vivendo) Inserisce poi il tema della testimonianza e il testo si trasforma in una profezia circa le persecuzioni cui saranno sottoposti i credenti: “Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza”.
Le persecuzioni che ci furono, sia da parte dei Giudei che dei pagani, non sono segni premonitori della fine dei tempi, ma appartengono alla storia della Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Di questo Luca ne parla anche negli Atti (4,3; 5,18; 6,12; ecc.), perché la persecuzione fa parte della sequela e un invito a portare la propria croce, come Gesù aveva già detto in un'altra occasione.
Di fronte ai loro persecutori i cristiani non dovranno però preoccuparsi perché Gesù su questo dice : “Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere” perché sarà Gesù stesso a dar loro una sapienza a cui i loro avversari non potranno ribattere.
Alla persecuzione da parte di estranei si aggiungerà l’opposizione dei propri cari, ed anche questo Gesù lo dice: “Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome”. C’è così da mettere in conto anche il tradimento da parte dei propri parenti, genitori e fratelli, magari persone che condividono la stessa fede. La persecuzione sarà accompagnata da sentimenti di odio generalizzato, di cui è causa il nome di Gesù.
Il brano termina con due detti di incoraggiamento e di conforto: “Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto.” La “perseveranza” è un termine che evoca tutta la forza necessaria per affrontare le prove quotidiane che si incontrano sempre nella vita, ma nello stesso tempo fa pensare alla speranza in Colui che ti conta anche i capelli in capo.
“Con la vostra perseveranza salverete le vostra vita”, ed è come dire “salverete la vostra anima”. La vita si salva non nel disimpegno ma nel tenace, umile, quotidiano lavoro che si prende cura della terra e delle sue ferite. Senza cedere né allo scoraggiamento né alle seduzioni dei falsi profeti. Questo è importante perché Gesù nel vangelo sembra riconoscere alla perseveranza che noi avremo tenuto, non una salvezza avuta come pacco dono, ma una salvezza di cui Lui ci rende partecipi e protagonisti.

********************

Signore Gesùnei momenti della prova

quando sentimenti di angoscia,

spavento, insicurezza, sfiducia,

prevalgono in me, aiutami a leggere la

storia della mia vita alla luce di Te,

mio Dio, mio Amore, e mio Salvatore.

Ripetimi, quando la sofferenza

quotidiana sembra prevalere:

Io sono con te tutti i giorni fino alla

fine del mondo!

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“L’odierno brano evangelico contiene la prima parte del discorso di Gesù sugli ultimi tempi, nella redazione di san Luca. Gesù lo pronuncia mentre si trova di fronte al tempio di Gerusalemme, e prende spunto dalle espressioni di ammirazione della gente per la bellezza del santuario e delle sue decorazioni. Allora Gesù dice: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Possiamo immaginare l’effetto di queste parole sui discepoli di Gesù! Lui però non vuole offendere il tempio, ma far capire, a loro e anche a noi oggi, che le costruzioni umane, anche le più sacre, sono passeggere e non bisogna riporre in esse la nostra sicurezza. Quante presunte certezze nella nostra vita pensavamo fossero definitive e poi si sono rivelate effimere! D’altra parte, quanti problemi ci sembravano senza uscita e poi sono stati superati!
Gesù sa che c’è sempre chi specula sul bisogno umano di sicurezze. Perciò dice: «Badate di non lasciarvi ingannare», e mette in guardia dai tanti falsi messia che si sarebbero presentati. Anche oggi ce ne sono! E aggiunge di non farsi terrorizzare e disorientare da guerre, rivoluzioni e calamità, perché anch’esse fanno parte della realtà di questo mondo.
La storia della Chiesa è ricca di esempi di persone che hanno sostenuto tribolazioni e sofferenze terribili con serenità, perché avevano la consapevolezza di essere saldamente nelle mani di Dio. Egli è un Padre fedele, è un Padre premuroso, che non abbandona i suoi figli. Dio non ci abbandona mai! Questa certezza dobbiamo averla nel cuore: Dio non ci abbandona mai!
Rimanere saldi nel Signore, in questa certezza che Egli non ci abbandona, camminare nella speranza, lavorare per costruire un mondo migliore, nonostante le difficoltà e gli avvenimenti tristi che segnano l’esistenza personale e collettiva, è ciò che veramente conta; è quanto la comunità cristiana è chiamata a fare per andare incontro al “giorno del Signore”. Proprio in questa prospettiva vogliamo collocare l’impegno che scaturisce da questi mesi in cui abbiamo vissuto con fede il Giubileo Straordinario della Misericordia, che oggi si conclude nelle Diocesi di tutto il mondo con la chiusura delle Porte Sante nelle chiese cattedrali. L’Anno Santo ci ha sollecitati, da una parte, a tenere fisso lo sguardo verso il compimento del Regno di Dio e, dall’altra, a costruire il futuro su questa terra, lavorando per evangelizzare il presente, così da farne un tempo di salvezza per tutti.
Gesù nel Vangelo ci esorta a tenere ben salda nella mente e nel cuore la certezza che Dio conduce la nostra storia e conosce il fine ultimo delle cose e degli eventi. Sotto lo sguardo misericordioso del Signore si dipana la storia nel suo fluire incerto e nel suo intreccio di bene e di male. Ma tutto quello che succede è conservato in Lui; la nostra vita non si può perdere perché è nelle sue mani. Preghiamo la Vergine Maria, perché ci aiuti, attraverso le vicende liete e tristi di questo mondo, a mantenere salda la speranza dell’eternità e del Regno di Dio. Preghiamo la Vergine Maria, perché ci aiuti a capire in profondità questa verità: Dio mai abbandona i suoi figli!”
Papa Francesco Angelus del 13 novembre 2016

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Con le commemorazioni dei santi e dei defunti abbiamo meditato sulla morte e sulla risurrezione, sul peccato e la salvezza, e le letture liturgiche di questa domenica ci invitano ancora a meditare sugli stessi temi
Nella prima lettura, tratta dal secondo Libro dei Maccabei, troviamo il racconto dei sette fratelli che per non rinunziare alla loro fede, affrontano con serenità la morte con la ferma speranza che essa non è la fine, perché sono certi di risuscitare ad una vita nuova ed eterna. La fede nella risurrezione è affermata per la prima volta in questo brano. L’esperienza della morte di tanti giusti al tempo della persecuzione di Antioco IV Epifane (215 a.C circa-164 a.C) ha fatto nascere la speranza della risurrezione.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, continuando la sua seconda lettera ai Tessalonicesi, esorta i cristiani di Tessalonica a non stancarsi di fare il bene e di condurre una vita laboriosa e ordinata nella pace.
Nel Vangelo di Luca, leggiamo che dei sadducei tentano di impegolare Gesù presentando un racconto di fantasia in cui la visione dell’oltrevita è presentata in modo materialistico e concepita come un ricalco della vita terrena. E’ la stravagante storiella dei sette fratelli che in forza della legge biblica del levirato sono costretti a sposare uno dopo l’altro la vedova del loro fratello. E’ qui che Gesù dirà alla fine: Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per Lui.

Dal secondo libro dei Maccabei
In quei giorni, ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite. Uno di loro, facendosi interprete di tutti, disse: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri».
[E il secondo,] giunto all'ultimo respiro, disse: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell'universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna».
Dopo costui fu torturato il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani, dicendo dignitosamente: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo».
Lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture.
Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. Ridotto in fin di vita, egli diceva: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita».
2Mac 7,1-2, 9-14

Il Secondo libro dei Maccabei è un testo contenuto nella Bibbia cristiana ma non nella Bibbia ebraica.
Si tratta del riassunto di un'opera, composta intorno al 160 a.C. da un certo Giasone di Cirene, scritto direttamente in greco da un autore ignoto intorno al 124 a.C. forse ad Alessandria d’Egitto. Contrariamente a quanto si può pensare, il libro non è la continuazione del primo, ma tratta una parte degli stessi avvenimenti. Infatti, a differenza del primo libro, che illustra il periodo storico dal 175 al 135 a.C,., il secondo libro dei Maccabei si sofferma sugli avvenimenti tra gli anni 176-160. È composto da 15 capitoli e descrive la lotta per l'indipendenza della Giudea dei fratelli Maccabei (Giuda, Gionata,Simone) contro i re seleuciti della Siria, narrando eventi accaduti tra il 180 a.C. e il 161 a.C
Il brano che abbiamo riporta una parte del 7^capitolo e comincia prospettando il caso di sette giovani fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re, a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carni suine proibite. Nei versetti omessi dalla liturgia, si racconta che il re ordina subito di uccidere in modo orrendo quello che si era fatto loro portavoce, sotto gli occhi degli altri fratelli e della madre che nel frattempo si esortavano a vicenda a morire da forti. Viene poi la volta del secondo il quale subisce gli stessi tormenti del primo, fino all’ultimo dei fratelli.
È precisamente nell’ambito della persecuzione che si comincia a pensare che i giusti, i quali hanno dato la vita per la loro fede, alla fine dei tempi, quando il popolo entrerà nella pienezza della comunione con Dio, usciranno dal regno dei morti e torneranno in vita per partecipare alla felicità dei loro fratelli. Non si tratta dunque di un ritorno alla vita di questo mondo, ma dell’ingresso nel regno di Dio in vista del quale i martiri hanno saputo donare la propria vita.
La fede nella risurrezione (che non appare con certezza in Isaia 26,19 o Giobbe 19), è affermata per la prima volta in questo brano. L’esperienza della morte di tanti giusti al tempo della persecuzione di Antioco IV Epifane (215 a.C circa-164 a.C) ha fatto nascere la speranza della risurrezione. Si comincia così la dottrina dell’immortalità, che si svilupperà poi nell’ambiente greco, ma senza riferimento alla resurrezione dei corpi. Il pensiero ebraico però, che non distingueva tra corpo e anima, l’idea della sopravvivenza implicava anche quella della resurrezione dei corpi. Il testo non parla direttamente della resurrezione di tutti gli uomini: considera unicamente il caso dei giusti. Solo nel Libro del profeta Daniele c’è un più chiaro riferimento: “Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.” (Dn 12,2)

Salmo 16 - Ci sazieremo, Signore, contemplando il tuo volto.
Ascolta, Signore, la mia giusta causa,
sii attento al mio grido.
Porgi l’orecchio alla mia preghiera:
sulle mie labbra non c’è inganno.

Tieni saldi i miei passi sulle tue vie
e i miei piedi non vacilleranno.
Io t’invoco poiché tu mi rispondi, o Dio;
tendi a me l’orecchio, ascolta le mie parole.

Custodiscimi come pupilla degli occhi,
all’ombra delle tue ali nascondimi,
io nella giustizia contemplerò il tuo volto,
al risveglio mi sazierò della tua immagine.

L’orante del salmo è accusato d’empietà; una calunnia dei suoi nemici lo vuole mettere a morte. Ma egli presenta la sua causa a Dio, certo di non avere mancato. Egli chiede a Dio, quale giudice, di essere saggiato, scrutato nella notte, quando è solo con se stesso e riflette sul suo agire.
Egli ha seguito la parola del Signore e ha evitato per questo “i sentieri del violento”; non è entrato in collisione con loro. Ora, tuttavia, essi lo insidiano per distruggerlo.
I suoi nemici hanno il cuore indurito ad ogni luce di verità, e parlano con arroganza, quasi potessero accampare ragioni contro di lui: “Il loro animo è insensibile, le loro bocche parlano con arroganza”.
C’è un persecutore, che ha coinvolto altri, e l’orante chiede al Signore che con la sua spada (la sua Parola) lo abbatta, così da essere liberato dai malvagi: “con la tua spada liberami dal malvagio, con la tua mano, Signore, dai mortali”. Ma dopo avere domandato questo, cambia modo di porsi dinanzi ai suoi persecutori; ora domanda a Dio che sazi “il loro ventre”, e ne avanzi per i loro figli e nipoti. “Ne avanzi”, perché essi nel loro egoismo pensano solo a se stessi e solo quando c’è abbondanza ne danno anche a figli e nipoti.
Il salmista invoca per loro ogni bene materiale. Per lui, invece, la contemplazione del volto di Dio, cioè della sua potenza e misericordia, per mezzo della pratica della giustizia, che è amare Dio e il prossimo. Per lui nel risveglio, nella vittoria dell’alba sul buio della notte, la contemplazione del Santuario dove è presente la gloria di Dio: “della tua immagine”. L’immagine è nel significato plenior Cristo. Nel giorno della felice aurora dell’avvento messianico, il giusto si sazierà della presenza del Verbo incarnato, immagine del Padre (Gv 12,45; 2Cor 4,4; Col 1,15)
Commento di P.Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.
Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti. Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno.
Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo. Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo.
2Ts 2,16-3,5

Paolo continuando la sua lettera ai Tessalonicesi, dopo aver introdotto l'argomento riguardante i falsi presagi riguardanti il ritorno glorioso di Gesù Cristo, descrive i segni premonitori di questo arrivo e li mette in guardia per non cadere in certi inganni. Egli però loda i Tessalonicesi poiché sono stati la primizia, cioè tra i primi ad aderire alla fede in Cristo e li esorta a mantenere ferma questa fede e le tradizioni che hanno ricevuto.
Nel brano che abbiamo Paolo chiede al Signore che li aiuti a rimanere fedeli alla loro vocazione di cristiani.
“lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene”.
Paolo rivolge una supplica al Signore Gesù e a Dio Padre affinché sostengano il cammino dei cristiani di Tessalonica. Il cammino di fedeltà cristiana è frutto della volontà umana ma anche dell'intervento fortificante della grazia divina. Il Signore non mancherà di fare la Sua parte perché ci ha amati fin da principio e ricolmati di ogni bene. Rafforzati dal Suo aiuto possiamo fare del bene testimoniandolo nelle nostre azioni buone
“Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore corra e sia glorificata, come lo è anche tra voi, e veniamo liberati dagli uomini corrotti e malvagi. La fede infatti non è di tutti.”
Dopo aver pregato per i cristiani e aver assicurato loro l'aiuto del Signore, Paolo a sua volta si affida alle preghiere dei fratelli esortandoli a pregare l’uno per l’altro. E' una forma importante di solidarietà e fraternità cristiana.. Si può intuire sullo sfondo di queste parole la persecuzione che i predicatori del Vangelo stanno sopportando. Il Vangelo è sempre stato segno di contraddizione nel mondo, (e lo possiamo constatare anche oggi) e non in tutti suscita la fede, anzi può sollevare ostilità e persecuzioni.
“Ma il Signore è fedele: egli vi confermerà e vi custodirà dal Maligno. Riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore: che quanto noi vi ordiniamo già lo facciate e continuerete a farlo.”
Abbandonarsi nel Signore è sempre possibile, in qualsiasi momento perché Egli è fedele, perciò persegue coerentemente la Sua azione iniziata a favore dei credenti. Gesù agirà sostenendo la loro fede e proteggendoli da ogni influsso negativo. A partire da questa fiducia riposta nel Signore, si può anche guardare con serenità il futuro
“Il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo”-
Il brano si conclude con un voto benedicente affinché il Signore diriga chi si è affidato a Lui sul sentiero segnato dal Suo amore
La preghiera è l’atteggiamento fondamentale del credente. Essa non consiste in una pressione esercitata su Dio perché faccia quello che noi vogliamo, ma piuttosto in un mettersi in sintonia con le modalità del Suo agire nel mondo. Se Dio non avesse per primo manifestato il Suo amore, non sarebbe possibile pregarlo. La preghiera porta conforto e consolazione perché si basa sul riconoscimento della fedeltà di Dio, il quale non permette che il credente sia privato di tutto ciò che gli è necessario per combattere contro la potenza del male.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
Lc 20, 27-38

Luca, dopo il lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, in cui ha inserito molti racconti e soprattutto detti di Gesù, ora riporta che Gesù, una volta entrato trionfalmente a Gerusalemme (Lc 19,29-39) si dedica apertamente alla predicazione e all'insegnamento. I sommi sacerdoti e gli scribi come era loro solito, cercavano un pretesto per farlo arrestare. Per questo motivo in questi suoi ultimi giorni Gesù viene spesso provocato su questioni talvolta marginali, poste proprio per indurlo in inganno. Una di queste è narrata nel brano di oggi che inizia riportando: . si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda:
Questo episodio, narrato anche da Marco, (12,18-27) è l'unico in cui i sadducei vengono citati, di solito però essi fanno parte del gruppo degli scribi e dei sommi sacerdoti.
Il partito dei sadducei si richiamava a Zadòk. i cui discendenti erano gli unici riconosciuti come sacerdoti legittimi (Ez 44,15). Concentravano la propria azione nel tempio e nella politica e godevano di poca considerazione presso il popolo (al contrario dei farisei). In teologia erano conservatori: non accettavano la tradizione orale e si sottomettevano letteralmente all'autorità del Pentateuco. Poiché i libri di Mosè non parlano di risurrezione, i sadducei la contestavano. Scomparvero dalla storia d'Israele quando fu distrutto il Tempio (70 d.C.).
I sadducei si avvicinano a Gesù e il loro intento è polemico. La questione di una risurrezione era di attualità. Infatti solo a partire dal II secolo a. C. (con i fatti narrati nei libri dei Maccabei), si diffuse in Israele la fede nella risurrezione personale.
«Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”.
I sadducei citano la legge del levirato, previsto da Dt 25,5-10. Era una prassi comune ad altri popoli dell'Antico Oriente (come gli Assiri e gli Ittiti) ed era poi entrata a far parte anche della legge di Israele. Alla base di questa legge si scorge il forte desiderio di sopravvivere nei figli e di dare una continuità alla famiglia e alla stirpe. L'espressione "Mosè ci ha prescritto " mostra che i sadducei considerano Mosè il mediatore tra Dio e il popolo, e che essi conoscono la validità attuale di tale prescrizione.
“C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna”.
Dopo la citazione della legge, i sadducei espongono un caso paradossale: una donna diventa successivamente la moglie di sette fratelli che muoiono tutti senza figli. La storia è raccontata in modo volutamente esagerato.
“La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie”.
I sadducei dimostrano così di pensare che la risurrezione sia un puro e semplice ritorno alla vita precedente, per cui la risurrezione non può aver luogo poiché renderebbe Dio responsabile di situazioni che, come quella di una donna con sette mariti, sono tassativamente escluse dalla legge di Mosè. Nella logica dei sadducei basta prendere sul serio la legge del levirato per concludere che la risurrezione è impossibile e assurda : non c'è risurrezione dei morti.
“Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito:”
Con questa risposta Gesù dà un insegnamento che denuncia la visione materiale della vita futura. Egli si serve di una distinzione giudaica per mettere in contrasto due condizioni di vita: nel mondo presente, il matrimonio è necessario per la sopravvivenza dell'umanità, perché l'uomo è mortale. Nel mondo futuro invece tale realtà non servirà più perché l'uomo avrà raggiunto l'immortalità.
Gesù afferma quindi che la condizione d'esistenza nella vita futura è radicalmente diversa da quella attuale perchè sarà una vita immortale presso Dio. I risorti, di conseguenza, non hanno più bisogno dell'attività sessuale in vista della procreazione.
Rimane da approfondire l’espressione: “ma quelli che sono giudicati degni…” La vita futura e la risurrezione possono essere considerati due aspetti della stessa realtà, oppure possono affermare a una vita presso Dio subito dopo la morte e poi la risurrezione di tutti alla fine dei tempi.
“infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio”
Con questo versetto l'evangelista lega la fine dell'attività sessuale nell'aldilà con l'idea di immortalità e con l'affermazione dell'uguaglianza con gli angeli. L'immortalità (e non per esempio non avere il corpo) è dunque la caratteristica dell'essere come gli angeli: di qui la transitorietà del matrimonio. Il giudaismo non ignora il paragone tra gli eletti e gli angeli, sorprende che Gesù lo utilizzi nei confronti dei sadducei che non credevano nemmeno all'esistenza degli angeli.
Con l’espressione “infatti non possono più morire” Luca ricorda che i salvati non solo sono simili agli angeli, ma sono veramente figli di Dio, introdotti nella vita divina, grazie alla risurrezione. Partecipando alla risurrezione di Cristo gli uomini entrano in comunione con la filiazione divina di Cristo stesso.
Nella tradizione cristiana questo testo ha qualche volta provocato una certa svalutazione del matrimonio e della sessualità; si tendeva a identificare la vita di risurrezione con uno stato “angelico”. Ma l'essere come gli angeli non significa che la natura dell'uomo viene trasformata in quella angelica. L'uomo risorto non è privato della sua umanità. Ciò che il versetto vuole dimostrare è il superamento del rapporto sessuale nel futuro escatologico, visto che l'uomo sarà immortale. La mascolinità e la femminilità non si esauriscono nel matrimonio e quindi nella funzione puramente procreativa, ma esistono in vista della comunione delle persone: quest'ultima realtà, già possibile sulla terra, raggiungerà perfetto compimento e dinamicità nella vita di risurrezione.
“Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”.
Dopo aver confutato la promessa dei sadducei, Gesù porta un argomento positivo a favore della risurrezione, richiamandosi all'autorità di Mosè, autorità che anche essi riconoscono. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio che ha concluso un'alleanza con i patriarchi: Egli ha preso l'iniziativa gratuita di essere loro sostegno e salvatore, non può quindi abbandonarli nella morte.
“Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”.
Luca termina puntando su un Dio capace di vincere la morte, perché Egli è sempre il Dio dei patriarchi che, anche se morti, dunque vivranno (per Luca già vivono). E' nella risurrezione di Gesù che il Dio dei patriarchi dimostra di essere veramente il Dio dei viventi.
Come conclusone si può dire che Gesù ci fa anche comprendere che il legame di vita e di amore formatosi tra il credente e Dio, già durante l’esistenza terrena, non può terminare, anzi giunge a compimento quando arriveremo davanti a Lui, che è l’Eterno vivente. Ciò non vuol dire che i rapporti terreni (tra marito e moglie, genitori e figli, tra amici) saranno dimenticati, perché tutto ciò che è stato amore vivrà sempre, ma con una intensità e purezza sconosciute quaggiù. Ogni rapporto di amore nato su questa terra non potrà terminare con la morte, che non è la fine, ma l’inizio della vita vera che non conosce tramonto.

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“Gesù afferma quindi che la condizione d'esistenza nella vita futura è radicalmente diversa da quella attuale perché sarà una vita immortale presso Dio. I risorti, di conseguenza, non hanno più bisogno dell'attività sessuale in vista della procreazione.
Rimane da approfondire l’espressione: “ma quelli che sono giudicati degni…” La vita futura e la risurrezione possono essere considerati due aspetti della stessa realtà, oppure possono affermare a una vita presso Dio subito dopo la morte e poi la risurrezione di tutti alla fine dei tempi.
“infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio”.
Con questo versetto l'evangelista lega la fine dell'attività sessuale nell'aldilà con l'idea di immortalità e con l'affermazione dell'uguaglianza con gli angeli. L'immortalità (e non per esempio non avere il corpo) è dunque la caratteristica dell'essere come gli angeli: di qui la transitorietà del matrimonio. Il giudaismo non ignora il paragone tra gli eletti e gli angeli, sorprende che Gesù lo utilizzi nei confronti dei sadducei che non credevano nemmeno all'esistenza degli angeli.
Con l’espressione “infatti non possono più morire” Luca ricorda che i salvati non solo sono simili agli angeli, ma sono veramente figli di Dio, introdotti nella vita divina, grazie alla risurrezione. Partecipando alla risurrezione di Cristo gli uomini entrano in comunione con la filiazione divina di Cristo stesso.
Nella tradizione cristiana questo testo ha qualche volta provocato una certa svalutazione del matrimonio e della sessualità; si tendeva a identificare la vita di risurrezione con uno stato “angelico”. Ma l'essere come gli angeli non significa che la natura dell'uomo viene trasformata in quella angelica. L'uomo risorto non è privato della sua umanità. Ciò che il versetto vuole dimostrare è il superamento del rapporto sessuale nel futuro escatologico, visto che l'uomo sarà immortale. La mascolinità e la femminilità non si esauriscono nel matrimonio e quindi nella funzione puramente procreativa, ma esistono in vista della comunione delle persone: quest'ultima realtà, già possibile sulla terra, raggiungerà perfetto compimento e dinamicità nella vita di risurrezione.
“Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”.
Dopo aver confutato la promessa dei sadducei, Gesù porta un argomento positivo a favore della risurrezione, richiamandosi all'autorità di Mosè, autorità che anche essi riconoscono. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio che ha concluso un'alleanza con i patriarchi: Egli ha preso l'iniziativa gratuita di essere loro sostegno e salvatore, non può quindi abbandonarli nella morte.
“Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”.
Luca termina puntando su un Dio capace di vincere la morte, perché Egli è sempre il Dio dei patriarchi che, anche se morti, dunque vivranno (per Luca già vivono). E' nella risurrezione di Gesù che il Dio dei patriarchi dimostra di essere veramente il Dio dei viventi.
Come conclusone si può dire che Gesù ci fa anche comprendere che il legame di vita e di amore formatosi tra il credente e Dio, già durante l’esistenza terrena, non può terminare, anzi giunge a compimento quando arriveremo davanti a Lui, che è l’Eterno vivente. Ciò non vuol dire che i rapporti terreni (tra marito e moglie, genitori e figli, tra amici) saranno dimenticati, perché tutto ciò che è stato amore vivrà sempre, ma con una intensità e purezza sconosciute quaggiù. Ogni rapporto di amore nato su questa terra non potrà terminare con la morte, che non è la fine, ma l’inizio della vita vera che non conosce tramonto. “

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 6 novembre 2016

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci portano a meditare sulla tenerezza e la pazienza di Dio “amante della vita” per le sue creature.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, si afferma che da sempre Dio ama tutto ciò che ha creato. Dio non ha creato la morte, e appena nota un segno di pentimento si trattiene dal castigo perché ama tutte le Sue creature .
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nella seconda lettera ai Tessalonicesi, ammonisce di ascoltare le parole della fede sulla fine del mondo e a non dare credito ad altre rivelazioni.
Nel Vangelo di Luca, troviamo il racconto di Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, che riceve Gesù, anzi è proprio Gesù che si autoinvita a casa sua. Da quel momento, da uomo di potere, Zaccheo si trasforma in portatore di misericordia, da avaro si fa generoso, da impositore di tributi diventa mediatore di giustizia trasformandosi totalmente. Da questo racconto possiamo comprendere che Gesù non discrimina nessuno, ma garantisce il miracolo della conversione a innocenti e peccatori, a poveri e ricchi, agli eredi del popolo eletto e agli stranieri, a tutti gli uomini, senza distinzione di storia, posizione sociale, razza, cultura.

Dal libro della Sapienza
Signore, tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia,
come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.
Hai compassione di tutti, perché tutto puoi,
chiudi gli occhi sui peccati degli uomini,
aspettando il loro pentimento.
Tu infatti ami tutte le cose che esistono
e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata.
Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta?
Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza?
Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue,
Signore, amante della vita.
Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose.
Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano
e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato,
perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.
Sap 11, 23-12,2

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico.
È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) .
L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco, anche la prima parte (1-5) , per la quale alcuni hanno ipotizzato, a torto, un originale ebraico. L'unità della composizione è confermata dall'unità della lingua, che risulta flessibile e ricca, scorrevole e senza forzature nelle diverse forme della retorica.
Nel brano che abbiamo riflettendo sulla moderazione con cui Dio ha agito al tempo dell’esodo contro gli egiziani, l’Autore cerca di dare una risposta al perché Dio, l’onnipotente, si dimostri tanto paziente verso i peccatori, ed afferma:
“Signore, tutto il mondo davanti a te è come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento”.
E’ eloquente questo confronto tra l’onnipotenza di Dio e la piccolezza del mondo, paragonato alla polvere che non sposta il piatto della bilancia e ad una goccia di rugiada che evapora subito al sorgere del sole.
Il motivo di questo comportamento di Dio è il particolare rapporto che lo lega a tutto ciò che Egli stesso ha creato: “Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita. Poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore.”
Emerge che Dio è amante della vita e la Sua mano onnipotente, che sorregge l'universo, sembra sfiorare con tenerezza la fronte della sua fragile creatura. Con infinita tenerezza si china su di essa, ammonendo il peccatore e richiamandolo con la moderazione dei suoi castighi, pronto a sospenderli al primo accenno di pentimento.
Si percepisce in questi versetti un Dio quasi riluttante a punire, il cui cuore "freme di compassione" di fronte allo sfacelo che il peccato provoca nell'uomo.
Quanto è lontana da questa immagine "materna" di Dio l'idea di un Dio-giudice e giustiziere, pronto a scagliare le saette della sua ira quando gli si voltano le spalle!
Ricordiamoci sempre, nei momenti bui che non mancano mai, che noi siamo tra queste mani tenere e forti.
Se neppure il peccato può spegnere il Suo amore per noi, chi ci potrà separare da Lui?
C'è solo da abbandonarsi fiduciosi al Suo amoroso abbraccio, aderendo con gioia alla Sua volontà, nella serena certezza che in tutto Egli cerca il nostro vero bene. E’ proprio per questo che Egli ci invita al pentimento del male commesso e a un sempre rinnovato impegno per evitarlo.

Salmo 144- Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.

O Dio, mio re, voglio esaltarti
e benedire il tuo nome in eterno e per sempre.
Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza

Fedele è il Signore in tutte le sue parole
e buono in tutte le sue opere.
Il Signore sostiene quelli che vacillano
e rialza chiunque è caduto.

Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano nella composizione di questa composizione, che tuttavia risulta bellissima nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode. Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C.
Esso inizia rivolgendosi a Dio quale re: “O Dio, mio re, voglio esaltarti (...) in eterno e per sempre”. “In eterno e per sempre”, indica in modo incessante e continuativo nel tempo.
Segue uno sguardo su come la trasmissione, di generazione in generazione, delle opere di Dio non sia sentita solo come fatto prescritto (Cf. Es 13,14), ma come gioia di comunicazione, poiché le opere di Dio sono affascinanti: “Il glorioso splendore della tua maestà e le tue meraviglie voglio meditare. Parlino della tua terribile potenza: anch’io voglio raccontare la tua grandezza. Diffondano il ricordo della tua bontà immensa, acclamino la tua giustizia". Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate . Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore….
Il salmista continua a celebrare la bontà di Dio verso gli uomini: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie (...). Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge tutti i malvagi”. …
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo.
Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente.
2Ts 1,11-2, 2

Paolo scrisse probabilmente la seconda lettera ai Tessalonicesi mentre si trovava a Corinto durante il suo primo viaggio missionario, verso il 50-51. Non potendo tornare a Tessalonica inviò il suo discepolo Timoteo per confortare i credenti e portare loro sue notizie. Il tema fondamentale della lettera è l’escatologia, ossia la fine della storia del mondo, quando il Signore risorto ritornerà.
In questo brano Paolo dopo aver espresso la sua soddisfazione perché i Tessalonicesi sopportano con coraggio persecuzioni e tribolazioni continua dichiarando: preghiamo continuamente per voi, perché il nostro Dio vi renda degni della sua chiamata e, con la sua potenza, porti a compimento ogni proposito di bene e l’opera della vostra fede, perché sia glorificato il nome del Signore nostro Gesù in voi, e voi in lui, secondo la grazia del nostro Dio e del Signore Gesù Cristo “.
Il sostegno della grazia di Dio è necessario perché Cristo sia glorificato in loro ed essi possano partecipare alla glorificazione del Signore Gesù Cristo.
Nel punto più importante della lettera, l’apostolo desidera correggere le attese escatologiche della comunità: “Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente.”
Circa il tempo del ritorno del Signore, la comunità dei Tessalonicesi era entrata in crisi, nonostante che Paolo nella sua prima lettera avesse precisato che nessuno ne poteva conoscere la data. Qualcuno aveva detto che il Signore gli aveva rivelato come imminente il suo ritorno. Altri avevano discusso in tal senso, equivocando alcuni passi della prima lettera. Altri avevano dato credito a lettere spacciate come scritte dall'apostolo dove si parlava dell'imminente venuta del Signore. Quest'ultimo fatto era molto grave perché sicuramente, oltre che a gettare allarmismo, era evidente l’intenzione malevola di attribuire a Paolo cose che mai aveva detto.
L’Apostolo cerca di corregge così l’errore dottrinale di quelli che erano persuasi che il giorno del Signore fosse imminente, poi anche l’errore pratico che ne era derivato per quei credenti troppo ansiosi che si erano lasciati andare e vivevano l’attesa in modo ozioso. Più avanti nella lettera, prima di terminare Paolo ordinerà loro “esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace”. Non interessandosi del mondo, ma affrontandolo coraggiosamente, i credenti devono andare incontro al Signore testimoniando, in ogni loro opera e azione, la propria fede.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».
Lc 19, 1-10

Luca continua a passare in rassegna i pubblici peccatori e l’episodio di Zaccheo va letto sullo sfondo dei brani che lo precedono, in particolare quello del fariseo e il publicano, ed anche Zaccheo come pubblicano, per l’opinione di allora era assai difficile per lui entrare nel regno di Dio. Di Zaccheo l’evangelista si limita a dire che era “capo dei pubblicani” e “ricco”. In altre parole egli era un grosso imprenditore, che riscuoteva le tasse per conto dei romani per cui si era arricchito lasciando da parte qualsiasi scrupolo di carattere morale o religioso. E facile immaginare che il popolo l’odiasse non solo per le estorsioni con cui si era arricchito, ma anche per la sua collaborazione con Roma, la potenza occupante.
Al passaggio di Gesù, Zaccheo cercava di vedere chi fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Il suo interesse è determinato da curiosità, ma forse anche da una certa insoddisfazione interiore e dal desiderio di dare un senso alla propria vita. Il suo desiderio di vedere Gesù è tanto forte da fargli dimenticare il rango sociale a cui apparteneva e salendo sull’albero forse pensava di restare inosservato. Ma Gesù, passando vicino al luogo in cui si trovava, si ferma e dice: “Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. La reazione di Zaccheo è immediata infatti Luca annota che “Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia”.
All’accoglienza gioiosa di Zaccheo si contrappone l’atteggiamento scandalizzato di tutti i presenti che mormorano: “È entrato in casa di un peccatore!” Gesù non risponde alla provocazione ma al suo posto parla Zaccheo che alzatosi dice: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. Egli manifesta così il profondo cambiamento avvenuto in lui annunziando ciò che aveva intenzione di fare.
E’ da notare che la sua decisione è alquanto spropositata: il Levitico prescriveva di restituire i beni rubati aumentati di un quinto (Lv 5,20-24) mentre a un pubblicano che si convertiva i rabbini ordinavano di dare solo il 20 per cento dei suoi beni ai poveri.
Zaccheo sicuramente rimarrà sempre ricco, anche dopo la drastica riduzione dei suoi beni, ma qui c’è un insegnamento nuovo, che rettifica un’impressione falsa che si può avere da altri detti del Vangelo. Non è la ricchezza in sè che Gesù condanna senza appello, ma il cattivo uso di essa. C’è salvezza dunque anche per il ricco! Zaccheo è la riprova: che Dio può compiere anche il miracolo di convertire e salvare un ricco senza, necessariamente, ridurlo allo stato di povertà. Una speranza questa che Gesù non negò mai e che anzi alimentò, non disdegnando di frequentare sia i poveri che alcuni ricchi. Per Zaccheo ha detto “Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto .

 

*****

 

“Il Vangelo di oggi ci presenta un fatto accaduto a Gerico, quando Gesù giunse in città e fu accolto dalla folla.
A Gerico viveva Zacchèo, il capo dei “pubblicani”, cioè degli esattori delle tasse. Zaccheo era un ricco collaboratore degli odiati occupanti romani, uno sfruttatore del suo popolo. Anche lui, per curiosità, voleva vedere Gesù, ma la sua condizione di pubblico peccatore non gli permetteva di avvicinarsi al Maestro; per di più, era piccolo di statura, e per questo sale su un albero di sicomoro, lungo la strada dove Gesù doveva passare.
Quando arriva vicino a quell’albero, Gesù alza lo sguardo e gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Possiamo immaginare lo stupore di Zaccheo! Ma perché Gesù dice «devo fermarmi a casa tua»? Di quale dovere si tratta? Sappiamo che il suo dovere supremo è attuare il disegno del Padre su tutta l’umanità, che si compie a Gerusalemme con la sua condanna a morte, la crocifissione e, al terzo giorno, la risurrezione. E’ il disegno di salvezza della misericordia del Padre. E in questo disegno c’è anche la salvezza di Zaccheo, un uomo disonesto e disprezzato da tutti, e perciò bisognoso di convertirsi. Infatti il Vangelo dice che, quando Gesù lo chiamò, «tutti mormoravano: “E’ entrato in casa di un peccatore!”». Il popolo vede in lui un furfante, che si è arricchito sulla pelle del prossimo. E se Gesù avesse detto: “Scendi, tu, sfruttatore, traditore del popolo! Vieni a parlare con me per regolare i conti!”. Di sicuro il popolo avrebbe fatto un applauso. Invece incominciarono a mormorare: “Gesù va a casa di lui, del peccatore, dello sfruttatore”.
Gesù, guidato dalla misericordia, cercava proprio lui. E quando entra in casa di Zaccheo dice: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto». Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi. E questo è importante! Dobbiamo impararlo. Lo sguardo di Gesù va oltre i peccati e i pregiudizi; vede la persona con gli occhi di Dio, che non si ferma al male passato, ma intravede il bene futuro; Gesù non si rassegna alle chiusure, ma apre sempre, sempre apre nuovi spazi di vita; non si ferma alle apparenze, ma guarda il cuore. E qui ha guardato il cuore ferito di quest’uomo: ferito dal peccato della cupidigia, da tante cose brutte che aveva fatto questo Zaccheo. Guarda quel cuore ferito e va lì.
A volte noi cerchiamo di correggere o convertire un peccatore rimproverandolo, rinfacciandogli i suoi sbagli e il suo comportamento ingiusto. L’atteggiamento di Gesù con Zaccheo ci indica un’altra strada: quella di mostrare a chi sbaglia il suo valore, quel valore che Dio continua a vedere malgrado tutto, malgrado tutti i suoi sbagli.
Questo può provocare una sorpresa positiva, che intenerisce il cuore e spinge la persona a tirare fuori il buono che ha in sé. È il dare fiducia alle persone che le fa crescere e cambiare. Così si comporta Dio con tutti noi: non è bloccato dal nostro peccato, ma lo supera con l’amore e ci fa sentire la nostalgia del bene. Tutti abbiamo sentito questa nostalgia del bene dopo uno sbaglio. E così fa il nostro Padre Dio, così fa Gesù. Non esiste una persona che non ha qualcosa di buono. E questo guarda Dio per tirarla fuori dal male.
La Vergine Maria ci aiuti a vedere il buono che c’è nelle persone che incontriamo ogni giorno, affinché tutti siano incoraggiati a far emergere l’immagine di Dio impressa nel loro cuore. E così possiamo gioire per le sorprese della misericordia di Dio! Il nostro Dio, che è il Dio delle sorprese”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 30 ottobre 2016

 

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica hanno ancora come tema la preghiera, ma la prospettiva è differente. Lo sguardo è proiettato sul modo di pregare; modo che diventa determinante nel rapporto con Dio, con se stessi e con gli altri.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Siracide, si afferma che la preghiera umile e perseverante di chi si riconosce piccolo e povero, fa dolce violenza al cuore di Dio: “Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo terminando la sua seconda lettera a Timoteo, vede la sua esistenza come una “offerta”, simile cioè al vino o all’olio versati sulle vittime destinate all’olocausto. Egli si offre a Dio convinto di aver adempiuto la sua missione, e attende con fiducia il premio.
Nel Vangelo di Luca, la parabola del fariseo e del pubblicano nel tempio insegna il giusto modo di pregare. Nella vita possiamo dire che siamo a volte un po’ farisei e un po’ pubblicani e su questo P.Cantalamessa ha giustamente commentato: “Se proprio dobbiamo rassegnarci ad essere un po’ l’uno e un po’ l’altro, allora che sia almeno il rovescio: farisei nella vita e pubblicani al tempio! Come il fariseo, cerchiamo nella vita di ogni giorno, di non essere ladri, ingiusti e adulteri, di osservare meglio i comandamenti di Dio; come il pubblicano, riconosciamo quando siamo al cospetto di Dio, che quel poco che abbiamo fatto è tutto dono suo e imploriamo, per noi e per tutti, la sua misericordia.”

Dal libro del Siracide
Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone.
Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell'oppresso.
Non trascura la supplica dell'orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento.
Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi.
La preghiera del povero attraversa le nubi, né si quieta finché non sia arrivata;
non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto,
e abbia reso soddisfazione ai giustie ristabilito l'equità.
Sir 35,15b – 17.20-22a

Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo . È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C. .
È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.
Nel prologo l'anonimo nipote dell'autore spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C..
In questo brano la prima parte riporta una massima che riguarda il potere del giudizio di Dio: Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. In quanto giudice Dio non fa preferenza di persone e questa imparzialità si manifesta soprattutto nel rapporto con le categorie più disagiate, verso le quali è facile commettere soprusi: Non è parziale a danno del povero e ascolta la preghiera dell'oppresso. Non trascura la supplica dell'orfano né la vedova, quando si sfoga nel lamento. Nella categoria degli sfruttati ci sono in primo piano le vedove e gli orfani e nei loro confronti è facile che i giudici umani commettano ingiustizie. Ma Dio è dalla loro parte e li difende nei confronti di coloro che li opprimono.
Dopo le massime riguardanti Dio come giudice, Siracide presenta l’efficacia della preghiera rivolta a Dio : Chi la soccorre è accolto con benevolenza, la sua preghiera arriva fino alle nubi. La preghiera del povero attraversa le nubi, né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l'Altissimo non sia intervenuto, e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l'equità. È soprattutto la preghiera di coloro che sono discriminati e oppressi che giunge direttamente a Dio ed è talmente insistente da provocare il Suo intervento. Il povero è qui identificato con il giusto, cioè la persona innocente, quello che non si è macchiato di soprusi e ingiustizie, per cui Dio non lo abbandona a se stesso, ma interviene per fargli giustizia.
I fatti che ogni giorno accadono sembrano smentire questa affermazione che può sembrare anche ingenua, tuttavia bisogna riconoscere che, pur credendo che Dio agisce potentemente nelle vicende di questo mondo, noi non possiamo umanamente conoscere i sistemi che usa quando interviene. Solo in base alla fede si può affermare che Dio è dalla parte degli ultimi e lo si può dimostrare nella misura in cui noi siamo disponibili a impegnarci fino in fondo in loro favore. L’amore di Dio verso gli ultimi si manifesta soprattutto nel comportamento concreto di quanti credono in Lui.

Salmo 33 - Il povero grida e il Signore lo ascolta

Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore,
I poveri ascoltino e si rallegrino.

Il volto del Signore contro i malfattori
per eliminarne dalla terra il ricordo.
Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce.

Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi,
non sarà condannato chi in lui si rifugia.

L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”. L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1).
Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fa' il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento ” di P.Paolo Berti

Dal seconda lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.
Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.
Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
2Tm 4,6-8, 16-18

Paolo nel terminare la sua lettera a Timoteo volge lo sguardo al passato: io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Riguardo al suo passato, Paolo descrive la sua vita apostolica come una battaglia e come una competizione sportiva paragonando l'impegno e il rischio della sua missione alle gare nello stadio. Lo sguardo si volge poi al futuro, con il ricorso nuovamente alle immagini delle gare sportive: Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Per l’ambiente greco al vincitore di una gara spettava la corona di alloro, premio carico di significati come onore, gioia, immortalità e trionfo. Alla corona qui invece segue “di giustizia”: non si tratta dunque di un riconoscimento umano, ma di quello che viene da Dio.
Nella seconda parte del brano Paolo ritorna sulla sua situazione attuale:. Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. In questo sfogo si sente il rammarico per l’abbandono da parte dei suoi, ma verso di loro Paolo ha parole di perdono. È difficile sapere se si tratta di un ricordo storico o del semplice motivo dell’abbandono dai suoi amici, come era stato per Gesù. La solitudine di Paolo però è riempita dalla vicinanza del Signore: Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Paolo è consapevole che solo con la grazia di Dio ha potuto portare a termine la sua missione. Questo risultato è espresso con l’immagine della lotta vittoriosa dei gladiatori contro i leoni nel circo. Non si tratta però di una vittoria umana, bensì del successo dell’opera di evangelizzazione, che può benissimo coesistere con l’imminente martirio. L’esperienza del conforto che gli viene dal Signore apre infine il cuore alla speranza: “Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen”. La liberazione a cui tende l’Apostolo non è più quella che si attua in questo mondo, ma quella che consiste nell’ingresso nel regno dei cieli, quando l’anima si ricongiunge definitivamente con Dio.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di esser giusti e disprezzavano gli altri:
“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio perchè non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.
Io vi dico: questi a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi invece si umilia sarà esaltato”.
Lc 18, 9-14

In questo brano del Vangelo di Luca, troviamo la celebre parabola, del fariseo e del pubblicano, che ancora una volta è solo l’evangelista Luca a riferirci e che idealmente continua la lezione sulla preghiera introdotta da Gesù la scorsa domenica con la parabola del giudice iniquo e della vedova.
Luca introduce il brano precisando che:
“Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di esser giusti e disprezzavano gli altri:” E’ chiaro il riferimento ai farisei, i quali si distinguevano per un’osservanza rigorosa dei comandamenti e si tenevano separati dagli altri. Tra i più discriminati erano i pubblicani, i quali erano oggetto di critica in modo particolare perché erano a contatto con i pagani e per questo venivano considerati impuri. Il racconto ci presenta subito i personaggi appartenenti a queste due categorie:
“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano”
Sono ambedue giudei praticanti, che si recano regolarmente al tempio per pregare.
Viene per primo descritto l’atteggiamento del fariseo: “Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il modo di fare del fariseo in apparenza è normale, sia per la posizione del corpo, sia per il contenuto della preghiera. Comincia con il ringraziamento: “O Dio ti ringrazio ……” ma continua poi con l’elenco delle proprie buone azioni, che sono anche più numerose di quanto prescriveva la stessa legge ebraica. Era prescritto infatti il digiuno una volta l’anno, ma lui digiunava ben due volte la settimana; la decima doveva pagarsi solo per i prodotti più importanti della terra, ma lui la paga addirittura per tutti senza distinzione!.
Il suo ringraziamento però è in realtà una esaltazione di se stesso e disprezzo degli altri uomini, che considera come “ladri, ingiusti e adulteri”; la sua arroganza arriva al punto di citare espressamente tra costoro il pubblicano che era salito con lui al tempio..
A distanza dal fariseo e dalle prime file degli uomini ‘buoni e pii’, in fondo al tempio, il pubblicano mormora la sua preghiera. La sua condizione di peccatore lo rende come colui che non può guardare il cielo, secondo l’uso comune della preghiera israelita, perché il peso dei peccati sembra schiacciarlo.
La sua preghiera è silenziosa e molto breve: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Si può notare che Egli non promette, come Zaccheo (Lc 19,8) di cambiar vita, non promette proprio nulla al Signore, però a differenza del Fariseo, che può elencare i suoi meriti, egli non elenca le sue colpe, non passa in rassegna le sue azioni. A differenza del fariseo il suo pensiero è rivolto solo a Dio, non agli altri, tanto è vero che non si accorge neanche della presenza del fariseo che è ben in vista, in piedi nelle prime file del tempio.
Il racconto termina con un commento di Gesù:
“Io vi dico: questi a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi invece si umilia sarà esaltato”.
E’ evidente la provocazione che Gesù fa al perbenismo dei suoi ascoltatori perché, come modello degno di esempio, egli presenta un individuo considerato spregevole nell’opinione pubblica.
Gesù comunque non vuole certo dire che tutti i farisei e tutti i pubblicani siano come i due protagonisti della parabola, ma presenta costoro come rappresentanti tipici della categoria a cui appartengono.
Nella parabola il fariseo rispecchia una religiosità distorta, perché crede di potersi vantare dinanzi a Dio per la sua osservanza scrupolosa della legge, e il suo ringraziamento è solo apparente.
Il pubblicano rappresenta invece l’uomo che si mette di fronte a Dio nella sua situazione reale di creatura limitata e peccatrice, si abbandona a Lui e attende unicamente da Lui la salvezza.
Questa parabola ci riguarda molto da vicino perché dobbiamo riconoscere che abbiamo in noi un po’ dell’atteggiamento del fariseo e a volte del pubblicano, ma se proprio dobbiamo rassegnarci ad essere un po’ l’uno e un po’ l’altro, come commentava bene P.Cantalamessa, cerchiamo però di essere farisei nella vita e pubblicani al tempio! Come il fariseo cerchiamo nella vita di ogni giorno, di non essere ladri, ingiusti, ed adulteri, come il pubblicano, quando siamo al cospetto di Dio, riconosciamoci peccatori e che quel poco che abbiamo fatto è tutto dono suo.

 

*****

“… Entrambi i protagonisti di questa parabola salgono al tempio per pregare, ma agiscono in modi molto differenti, ottenendo risultati opposti. Il fariseo prega «stando in piedi» e usa molte parole. La sua è, sì, una preghiera di ringraziamento rivolta a Dio, ma in realtà è uno sfoggio dei propri meriti, con senso di superiorità verso gli «altri uomini», qualificati come «ladri, ingiusti, adulteri», come, ad esempio – e segnala l’altro che era lì – «questo pubblicano». Ma proprio qui è il problema: quel fariseo prega Dio, ma in verità guarda a sé stesso, prega se stesso invece di avere davanti gli occhi il Signore, ha uno specchio…. Insomma, più che pregare, il fariseo si compiace della propria osservanza dei precetti. … Insomma, quel fariseo, che si ritiene giusto, trascura il comandamento più importante: l’amore per Dio e per il prossimo. Non basta dunque domandarci quanto preghiamo, dobbiamo anche chiederci come preghiamo, o meglio, com’è il nostro cuore: è importante esaminarlo per valutare i pensieri, i sentimenti, ed estirpare arroganza e ipocrisia. Ma, io domando: si può pregare con arroganza? No. Si può pregare con ipocrisia? No, Dobbiamo pregare davanti a Dio come siamo, ma questo pregava con arroganza e ipocrisia …
Il pubblicano invece si presenta nel tempio con animo umile, con animo pentito: «fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto». La sua preghiera è brevissima, non è così lunga come quella del fariseo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». … Infatti, gli esattori delle tasse – detti appunto, “pubblicani” – erano considerati persone impure, sottomesse ai dominatori stranieri, erano malvisti dalla gente e in genere associati ai “peccatori”…. I gesti di penitenza e le poche e semplici parole del pubblicano testimoniano la sua consapevolezza circa la sua misera condizione. La sua preghiera è essenziale. Agisce da umile, sicuro solo di essere un peccatore bisognoso di pietà. Se il fariseo non chiedeva nulla perché aveva già tutto, il pubblicano può solo mendicare la misericordia di Dio. …
Gesù conclude la parabola con una sentenza: «Io vi dico: questi – cioè il pubblicano –, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». …La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto la condizione necessaria per essere rialzati da Lui, così da sperimentare la misericordia che viene a colmare i nostri vuoti. Se la preghiera del superbo non raggiunge il cuore di Dio, l’umiltà del misero lo spalanca. Dio ha una debolezza: la debolezza per gli umili, davanti a un cuore umile Dio apre il suo cuore totalmente."
Papa Francesco Stralcio della Catechesi del 1 giugno 2016

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come tema la preghiera, una preghiera perseverante, costante, fedele, che non conosce stanchezza.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, viene raccontato lo scontro tra gli israeliti e amaleciti, in cui Mosè spedisce Giosuè a combattere contro Amalek, poi si ritira a pregare con Aronne e Cur. La vittoria viene garantita da questa preghiera: “Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo, afferma che il cristiano deve sapere che la Bibbia, scritta sotto l’azione dello Spirito di Dio, è parola di Dio, fondamento della fede per la salvezza donata da Dio per mezzo di Gesù Cristo.
Nel Vangelo di Luca, Gesù racconta la parabola di un giudice “disonesto” che alla fine, fa giustizia a una vedova per liberarsi delle sue insistenze. L’insegnamento che ne scaturisce è di facile comprensione: se persino l’uomo più iniquo cede di fronte ad una supplica incessante, Dio, che è buono, non ascolterà e salverà chi lo invoca giorno e notte?

Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, Amalèk venne a combattere contro Israele a Refidìm. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalèk. Domani io starò ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalèk, mentre Mosè, Aronne e Cur salirono sulla cima del colle.
Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Poiché Mosè sentiva pesare le mani, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi si sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada.
Es 17,8-13

L'Esodo è il secondo libro della Bibbia cristiana e della Torah ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte.
È composto da 40 capitoli, nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il periodo descritto si colloca intorno al 1300-1200 a.C.
Il libro è suddiviso in tre grandi sezioni, corrispondenti ai tre momenti della narrazione:
La prima, (capitoli 11,1-15,21), comprende il racconto dell'oppressione degli Ebrei in Egitto, la nascita di Mosè, la fuga di Mosè a Madian e la scelta divina, il suo ritorno in Egitto, le dieci piaghe e l'uscita dal paese.
La seconda sezione (15,22-18,27) narra del viaggio lungo la costa del Mar Rosso e nel deserto del Sinai.
La terza (19,1-40,38) riguarda l'incontro tra Dio e il popolo eletto, mediante le tappe fondamentali del decalogo e del codice dell'alleanza, seguito dall'episodio del vitello d'oro e dalla costruzione del Tabernacolo
Il brano che abbiamo, è tratto dalla seconda sezione, in cui gli israeliti dopo aver lasciato il deserto di Sin, che si trova tra Elim e il Sinai, si accampano a Refidim, dove la mancanza di acqua spinge il popolo a protestare di nuovo contro Mosè, il quale per ordine di Dio fa scaturire l’acqua dalla roccia. Viene poi raccontato il combattimento contro Amalek e infine, mentre gli israeliti si trovano ancora a Refidim, c’è l’ultimo degli episodi cioè la battaglia contro gli Amaleciti.
Oltre la mancanza di cibo e di acqua, gli israeliti nel deserto dovevano fare i conti con un l’opposizione delle tribù del deserto, che erano in conflitto continuo fra di loro per l’utilizzazione dei rari pozzi d’acqua e dei preziosi pascoli. Fra queste tribù vi erano anche gli amaleciti. Costoro erano considerati come i discendenti di Amalek, capo di una tribù edomita (Gen 36,16), e quindi imparentati con gli israeliti. La loro massima concentrazione è situata nel deserto a sud della Palestina e nella penisola sinaitica. Nella Bibbia essi sono considerati come i nemici tradizionali di Israele ( Gn 14,7; Nm 13,29; Gdc 3,13; 1Sam 15), perciò la battaglia con loro nel deserto assume un valore simbolico, in quanto causa e tipo di tutti i contrasti con questa popolazione.
La causa della battaglia con gli amaleciti viene attribuita ad una loro aggressione e leggiamo che mentre Giosuè guida le schiera israelite, Mosè si reca con Aronne e Cur sulla cima di un colle, per seguire meglio lo svolgimento delle ostilità. La cosa straordinaria è che quando Mosè alzava le mani, Israele primeggiava; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalèk. Allora, poiché Mosè sentiva pesare le mani, i suoi due aiutanti lo fanno sedere su di una roccia a forma di sedile (vedi foto ), designata come il trono di Mosè, mentre essi, uno da una parte e l’altro dall’altra, ne sostenevano le mani. In questo modo Mosè ha potuto vedere da lontano gli israeliti nella battaglia fino a sera e pregare per loro.
Le braccia alzate di Mosè si possono interpretare come un simbolo della preghiera, e la sua efficacia. Non c’è però accenno a un dialogo tra Mosè e DIO, per cui si preferisce pensare che questo gesto sia semplicemente un segno della presenza di DIO che prende posizione in favore degli israeliti e li guida alla vittoria. Mosè tiene nelle sue mani il bastone che Dio gli aveva dato come segno della sua autorità, e appare come l’intermediario che unisce il cielo alla terra, garantendo così la presenza di Dio in mezzo al Suo popolo.
Certamente lascia un po’ turbati apprendere che in quella occasione gli israeliti hanno passato a fil di spada tutti gli amaleciti… E’ inutile chiedersi se ciò sia veramente accaduto, comunque questa annotazione ha solamente lo scopo di sottolineare il carattere pieno della vittoria riportata dagli israeliti con l’aiuto di Dio.

Salmo 120 - Il mio aiuto viene dal Signore.
Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l'aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore;
che ha fatto cielo e terra.

Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenta il tuo custode.
Non si addormenterà,
non prenderà sonno, il custode d'Israele.

Il Signore è il tuo custode,
il Signore è la tua ombra
e sta alla tua destra.
Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.

Il Signore ti custodirà da ogni male,
egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà
quando esci e quando entri,
da ora e per sempre.

Il salmo fa parte dei quindici salmi (119-133) detti “delle ascensioni”, perché usati nei pellegrinaggi a Gerusalemme a cui si giungeva con un percorso in salita.
Usato a tale scopo, non sembra tuttavia essere stato composto per un pellegrinaggio. Il salmo infatti potrebbe riferirsi a una situazione diversa, considerando che i monti non siano quelli dove sorgeva Gerusalemme e il tempio, ma le giogaie dell'Hermon, oltre le quali si stendevano i territori percorsi dagli eserciti Assiri e Babilonesi in avanzata verso i territori della Fenicia e della Palestina.
Del resto tutto nel salmo indica non la provvisorietà di un pellegrinaggio, ma una stato di continuità di vita.
“Alzo gli occhi verso i monti” indicherebbe proprio l'apprensione di un pio Giudeo (forse un re di Gerusalemme) di fronte alle incombenti manovre di potenti eserciti conquistatori; apprensione arginata da una ferma professione di fede: “Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra”.
Da questa professione di fiducia in Dio procede tutto il salmo.
“Non lascerà vacillare il tuo piede”, cioè ti impedirà di fare mosse false, compromettenti.
Dio è “è la tua ombra", nel senso che è ristoro nel dardeggiare delle difficoltà e nello stesso tempo è forza che “sta alla tua destra”.
“Di giorno non ti colpirà il sole, né la luna di notte”, cioè Dio impedirà che venga ridotto a prigioniero condotto via senza alcun riguardo.
“Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri”, cioè in tutte le situazioni di vita.
Commento di P.Paolo Berti

Dal seconda lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.
Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.
2Tm 3,14-4:2

Paolo continuando la sua seconda lettera a Timoteo, dopo avergli ricordato la fedeltà e averlo esortato a proseguire su questa linea, nonostante le sofferenze e persecuzioni, prosegue dicendo: “tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù”.
Timoteo deve perciò rimanere saldo sulla sua formazione dottrinale, frutto dell'educazione religiosa ricevuta fin dall'infanzia, da cui egli ha ricavato una fede incrollabile. A questo si aggiunge anche la forza derivante dalla conoscenza delle Scritture, che ha la capacità di comunicare una sapienza che conduce alla salvezza. Questa però deriva non da una semplice conoscenza dei testi, ma dalla fede in Gesù Cristo, che viene presentato così, non solo come fonte della salvezza, ma anche come l'unica chiave interpretativa della Scrittura.
Poi afferma: “Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona”.
L’espressione “tutta la scrittura” può indicare tutta la collezione dei libri sacri oppure ciascun libro preso individualmente. Essa è “ispirata da Dio”, cioè è composta sotto l’ispirazione dello Spirito di Dio e in forza dello Spirito.
Questo testo è l’unico in cui si parla esplicitamente di “ispirazione” delle Scritture e questa particolarità significa che le Scritture sono composte da autori che pur essendo persone normali, sono assistiti dallo Spirito che ne garantisce la verità dal punto di vista della salvezza, non certo sul piano della scienza o della storia. In altre parole, le Scritture hanno una grande importanza perché contengono la lunga esperienza religiosa di un popolo dal quale Gesù ha preso un corpo e non si può quindi essere Suoi discepoli se non si fa riferimento alle Scritture. E’ necessario comunque essere consapevoli che nella Scrittura non si trova sempre la soluzione dei nostri problemi, ma lo stimolo ad andare avanti in una ricerca che non si concluderà mai su questa terra.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Lc 18, 1-8

Con questo brano, l’evangelista Luca continua a raccontare gli spostamenti di Gesù, nel suo viaggio verso Gerusalemme. Dopo aver guarito i dieci lebbrosi, Gesù propone due parabole quella del giudice e della vedova e quella del fariseo e del pubblicano che sottolineano ambedue l’importanza di pregare. Senza stancarsi. Dopo l’introduzione vengono presentate le caratteristiche dei due protagonisti della parabola, il giudice e la vedova: “In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Il giudice è descritto come una persona cinica, che non teme Dio e non si cura del suo prossimo mentre per descrivere la donna è bastato dire che era vedova.
Sappiamo che l’orfano e la vedova erano due categorie di bisognosi verso i quali la Bibbia richiama spesso l’attenzione: “non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido” (Es 22, 21-22). La vedova e l’orfano, non avendo più un uomo che potesse difenderne i diritti, erano più facilmente oggetto di ingiustizia, di angherie e di maltrattamenti, la loro situazione economica era spesso precaria perché non potevano contare sul reddito del marito o del padre.
Anche se la protagonista del racconto appartiene a questa categoria, però non è disposta ad accettare il sopruso di cui è vittima, perciò si rivolge al giudice per avere giustizia. Nonostante il disinteresse del giudice, le insistenze della donna hanno esito positivo, infatti: “Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”. Quindi il giudice alla fine cede e fa giustizia alla donna: ciò che prevale in lui non è certo il senso del dovere, ma il desiderio di non essere più importunato.
Alla fine Gesù dà la sua interpretazione della parabola richiamando l’attenzione dei discepoli non tanto sull’insistenza della donna, ma piuttosto sull’atteggiamento del giudice e pone una domanda, che esprime da sola la risposta:”E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente”.
Infatti se un giudice, per di più disonesto, alla fine si decide a fare giustizia alla vedova, a maggior ragione Dio farà giustizia per i suoi eletti, dal momento che è un Padre premuroso e giusto.
L’ultima frase del brano è piuttosto misteriosa: “Tuttavia, il Figlio dell’uomo, venendo, troverà ancora la fede sulla terra?”. Luca quando scriveva si rivolgeva ad una comunità scoraggiata perché provata da persecuzioni sempre crescenti. E' una frase che sembra pessimista, ma che vuole in realtà mettere in guardia i credenti di ogni tempo: l'amore del Padre non può venir meno, ci ha donato tutto donandoci il Figlio. Se la frase con cui si chiude il nostro brano è una domanda, quella con cui inizia dice in che cosa consiste la fede: "Bisogna pregare senza scoraggiarci mai". All'interno di questa inclusione, ci è presentato l'esempio della vedova che ha vinto la prepotenza del giudice al quale non importava niente di nessuno.

 

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“Pregare, dunque. Come Mosè, il quale è stato soprattutto uomo di Dio, uomo di preghiera. Lo vediamo oggi nell’episodio della battaglia contro Amalek, in piedi sul colle con le braccia alzate; ma ogni tanto, per il peso, le braccia gli cadevano, e in quei momenti il popolo aveva la peggio; allora Aronne e Cur fecero sedere Mosè su una pietra e sostenevano le sue braccia alzate, fino alla vittoria finale.
Questo è lo stile di vita spirituale che ci chiede la Chiesa: non per vincere la guerra, ma per vincere la pace!
Nell’episodio di Mosè c’è un messaggio importante: l’impegno della preghiera richiede di sostenerci l’un l’altro. La stanchezza è inevitabile, a volte non ce la facciamo più, ma con il sostegno dei fratelli la nostra preghiera può andare avanti, finché il Signore porti a termine la sua opera.
San Paolo, scrivendo al suo discepolo e collaboratore Timoteo, gli raccomanda di rimanere saldo in quello che ha imparato e in cui crede fermamente. Tuttavia anche Timoteo non poteva farcela da solo: non si vince la “battaglia” della perseveranza senza la preghiera. Ma non una preghiera sporadica, altalenante, bensì fatta come Gesù insegna nel Vangelo di oggi: «pregare sempre, senza stancarsi mai». Questo è il modo di agire cristiano: essere saldi nella preghiera per rimanere saldi nella fede e nella testimonianza. Ed ecco di nuovo una voce dentro di noi: “Ma Signore, com’è possibile non stancarsi? Siamo esseri umani… anche Mosè si è stancato!...”. E’ vero, ognuno di noi si stanca. Ma non siamo soli, facciamo parte di un Corpo! Siamo membra del Corpo di Cristo, la Chiesa, le cui braccia sono alzate giorno e notte al Cielo grazie alla presenza di Cristo Risorto e del suo Santo Spirito. E solo nella Chiesa e grazie alla preghiera della Chiesa noi possiamo rimanere saldi nella fede e nella testimonianza.
Abbiamo ascoltato la promessa di Gesù nel Vangelo: Dio farà giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui. Ecco il mistero della preghiera: gridare, non stancarsi, e, se ti stanchi, chiedere aiuto per tenere le mani alzate. Questa è la preghiera che Gesù ci ha rivelato e ci ha donato nello Spirito Santo. Pregare non è rifugiarsi in un mondo ideale, non è evadere in una falsa quiete egoistica. Al contrario, pregare è lottare, e lasciare che anche lo Spirito Santo preghi in noi. E’ lo Spirito Santo che ci insegna a pregare, che ci guida nella preghiera, che ci fa pregare come figli.
I santi sono uomini e donne che entrano fino in fondo nel mistero della preghiera. Uomini e donne che lottano con la preghiera, lasciando pregare e lottare in loro lo Spirito Santo; lottano fino alla fine, con tutte le loro forze, e vincono, ma non da soli: il Signore vince in loro e con loro….
Dio conceda anche a noi di essere uomini e donne di preghiera; di gridare giorno e notte a Dio, senza stancarci; di lasciare che lo Spirito Santo preghi in noi, e di pregare sostenendoci a vicenda per rimanere con le braccia alzate, finché vinca la Divina Misericordia.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia del 16 ottobre 2016

Pubblicato in Liturgia

Anche le letture liturgiche di questa domenica hanno come tema la fede, una fede che non ha confini razziali, culturali, sociali.
Nella prima lettura, tratta dal secondo libro dei Re, troviamo il racconto di Naamàn, generale siriano, guarito dalla lebbra, che fa la sua “professione di fede” e riconosce il vero Dio e a Lui solo rende omaggio. In questa narrazione si può comprendere come Dio chiama alla fede anche quelli che noi giudichiamo lontani da Lui.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo, invita il suo discepolo, a condividere la sua condizione, ora in catene per il Vangelo. Egli ricorda anche a tutti noi. Che nessun ostacolo può opporsi alla diffusione della Parola di Dio.
Nel Vangelo di Luca, Gesù guarisce dieci lebbrosi e solo uno straniero (un samaritano) ritorna per ringraziarlo. Solo a lui Gesù in finale dichiara: “Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!”. Tutti sono stati guariti, ma lui solo è stato salvato. Questo samaritano diventa per noi esempio di fede e di amore.

Dal secondo libro dei Re
In quei giorni, Naamàn, (il comandante del’esercito del re di Aram) scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato (dalla sua lebbra).
Tornò con tutto il séguito da (Elisèo),l'uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: “Ecco, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo”.
Quello disse: “Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò”. L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.Allora Naamàn disse: “Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocàusto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore”.
2Re 5,14-17

Il Secondo libro dei Re, insieme al primo, in origine formavano un unico libro. Entrambi fanno parte dei Libri storici per il canone cristiano e dei cosiddetti “profeti anteriori‘” per il canone ebraico. E’ stato composto, secondo alcuni studiosi, intorno al VI secolo a.C. dallo stesso autore che ha scritto il libro del Deuteronomio; per questo lo si definisce autore ''Deuteronomista'‘.
Per ricostruire le vicende dei due regni di Israele, egli attinge a materiali d'archivio, alle tradizioni orali e alla memoria storica del suo popolo. Una delle caratteristiche dell'autore è il continuo ricorso a formule fisse per delineare i regni dei vari sovrani e in particolare, il secondo libro dei Re, descrive la vicenda del popolo ebraico dal IX al VI secolo a.C., cioè dalla fine del regno di Acazia (circa 852 a.C.) fino alla distruzione del regno di Giuda nel 587 a.C..
Le vicende di Elia e di Eliseo sono narrate in due cicli che occupano la parte centrale dei due libri dei Re (1Re 17-22; 2Re 1-17).
Eliseo, il quale operò sotto i re Ioram (852-841), Ieu (841-814), Ioacaz (814-798), Ioas (798-783), è protagonista di numerosi racconti popolari spesso interrotti da riferimenti alle vicende politiche. Il suo ciclo si apre con il rapimento di Elia in cielo, del quale egli è l’unico testimone (2Re 2,1-8). Divenuto così erede spirituale del suo maestro, Eliseo compie alcuni miracoli di carattere umanitario. Infine viene narrata la conversione di Naaman, un generale degli aramei che era diventato lebbroso (2Re 5,1-19). Il brano liturgico riprende la parte conclusiva di questo racconto.
Naaman si era rivolto al profeta per chiedergli di essere guarito, ma questi, senza neppure presentarsi di persona, gli dice semplicemente di bagnarsi sette volte nel fiume Giordano. Naaman si sente offeso da questo comportamento e da quanto gli dice di fare il profeta Eliseo, ma poi esegue quanto gli è stato detto e guarisce dal suo male.
Allora torna da Eliseo e dichiara pubblicamente :“Ecco, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo”. Come ringraziamento per quanto ha ricevuto, Naaman vorrebbe fare un dono al profeta, ma egli rifiuta decisamente.
Allora Naaman fa a Eliseo questa richiesta: “Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocàusto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore”. Siccome Naaman risiede in un paese straniero dove si adorano altri dèi, mentre JHWH si adora solo nella terra di Israele, chiede che gli sia consentito di poter portare con sé una certa quantità di questa terra su cui pregare il Signore e offrirgli i propri sacrifici , inoltre, siccome egli è tenuto, in forza del proprio rango, ad accompagnare il re nel tempio di Rimmon, dove si compie un culto inconciliabile con quello del Signore, chiede al profeta se gli è permesso di compiere il proprio dovere in modo puramente esterno, senza con ciò venire meno alla sua nuova fede.
Il brano liturgico non riporta la richiesta completa di Naaman e neanche la risposta di Eliseo che si limita a dirgli “Và in pace”.
La guarigione di Naamàn è presentata come l’occasione di un’autentica conversione al Dio di Israele da parte di un non israelita. Le richieste di Naamàn si comprendono alla luce dei problemi che si ponevano dopo l’esilio a uno straniero che volesse riconoscere e adorare JHWH come unico Dio. Secondo la mentalità dell’epoca egli, vivendo in una terra straniera, non poteva adorare JHWH, il quale, pur essendo il Dio di tutta la terra, aveva come Sua sede speciale la terra di Israele. Oltre a ciò, dato che si trattava di una persona importante, doveva partecipare al culto della divinità del posto in cui viveva: un rifiuto poteva essere considerato come una ribellione.
Eliseo dicendo solo “Va in pace” non prende palesemente posizione su questo atteggiamento esterno di idolatria, ma si dimostra comprensivo e tollerante, per cui astenendosi da ogni giudizio, lascia a Naamàn il compito di decidere con la sua coscienza.
È questo veramente un gesto di grande rispetto e di solidarietà! Tutto il racconto tende così a dimostrare che la religione israelitica è l’unica vera, ma al tempo stesso sottolinea che anche a un non ebreo è possibile aderire al vero Dio senza essere costretto a praticare tutte le norme che regolano il culto di Israele. In questo senso il brano rivela una mentalità alquanto moderna, che certo al suo tempo ha avuto difficoltà ad essere compresa da tutti.

Salmo 97 - Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia

Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa di Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami al Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19): “I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo. La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento di P.Paolo Berti

Dal seconda lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, ricordati di Gesù Cristo,
risorto dai morti, discendente di Davide,
come io annuncio nel mio vangelo,per il quale soffro
fino a portare le catene come un malfattore.
Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;
se perseveriamo, con lui anche regneremo;
se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà;
se siamo infedeli, lui rimane fedele,
perché non può rinnegare se stesso.
2Tm 2:8-13

Il capitolo, da cui è stato tratto questo brano, era cominciato con un riferimento all’incarico dato da Paolo al discepolo-figlio Timoteo, a cui aveva fatto seguito l'esortazione alla perseveranza e all’impegno nonostante le sofferenze che si prospettano. A questo punto inizia l’esortazione rivolta a Timoteo : “…ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide,come io annuncio nel mio vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore”.
Al centro dei pensieri di Timoteo deve esserci la persona di Cristo. Di lui si dice, con riferimento a un'antica professione di fede, che è risorto dai morti ed è discendente di Davide. L’origine davidica di Gesù Cristo, il Messia, richiama al fatto che per mezzo Suo si sono attuate le promesse. Citando la Sua risurrezione, non si può non citare la Sua morte di croce e di conseguenza la Sua risurrezione dai morti . Qui c’è il senso ultimo e profondo delle sofferenze che ora toccano in sorte a tutti i credenti, dei quali Paolo rimane il modello ideale.
Il tema della sofferenza dell’Apostolo e della sua attuale prigionia introduce un’affermazione di principio a cui fa seguito un nuovo riferimento alla sua esperienza: “Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch'essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna”.
Nonostante Paolo sia incatenato come un criminale comune, non così è per la Parola di Dio, che raggiunge tutti gli uomini di buona volontà. La Parola di Dio non può essere incatenata, anzi, si può dire che la partecipazione personale di Paolo all’esperienza di morte e risurrezione di Cristo, serva alla diffusione del Vangelo più dell’annuncio pubblico che egli ne fa con la sua parola.
L’esempio di Paolo, figura ideale e tipica dell'apostolo e martire per il Vangelo, introduce la citazione di un altro inno in cui questo pensiero è applicato a tutti i cristiani:
“Questa parola è degna di fede: Se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”.
Il morire con Lui comporta di riflesso il vivere con Lui e la perseveranza nelle prove ha come effetto l’ingresso con Lui nel Suo regno. Il rinnegarlo comporta invece l’essere rinnegati da Lui. Il termine “rinnegare”, indica il rifiuto e la ribellione nei confronti di Cristo e a questo rifiuto corrisponde anche il rifiuto da parte di Cristo. Quest’ultima affermazione viene però subito corretta perché anche in caso di infedeltà da parte del discepolo, Gesù rimane fedele, perché questo fa parte del “Suo modo di essere”, venendo meno al quale, “Egli rinnegherebbe se stesso”. Si tratta quindi di un rapporto che non può venire meno perché non si basa sulla buona volontà del credente, ma su una scelta irrevocabile di Dio.

Dal vangelo secondo Luca
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza, e dissero ad alta voce: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”. Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?”. E gli disse: “Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!”.
Lc 17, 11-19

Con questo brano, l’evangelista Luca continua a raccontare gli spostamenti di Gesù, nel suo viaggio verso Gerusalemme. Questa volta non abbiamo un discorso di Gesù, ma il racconto di un miracolo. I suoi discepoli lo accompagnano ed insieme sono ormai giunti nel territorio della Samaria. Stanno per entrare in un villaggio, quando un gruppo di 10 lebbrosi va incontro al Rabbi di Nazareth.
L’episodio è così introdotto: Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Questo versetto che introduce la terza e ultima tappa del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, riporta un percorso un po’ strano perché controllando la mappa sembra che Gesù va verso Gerusalemme camminando a ritroso! Sicuramente l'evangelista voleva solo trovare un posto adatto per descrivere l'incontro del Signore con un gruppo di lebbrosi composto da giudei e da un samaritano.
“Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza”,
Del villaggio in cui Gesù entra non si ha alcuna indicazione, se non che gli vengono incontro questi dieci uomini lebbrosi. Coloro che erano affetti da lebbra (ma spesso si trattava solo di una malattia della pelle) erano cacciati dalla società, però potevano abitare in luoghi appartati nei villaggi. Secondo le norme descritte nel Levitico (13,45-46) dovevano tenersi a distanza, per evitare il contagio e anche per motivi cultuali, in quanto si trovavano in stato di impurità.
“e dissero ad alta voce: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”.
Il Levitico prescriveva che se essi avessero incontrato qualcuno, avrebbero dovuto gridare “Immondo! Immondo! Immondo!”; ma il loro grido verso Gesù è invece una preghiera: è l'invocazione del nome di Gesù unito al titolo di Maestro, che Luca mette sempre in bocca ai discepoli.
“Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati.
Diversamente dall’episodio narrato da Luca nel capitolo 5 (13-14) , Gesù non guarisce i lebbrosi prima di mandarli ai sacerdoti, ma dà subito l'ordine di mostrarsi ad essi.
Come per Naaman il Siro (2Re 5), il miracolo avviene a distanza. Il sacerdote aveva l'incarico, dopo l'esame del caso, di dichiarare impuro il lebbroso, e aveva anche il dovere di dichiararlo puro, dopo la guarigione; non perché svolgeva la funzione di medico, ma in quanto interprete della Legge. Comunque, per il guarito, questa dichiarazione del sacerdote significava la reintegrazione nella comunità civile e religiosa.
“Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; “
Con questo versetto si apre la seconda parte del racconto: il ritorno di un samaritano per ringraziare, come aveva fatto Naaman. Luca però non rivela subito che si tratta di un samaritano e dice solamente “uno di loro” quasi per prepararci alla sorpresa, mettendo prima in luce la fede dello sconosciuto. Quest'ultimo infatti vede la sua guarigione: un vedere che non si limita alla costatazione della salute fisica ritrovata, ma implica l'apertura alla fede. Con l’espressione “lodando Dio” , egli riconosce nella guarigione operata da Gesù l'agire di Dio.
“e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.”
Il guarito rende gloria a Dio e rende grazie a Gesù: per il credente sono due atteggiamenti inseparabili: in Gesù, Dio si lascia incontrare. L'ex-lebbroso accompagna il suo ringraziamento con un gesto di prostrazione, segno di profondo rispetto. Emerge un particolare: la convivenza tra lebbrosi giudei e samaritani è verosimile, visto che un lebbroso perdeva la sua identità sociale e religiosa.
“Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?”.”
Questo discorso di Gesù, composto da una successione di tre domande, costituisce il vertice del racconto. La prima domanda dichiara che tutti hanno beneficiato della guarigione. La seconda costata l'assenza di nove dei guariti. L'ultima precisa ciò che questi avrebbero dovuto fare: non basta la guarigione; essa avrebbe dovuto essere per essi il segno di una realtà nuova; non tornando da Gesù, hanno mancato nell'essenziale.
A questa prospettiva si aggiunge anche una nota di esortazione: i doni ricevuti da Dio richiedono la risposta riconoscente dell'uomo. Inoltre, chiamando il samaritano “straniero”, lo si costituisce rappresentante di tutti gli stranieri, del mondo pagano aperto alla salvezza, e posto in contrasto con i membri del popolo eletto.
“E gli disse: “Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!”.
Luca, servendosi di una formula conosciuta risalente probabilmente a Gesù, esprime il proprio pensiero: è la fede che salva, non importa se il credente appartenga al popolo d'Israele o alle nazioni pagane.
La fede che l'evangelista vede manifestata dal samaritano non si limita alla fiducia nel potere taumaturgico di Gesù (anche gli altri nove lebbrosi avevano creduto che Gesù li avrebbe sanati). E' la fede che percepisce nella guarigione un invito, torna verso il donatore, entra in rapporto con Gesù.
E' questa la fede salvifica!

 

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“Il Vangelo di questa domenica ci invita a riconoscere con stupore e gratitudine i doni di Dio. Sulla strada che lo conduce alla morte e alla risurrezione, Gesù incontra dieci lebbrosi, che gli vanno incontro, si fermano a distanza e gridano la propria sventura a quell’uomo in cui la loro fede ha intuito un possibile salvatore: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi! .
Sono malati, e cercano qualcuno che li guarisca. Gesù, rispondendo, dice loro di andare a presentarsi ai sacerdoti, che, secondo la Legge, avevano l’incarico di constatare una eventuale guarigione. In questo modo egli non si limita a fare una promessa, ma mette alla prova la loro fede. In quel momento, infatti, i dieci non sono ancora guariti. Riacquistano la salute mentre sono in cammino, dopo aver obbedito alla parola di Gesù. Allora, tutti pieni di gioia, si presentano ai sacerdoti, e poi se ne andranno per la loro strada, dimenticando però il Donatore, cioè il Padre che li ha guariti mediante Gesù, il suo Figlio fatto uomo.
Uno soltanto fa eccezione: un samaritano, uno straniero che vive ai margini del popolo eletto, quasi un pagano! Quest’uomo non si accontenta di aver ottenuto la guarigione attraverso la propria fede, ma fa sì che tale guarigione raggiunga la sua pienezza tornando indietro ad esprimere la propria gratitudine per il dono ricevuto, riconoscendo in Gesù il vero Sacerdote che, dopo averlo rialzato e salvato, può metterlo in cammino e accoglierlo tra i suoi discepoli.
Saper ringraziare, saper lodare per quanto il Signore fa per noi, quanto è importante! E allora possiamo domandarci: siamo capaci di dire grazie? Quante volte ci diciamo grazie in famiglia, in comunità, nella Chiesa? Quante volte diciamo grazie a chi ci aiuta, a chi ci è vicino, a chi ci accompagna nella vita? Spesso diamo tutto per scontato! E questo avviene anche con Dio. È facile andare dal Signore a chiedere qualcosa, ma tornare a ringraziarlo… Per questo, Gesù sottolinea con forza la mancanza dei nove lebbrosi ingrati: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?».
…Per saper ringraziare, occorre anche l’umiltà. Nella prima Lettura abbiamo ascoltato la vicenda singolare di Naaman, comandante dell’esercito del re di Aram. Ammalato di lebbra, per guarire accetta il suggerimento di una povera schiava e si affida alle cure del profeta Eliseo, che per lui è un nemico. Naaman è disposto però ad umiliarsi. Ed Eliseo non pretende niente da lui, gli ordina solo di immergersi nell’acqua del fiume Giordano. Tale richiesta lascia Naaman perplesso, addirittura contrariato: ma può essere veramente un Dio quello che chiede cose così banali? Vorrebbe tornarsene indietro, ma poi accetta di immergersi nel Giordano e subito guarisce.
Il cuore di Maria, più di ogni altro, è un cuore umile e capace di accogliere i doni di Dio. E Dio, per farsi uomo, ha scelto proprio lei, una semplice ragazza di Nazareth, che non viveva nei palazzi del potere e della ricchezza, che non ha compiuto imprese straordinarie. Chiediamoci – ci farà bene - se siamo disposti a ricevere i doni di Dio, o se preferiamo piuttosto chiuderci nelle sicurezze materiali, nelle sicurezze intellettuali, nelle sicurezze dei nostri progetti.
È significativo che Naaman e il samaritano siano due stranieri. Quanti stranieri, anche persone di altre religioni, ci danno esempio di valori che noi talvolta dimentichiamo o tralasciamo. Chi vive accanto a noi, forse disprezzato ed emarginato perché straniero, può insegnarci invece come camminare sulla via che il Signore vuole. Anche la Madre di Dio, insieme col suo sposo Giuseppe, ha sperimentato la lontananza dalla sua terra. Per lungo tempo anche Lei è stata straniera in Egitto, lontano dai parenti e dagli amici. La sua fede, tuttavia, ha saputo vincere le difficoltà. Teniamo stretta a noi questa fede semplice della Santa Madre di Dio; chiediamo a Lei di saper ritornare sempre a Gesù e dirgli il nostro grazie per tanti benefici della sua misericordia.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia del 9 ottobre 2016

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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