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Le letture liturgiche di questa domenica ci fanno meditare sul più grande comandamento, quello dell’amore di Dio che è completato dal secondo comandamento “Amerai il tuo prossimo come te stesso (Lv 19,1). L’amore verso Dio si completa con l’amore verso il prossimo, questi due comandamenti si sono sempre illuminati a vicenda.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, troviamo il celebre passo detto “Shema”, che è la preghiera più cara agli ebrei “Ascolta Israele… tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore…” Un amore che coinvolge “cuore, mente, forza” cioè tutte le dimensioni dell’essere umano nella sua interiorità e nella sua azione.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, l’autore afferma che Gesù è l’unico e perfetto sacerdote della nuova alleanza ed ha tutte le qualità per esserlo: egli infatti è morto e risorto e vive per sempre in cielo al cospetto di Dio e intercede a nostro favore presso il Padre.
Nel Vangelo di Marco, leggiamo che Gesù allo scriba che gli chiedeva quale fosse il primo comandamento risponde sottolineando l’importanza fondamentale dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Per Gesù queste due dimensioni dell’amore sono inestricabili, si incrociano e si vivificano reciprocamente costituendo l’essere cristiano autentico. Se aderiamo a Cristo con tutto il nostro essere, potremo anche noi ascoltare da Gesù le stesse parole che egli ripeté allo scriba: “non sei lontano dal regno di Dio”.

Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni.
Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».
Dt 6, 2-6

Il Deuteronomio è il quinto libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. È stato scritto in ebraico intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi. È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge” la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire. Questi nuovi precetti sono orientati a regolare la vita stabile, sedentaria, che di lì a poco il popolo d'Israele avrebbe iniziato all'arrivo alla Terra Promessa. Ciononostante, queste leggi sono stilate con grande affetto, animando il compimento della Legge con motivi teologici.
Il Deuteronomio ci consente di comprendere che cos’è il popolo di Dio, di cogliere quanto l’Alleanza che unisce a Dio, comporta insieme di ricchezza e di esigenza: essa è un dono gratuito e appello pressante che bisogna vivere nelle realtà concrete.
Il Deuteronomio richiama continuamente il credente a quelli che sono gli atteggiamenti fondamentali: una fede che si fa sempre più profonda, un amore di Dio che esclude ogni compromesso, un servizio di Dio prestato con gioia, e una accettazione reale ed fiduciosa delle realtà terrestri.
Il brano liturgico comincia con un invito pressante rivolto da Mosè al popolo di Israele:
“Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita,...” questi versetti sono l’introduzione al celebre passo detto “Shemà”, che è la preghiera molto cara agli ebrei. Al tempo di Gesù ogni ebreo lo doveva recitare al mattino e alla sera, mentre il testo scritto veniva portato nella teca di cuoio delle “filatterie” che si legavano alla fronte e al braccio durante l’orazione: “Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno”. Questa frase, contiene il Tetragramma biblico יה*ו*ה, non pronunciabile, e quindi viene letta Shema' Ysrael, Ado-nai Eloheinu, Ado-nai echad, e viene pronunciata coprendosi gli occhi.
“Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze”.
C’è un adesione gioiosa di obbedienza figliare, di ascolto alla richiesta fondamentale di Dio, quella dell’amore. Un amore che coinvolge “cuore, mente, forza” cioè tutte le dimensioni dell’essere umano nella sua interiorità e nella sua azione. Questo è l’unico comandamento dato da Dio, che esige una risposta di amore al Suo amore. Tutti gli altri comandamenti derivano da questo e sono soltanto una precisazione per dire come concretamente si può in ogni circostanza amare Dio.

Salmo 17 - Ti amo, Signore, mia forza.
Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.

Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.

Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.

La tradizione più autentica (2Sam 22,1) riferisce che questo salmo venne scritto da Davide quando si trovò liberato da molte peripezie, specialmente quelle causategli da Saul. Il salmo nel Breviario viene diviso in due parti per ragioni di lunghezza.
L’orante celebra la liberazione da situazioni drammatiche con immagini efficaci: “Mi circondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti infernali; già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali”. La liberazione da tante insidie gli ha comunicato una grande fede nell’aiuto di Dio, e per questo ha grande certezza di vittoria anche per il futuro: “Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici”.
L’orante presenta la descrizione dell’intervento di Dio usando le immagini di uno sconvolgimento cosmico: il cielo, la terra, il mare, il fuoco, la grandine, entrano in gioco ad esprimere l’ardente e terrorifica ira di Dio contro i suoi nemici, gli empi, i quali, infatti, non hanno solo cercato di colpire Israele, ma innanzitutto lui, il Re d’Israele, il Signore dell’universo. Gli empi sono coloro che hanno varcato quella misura di peccato, che genera l’ira assoluta di Dio, che pur manda il sole sui buoni e sui cattivi.
Si ha un crescendo nell’imponente descrizione dell’intervento di Dio. L’inizio dell’intervento di Dio è un terremoto: “La terra tremò e si scosse; vacillarono le fondamenta dei monti”: è il primo segno dello sfogo dell’ira di Dio sui suoi nemici. Dio viene presentato come una fornace di fuoco in cielo: “Dalle sue narici saliva fumo, dalla sua bocca un fuoco divorante, da lui sprizzavano carboni ardenti”. Il cielo viene abbassato con una nuvolaglia nera e Dio scende in combattimento cavalcando un cherubino, che vola in mezzo alle nubi nere e basse. Il guerriero squarcia al suo passaggio le nubi che riversano grandine in un immane bombardamento della terra e carboni di fuoco (i fulmini) che la incendiano. Infine il mare si riversa sulla terra in un immane diluvio che spazza via quanto è rimasto dei nemici di Dio: “Allora apparve il fondo del mare, si scoprirono le fondamenta del mondo”. Il popolo di Dio invece rimane indenne, come nel passaggio nel mar Rosso, poiché il Signore lo sottrae alla furia delle acque: “Stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque”.
L’orante che ha visto evolvere una situazione nella quale era impossibile che ne uscisse vivo in situazione di vittoria, ritornando al suo esordio orante celebra la bontà di Dio, la giustizia di Dio; e divenuto capo forte di un popolo compatto, si propone di non temere mai delle armate dei nemici né delle loro fortezze: “Con te mi getterò nella mischia, con il mio Dio scavalcherò le mura”.
Davide continua le sue lodi a Dio e presenta, non più in termini apocalittici, le imprese che ha potuto compiere.
Davide, grazie a Dio che lo ha guidato e sostenuto, ha visto rendersi concrete le prospettive della missione regale affidatagli; ma il disegno di Dio non si esaurisce con lui.
Davide è certo di Dio. Certo della sua fedeltà. La sua discendenza rimarrà.
Il suo trono sarà di uno che verrà dalla sua stirpe, ma che sarà superiore a lui, come presentò lui stesso nel salmo 109,1; 110: “Oracolo del Signore al mio signore” (Cf. Mt 22,4). Sarà il futuro Re, il Messia (Cf. 1Sam 2,10), che inaugurerà un regno che sarà eterno (2Sam 7,12) e che abbraccerà tutte le genti (Ps 71,8; 72). Così tutta la missione di Davide e le grazie date a Davide sono in funzione del Messia e provengono dal futuro Messia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.
Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.
La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.
Eb 7,23-28

La Lettera agli Ebrei può essere divisa in due parti, la prima parte (fino al cap.10) è di contenuto puramente dogmatico, mentre la seconda è di carattere prevalentemente pratico-moralistico.
In questo brano, tratto dalla prima parte della lettera, che è incentrata sulla figura di Gesù Cristo, re dell’universo, anche in relazione ad altri personaggi biblici dell'A.T, l’autore. dopo aver trattato nei versetti precedenti “L’abrogazione della legge antica e “L’immutabilità del sacerdozio del Cristo” affermando che : “ciò non avvenne senza giuramento. Quelli infatti diventavano sacerdoti senza giuramento; costui al contrario con un giuramento di colui che gli ha detto:Il Signore ha giurato e non si pentirà: tu sei sacerdote per sempre. Per questo, Gesù è diventato garante di un’alleanza migliore” (7,20-23). in questo brano continua dicendo:
“ in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.”
L’istituzione del sacerdozio di Aronne non fu sigillato da un giuramento e perciò non aveva il sigillo di eterna esistenza, cioè di non essere sottoposto ad abrogazione. Il giuramento si ha per le cose di più alta importanza affinché restino stabili e invariabili. Aronne e i suoi successori terminavano il loro sacerdozio con la loro morte, Cristo invece “resta per sempre ”. Egli, sommo ed eterno sacerdote, intercede a favore di coloro che si avvicinano al Padre per mezzo di Lui.
“Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli”. Per avere accesso al Padre, nel perdono dei peccati e nella liberazione dalla colpa originale per mezzo del Battesimo, occorreva un sommo sacerdote perfetto, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli, quale Re dell'universo, e nessuno più di Cristo poteva essere una vittima, santa, innocente e senza pacchia.
“Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.”
I sacrifici sono tutto l'insieme dei sacrifici prescritti dalla Legge. Il sacrificio sull'altare della croce, ha un valore infinito, per cui non è necessario che venga ripetuto perchè ha infinitamente soddisfatto la giustizia del Padre. Essendo Cristo sommo sacerdote eterno esercita questo suo sacerdozio mediante i ministri dell'altare che agiscono in persona Cristi. Il sacrificio Eucaristico è lo stesso della croce, diverso ne è solo il modo.
Nota: Il Concilio di Trento si è espresso al proposito con grande chiarezza “In questo divino sacrificio, che si compie nella Messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo, che si offerse una sola volta in modo cruento sull'altare della croce. Si tratta, infatti, di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. (Sessione 22, cap. 2):

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
Mc 12,28b-34

Dopo l’arrivo di Gesù a Gerusalemme, l’evangelista Marco ci riporta l’attività di Gesù di quel periodo e le varie controversie avute con i rappresentanti di diversi gruppi che componevano il giudaismo del suo tempo.
Il brano inizia riportando l’intervento di uno scriba che “gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?” Nei versetti precedenti Gesù era stato interrogato dai sadducei circa la risurrezione dei morti e lo scriba sicuramente fu soddisfatto dalla risposta che Gesù aveva dato perchè si era dissociato nettamente dalla posizione dei sadducei adottando quella dei farisei che credevano nella risurrezione dei morti. La domanda dello scriba fa pensare ad una preoccupazione diffusa tra i dottori che, pur dando uguale importanza a tutti i precetti della legge, cercavano una formula che ne fosse l’origine, il fondamento e persino la sintesi. Alla domanda dello scriba Gesù dà una risposta chiara e precisa: “Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba chiedeva di un comandamento, e Gesù ne cita due! Il primo è il comandamento contenuto nel Deuteronomio (6,4) in cui c’è un testo, recitato da ogni pio giudeo nella preghiera quotidiana, che esalta l’unicità di DIO, come salvatore del suo popolo, e l’obbligo di amarlo, e di praticare i suoi comandamenti non per opportunismo o interesse, bensì con un impegno che scaturisce dal profondo del cuore.
Poi Gesù cita quanto è scritto nel Levitico (Lv 19,18) dove si prescrive l’amore del prossimo.
Al “cuore-mente-forza”, attraversati dall’amore di Dio corrisponde ora il tutto “te stesso” dell’amore per il prossimo. Per Gesù queste due dimensioni dell’amore si incrociano e si vivificano reciprocamente costituendo l’essere cristiano autentico.
La risposta di Gesù provoca nel suo interlocutore un’approvazione entusiasta: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».” Con queste parole, egli dimostra una profonda percezione del messaggio di Gesù, il quale, “Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, gli disse: Non sei lontano dal regno di Dio».
Questo scriba, dunque, inizialmente lontano dalla prospettiva di Gesù, accogliendo con gioia questo doppio impegno “non è più lontano dal regno di Dio”, perchè è diventato membro della comunità dell’amore.
L’evangelista conclude che “nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo”, infatti con questa controversia terminano le domande poste a Gesù dai rappresentanti del giudaismo.
Per concludere si può dire che lo scriba si trasforma nell’emblema di tutti coloro che, anche nel giudaismo, sceglieranno di aderire alla Legge, non col freddo rigore dell’osservanza o col timore del giudizio, ma con la totalità dell’amore, una via certamente più esigente di quella della semplice e fredda osservanza giudaica, ma ben più ampia ed esaltante

 

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“Il Vangelo di questa domenica ci ripropone l’insegnamento di Gesù sul più grande comandamento: il comandamento dell’amore, che è duplice: amare Dio e amare il prossimo. I Santi, che abbiamo da poco celebrato tutti insieme in un’unica festa solenne, sono proprio coloro che, confidando nella grazia di Dio, cercano di vivere secondo questa legge fondamentale. In effetti, il comandamento dell’amore lo può mettere in pratica pienamente chi vive in una relazione profonda con Dio, proprio come il bambino diventa capace di amare a partire da una buona relazione con la madre e il padre. San Giovanni d’Avila, che ho da poco proclamato Dottore della Chiesa, così scrive all’inizio del suo Trattato dell’amore di Dio: «La causa - dice - che maggiormente spinge il nostro cuore all’amore di Dio è considerare profondamente l’amore che Egli ha avuto per noi… Questo, più dei benefici, spinge il cuore ad amare; perché colui che rende ad un altro un beneficio, gli dà qualcosa che possiede; ma colui che ama, dà se stesso con tutto ciò che ha, senza che gli resti altro da dare» (n. 1). Prima di essere un comando - l’amore non è un comando - è un dono, una realtà che Dio ci fa conoscere e sperimentare, così che, come un seme, possa germogliare anche dentro di noi e svilupparsi nella nostra vita.
Se l’amore di Dio ha messo radici profonde in una persona, questa è in grado di amare anche chi non lo merita, come appunto fa Dio verso di noi. Il padre e la madre non amano i figli solo quando lo meritano: li amano sempre, anche se naturalmente fanno loro capire quando sbagliano. Da Dio noi impariamo a volere sempre e solo il bene e mai il male. Impariamo a guardare l’altro non solamente con i nostri occhi, ma con lo sguardo di Dio, che è lo sguardo di Gesù Cristo. Uno sguardo che parte dal cuore e non si ferma alla superficie, va al di là delle apparenze e riesce a cogliere le attese profonde dell’altro: attese di essere ascoltato, di un’attenzione gratuita; in una parola: di amore. Ma si verifica anche il percorso inverso: che aprendomi all’altro così com’è, andandogli incontro, rendendomi disponibile, io mi apro anche a conoscere Dio, a sentire che Egli c’è ed è buono. Amore di Dio e amore del prossimo sono inseparabili e stanno in rapporto reciproco. Gesù non ha inventato né l’uno né l’altro, ma ha rivelato che essi sono, in fondo, un unico comandamento, e lo ha fatto non solo con la parola, ma soprattutto con la sua testimonianza: la Persona stessa di Gesù e tutto il suo mistero incarnano l’unità dell’amore di Dio e del prossimo, come i due bracci della Croce, verticale e orizzontale. Nell’Eucaristia Egli ci dona questo duplice amore, donandoci Se stesso, perché, nutriti di questo Pane, ci amiamo gli uni gli altri come Lui ci ha amato.
Cari amici, per intercessione della Vergine Maria, preghiamo affinché ogni cristiano sappia mostrare la sua fede nell’unico vero Dio con una limpida testimonianza di amore verso il prossimo.”
Papa Benedetto XVI Parte dell’Angelus del 4 novembre 2012

1 (*) Nota. Secondo Hillel (vissuto verso il 25 a.C.) tutta la legge si riassume nella “regola d’oro”, che prescrive di “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” (Shab 31a). Hillel conclude il suo detto affermando: “Questa è tutta la Torah; il resto ne è l’interpretazione. Va’ e impara!”. Secondo lui i precetti della legge, pur essendo diverse applicazioni di uno stesso principio, restano singolarmente validi, in quanto rappresentano la manifestazione irrevocabile della volontà di Dio.
Aqiba (morto nel 135 d.C.) invece assegna questo ruolo al precetto “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Sifra Lv 19,18); si ricordi che nel Targum la regola d’oro è citata come commento di questo precetto (cfr. TgPsJ Lv 19,18).
Al tempo di Gesù l’amore del prossimo era tenuto in grande considerazione dai membri dei movimenti giudaici, e in modo speciale dagli esseni (cfr. manoscritti di Qumran, Giubilei e Testamenti dei XII Pariarchi).

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a riflettere per farci poi comprendere come possa essere un cammino di conversione e di fede alla quale siamo chiamati continuamente.
Nella prima lettura, il profeta Geremia racconta la sollecitudine di Dio per il popolo d’Israele esiliato a Babilonia. Il profeta pronuncia un oracolo di consolazione per gli esiliati, che annuncia il cambiamento dalla schiavitù alla libertà, dalle lacrime alla gioia.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, il sacerdozio di Cristo è il tema su cui riflette l’autore: essendo vero uomo e Figlio di Dio, Gesù possiede in modo eminente tutte le qualità del vero sacerdote, inviato dal padre per dissipare le tenebre e rischiarare la via, egli è il mediatore perfetto tra la fragile umanità e la grandezza di Dio
Nel Vangelo di Marco, ci racconta la guarigione di Bartimeo (è raro che i Vangeli ci riportano i nomi dei miracolati) avvenuta poco prima che Gesù salisse a Gerusalemme per essere arrestato, condannato e messo a morte, ottenuta la vista il cieco vuole seguire Gesù. La sua storia diventa così la narrazione spirituale di una vocazione alla fede e al discepolato. In questo senso la vicenda di Bartimeo è aperta e possibile a tutti noi.

Dal libro del profeta Geremia
Così dice il Signore:
«Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni,
fate udire la vostra lode e dite:
“Il Signore ha salvato il suo popolo,
il resto d’Israele”.
Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione
e li raduno dalle estremità della terra;
fra loro sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente:
ritorneranno qui in gran folla.
Erano partiti nel pianto,
io li riporterò tra le consolazioni;
li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua
per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele,
Èfraim è il mio primogenito».
Ger 31,7-9

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli è pure l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà.
In questo brano tratto dal libro della consolazione, si sente tutta l’esplosione di felicità di Geremia che finalmente può abbandonare il tono doloroso e mesto dei suoi messaggi di sciagure per annunciare la gioia. E’ a nome del Signore che si rivolge al popolo in esilio per dire: “Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Il resto non sono più gli scampati alla deportazione, ma quel piccolo nucleo di esiliati che Dio raccoglie per continuare la storia della salvezza. Il loro ritorno in patria è opera di Dio, salvezza di Dio, per coloro che sono rimasti a Lui fedeli. E’ il Signore che ora parla tramite lui per dire: “Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla”.
Questo popolo passato attraverso le angosce dell’esilio e della persecuzione è composto di ciechi, zoppi, donne incinte e partorienti, che hanno in comune la difficoltà a camminare e non sono nelle condizioni ideali per compiere un viaggio. Questo lo possiamo sentire come un messaggio di consolazione per chi si sente di solito escluso perchè è Dio che si mette alla guida di questi deboli e sfiduciati, è con loro che vuole costituire la Sua nuova famiglia: “perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito”. Possiamo sentirci tutti Efraim e suoi primogeniti!

Salmo 125 - Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.

Questo salmo era usato per i pellegrinaggi annuali a Gerusalemme. Probabilmente venne scritto dopo la ricostruzione del tempio e delle mura di Gerusalemme al tempo del ritorno dall'esilio; infatti la grande gioia alla notizia che “Andremo alla casa del Signore”, presuppone un fatto straordinario, lungamente atteso, e non uno dei tre pellegrinaggi annuali prescritti dalla legge (Es 23,17; 34,23).
Lo stupore di fronte alla compattezza che presenta la città si apre alla lode di Dio: “Gerusalemme è costruita come città unita e compatta”.
La città viene celebrata come il centro dell'unità religiosa per la presenza del tempio e come centro del governo civile: “E' là che salgono le tribù, le tribù del Signore (...) per lodare il nome del Signore. Là sono posti i troni del giudizio, i troni della casa di Davide”: benché politicamente non autonoma Gerusalemme è retta dalle leggi di Israele; la menzione di Davide dice che per l'Israelita Gerusalemme rimane legata a Davide, e quindi al futuro Messia.
Il salmista non manca di rivolgersi ai pellegrini invitandoli a pregare: “Chiedete pace per Gerusalemme”; e invoca pace su quanti la amano, cioè su quanti credono nel disegno di Dio su Gerusalemme. La pace invocata è quella che verrà portata dal Principe della pace.
A Gerusalemme si è formata la prima Chiesa particolare, che è stata la madre delle altre Chiese particolari, poiché il Vangelo è partito dalla comunità di Gerusalemme. Ma tutte le Chiese particolari, compresa quella di Gerusalemme, formano e sussistono nell'unica Chiesa di Cristo, che ha come vincolo di unità il successore di Pietro.
Il pellegrinaggio dei popoli, delle dodici tribù della terra, trova il suo gioioso approdo alle “porte” della Gerusalemme messianica, pronta ad accogliere tutte le genti. La Gerusalemme messianica è la “civitas cristiana”, che ha come costitutivo fondante la Chiesa (Cf. Ap 21,9s).
Per la “civitas cristiana”, o società dell'amore, bisogna sempre pregare perché tragga costantemente dal Cristo la sua pace e la diffonda estendendosi a tutta la terra.
Il pellegrinaggio, tuttavia, non è cessato perché terminerà solo con l'ingresso nella Gerusalemme celeste.
Lo stupore di potere andare nella “casa del Signore” i cristiani lo hanno avuto nell'erezione delle prime basiliche a Roma, dopo le ondate di persecuzione per annullare la Chiesa.
Il primo stupore di fronte alla Gerusalemme messianica, o civiltà dell'amore, i cristiani lo hanno avuto quanto hanno visto il potere politico di Roma aprirsi a Cristo e alla Chiesa.
Ora il potere politico delle nazioni si sta sempre più chiudendo alla Chiesa, ma non si annullerà il germe della “civitas cristiana”; verrà infatti il giorno in cui su tutta la terra fiorirà la civiltà della verità e dell'amore.
Commento di P. Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.
Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo.
Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse:
«Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo:
«Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».
Eb 5,1-6

Questo brano della lettera agli Ebrei segue immediatamente quello trattato nella XXIX domenica per continuare il tema su Cristo sommo sacerdote. L’argomento era decisamente molto importante per gli ebrei che erano passati al cristianesimo perché fa comprendere loro la superiorità della fede in Cristo rispetto alla religione ebraica. Al tempo stesso la fede e il culto dell'antico Israele hanno molta importanza poiché sono l'ambiente in cui il popolo di Dio si è preparato all'avvento di Gesù, il Figlio di Dio.
L’autore inizia facendo un paragone tra Gesù e i sommi sacerdoti di Israele: “Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.”
Il sommo sacerdote è scelto tra gli uomini per le cose che riguardano Dio. Offre sacrifici per i peccati, cioè immola gli animali offerti per ottenere il perdono dei peccati.
Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza.” Il sommo sacerdote è veramente tale perchè sente compassione nei confronti degli altri uomini per i quali offre i sacrifici. Sa che tanti peccati si compiono per ignoranza, non per malvagità. Anch'egli rimane un uomo ed è partecipe della debolezza dei suoi simili. Questo particolare della compassione del sommo sacerdote non è tratta dai testi biblici, sembra piuttosto una qualità inserita dall'autore per preparare la figura di Cristo, di cui il tratto più importante è appunto la compassione.
A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo”.
Proprio perché rimane un uomo egli deve offrire i sacrifici anche per i propri peccati, purificare le proprie mani affinché la sua offerta sia sempre gradita a Dio.
“Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne.”
La funzione di sommo sacerdote è comunque un dono, il frutto di una scelta divina. Anche questo anticipa la totale gratuità dell'elezione di Gesù, il quale non faceva nemmeno parte della tribù di Levi, l'unica stirpe di Israele da cui potevano provenire i sacerdoti.
Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì “. Da qui comincia la presentazione di Cristo come sommo sacerdote. Anch'egli non si arrogò il diritto di essere sommo sacerdote poiché Dio stesso gli ha conferito questa gloria. L'autore cita il salmo 110 per ricordare che Cristo è il figlio di Dio:
come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».”
La citazione del salmo 110 continua con l'investitura di Cristo. Egli è sacerdote non secondo l'ordine di Aronne, poiché non fa parte della discendenza di Levi. Il suo sacerdozio è ben più antico, poiché risale a Melchìsedek, il misterioso re/sacerdote che si incontra al cap. 14 della Genesi, e di lui si dice che era re di Salem (il nome più antico di Gerusalemme) sacerdote del Dio altissimo e che offrì ad Abramo pane e vino, doni votivi in segno di devozione.
Non si conosce la genealogia di Melchìsedek e proprio per questo rappresenta bene la condizione del Figlio di Dio fatto uomo e anche dei sacerdoti della Nuova Alleanza, che diventano tali perché chiamati da Dio e non per eredità di nascita.
Il sacerdozio nella Chiesa non si configura come una posizione sociale a cui aspirare, ma come una chiamata a cui rispondere quando la si accetta e di cui rispondere dopo che la si è esercitata. Teniamo presente che il sacerdote cristiano non si sostituisce a Cristo, ma bensì lo rappresenta.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».
Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose:
«Rabbunì, che io veda di nuovo!».
E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Mc 10, 46-52

Questo brano del Vangelo di Marco riporta l'ultimo miracolo che Gesù compie durante il suo viaggio verso Gerusalemme. Il racconto inizia riportando che “mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.”
Alla fine del suo viaggio verso Gerusalemme Gesù giunge finalmente a Gerico, la città più antica del mondo, collocata in un’oasi di tre chilometri di diametro posta nella valle del Giordano, a quasi 300 metri sotto il livello del mare. Non si conosce nulla circa l’itinerario da Lui percorso, ma da quanto accennato precedentemente (v. 10,1.32) sembra che vi sia arrivato dopo aver percorso la Perea, cioè movendosi al di fuori del territorio palestinese. Gesù è circondato dai discepoli e dalla folla. Non si sa neppure che cosa abbia fatto a Gerico, se non che, mentre ormai sta per lasciare la città, si imbatte in Bartimeo, un mendicante cieco (non si sa se dalla nascita) che siede lungo la via.
La reazione del cieco è così descritta: “Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!»”. Il suo grido di aiuto rappresenta un estremo tentativo di liberarsi dalla situazione disperata in cui si trova. Egli dà a Gesù il titolo di “Figlio di Davide” ed è la prima volta che Marco cita il nome di Davide, lo citerà ancora in 11,10 2 in 12,35-37.
E’ chiaro comunque che il figlio di Davide, a cui qui ci si riferisce è il messia atteso dai giudei (2Sam 7,12). Bartimeo fa dunque una professione di fede messianica, simile alla professione di fede di Pietro (8,29). In questa invocazione di aiuto il cieco non chiede nulla di particolare, ma solo una manifestazione della misericordia di Dio attraverso il suo inviato.
L’intervento del cieco è visto dai vicini con un certo fastidio, infatti l’evangelista annota che “Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me”.
E alla fine è Gesù stesso che prende l’iniziativa, infatti: “Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”. La folla, che prima come un muro separava il cieco da Gesù, gli trasmette ora il suo ordine di andare da Lui, anzi addirittura lo incoraggia.
Il fatto che il cieco risponda con prontezza all’invito è un altro particolare per indicare la sua fede e la sua disponibilità.
Questo brano del Vangelo di Marco riporta l'ultimo miracolo che Gesù compie durante il suo viaggio verso Gerusalemme. Il racconto inizia riportando che “mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.”
Alla fine del suo viaggio verso Gerusalemme Gesù giunge finalmente a Gerico, la città più antica del mondo, collocata in un’oasi di tre chilometri di diametro posta nella valle del Giordano, a quasi 300 metri sotto il livello del mare. Non si conosce nulla circa l’itinerario da Lui percorso, ma da quanto accennato precedentemente (v. 10,1.32) sembra che vi sia arrivato dopo aver percorso la Perea, cioè movendosi al di fuori del territorio palestinese. Gesù è circondato dai discepoli e dalla folla. Non si sa neppure che cosa abbia fatto a Gerico, se non che, mentre ormai sta per lasciare la città, si imbatte in Bartimeo, un mendicante cieco (non si sa se dalla nascita) che siede lungo la via.
La reazione del cieco è così descritta: “Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!»”. Il suo grido di aiuto rappresenta un estremo tentativo di liberarsi dalla situazione disperata in cui si trova. Egli dà a Gesù il titolo di “Figlio di Davide” ed è la prima volta che Marco cita il nome di Davide, lo citerà ancora in 11,10 2 in 12,35-37.
E’ chiaro comunque che il figlio di Davide, a cui qui ci si riferisce è il messia atteso dai giudei (2Sam 7,12). Bartimeo fa dunque una professione di fede messianica, simile alla professione di fede di Pietro (8,29). In questa invocazione di aiuto il cieco non chiede nulla di particolare, ma solo una manifestazione della misericordia di Dio attraverso il suo inviato.
L’intervento del cieco è visto dai vicini con un certo fastidio, infatti l’evangelista annota che “Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me”.
E alla fine è Gesù stesso che prende l’iniziativa, infatti: “Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”. La folla, che prima come un muro separava il cieco da Gesù, gli trasmette ora il suo ordine di andare da Lui, anzi addirittura lo incoraggia.
Il fatto che il cieco risponda con prontezza all’invito è un altro particolare per indicare la sua fede e la sua disponibilità.

 

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 “Tutte e tre le Letture di questa domenica ci presentano la compassione di Dio, la sua paternità, che si rivela definitivamente in Gesù.
Il profeta Geremia, in pieno disastro nazionale, mentre il popolo è deportato dai nemici, annuncia che «il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele». E perché lo ha fatto? Perché Lui è Padre e come Padre si prende cura dei suoi figli, li accompagna nel cammino, sostiene «il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente». La sua paternità apre loro una via accessibile, una via di consolazione dopo tante lacrime e tante amarezze.
Se il popolo resta fedele, se persevera a cercare Dio anche in terra straniera, Dio cambierà la sua prigionia in libertà, la sua solitudine in comunione: ciò che oggi il popolo semina nelle lacrime, domani lo raccoglierà nella gioia (cfr Sal 125,6).
Con il Salmo abbiamo manifestato anche noi la gioia che è frutto della salvezza del Signore: «La nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia». Il credente è una persona che ha sperimentato l’azione salvifica di Dio nella propria vita. E noi, Pastori, abbiamo sperimentato che cosa significhi seminare con fatica, a volte nelle lacrime, e gioire per la grazia di un raccolto che sempre va oltre le nostre forze e le nostre capacità.
Il brano della Lettera agli Ebrei ci ha presentato la compassione di Gesù. Anche Lui “si è rivestito di debolezza” , per sentire compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore. Gesù è il sommo sacerdote grande, santo, innocente, ma al tempo stesso è il sommo sacerdote che ha preso parte alle nostre debolezze ed è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Per questo è il mediatore della nuova e definitiva alleanza che ci dà la salvezza.
Il Vangelo odierno ci collega direttamente alla prima Lettura: come il popolo d’Israele è stato liberato grazie alla paternità di Dio, così Bartimeo è stato liberato grazie alla compassione di Gesù. Gesù è appena uscito da Gerico. Nonostante abbia appena iniziato il cammino più importante, quello verso Gerusalemme, si ferma ancora per rispondere al grido di Bartimeo. Si lascia toccare dalla sua richiesta, si fa coinvolgere dalla sua situazione. Non si accontenta di fargli l’elemosina, ma vuole incontrarlo di persona. Non gli dà né indicazioni né risposte, ma pone una domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Potrebbe sembrare una richiesta inutile: che cosa potrebbe desiderare un cieco se non la vista? Eppure, con questo interrogativo fatto “a tu per tu”, diretto ma rispettoso, Gesù mostra di voler ascoltare le nostre necessità. Desidera con ciascuno di noi un colloquio fatto di vita, di situazioni reali, che nulla escluda davanti a Dio. Dopo la guarigione il Signore dice a quell’uomo: «La tua fede ti ha salvato».
È bello vedere come Cristo ammira la fede di Bartimeo, fidandosi di lui. Lui crede in noi, più di quanto noi crediamo in noi stessi.
C’è un particolare interessante. Gesù chiede ai suoi discepoli di andare a chiamare Bartimeo. Essi si rivolgono al cieco usando due espressioni, che solo Gesù utilizza nel resto del Vangelo. In primo luogo gli dicono: “Coraggio!”, con una parola che letteralmente significa “abbi fiducia, fatti animo!”. In effetti, solo l’incontro con Gesù dà all’uomo la forza per affrontare le situazioni più gravi. La seconda espressione è “Alzati!”, come Gesù aveva detto a tanti malati, prendendoli per mano e risanandoli. I suoi non fanno altro che ripetere le parole incoraggianti e liberatorie di Gesù, conducendo direttamente a Lui, senza prediche. A questo sono chiamati i discepoli di Gesù, anche oggi, specialmente oggi: a porre l’uomo a contatto con la Misericordia compassionevole che salva.
Quando il grido dell’umanità diventa, come in Bartimeo, ancora più forte, non c’è altra risposta che fare nostre le parole di Gesù e soprattutto imitare il suo cuore. Le situazioni di miseria e di conflitto sono per Dio occasioni di misericordia. Oggi è tempo di misericordia!
Ci sono però alcune tentazioni per chi segue Gesù. Il Vangelo di oggi ne evidenzia almeno due. Nessuno dei discepoli si ferma, come fa Gesù. Continuano a camminare, vanno avanti come se nulla fosse. Se Bartimeo è cieco, essi sono sordi: il suo problema non è il loro problema. Può essere il nostro rischio: di fronte ai continui problemi, meglio andare avanti, senza lasciarci disturbare. In questo modo, come quei discepoli, stiamo con Gesù, ma non pensiamo come Gesù. Si sta nel suo gruppo, ma si smarrisce l’apertura del cuore, si perdono la meraviglia, la gratitudine e l’entusiasmo e si rischia di diventare “abitudinari della grazia”. Possiamo parlare di Lui e lavorare per Lui, ma vivere lontani dal suo cuore, che è proteso verso chi è ferito. Questa è la tentazione: una “spiritualità del miraggio”: possiamo camminare attraverso i deserti dell’umanità senza vedere quello che realmente c’è, bensì quello che vorremmo vedere noi; siamo capaci di costruire visioni del mondo, ma non accettiamo quello che il Signore ci mette davanti agli occhi. Una fede che non sa radicarsi nella vita della gente rimane arida e, anziché oasi, crea altri deserti.
C’è una seconda tentazione, quella di cadere in una “fede da tabella”. Possiamo camminare con il popolo di Dio, ma abbiamo già la nostra tabella di marcia, dove tutto rientra: sappiamo dove andare e quanto tempo metterci; tutti devono rispettare i nostri ritmi e ogni inconveniente ci disturba. Rischiamo di diventare come quei “molti” del Vangelo che perdono la pazienza e rimproverano Bartimeo. Poco prima avevano rimproverato i bambini (cfr 10,13), ora il mendicante cieco: chi dà fastidio o non è all’altezza è da escludere. Gesù invece vuole includere, soprattutto chi è tenuto ai margini e grida a Lui. Costoro, come Bartimeo, hanno fede, perché sapersi bisognosi di salvezza è il miglior modo per incontrare Gesù.
E alla fine Bartimeo si mette a seguire Gesù lungo la strada. Non solo riacquista la vista, ma si unisce alla comunità di coloro che camminano con Gesù. …
Chiediamo a Lui uno sguardo guarito e salvato, che sa diffondere luce, perché ricorda lo splendore che lo ha illuminato. Senza farci mai offuscare dal pessimismo e dal peccato, cerchiamo e vediamo la gloria di Dio, che risplende nell’uomo vivente.”

Papa Francesco Parte dell’Omelia del 25 ottobre 2015

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica sono unite dal filo rosso del sangue della sofferenza e possono guidarci per una più profonda riflessione. Oggi celebriamo la 92ma Giornata Missionaria mondiale che ha per tema “Giovani per il Vangelo”. E’ un invito a uscire dal nostro egoismo e avere un cuore grande per andare incontro alle persone che non conoscono ancora Cristo.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Profeta Isaia, troviamo un frammento tratto dal quarto carme del Servo del Signore, un testo celebre soprattutto nella rilettura messianica cristiana. In quei pochi versetti viene spiegato il senso profondo delle sofferenze del Servo del Signore, che da innocente prende su di sé i peccati degli altri e diventa “salvezza” per molti.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, afferma che l’offerta che Cristo ha fatto di sé per la nostra salvezza ce lo ha reso solidale. A Lui l’umanità peccatrice si rivolge con fiducia, sicura di incontrare il Signore che salva.
Nel Vangelo di Marco, Gesù ha appena annunciato per la terza volta la Sua passione e morte, ma i discepoli sono ben lontani dal capire, anzi discutono tra loro, preoccupati di assicurarsi i primi posti nel futuro regno messianico. Alla proposta di ricerca dei primi posti, Gesù oppone la proposta di un messianismo d’immolazione e di servizio. Il servizio è uno dei comandi di Gesù più sentiti e più fortemente raccomandati, (papa Francesco ce lo ricorda continuamente e ne dà l’esempio) e rimane uno dei criteri sui quali i cristiani misurano maggiormente la qualità della loro vocazione.

Dal libro del profeta Isaia
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento
vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.
Is 53,10-11

Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia” o “Deutero Isaia”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Il corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due parti, quelle composte prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12-48,22) e quelle che invece sono state composte dopo questo evento (Is 49,1-54,17). Nel libro del Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso, chiamato “Servo di JHWH”, di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato dato l’appellativo di ”Carmi del Servo di JHWH” (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Mentre il primo carme si trova all’inizio della prima parte, gli altri li troviamo nella seconda parte della raccolta. Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) si descrive la persecuzione che ha subito. I versetti sono alquanto simili ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina.
Questo breve brano che è un frammento del quarto carme che descrive la vicenda del Servo del Signore, è un testo celebre soprattutto nella rilettura messianica cristiana. E’ stato descritto all’inizio l’immagine di un virgulto cresciuto (Is. 53,2), come una radice in terra arida, come un uomo isolato. Il suo stesso esistere è apparso un miracolo, un dono divino, unica presenza viva all’interno del mondo morto e desolato del peccato umano. E’ impressionante la descrizione del suo volto sfigurato, che suscita imbarazzo e disprezzo perchè si interpreta il suo tormento come castigo divino! Ma la morte non è il termine definitivo verso cui scorre questa vita di dolore innocente, con la sua morte non è stata detta l’ultima parola, perchè:
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.” Il Signore ha voluto che il Servo passasse attraverso la sofferenza, ma ha stabilito che, ”avendo offerto se stesso in espiazione”, viva a lungo e abbia una grande discendenza.
Negli ultimi due versetti è il Signore che parla per confermare il successo del Servo: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Questa morte, questo intimo tormento, fa fiorire il mistero di fecondità che quel virgulto conteneva, Questo servo giustificherà molti, salvandoli con il suo dolore espiatorio fino a contemplare Dio stesso nella gloria con tutti coloro che ha portato alla salvezza. La sua vita e la sua morte dunque sono state un sacrificio liberatore per noi tutti, il suo essere “servo” ha generato la nostra giustificazione e riconciliazione con Dio.

SALMO 32 - Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni. La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.
Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore.
Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.
Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”. La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere. Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15). Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.
Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
Eb 4,14-16

Questo breve brano, tratto dalla Lettera agli Ebrei, sviluppa un tema già iniziato al cap.2 “Gesù sacerdote misericordioso”. Nell’Antico Testamento, la condizione necessaria per essere sacerdoti era l’appartenenza alla tribù di Levi, una delle dodici tribù d’Israele, dalla quale provenivano Mosè ed Aronne. I sacerdoti erano coloro che interpretavano la volontà di Dio lanciando urim e tummin, che erano due pietre, che custodivano nel pettorale, e rappresentavano uno l’innocenza e l’altro la colpa; oltre al resto, insegnavano la Legge e si dedicavano al servizio del tempio. Quella dei sacerdoti era un’organizzazione gerarchica ed ereditaria, all’interno della quale solo il sommo sacerdote, rappresentante della linea primogenita, poteva entrare una volta l’anno, durante il giorno dell’espiazione (Yom kippur), nel luogo più santo del tempio, sancta sanctorum, dove si credeva che vi fosse la presenza di Dio. Nel Nuovo Testamento, invece, ogni sacerdozio particolare viene abolito con l’avvento di Gesù Cristo, che è il grande sommo sacerdote. Con Gesù ci troviamo di fronte ad un nuovo modello di sommo sacerdote, un modello, sin dall’inizio inusuale, dato che Gesù apparteneva alla tribù di Giuda e non a quella di Levi, dalla quale provenivano gli altri sacerdoti.
Il brano inizia con una forte esortazione: “poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Sebbene il sacerdozio di Cristo sia stato consumato sulla croce esso continua a esercitarsi ancora oggi nei “cieli”, dove Egli è penetrato con la sua morte cruenta e ormai siede alla destra di Dio.
All’esortazione iniziale fa seguito una frase esemplificativa sul sacerdozio di Cristo: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato”. La grandezza del sacerdozio di Cristo non esclude, anzi esige che egli sia solidale con la famiglia umana, che rappresenta davanti a Dio: egli infatti è “uomo” in mezzo agli uomini e perciò è capace di comprendere fino in fondo i loro limiti e i loro peccati. Precedentemente l’autore aveva detto che Gesù, “proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.”(2,18).
La solidarietà di Gesù con l’umanità ha però un limite: egli è simile in tutto alla condizione umana “escluso il peccato”.
Si afferma così la perfetta santità di Cristo, che esclude ogni sua partecipazione alla comune situazione di peccato. In realtà questa prerogativa non diminuisce la sua solidarietà con gli uomini, anzi rappresenta la condizione indispensabile perché Egli possa effettivamente andare loro incontro e salvarli. Un peccatore infatti ha bisogno prima di tutto di essere lui stesso salvato: solo chi è santo può salvare gli altri!
L’autore conclude con una nuova esortazione: ”Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.
L’invito iniziale a mantenere salda la professione di fede viene qui ripreso, dopo lo sviluppo riguardante la compassione di Gesù, sotto forma di richiamo ad accostarsi con piena fiducia al “trono della grazia”, cioè alla presenza del Dio misericordioso.
Dopo che Cristo “è passato attraverso i cieli”, Dio non deve essere più ricercato in un santuario terreno, ma proprio là dove Egli si trova, cioè nel Suo santuario celeste. In forza della mediazione di Cristo i credenti devono ormai sentirsi sicuri che Dio non negherà loro la salvezza e l’aiuto necessario tutte le volte che ne avranno bisogno.
Gesù dunque è il grande sommo sacerdote che soffre insieme a noi per le nostre debolezze, i nostri peccati, Egli è il nuovo grande sommo sacerdote che non se ne sta rinchiuso nel luogo santissimo “sancta sanctorum”, ma che è in mezzo a noi, che patisce con noi la fame, la sete, l’emarginazione; un Gesù che possiamo scorgere nel volto sofferente di ogni creatura.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Mc 10,35-45

Questo brano del vangelo di Marco, che è l’unico che fa seguito al terzo annunzio della passione, morte e risurrezione di Gesù, affronta il tema dei primi posti nel regno di Dio. Il racconto inizia riportando che i fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, due discepoli della prima ora, si fanno avanti e chiedono a Gesù: “Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra»”.
Ciò che essi chiedono a Gesù è una posizione alquanto di privilegio rispetto agli altri discepoli. Essi lo chiedono non subito, ma al momento della gloria di Gesù, cioè quando egli, in quanto Messia, avrà sconfitto i suoi nemici e instaurato il regno di Dio. La pretesa dei due discepoli si comprende nel contesto storico di Gesù: essi condividevano ancora l’attesa di un Messia glorioso e potente, che avrebbe instaurato il regno di Dio vincendo i suoi nemici e distribuendo i posti di comando ai suoi seguaci più fedeli. Probabilmente la richiesta dei due discepoli è sembrata sconveniente a Matteo, che l’ha attribuita non ai due interessati, ma alla loro madre (v. Mt 20,20), mentre Luca evita persino di citare questo episodio.
Gesù risponde loro: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato”. Il calice simboleggia il destino di sofferenza che lo attende, mentre il battesimo significa l’immersione in una prova molto dolorosa. In altre parole Gesù chiede ai due discepoli se sono disposti a condividere la sua passione e la sua morte da lui appena preannunziate. Essi rispondono affermativamente, dimostrando così che, nonostante le loro ambizioni, sono legati al Maestro da una profonda amicizia, da renderli disponibili a condividere le sofferenze che, essi pensano, siano connesse con la lotta, forse anche militare, per attuare il regno di Dio.
Gesù non rifiuta la disponibilità dei due discepoli, ma è chiaro e tassativo sulle loro pretese: “Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”.
Certo, essi parteciperanno fino in fondo alla sua esperienza di dolore e di morte, ma quanto ai primi posti, essi dipendono da Dio, che li darà a chi vuole. In altre parole i suoi discepoli non devono avere preoccupazioni per i primi posti o di onori speciali, ma limitarsi ad essere solidali con lui fino alla fine. Se dunque il discepolo partecipa veramente all’esperienza del suo Maestro, lo aspettano non certo trionfi e primi posti, ma sofferenza e morte. Alla fine però potrà partecipare alla sua gloria, non per merito suo, bensì per un dono gratuito da parte di Dio.
Gli altri discepoli, avendo sentito la richiesta di Giacomo e Giovanni protestano contro di loro. Rendendosi conto di queste proteste, Gesù chiama a sé i suoi discepoli e dice loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”.
Con queste parole Gesù non si riferisce più al momento della gloria, cioè della venuta finale del regno di Dio, ma descrive l’esercizio dell’autorità nel gruppo dei discepoli e di riflesso nella comunità cristiana, mettendolo in contrasto con quanto avviene in questo mondo. I governanti delle nazioni, o almeno coloro che sono considerati come tali, “le dominano”, e i loro capi “le opprimono”, infatti anche nella società attuale coloro che detengono il potere lo usano per lo più a proprio vantaggio, sfruttando e utilizzando gli altri per i propri scopi egoistici. Tra i discepoli (o chi si professa cristiano) invece ciò non deve accadere, ma al contrario chi vuol diventare grande o essere il primo, deve farsi “servitore” o perfino “schiavo di tutti”.
I discepoli devono prendere perciò come modello lo stesso Gesù perchè: “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Gesù attribuendosi l’appellativo di Figlio dell’uomo non pensa certamente alla figura gloriosa preannunziata dal profeta Daniele (Dn 7), ma si riferisce a se stesso in quanto partecipe dei limiti propri di ogni uomo, con il quale egli stabilisce un legame di profonda solidarietà. Questa si manifesta nel fatto che egli è venuto non “per farsi servire “, ma per “servire” e per dare la sua vita, cioè tutto se stesso, “in riscatto per molti”.
Per concludere si può dire che tutte le volte che il “discepolo”, sul quale incombe un incarico o una responsabilità, si trasforma in un capo orgoglioso ed egoista, egli distrugge la Chiesa di Dio, riducendola ad un’organizzazione sociopolitica. Cristo, invece, è in mezzo agli uomini come un servo, pronto a compiere quel gesto che nell’antico Israele non poteva essere imposto neppure ad uno schiavo, il lavare i piedi ad un’altra persona: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi." (Gv 13,14-15)


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“Le Letture bibliche ci presentano oggi il tema del servizio e ci chiamano a seguire Gesù nella via dell’umiltà e della croce.
Il profeta Isaia delinea la figura del Servo di Jahwé e la sua missione di salvezza. Si tratta di un personaggio che non vanta genealogie illustri, è disprezzato, evitato da tutti, esperto nel soffrire. Uno a cui non attribuiscono imprese grandiose, né celebri discorsi, ma che porta a compimento il piano di Dio attraverso una presenza umile e silenziosa e attraverso il proprio patire. La sua missione, infatti, si realizza mediante la sofferenza, che gli permette di comprendere i sofferenti, di portare il fardello delle colpe altrui e di espiarle. L’emarginazione e la sofferenza del Servo del Signore, protratte fino alla morte, si rivelano feconde, al punto tale da riscattare e salvare le moltitudini.
Gesù è il Servo del Signore: la sua vita e la sua morte, interamente nella forma del servizio (cfr Fil 2,7), sono state causa della nostra salvezza e della riconciliazione dell’umanità con Dio. Il kerigma, cuore del Vangelo, attesta che nella sua morte e risurrezione si sono adempiute le profezie del Servo del Signore. Il racconto di san Marco descrive la scena di Gesù alle prese con i discepoli Giacomo e Giovanni, i quali – supportati dalla madre – volevano sedere alla sua destra e alla sua sinistra nel regno di Dio, rivendicando posti d’onore, secondo una loro visione gerarchica del regno stesso. La prospettiva in cui si muovono risulta ancora inquinata da sogni di realizzazione terrena. Gesù allora dà un primo “scossone” a quelle convinzioni dei discepoli chiamando il suo cammino su questa terra: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete … ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra, non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato.
Con l’immagine del calice, Egli assicura ai due la possibilità di essere associati fino in fondo al suo destino di sofferenza, senza tuttavia garantire i posti d’onore ambiti. La sua risposta è un invito a seguirlo sulla via dell’amore e del servizio, respingendo la tentazione mondana di voler primeggiare e comandare sugli altri.
Di fronte a gente che briga per ottenere il potere e il successo, per farsi vedere, di fronte a gente che vuole siano riconosciuti i propri meriti, i propri lavori, i discepoli sono chiamati a fare il contrario. Pertanto li ammonisce: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore». Con queste parole indica il servizio quale stile dell’autorità nella comunità cristiana. Chi serve gli altri ed è realmente senza prestigio esercita la vera autorità nella Chiesa. Gesù ci invita a cambiare mentalità e a passare dalla bramosia del potere alla gioia di scomparire e servire; a sradicare l’istinto del dominio sugli altri ed esercitare la virtù dell’umiltà.
E dopo aver presentato un modello da non imitare, offre sé stesso quale ideale a cui riferirsi. Nell’atteggiamento del Maestro la comunità troverà la motivazione della nuova prospettiva di vita: «Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Nella tradizione biblica il Figlio dell’uomo è colui che riceve da Dio «potere, gloria e regno» (Dn 7,14). Gesù riempie di nuovo senso questa immagine e precisa che Egli ha il potere in quanto servo, la gloria in quanto capace di abbassamento, l’autorità regale in quanto disponibile al totale dono della vita. È infatti con la sua passione e morte che Egli conquista l’ultimo posto, raggiunge il massimo di grandezza nel servizio, e ne fa dono alla sua Chiesa.
C’è incompatibilità tra un modo di concepire il potere secondo criteri mondani e l’umile servizio che dovrebbe caratterizzare l’autorità secondo l’insegnamento e l’esempio di Gesù. Incompatibilità tra ambizioni, arrivismi e sequela di Cristo; incompatibilità tra onori, successo, fama, trionfi terreni e la logica di Cristo crocifisso. C’è invece compatibilità tra Gesù “esperto nel patire” e la nostra sofferenza. Ce lo ricorda la Lettera agli Ebrei, che presenta Cristo come il sommo sacerdote che condivide in tutto la nostra condizione umana, eccetto il peccato: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato». Gesù esercita essenzialmente un sacerdozio di misericordia e di compassione. Egli ha fatto l’esperienza diretta delle nostre difficoltà, conosce dall’interno la nostra condizione umana; il non aver sperimentato il peccato non gli impedisce di capire i peccatori. La sua gloria non è quella dell’ambizione o della sete di dominio, ma è la gloria di amare gli uomini, assumere e condividere la loro debolezza e offrire loro la grazia che risana, accompagnarli con tenerezza infinita, accompagnarli nel loro tribolato cammino.
Ognuno di noi, in quanto battezzato, partecipa per parte propria al sacerdozio di Cristo; i fedeli laici al sacerdozio comune, i sacerdoti al sacerdozio ministeriale. Pertanto, tutti possiamo ricevere la carità che promana dal suo Cuore aperto, sia per noi stessi sia per gli altri: diventando “canali” del suo amore, della sua compassione, specialmente verso quanti sono nel dolore, nell’angoscia, nello scoraggiamento e nella solitudine.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia di Papa Francesco del 18 ottobre 2015

1 Nota: Il termine “sacrificio di riparazione” nell’originale ebraico indica sacrificio offerto per togliere un peccato con cui erano stati lesi i diritti di una persona (V. Lv 5,14-19): la morte del Servo viene dunque compresa come un gesto sacrificale, il cui scopo è quello di eliminare i peccati del popolo. Si deve tener presente che nei sacrifici la vittima non era punita al posto del peccatore, ma veniva immolata perché il suo sangue servisse come strumento di riconciliazione con Dio (V. Lv 17,11). La lunga vita promessa al Servo dopo la sua morte indica il successo del suo sacrificio e la rinascita del popolo. Per mezzo suo infatti si compie la volontà di Dio, cioè la conversione del popolo e il suo ritorno nella terra promessa.

2 Il termine “riscatto” indica il prezzo con cui veniva liberato uno schiavo: nel linguaggio biblico indica invece l’azione con cui Dio acquista per sé il suo popolo liberandolo dall’Egitto, dove era tenuto come schiavo, senza però dover pagare alcun prezzo. Il termine «molti», usato più volte in Is 53, indica non alcuni a preferenza di altri, ma la moltitudine in senso inclusivo, quindi «tutti».
Il servizio di Gesù consiste dunque nel riaggregare e nel liberare non solo il popolo di Israele, ma tutta l’umanità, impegnandosi per essa fino alla morte.

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica affrontano il tema del matrimonio, l’unione dell’uomo con la donna, che affonda le radici nel mistero dell’amore di Dio Creatore e Redentore.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, l’autore sacro insegna con un linguaggio simbolico che Dio ha creato l’uomo e la donna parchè costituiscano nel matrimonio un’unione indissolubile, con uguali diritti e doveri.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, afferma che Cristo Gesù “coronato di gloria e di onore” è insieme Figlio di Dio e vero uomo, nostro fratello. Egli ci ha salvato con la sua morte in croce per renderci tutti partecipi della Sua gloria.
Nel Vangelo di Marco, le frasi forti di Gesù risuonano più come appelli che come comando. Non annunciano solo un codice morale di comportamento in cui non è ammesso il divorzio, ma vogliono evidenziare i segni del tempo ultimo, del Regno di Dio che è proclamato da uno stile di fedeltà, di purezza, di accoglienza. E’ come se Gesù proponesse un superamento delle norme del tempo, per vivere già con lo spirito dell’eternità. Infatti, la elegge di Mosè ammetteva il ripudio, ma Gesù oppone a questa norma umana il piano eterno di Dio, citando il racconto della Genesi in cui l’unione di Cristo con la Chiesa, e in esso emerge la somiglianza dell’umanità con Dio che l’ha creata a Sua immagine: l’immagine dell’amore e dell’unità.

Dal libro della Genesi
Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.
Gn 2,18-24

Il libro della Genesi è il primo libro della Bibbia e il primo del Pentateuco (i cinque libri raccolti in un unico rotolo: La Torà). E’ stato scritto in ebraico e si pensa composto nell'arco di tempo che intercorre tra Salomone ed Ezechia (950-680 a.C) sebbene la tradizione ebraica e varie confessioni religiose cristiane, ritengono persino che sarebbe stato scritto da Mosè in persona nel deserto, ma è solo pura immaginazione. Nei primi 11, dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica"(creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe), le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700 a.C.). Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano, l’autore di tradizione jahvista, lo apre con il bellissimo brano della creazione della donna: il creato, meraviglioso e perfetto nella sua creazione è stato donato da Dio all'uomo per la sua felicità, ma l'uomo non riusciva ad essere felice. Dio allora rivede quello che aveva fatto e disse: “«Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo”. E quando l'uomo la vide finalmente poté esclamare: “«Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta».”
Il racconto termina con la frase: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.” Infatti l'uomo e la donna lasciano i propri genitori per aderire l'uno all'altra perché Dio ha voluto partner uguali e complementari, chiamati a formare una cosa sola.
Il simbolismo della costola, la figura insostituibile della donna, la complementarietà dei due sessi, qui celebrate con lo stupore dell’uomo innamorato che eleva al cielo il primo ed eterno canto d’amore: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” hanno come scopo di sottolineare l’uguaglianza tra i due esseri e il fine per cui Dio li ha creati: l’amore. E’ per amore che essi abbandoneranno la loro casa per formare una sola carne, cioè un solo essere, e per donare, con Dio, la vita.
Nota: Nel Pentateuco si rilevano tre tradizioni compositive: quella jahvista, quella elohista e quella sacerdotale. La tradizione jahvista ebbe origine nella Giudea, mentre quella elohista nel nord della Palestina. Le due tradizioni convergono sostanzialmente sulla stessa storia, della tradizione jahvista ed elohista fanno parte del disegno divino di giungere al testo biblico e vanno considerate come ispirate. Le due tradizioni cominciarono a confluire in un unico patrimonio al tempo della costruzione del tempio di Salomone, centro religioso fondamentale sia del regno di Giuda che del regno di Israele (il regno del Nord). L’unificazione delle tradizioni jahvista ed elohista fu opera della tradizione sacerdotale.

Salmo 127 Ci benedica il Signore tutti i giorni della nostra vita.
Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.

La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.

Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.

Il salmo ammonisce che senza il Signore non è possibile la sicurezza e il benessere: “Se il Signore non costruisce...”.
Si costruiscono case, le mura delle città sono custodite da armati, ferve il lavoro nei campi, ma manca un vivo orientamento a Dio.
Si lavora intensamente, con affanno, per avere ricchezza, ma Dio ne darebbe senza tutto quell'affannarsi, se si fosse uniti a lui: Al suo prediletto egli lo darà nel sonno”.
L'affanno per la ricchezza porta a diminuire il tempo dato ai figli per formarli. Essi sono dono di Dio, e perciò dono che va amato, rispettato, accudito, fatto fiorire. “I figli avuti in giovinezza” il padre li può formare, unitamente alla madre, con tutto se stesso, con la piena vivacità delle sue forze, e si troverà ad essere giovane coi figli giovani, senza pesante salto d'età.
L'avara soluzione di diminuirne il numero dei figli non solo va contro l'interesse di una comunità (Il salmo guarda alla ripopolazione della Palestina dopo il ritorno dall'esilio a Babilonia), ma anche contro quello individuale; infatti i numerosi figli avuti nella giovinezza sono poi la sicurezza del padre: “Non dovrà vergognarsi quando verrà alla porta a trattare con i propri nemici”. I “propri nemici” non potranno sgretolarne il morale facendolo sentire solo, senza appoggio, e chi lo attacca non potrà rimproveralo di non avere saputo dare vigore, forza, ideale, ai propri figli.
Il salmo a noi uomini del terzo millennio ci dice che i figli sono dono di Dio, sono un talento che va fatto fruttificare con ogni cura. I figli non basta vestirli, scaldarli, nutrirli e mandarli a scuola, per poi parcheggiarli davanti al televisore e ai giochi. E non ci si può sentire a posto di fonte ai figli adolescenti per aver dato loro una buona cifretta da spendere con gli amici, secondo disegni liberamente elaborati tra di loro.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.
Eb 2,9-11

L’ autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravvivare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
Questo brano, tratto dalla prima parte della lettera, inizia affermando: “quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti”.
Gesù in quanto uomo rispetto agli angeli è di poco inferiore, ma in quanto uomo, realizza la vera vocazione dell'uomo, superandone i limiti e il peccato. Lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. L'amore di Gesù si afferma in tutta la sua potenza nella sofferenza. Cristo scelse l'obbedienza a Dio attraverso l'amore per gli uomini, conquistandoli
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza”.
Conveniva, ossia era proprio necessario, che Dio facesse passare attraverso la sofferenza il proprio Figlio, e questa sofferenza lo ha portato ad essere perfetto. La perfezione che l'uomo non ha potuto raggiungere con le sue forze, la raggiunge Cristo. Non si tratta solo di una perfezione morale, bensì di tutto il Suo essere, e proviene da una forte comunione con il Padre. Gesù è stato capace di compiere fino in fondo la Sua missione ed è diventato il capo che guida l'umanità alla salvezza.
Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli”.
Dio conduce molti figli alla gloria. Il primo è Gesù, ma poi seguono tutti gli altri sulla via da Lui tracciata. Tutti provengono da Dio e a Dio ritornano. Ecco perché veniamo chiamati fratelli. Nonostante le nostre infedeltà, le nostre imperfezioni abbiamo un futuro, una meta di santità verso cui guardare.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?».
Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono.
Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
Mc 10,2-16

In questo brano l'evangelista Marco ci presenta Gesù mentre si reca nel territorio della Giudea oltre il Giordano, fuori perciò dalla Palestina, nella regione ad oriente del Giordano ( La Perea). E’ circondato da una grande folla composta da gente comune, ma anche da quei farisei che, non certo per trarre beneficio dal Suo insegnamento, vogliono solo fargli domande-trabocchetto nel tentativo di coglierlo in fallo.
I farisei si presentano dunque a Gesù con il chiaro intento di metterlo alla prova e gli “domandavamo se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie”.
Secondo la legislazione mosaica era lecito al marito (e a lui soltanto) allontanare la propria moglie nel caso avesse trovato in lei “qualcosa di vergognoso”; egli però doveva darle un documento di divorzio (Dt 24,1-4), in modo che essa poteva unirsi a un altro uomo senza essere considerata adultera.
Per tutta risposta Gesù chiede: “Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Ed essi rispondono: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla”.
Chiaramente la loro risposta si basa su quanto prescrive il Deuteronomio sul divorzio (c.24) . Gesù allora soggiunge: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma”. Questa disposizione non è dunque da Dio, ma da Mosè, il quale ha permesso ciò non per sua libera decisione, ma “per la durezza del loro cuore” cioè per adattarsi alla mancanza di amore in cui l’uomo è venuto a trovarsi a causa del peccato (v. Ez 36,26). Poi dà la sua spiegazione: “Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola”.
Dio ha creato l’uomo e la donna come due esseri uguali e complementari e li ha chiamati ad unirsi in modo talmente completo da formare quasi un’unica persona (carne) (Gen 2,24).
Da queste citazioni della Torah Gesù dà questa conclusione: “Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. In tal modo Egli sottolinea che, in realtà, secondo il piano originario di Dio, l’uomo e la donna sono chiamati a raggiungere nel matrimonio un’unione totale. Perciò conclude che l’uomo non può separare ciò che Dio ha unito in un modo così perfetto. Secondo il piano divino il matrimonio è dunque indissolubile, e nessuno può separare coloro che sono stati uniti in questo modo.
L’evangelista poi nota che “A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento”, e Gesù precisa: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”.
Vengono così sottolineate due cose: anzitutto l’uomo commette adulterio verso la propria moglie solo se, dopo averla ripudiata, si risposa. Il brano vuole quindi far passare l’idea secondo cui non è tanto la separazione che conta, quanto piuttosto un secondo matrimonio della persona divorziata: solo facendo questo passo uno reca offesa al vincolo precedente; quindi se da una parte si riafferma la legalità del vincolo, dall’altra si accetta, in contrasto con quanto era stato detto prima, che due coniugi possono separarsi se la loro unione per un grave motivo non funziona. Si afferma anche che la stessa regola vale sia per l’uomo che per la donna. Uomo e donna sono su un piano di parità: questa precisazione era opportuna in una società, come quella romana, in cui anche le donne avevano la facoltà di divorziare.
Dopo la discussione sul divorzio l’evangelista racconta che a Gesù “presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono”. Ma Gesù interviene affinché i discepoli non impediscano ai bambini di andare da lui e afferma “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”
L’episodio dei bambini – a proposito dei quali è solo Marco ad annotare l’affetto umano di Gesù:”Lasciate che i bambini vengano a me…” evidenzia una completa divergenza tra Gesù e i discepoli nell'idea che si erano fatti della Sua missione.
I Suoi discepoli devono ancora imparare che il regno di Dio non è in mano alle persone che contano, che le preferenze di Dio sono rivolte a coloro che sono considerati insignificanti, che non hanno cioè valore giuridico, come i bambini, a coloro che sanno attendere e accogliere tutto da Lui, senza pretese, alla maniera dei piccoli. La reazione severa di Gesù, dà ragione alla spontaneità dei bambini e dei loro genitori e torto alla limitatezza dei discepoli.

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“La liturgia di questa domenica ripropone il testo fondamentale del Libro della Genesi sulla complementarietà e reciprocità tra uomo e donna (cfr Gen 2,18-24). Per questo – dice la Bibbia – l’uomo lascia suo padre e sua madre e si unisce a sua moglie e i due diventano una sola carne, cioè una sola vita, una sola esistenza (cfr v. 24). In tale unità i coniugi trasmettono la vita ai nuovi esseri umani: diventano genitori. Partecipano della potenza creatrice di Dio stesso.
Ma attenzione! Dio è amore, e si partecipa alla sua opera quando si ama con Lui e come Lui. A tale scopo – dice san Paolo – l’amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (cfr Rm 5,5). E questo è anche l’amore che viene donato agli sposi nel Sacramento del matrimonio. E’ l’amore che alimenta il loro rapporto, attraverso gioie e dolori, momenti sereni e difficili. E’ l’amore che suscita il desiderio di generare i figli, di attenderli, accoglierli, allevarli, educarli. E’ lo stesso amore che, nel Vangelo di oggi, Gesù manifesta ai bambini: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio» (Mc 10,14).
Oggi chiediamo al Signore che tutti i genitori e gli educatori del mondo, come anche l’intera società, si facciano strumenti di quell’accoglienza e di quell’amore con cui Gesù abbraccia i più piccoli. Egli guarda nei loro cuori con la tenerezza e la sollecitudine di un padre e al tempo stesso di una madre. Penso a tanti bambini affamati, abbandonati, sfruttati, costretti alla guerra, rifiutati. E’ doloroso vedere le immagini di bambini infelici, con lo sguardo smarrito, che scappano da povertà e conflitti, bussano alle nostre porte e ai nostri cuori implorando aiuto. Il Signore ci aiuti a non essere società-fortezza, ma società-famiglia, capaci di accogliere, con regole adeguate, ma accogliere, accogliere sempre, con amore!”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 4 ottobre 2015

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a farci comprendere che Dio è essenzialmente libero nel concedere i Suoi doni, Egli agisce al di fuori dei nostri schemi mentali (altrimenti non sarebbe Dio) e delle strutture consacrate, concedendo i suoi doni a chi vuole e come vuole.
Nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri, Giosuè va da Mosè per informarlo che due uomini, che non appartengono alla classe sacra dei 70 responsabili d’Israele, si sono messi a profetizzare, pervasi dallo spirito di Dio. Ma Mosè, nel commentare “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore…” riconosce l’importanza della docilità allo Spirito di Dio, che soffia dove vuole, come vuole e su chi vuole…”
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo avverte con fermezza i ricchi che dovranno subire il giudizio di Dio, in special modo se i beni sono ottenuti dallo sfruttamento dei lavoratori.
Nel Vangelo di Marco, Gesù replica a Giovanni, che gli riferiva che qualcuno a suo nome scacciava i demoni, di non impedirglielo… perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Ciò vuol dire che tutti coloro che non scelgono il male, ma si consacrano al bene e alla promozione umana e spirituale dell’uomo, qualunque sia la loro sigla o la loro bandiera, sono già al fianco di Cristo. Gesù dà poi una serie di istruzioni sulla fedeltà del discepolo, pronto a tagliare via tutto ciò che può impedirgli di essere un vero cristiano. Ci sono espressioni volutamente forti, proprio per indicare la decisione unica per Cristo, davanti al quale tutto perde di importanza.
L’autentico apostolo deve provare sentimenti di gioia per il bene che è seminato in ogni uomo, in ogni cultura e razza, perchè è convinto del valore del pluralismo e del dialogo. La tentazione settaria che vuole monopolizzare Dio, in un gruppo è anche una degenerazione della fede, anche se si illude di conservarne la purezza.

Dal libro dei Numeri
In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento.
Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».
Nm 11,25-29

Il libro dei Numeri, il quarto libro della Bibbia, è stato scritto in ebraico e, secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. La tradizione ebraica e varie confessioni religiose cristiane, ritengono persino che sarebbe stato scritto da Mosè in persona, ma la maggioranza degli esegeti moderni ritiene che tutto il Pentateuco sia in realtà una raccolta, formatasi in epoca post-esilica, di vari scritti di epoche diverse. “Numeri” è il titolo che l'antica traduzione greca ha dato a questo libro perchè contiene elenchi e censimenti degli Israeliti in cammino verso la "Terra promessa". È composto da 36 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.). Infatti molti eventi del Libro avvengono nel deserto, principalmente tra il secondo ed il quarantesimo anno del vagabondare degli Israeliti. I primi 25 capitoli riportano le esperienze della prima generazione d’Israele nel deserto, mentre il resto del libro descrive le esperienze della seconda generazione.
Il brano inizia narrando che Dio ancora una volta parla a Mosè e “tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito.” Lo spirito qui è visto come un’azione più o meno permanente di Dio sul soggetto scelto; un’azione che trasforma l’uomo in profeta, anche se in tempo limitato. Lo spirito che è su Mosè passa sui settanta; essi dunque partecipano del dono di Mosè, ma in grado subordinato perchè non lo fecero più in seguito. Il testo prosegue precisando: “Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento.”
I due uomini che non erano andati alla tenda del convegno, ma erano scritti nella lista, si misero dunque anch’essi a profetare. Giosuè viene informato da un giovane che due uomini qualsiasi, senza appartenere alla classe sacra dei 70 responsabili d’Israele e senza avere investiture ufficiali si sono messi a profetizzare, pervasi dallo Spirito di Dio.
Giosuè preoccupato, chiede «Mosè, mio signore, impediscili!». La risposta di Mosè centra subito la “gelosia” e il potere egoistico che è tipico di tutte le sètte e i movimenti integralistici: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!». Nessuna istituzione, benché di origine divina, può impedire dunque allo Spirito di soffiare dove vuole e come vuole.
Riferendosi a questo episodio la Chiesa definisce locuzione interiore il rapporto che nasce tra il cuore dell'uomo e l'ascolto della parola di Dio. È di fondamentale importanza il silenzio interiore per arrivare a questa realtà.
Il teologo A.Tanquerey definisce il fenomeno cosi: "la locuzione interiore è una manifestazione divina sotto forma di parola intesa dai sensi esterni ed interni o direttamente dall'intelletto umano. Esse sono parole o di Gesù o della Madonna o dello Spirito Santo chiarissime, avvertite dalla persona che le riceve come se nascessero dal cuore, e che, collegate fra loro, formano un messaggio“.

Salmo 18 - I precetti del Signore fanno gioire il cuore.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Anche dall’orgoglio salva il tuo servo
perché su di me non abbia potere;
allora sarò irreprensibile,
sarò puro da grave peccato.

Il salmista si esprime considerando, in stato di riflessione laudante, la grandezza, la potenza, la bellezza dei cieli, della volta stellata...
Il Creatore dell’universo ha stretto alleanza con il suo popolo dando una legge che è perfetta, perché non può ricevere appunti, e che rinfranca il cuore liberandolo dalle tenebre dell’ingiustizia. Questa legge d’amore è portata al suo vertice dal Cristo che la stampa nel cuore dei suoi dando loro lo Spirito Santo.
La legge, portata a compimento da Cristo, è la testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini. Tale testimonianza, che è stata sigillata dal sangue di Cristo, non delude. Essa è verace, luminosa, e rende saggio colui che non si presenta a Dio col vizio di pensieri oscuri.
Il salmista ha sperimentato nella sua vita quanto sia giusta la legge del Signore, tanto che fa gioire il cuore.
La legge, i suoi comandi, sono limpidi, perché non oscurano gli occhi portandoli a veder in modo malvagio le cose, ma li liberano dalle oscurità per dare loro la capacità di un luminoso vedere la bellezza delle cose,che inneggiano al Creatore e servono l’uomo.
“Il timore del Signore è puro”, perché non è come quello di chi teme la punizione perché colpevole, ma è il timore puro di chi teme di giungere a rattristare Dio con la disobbedienza alla legge d’amore verso lui e verso gli altri.
Il salmista comincia a focalizzarsi sull’effetto della legge su di lui; di lui che è piccolo, ma che è istruito dai giudizi di Dio, che sono contenuti nella legge, poiché Dio giudica gli uomini con quella legge.
Il salmista è consapevole di avere tante mancanze di cui non si rende pienamente conto: le “inavvertenze”. Di queste chiede a Dio perdono. Egli, infatti, anche se osserva la legge non reputa per niente di osservarla perfettamente e sa che sta nell’orgoglio la ragione di una scarsa osservanza. Orgoglio che se non dominato conduce l’uomo al grande peccato, cioè al peccato di una grande e palese disobbedienza alla legge.
Commento tratto da “Il Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni
Ecco il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza.
Gc 5,1-6

Questo brano tratto dal capitolo 5 della lettera di Giacomo ci stupisce perchè ha espressioni violente, che troviamo sin dal primo versetto: “Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco…“ Il linguaggio che viene usato ricorda quello degli antichi profeti, quando si scagliavano contro i misfatti della classe dirigente e benestante che angariavano e calpestavano i poveri.
Questa invettiva che Giacomo scaglia contro i ricchi, si riferisce ai loro beni a cui hanno consacrato la loro vita. E’ un linguaggio palesemente metaforico per indicare l’inutilità di questi beni e tutta la loro inconsistenza, poiché tutto ciò che è posto in questa nostra dimensione di spazio-tempo è soggetto ad essere inevitabilmente consumato e distrutto.
Giacomo rimprovera poi il loro comportamento improntato alla più profonda malvagità e superficialità del vivere defraudando i lavoratori del loro giusto salario, condannando e uccidendo così il giusto, che non è nella condizione di opporre loro resistenza.
Possiamo però anche dire che i destinatari non sono solo i cosiddetti ricchi, perchè se ci pensiamo bene, tutti noi, quando siamo smaniosi di “avere”, di “possedere”, teniamo in gran conto le nostre ricchezze (tante o poche che siano) come il bene principale, il tesoro della nostra vita: un tesoro che ci costa fatica volerlo condividere con gli altri. La linea di confine tra ricchi e poveri non passa attraverso le differenze sociologiche, perchè ci sono (e ci sono sempre stati, anche ai tempi di Gesù) ricchi dal cuore aperto a condividere tutto, veramente poveri nello spirito, ma anche poveri sulla carta, che sono smaniosi di possesso e che, ottenuto qualche bene di fortuna, o qualche eredità, sono del tutto recalcitranti ad aiutare gli altri.
Come deve comportarsi il vero cristiano? La parabola dell’uomo ricco che Gesù aveva raccontato è quanto mai efficace. Questo uomo ricco, aveva fatto un raccolto così grande che la sua preoccupazione era solo di ingrandire i magazzini per poterci raccogliere meglio tutti i suoi beni “Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio” Lc 12,20
Ricordiamoci che siamo solo amministratori dei nostri beni e non possessori, che tutto ci è stato dato in prestito, anche la vita, che dobbiamo restituire al nostro Creatore, con i talenti che ci ha dato, messi a frutto.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
Mc 9.38-43,45,47-48

Anche questo brano del Vangelo di Marco, fa parte della raccolta che l’Evangelista ha inserito dopo il secondo dei tre annunzi di Gesù della Sua morte e risurrezione.
Ci troviamo a Cafarnao, nella casa in cui Gesù è giunto con i suoi discepoli, e Giovanni riferisce a Gesù un fatto capitato poco prima: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Giovanni è il figlio di Zebedeo, uno dei primi quattro che Gesù ha scelto (V. Mc 1,19). Con suo fratello Giacomo si distingue dagli altri per la sua ambizione e per la sua passione, che gli ha guadagnato il titolo di “figlio del tuono” (3,17; cfr. Lc 9,54-55). Questa è l’unica volta in cui egli parla a nome di tutto il gruppo dei discepoli.
La pratica di scacciare i demoni nel nome di un personaggio particolarmente autorevole era consueto nel giudaismo. Non sorprende quindi il fatto che certi esorcisti, pur non essendo della cerchia di Gesù, si servissero del suo nome per le loro pratiche: un episodio simile capitò anche a Paolo mentre si trovava a Efeso (V. At 19,13).
Giovanni dunque intende impedire l’attività dell’uomo perché, dice, “non ci seguiva” cioè non era membro del loro gruppo. Questo è l’unico punto nel NT in cui si parla di seguire non Gesù, ma il gruppo dei discepoli, per cui è possibile che questa espressione faccia parti del linguaggio della prima comunità cristiana, nella quale era forte la tendenza a sentirsi depositaria esclusiva del nome di Gesù e dei suoi poteri soprannaturali.
Il racconto è collegato al noto episodio riportato dal Libro dei Numeri, che la Liturgia ce lo propone nella prima lettura, e come Mosè, anche Gesù respinge la richiesta che gli è stata fatta: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi”.
Secondo Marco, Gesù manifesta la convinzione che l’annunzio del regno viene fatto non solo per mezzo dei suoi discepoli, ma anche di coloro che, pur non appartenendo al loro gruppo, sono in sintonia con il suo insegnamento.
Viene poi riportato un detto che si colloca sulla stessa linea: “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa” perciò anche senza appartenere al gruppo dei discepoli, è sufficiente un gesto di amicizia e di solidarietà nei loro confronti per ottenere la “ricompensa” a loro riservata. I discepoli non possono quindi pretendere di avere l’esclusiva della salvezza portata dal loro Maestro.
Poi viene riportata un piccola raccolta di detti incentrata sul tema dello scandalo e delle sue conseguenze.

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“Il Vangelo di questa domenica presenta uno di quegli episodi della vita di Cristo che, pur essendo colti, per così dire, en passant, contengono un profondo significato.
Si tratta del fatto che un tale, che non era dei seguaci di Gesù, aveva scacciato dei demoni nel suo nome. L’apostolo Giovanni, giovane e zelante come era, vorrebbe impedirglielo, ma Gesù non lo permette, anzi, prende spunto da quella occasione per insegnare ai suoi discepoli che Dio può operare cose buone e persino prodigiose anche al di fuori della loro cerchia, e che si può collaborare alla causa del Regno di Dio in diversi modi, anche offrendo un semplice bicchiere d’acqua ad un missionario.
Sant’Agostino scrive a proposito: «Come nella Cattolica – cioè nella Chiesa – si può trovare ciò che non è cattolico, così fuori della Cattolica può esservi qualcosa di cattolico» (Agostino, Sul battesimo contro i donatisti: PL 43, VII, 39, 77). Perciò, i membri della Chiesa non devono provare gelosia, ma rallegrarsi se qualcuno esterno alla comunità opera il bene nel nome di Cristo, purché lo faccia con intenzione retta e con rispetto. Anche all’interno della Chiesa stessa, può capitare, a volte, che si faccia fatica a valorizzare e ad apprezzare, in uno spirito di profonda comunione, le cose buone compiute dalle varie realtà ecclesiali. Invece dobbiamo essere tutti e sempre capaci di apprezzarci e stimarci a vicenda, lodando il Signore per l’infinita ‘fantasia’ con cui opera nella Chiesa e nel mondo.
Nella Liturgia odierna risuona anche l’invettiva dell’apostolo Giacomo contri i ricchi disonesti, che ripongono la loro sicurezza nelle ricchezze accumulate a forza di soprusi (Gc 5,1-6). Al riguardo, Cesario di Arles così afferma in un suo discorso: «La ricchezza non può fare del male a un uomo buono, perché la dona con misericordia, così come non può aiutare un uomo cattivo, finché la conserva avidamente o la spreca nella dissipazione» (Sermoni 35, 4). Le parole dell’apostolo Giacomo, mentre mettono in guardia dalla vana bramosia dei beni materiali, costituiscono un forte richiamo ad usarli nella prospettiva della solidarietà e del bene comune, operando sempre con equità e moralità, a tutti i livelli.”
Benedetto XVI Angelus 23 settembre 2012

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Le letture liturgiche di questa domenica ci invitano ad un discernimento e a una scelta: quale sapienza vogliamo abbracciare? Quella del mondo o quella del Vangelo?
Nella prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, l‘autore, nel ragionamento degli empi, nel quale appare chiaro quanto essi sragionino e sbagliano, ci dà, come in controluce, l'identità luminosa del giusto, prefigurazione dell'identità salvifica del Giusto per eccellenza, Gesù di Nazareth.
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo afferma che il vero sapiente è colui che si prodiga per la pace. e che cerca con tutte le proprie forze il Dio che l'ama e a Lui si dona. Lo cerca in semplicità come il Bene supremo da cui derivano tutti gli altri beni.
Nel Vangelo di Marco, troviamo il secondo annuncio della passione. Anche questa volta l’evangelista evidenzia la resistenza da parte dei discepoli nel comprendere la missione di Gesù. Dopo il primo annuncio era stato Pietro ad opporre resistenza, oggi è l’intero gruppo che discute su chi fosse il più grande Mentre Gesù annuncia di farsi servo fino alla Croce, i discepoli desiderano primeggiare!
Gesù ci insegna che non nell’affermazione del potere, ma nell’umile servizio dei fratelli, soprattutto dei piccoli, come i bambini, sta la grandezza del cristiano.

Dal Libro della Sapienza
Dissero gli empi:
«Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo
e si oppone alle nostre azioni;
ci rimprovera le colpe contro la legge
e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta.
Vediamo se le sue parole sono vere,
consideriamo ciò che gli accadrà alla fine.
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto
e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti,
per conoscere la sua mitezza
e saggiare il suo spirito di sopportazione.
Condanniamolo a una morte infamante,
perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
Sap 2,12.17-20

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, (anche allora ci si ricorreva) per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco ed è composto da 19 capitoli con vari detti di genere sapienziale, in particolare con l'esaltazione della Sapienza divina personificata.
L‘autore nel capitolo 2, da dove è tratto il nostro brano, affronta seriamente il problema di che cosa siamo e che cosa rimarrà di noi dopo la morte, ponendo ipotetiche questioni, poi in questo brano, ipotizza il ragionamento degli empi: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta”, in cui appare chiaro quanto essi sragionino e sbagliano. Il motivo del loro odio è la persona stessa del giusto, che con la sua debolezza e mitezza, ma soprattutto, la sua vita condotta in modo diverso, costituisce per loro, da sola, un rimprovero e una condanna. Per questo essi vogliono metterlo alla prova “con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione …”.
In controluce, possiamo intravedere l'identità luminosa del giusto, prefigurazione dell'identità salvifica del Giusto per eccellenza, Gesù di Nazareth.
L’origine del brano è incerta, ma la situazione sembra essere quella dei Giudei rinnegati e dei pagani che, nei territori della diaspora, ostacolano i fedeli all’osservanza della legge.
E’ l’eterna storia dei cattivi che per non avere il minimo ostacolo ai loro misfatti, vogliono allontanare i buoni, con tutti i mezzi, o renderli come loro.

Salmo 53 Il Signore sostiene la mia vita.

Dio, per il tuo nome salvami,
per la tua potenza rendimi giustizia.
Dio, ascolta la mia preghiera,
porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.

Poiché stranieri contro di me sono insorti
e prepotenti insidiano la mia vita;
non pongono Dio davanti ai loro occhi.

Ecco, Dio è il mio aiuto,
il Signore sostiene la mia vita.
Ti offrirò un sacrificio spontaneo,
loderò il tuo nome, Signore, perché è buono.

Il salmo, molto breve, presenta un’invocazione a Dio per la salvezza contro nemici forti e arroganti. Il salmista è perseguitato a morte e chiede l’intervento di Dio: “Per la tua potenza rendimi giustizia”.
C’è nel salmo un’invocazione di maledizione sui nemici che la recitazione cristiana omette perché il cristiano rimette, come Cristo (1Pt 2,23), la sua causa a Dio senza maledire.
Il salmista sperimenta l’aiuto del Signore di fronte alla dura aggressione e promette di offrire a Dio un sacrificio, un olocausto. Un sacrificio non semplicemente rituale, ma ricco di lode al nome di Dio, cioè alla sua grandezza, potenza, fedeltà, bontà, misericordia. Dio è tutto questo ed è riconosciuto nella lode e nel ringraziamento per tutto questo. Il sacrificio che noi possiamo offrire a Dio è il nostro impegno di vita, la nostra penitenza, la quale nasce dal nostro essere in Cristo nell’unione al sacrificio Eucaristico.
Dio ha concesso al salmista, al re, la liberazione dai nemici, che può ormai guardare senza sgomento alcuno dalle mura della città. Il cristiano vince continuando ad amare; guarda dall'alto i suoi aggressori, cioè dalla sua condizione di figlio di Dio che lo fa luce posta sul candelabro della croce, guarda senza astio, né maledizione, ma con amore i suoi oppressori: “Il mio occhio ha guardato dall'alto i miei nemici”.

Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di Padre Paolo Berti

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.
Gc 3,16-4,3

In questo brano della lettera di S. Giacomo, si può dedurre che anche ai suoi tempi, il mondo era segnato da una falsa sapienza che, non essendo quella che "viene dall'alto" (cioè da Dio), irretisce l'uomo portandolo a conseguire beni che hanno funzionalità immediate, ma solo per la vita terrena.
Il brano inizia affermando “dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera.” La sapienza che viene dall’alto dunque “anzitutto è pura”, cioè è esente da inquinamenti terreni. E’ “pacifica”, poiché opera per la pace e non per il disordine. E’ “mite”, cioè rifugge la collera, la polemica fine a se stessa. E’ “arrendevole”, non perché sia portata ai compromessi, ma perché sa accogliere le ragioni giuste degli altri e quindi è accogliente. E’ “piena di misericordia e di buoni frutti”, poiché perdona; va oltre il peccato dell’altro per cercarne il cuore e liberalo dal peccato, e in questo ha tanti “buoni frutti”. E’ “imparziale”, cioè rifiuta i favoritismi. E’ “sincera”, cioè non risiede in un cuore falso.
Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia”.
A chi fa “opera di pace” Dio semina “nella pace”, cioè non in un cuore instabile, un “frutto di giustizia”. Il “frutto di giustizia” è un frutto che nutre l’anima di luce e di vigore. E’ “di giustizia” poiché vive delle promesse di Dio.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra?
Giacomo, dal carattere mite qui sa essere anche irruente, ha un tomo forte, incisivo, eppure ancora dolce. “La ragione profonda dei litigi, delle guerre di vicinato o non, sta nelle passioni che travolgono una natura non guidata dallo spirito.
Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!
Giacomo pensa a coloro che, non ottenendo i risultati desiderati, si scagliano contro chi possiede. L’invidia toglie loro la pace e li spinge a lotte che diventano guerre.
Le comunità cristiane della diaspora giudaica alle quali Giacomo si rivolge avevano perso il vigore iniziale, e non mancavano problemi morali gravi.
Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni“. Costoro, dominati dalle passioni, non riuscendo ad ottenere il soddisfacimento dei loro desideri mondani, non riescono neppure ad ottenere ciò che chiedono a Dio. La loro preghiera risulta infatti viziata nella domanda e nella fede, perché non mossa dall’amore, ma dalla bramosia di cose terrene.
Giacomo in sintesi ci vuole far comprendere che la persona pervasa dalla “sapienza che viene dall’alto” è una persona dal cuore retto, libero da ogni ipocrisia, che cerca con tutte le proprie forze il Dio che l'ama e a Lui si dona. Lo cerca in semplicità come il Bene supremo da cui derivano tutti gli altri beni.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Mc 9, 30-37

Questo brano del Vangelo di Marco, che fa parte della sezione in cui si descrive il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, si apre nel punto in cui viene riportato il secondo annunzio della passione.
L’evangelista inizia cosi il suo racconto: Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
Gesù predice per la seconda volta la Sua morte e risurrezione in una breve apparizione in Galilea, durante la quale cerca di mantenere segreta la Sua presenza. Quanto Gesù dice circa i tragici eventi che lo aspettano è presentato da Marco non come un semplice preannuncio di un evento futuro, ma come un vero e proprio “insegnamento” fatto ai discepoli e per mezzo loro a tutta la Chiesa,
L’espressione “consegnare nelle mani” è di solito usata per indicare l’atto con cui una persona è data in balìa di un potere avverso. Con essa di solito viene descritta la situazione dei giusti perseguitati (V. Ger 26,24), e soprattutto quella del Servo di JHWH (V. Is 53,6.12). Gesù aggiunge che, a seguito di ciò, gli sarà riservata una morte violenta, ma predice nuovamente anche la Sua risurrezione che avverrà dopo tre giorni, Questa predizione, come le altre due, rivela la determinazione con cui Gesù compie le Sue scelte, sapendo a cosa andrà incontro, ma che solo così potrà portare a compimento il Suo progetto.
Al termine l’evangelista sottolinea: “Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo”. Ancora una volta emerge l’incomprensione da parte dei discepoli, i quali non hanno neanche il coraggio di fargli delle domande.
Subito dopo la predizione della Sua morte e risurrezione viene riportato che “Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?»”. Il dialogo tra Gesù e i discepoli ha luogo dunque a Cafarnao, in una casa (si ipotizza quella di Pietro) ed è lì che Gesù chiede ai discepoli di che cosa avevano discusso “lungo la strada”.
La domanda di Gesù è accolta da un silenzio imbarazzato: “Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande”. I discepoli sanno di aver affrontato un tema non certo gradito a Gesù, quello cioè di chi tra loro dovesse essere considerato il primo; i discepoli pensavano ancora di poter ricavare privilegi e gloria dal loro coinvolgimento nel gruppo di Gesù: essi non erano dunque in sintonia con Lui, ma il loro imbarazzo fa percepire che cominciavano a rendersene conto.
Il racconto continua riportando l’atteggiamento di Gesù: “Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Sedendosi, Gesù assume l’atteggiamento tipico del maestro, e si rivolge espressamente ai Dodici, che hanno condiviso con lui la missione.
Anche qui il suo insegnamento è rivolto alla Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e in modo speciale ai suoi capi. In contrasto con quanto essi pensavano, Egli afferma che chi vuole essere primo, deve farsi “ultimo di tutti e il servitore di tutti”.
Il secondo detto viene accompagnato da un gesto simbolico: “E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».”
Il gesto di Gesù è un po‘ sorprendente perchè nell’antico Oriente il bambino non era molto considerato, per cui Gesù provocatoriamente capovolge la normale concezione secondo cui il bambino può essere solo oggetto di educazione da parte dell’adulto, per diventare un soggetto che ha un messaggio prezioso da trasmettere proprio a colui che gli è per età, cultura e maturità, superiore. Questo bambino, diviene così anche l’immagine del vero seguace, cioè l’immagine del discepolo che veramente si mette a servizio degli altri.
Gesù garantisce che dove c’è un individuo che per amore, liberamente e volontariamente, si mette a servizio degli altri, in questa persona si manifesta la Sua presenza e la presenza di Gesù porta quella di Dio stesso.

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“Nel nostro cammino con il Vangelo di san Marco, domenica scorsa siamo entrati nella seconda parte, cioè l’ultimo viaggio verso Gerusalemme e verso il culmine della missione di Gesù. Dopo che Pietro, a nome dei discepoli, ha professato la fede in Lui riconoscendolo come il Messia, Gesù comincia a parlare apertamente di ciò che gli accadrà alla fine. L’Evangelista riporta tre successive predizioni della morte e risurrezione, ai capitoli 8, 9 e 10: in esse Gesù annuncia in modo sempre più chiaro il destino che l’attende e la sua intrinseca necessità. Il brano di questa domenica contiene il secondo di questi annunci.
Gesù dice: «Il Figlio dell’uomo – espressione con cui designa se stesso – viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». I discepoli «però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo».
In effetti, leggendo questa parte del racconto di Marco, appare evidente che tra Gesù e i discepoli c’era una profonda distanza interiore; si trovano, per così dire, su due diverse lunghezze d’onda, così che i discorsi del Maestro non vengono compresi, o lo sono soltanto superficialmente. L’apostolo Pietro, subito dopo aver manifestato la sua fede in Gesù, si permette di rimproverarlo perché ha predetto che dovrà essere rifiutato e ucciso.
Dopo il secondo annuncio della passione, i discepoli si mettono a discutere su chi tra loro sia il più grande; e dopo il terzo, Giacomo e Giovanni chiedono a Gesù di poter sedere alla sua destra e alla sua sinistra, quando sarà nella gloria (cfr Mc 10,35-40). Ma ci sono diversi altri segni di questa distanza: ad esempio, i discepoli non riescono a guarire un ragazzo epilettico, che poi Gesù guarisce con la forza della preghiera (cfr Mc 9,14-29); o quando vengono presentati a Gesù dei bambini, i discepoli li rimproverano, e Gesù invece, indignato, li fa rimanere, e afferma che solo chi è come loro può entrare nel Regno di Dio (cfr Mc 10,13-16).
Che cosa ci dice tutto questo? Ci ricorda che la logica di Dio è sempre «altra» rispetto alla nostra, come rivelò Dio stesso per bocca del profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, / le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Per questo seguire il Signore richiede sempre all’uomo una profonda con-versione - da noi tutti -, un cambiamento nel modo di pensare e di vivere, richiede di aprire il cuore all’ascolto per lasciarsi illuminare e trasformare interiormente. Un punto-chiave in cui Dio e l’uomo si differenziano è l’orgoglio: in Dio non c’è orgoglio, perché Egli è tutta la pienezza ed è tutto proteso ad amare e donare vita; in noi uomini, invece, l’orgoglio è intimamente radicato e richiede costante vigilanza e purificazione. Noi, che siamo piccoli, aspiriamo ad apparire grandi, ad essere i primi, mentre Dio, che è realmente grande, non teme di abbassarsi e di farsi ultimo. E la Vergine Maria è perfettamente «sintonizzata» con Dio: invochiamola con fiducia, affinché ci insegni a seguire fedelmente Gesù sulla via dell’amore e dell’umiltà.”
Benedetto XVI Angelus 23 settembre 2012

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a comprende che seguire Cristo significa percorrere in spirito il Suo cammino, che conduce alla gloria ma attraverso la croce.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia, annunzia che il “Servo di Dio”, cioè il Messia, sarà inviato a portare a compimento il progetto di salvezza, e compirà la sua missione attraverso la sofferenza, certo della sua innocenza e della protezione di Dio
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo ci esorta a riflettere sull'autenticità della nostra fede e ci invita a tenere insieme fede e opere: la fede deve incarnarsi nella vita e la vita lasciarsi plasmare dalla fede.
Nel Vangelo di Marco, troviamo Gesù che sembra provocare i suoi discepoli, quando chiede loro: "Chi dice la gente che io sia?" per arrivare a porre loro la domanda più importante: "E voi chi dite che io sia?". Con Pietro siamo anche noi sollecitati a professare una fede: “Tu sei il Cristo “, che deve diventare sequela, disponibilità a seguire Gesù lungo la stessa strada e con il suo stesso atteggiamento. La fede in Gesù diventa allora fede nella sua promessa: perdere la propria vita per causa sua e del Vangelo (non solo nel martirio di sangue, ma nella nostra vita quotidiana come suoi testimoni) anziché al fallimento, ci consegna alla pienezza della vita eterna.

Dal Libro del Profeta Isaia
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
È vicino chi mi rende giustizia:
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa? Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?
Is 50,5-9ª

Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia” o “Deutero Isaia”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Il corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due parti, quelle composte prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12-48,22) e quelle che invece sono state composte dopo questo evento (Is 49,1-54,17).
Nel libro del Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso, chiamato “Servo di JHWH”, di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato dato l’appellativo di ”Carmi del Servo di JHWH” (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Mentre il primo carme si trova all’inizio della prima parte, gli altri li troviamo nella seconda parte della raccolta. Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) da dove è tratto il nostro brano, si descrive la persecuzione che ha subito. I versetti sono alquanto simili ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina.
Il brano si apre con un monologo del Servo sofferente: “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”. Poi il Servo fa memoria delle sue sofferenze: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”.
Qui si parla di flagellazione, di strappare la barba, di insulti e di sputi!
È difficile dire in che contesto queste torture gli sono state inflitte e se sono reali o metaforiche. Ma certo si tratta di sofferenze gravissime.
Il Servo passa poi a descrivere la sua reazione personale: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso”.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il suo progetto nonostante tutte le opposizioni.
La sua forza d’animo gli proviene dalla certezza che Dio porterà a termine il suo progetto nonostante tutte le avversità. Il Servo dimostra così di non cercare il proprio successo personale ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Il Servo riafferma ancora la sua fiducia in Dio e lancia una sfida ai suoi avversari: “È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”
Alla fiducia in Dio corrisponde la certezza che i suoi avversari non avranno il sopravvento. La previsione della loro distruzione non deriva da una volontà di vendetta ma semplicemente dal desiderio che la vittoria di Dio sia completa. In questo carme il Servo è descritto come una figura di profeta che annunzia il piano di Dio per Israele. Egli si presenta come un uomo totalmente immerso in Dio, dal quale riceve il messaggio da comunicare al popolo.
Per concludere si può dire che questo brano è particolarmente indicato a noi cristiani per farci comprendere in profondità il mistero dell'UOMO-DIO a cui Isaia sembra alludere con voce profetica, più di 500 anni prima della venuta di Cristo. Quello che di lui sappiamo riguarda la vicenda di un uomo che si è dato in balia del dolore al di là di ogni possibile immaginazione: ….”Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.”
Non si tratta solo di non-violenza, ma di non-difesa personale: un'assoluta arrendevolezza al dolore che per la mentalità odierna potrebbe sembrare un caso clinico da psicanalisi. Ci troviamo invece di fronte al mistero di un Uomo che accetta con docilità la sua missione, che non indietreggia nelle difficoltà e che sopporta pazientemente gli oltraggi.
E’ sostenuto solo dalla sua ferma fiducia nell’aiuto di DIO, per questo anche se accusato ingiustamente, egli ha la certezza della vittoria finale.

Salmo 114 Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.
Amo il Signore, perché ascolta
il grido della mia preghiera.
Verso di me ha teso l’orecchio
nel giorno in cui lo invocavo.

Mi stringevano funi di morte,
ero preso nei lacci degli inferi,
ero preso da tristezza e angoscia.
Allora ho invocato il nome del Signore:

«Ti prego, liberami, Signore».
Pietoso e giusto è il Signore,
il nostro Dio è misericordioso.
Il Signore protegge i piccoli:
ero misero ed egli mi ha salvato.

Sì, hai liberato la mia vita dalla morte,
i miei occhi dalle lacrime,
i miei piedi dalla caduta.
Io camminerò alla presenza del Signore
nella terra dei viventi.

Il salmo presenta un pio Giudeo che, oppresso da “tristezza e angoscia”, ha innalzato a Dio una preghiera ardente: “Ti prego, liberami, Signore”; e non ha mancato di sperimentare il soccorso del Signore, confermandosi così nella fiducia in lui: “Amo il Signore, perché ascolta il grido della mia preghiera...”. La narrazione conduce a delineare un prigioniero di fronte al quale si profila la morte; infatti si parla di: “Funi di morte”; di assenza di vie d'uscita: “Ero preso nei lacci degli inferi”; ed esplicitamente vien detto: “hai liberato la mia vita dalla morte".
La grazia della liberazione gli è giunta tanto improvvisa che deve dire a se stesso: “Ritorna, anima mia, al tuo riposo...”, dove la pace è il dolce incontro con Dio, il dolce lodare Dio.
Il pio Giudeo è pieno di gratitudine e con gioia dice al Signore "hai liberato la mia vita dalla morte, i miei occhi dalle lacrime, i miei piedi dalla caduta" dove per caduta si deve intendere la disperazione, la rottura con Dio.
Dopo quell'esperienza dura, ma feconda, il salmista si propone di camminare alla presenza del Signore, cioè di essere sempre conforme al volere di Dio: “Io camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi”.
Nella “terra dei viventi” è da vedere la Palestina rinnovata per l'eliminazione degli idoli: è il grande desiderio del pio Giudeo.
Le parole “Mi stringevano funi di morte...ero preso da tristezza e angoscia” ci portano a Cristo (Cf. Eb 5,7).

Commento di Padre Paolo Berti


Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».
Gc 2,14-18

Questo brano della lettera di Giacomo è sicuramente il passo più conosciuto e citato per trattare il tema del rapporto tra la fede e le opere. E’ come se Giacomo si ponesse anche oggi, davanti a ciascuno di noi, per porci domande dirette:
Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?”
Egli ci esorta a riflettere sull'autenticità della nostra fede. La fede è un atteggiamento interiore, che deve trovare espressione in qualche gesto, atteggiamento esterno. Una fede troppo intimistica non ha nessun senso.
Giacomo fa poi un esempio molto efficace: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve?
Il caso presentato non deve servire però come esempio della fede priva di opere, bensì come paragone con cui si mostra l’inutilità di una fede senza opere: come i bisognosi non ricavano alcun vantaggio da frasi pietose, così una fede senza opere non serve a nulla per la salvezza nel giudizio divino.
Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta” ossia la fede senza opere che l'accompagnano non ha nessun senso. Non si tratta delle opere della legge, bensì delle opere dell'amore del prossimo. Il riferimento a queste opere di carità è in linea con il brano che abbiamo visto domenica scorsa che metteva in guardia dai favoritismi.
Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»”.
Molti di fronte a questo testo, se conoscono le lettere di Paolo, possono restare perplessi perché sembra che qui venga detto il contrario di quello che San Paolo insegna. In realtà, Paolo e Giacomo non erano affatto in disaccordo. L’unico punto di dissenso, secondo alcuni, riguarda il rapporto tra la fede e le opere.
Paolo afferma dogmaticamente che la giustificazione è per sola fede, mentre Giacomo dice che la giustificazione è mediante la fede più le opere.
Questo apparente problema viene risolto esaminando di cosa sta parlando esattamente Giacomo, il quale sta confutando la dottrina secondo cui una persona può avere fede senza produrre alcuna opera buona e sottolinea che la fede genuina in Cristo produrrà una vita cambiata e come conseguenza frutti di buone opere.
Giacomo non sta dicendo che la giustificazione sia mediante la fede più le opere, ma piuttosto che una persona che è davvero giustificata per fede non potrà fare a meno di produrre frutti di buone opere nella sua vita.
Se una persona afferma di essere credente, ma non copie opere, allora è probabile che non abbia la vera fede in Cristo, anzi non ha mai compreso il suo Vangelo.
Il ragionamento di Giacomo e di Paolo portano allo stesso risultato: Giacomo ragiona dal punto di vista di colui che è già figlio di Dio, Paolo da quello di colui che deve diventarlo.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».
Mc 8,27-35

Questo brano del Vangelo di Marco fa parte della sezione caratterizzata da tre annunzi della passione, morte e risurrezione di Gesù (8,31; 9,31; 10,33). Qui l'evangelista affronta il problema dell'identità di Gesù e indica i riflessi che il suo destino di sofferenza e di morte avrà su coloro che lo seguono.
Il brano si apre con una indicazione di luogo e con una domanda di Gesù ai discepoli:
Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?
Si trovavano nei pressi di Cesarea di Filippo, l'antica Panion, una città ellenistica che si trova nel sud dell'attuale Libano, alle pendici del Monte Hermon; essa doveva il suo nome al fatto di essere stata ricostruita in onore di Augusto da Filippo, uno dei figli di Erode il Grande, divenuto tetrarca della Transgiordania settentrionale. Nonostante la sua fugace apparizione a Betsaida, (v. 8,22), Gesù è rimasto dunque in un territorio non abitato da giudei, dove si era recato dopo la prima moltiplicazione dei pani (V.7,24).
Egli è ormai solo con i suoi discepoli e ponendo loro questo tipo di domande sembra voglia fare un sondaggio di opinioni: “La gente, chi dice che io sia?”.
Alla domanda di Gesù i discepoli rispondono: "Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti” Siccome la figura profetica più significativa per i giudei del tempo di Gesù era Giovanni Battista, alcuni ritenevano che lui fosse in qualche modo ritornato in vita nella persona di Gesù per portare a compimento la sua missione. Secondo altri Gesù si identificava con Elia, a cui veniva spesso riconosciuto il ruolo di profeta escatologico (Ml 3,23; Sir 48,10). Altri ancora pensavano che egli fosse "uno dei profeti“. Luca nel testo parallelo dice: che alcuni consideravano Gesù come "uno degli antichi profeti che è risorto", senza precisare quale.
In definitiva la gente vedeva in Gesù il profeta degli ultimi tempi, inviato da Dio per preparare la sua venuta.
Gesù non commenta le opinioni della gente, ma si rivolge nuovamente ai discepoli per arrivare a porre la domanda più importante che gli stava a cuore: Ma voi, chi dite che io sia?». E Pietro subito rispose: “Tu sei il Cristo». Pietro rispondendo così raggiunge in parte la verità. La sua è una definizione esatta ma ancora incompleta; è solo una luce gettata nel mistero di Gesù, una luce ancora velata da ombre. Infatti il titolo “Cristo”, che letteralmente significa “il consacrato”, era la versione greca dell’ebraico “messia” che resta sempre una creatura umana. Per questo la risposta di Pietro è ancora incompleta: Gesù non è solo “Cristo”, ma è anche “Figlio di Dio”, come precisa Matteo nel suo Vangelo con le parole che mette in bocca a Pietro “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Matteo annota anche l’elogio che Gesù fa a Pietro: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli.
Marco poi riporta che Gesù “ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno”.
Dopo aver ascoltato, le opinioni della gente e quelle dei discepoli, Gesù dà ora la sua risposta circa il quesito che lui stesso aveva posto e lo fa indicando il destino a cui va incontro: "E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Dopo aver ascoltato, le opinioni della gente e quelle dei discepoli, Gesù dà ora la sua risposta circa il quesito che lui stesso aveva posto e lo fa indicando il destino a cui va incontro: “E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.”
L'espressione "Figlio dell'uomo", che significa semplicemente un membro della famiglia umana, era stata utilizzata, in testi apocalittici, per designare una figura di inviato mediante il quale Dio avrebbe instaurato un giorno il suo regno (V. Dn 7,13).
Gli esegeti in questo punto ritengono che Gesù ne fa uso, non per attribuirsi un compito glorioso, ma per preannunziare un destino di sofferenza e di morte, seguito però dalla risurrezione. Si può perciò supporre che l'abbia usato non per descrivere la sua gloria ma per indicare la sua solidarietà senza limiti con ogni essere umano.
Marco poi annota che Gesù “Faceva questo discorso apertamente... cioè quello della sua morte imminente: ciò lascia intuire in questo suo annunzio una certa provocazione. E proprio Pietro, che poco prima lo aveva proclamato Messia, lo prende in disparte e si sente in dovere di rimproverarlo duramente. La sua reazione rivela una concezione trionfalistica del Messia in cui non c'era posto per la sofferenza.
Alle parole di Pietro Gesù reagisce con pari durezza: “voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Usando l'espressione "va' dietro a me" Gesù non intende certamente allontanare Pietro da sé, come aveva fatto con il diavolo in occasione della tentazione (Mt 4,10), ma lo richiama alla sequela, cioè alla necessità di non mettersi al suo posto, ma di adattarsi alle sue scelte.
Il fatto che Gesù rimproveri Pietro guardando anche gli altri discepoli, significa che essi condividevano le idee di Pietro: si tratta dunque di un'ammonizione rivolta a tutti i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo.
Al primo annunzio della passione l'evangelista fa seguire un breve discorso rivolto da Gesù non solo ai suoi discepoli, ma anche alla folla, che ora è citata. Questo discorso contiene una piccola raccolta di detti riguardanti non più il destino futuro di Gesù, ma quello che devono fare coloro che lo vogliono seguire.
Gesù dunque, “convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.
Il "rinnegamento di sé” ricorda la scelta del Servo di JHWH, il quale ha abbandonato ogni ricerca del potere per mettersi generosamente al servizio di tutto il popolo; l'espressione "prendere la sua croce" può alludere già al tipo di morte che lo aspetta oppure indicare semplicemente le sofferenza di una vita spesa per gli altri; ma il fine di tutto è la sequela, che Gesù propone come l'unico mezzo per raggiungere lo scopo di accogliere il regno di Dio che viene.
Poi Gesù prosegue: " Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”. In altre parole: se uno vuole salvare egoisticamente la propria vita finirà per perderla, ossia per non raggiungere lo scopo, il senso della propria vita; mentre chi è disposto a perderla, seguendolo sul cammino della croce, senz'altro la salverà, cioè raggiungerà la vita piena del regno
Cerchiamo ora di immaginarci ciò che hanno provato tutti i presenti quando Gesù, senza mezzi termini ha detto: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua ….Avranno provato tremore e sgomento e si saranno chiesti: Chi è dunque costui per chiedere tanto?” La risposta la diamo ancora noi oggi, dopo duemila anni, perchè se in quella croce, più o meno pesante, che ognuno porta nella propria vita, non vedesse avanti a se chi ha pronunciato queste parole, non avrebbe la forza di proseguire.

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“Il Vangelo di oggi ci presenta Gesù che, in cammino verso Cesarea di Filippo, interroga i discepoli: «La gente, chi dice che io sia?». Essi rispondono quello che diceva la gente: alcuni lo ritengono Giovanni Battista redivivo, altri Elia o uno dei grandi Profeti. La gente apprezzava Gesù, lo considerava un “mandato da Dio”, ma non riusciva ancora a riconoscerlo come il Messia, quel Messia preannunciato ed atteso da tutti. Gesù guarda gli apostoli e domanda ancora: «Ma voi, chi dite che io sia?». Ecco la domanda più importante, con cui Gesù si rivolge direttamente a quelli che lo hanno seguito, per verificare la loro fede. Pietro, a nome di tutti, esclama con schiettezza: «Tu sei il Cristo». Gesù rimane colpito dalla fede di Pietro, riconosce che essa è frutto di una grazia, di una grazia speciale di Dio Padre. E allora rivela apertamente ai discepoli quello che lo attende a Gerusalemme, cioè che «il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto … venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere».
Sentito questo, lo stesso Pietro, che ha appena professato la sua fede in Gesù come Messia, è scandalizzato. Prende in disparte il Maestro e lo rimprovera. E come reagisce Gesù? A sua volta rimprovera Pietro per questo, con parole molto severe: «Va’ dietro a me, Satana!” - gli dice Satana! - “Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Gesù si accorge che in Pietro, come negli altri discepoli - anche in ciascuno di noi! - alla grazia del Padre si oppone la tentazione del Maligno, che vuole distoglierci dalla volontà di Dio. Annunciando che dovrà soffrire ed essere messo a morte per poi risorgere, Gesù vuol far comprendere a coloro che lo seguono che Lui è un Messia umile e servitore. È il Servo obbediente alla parola e alla volontà del Padre, fino al sacrificio completo della propria vita. Per questo, rivolgendosi a tutta la folla che era lì, dichiara che chi vuole essere suo discepolo deve accettare di essere servo, come Lui si è fatto servo, e avverte: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua».
Mettersi alla sequela di Gesù significa prendere la propria croce - tutti l’abbiamo… - per accompagnarlo nel suo cammino, un cammino scomodo che non è quello del successo, della gloria passeggera, ma quello che conduce alla vera libertà, quella che ci libera dall’egoismo e dal peccato. Si tratta di operare un netto rifiuto di quella mentalità mondana che pone il proprio “io” e i propri interessi al centro dell’esistenza: questo non è ciò che Gesù vuole da noi! Invece, Gesù ci invita a perdere la propria vita per Lui, per il Vangelo, per riceverla rinnovata, realizzata e autentica.
Siamo certi, grazie a Gesù, che questa strada conduce alla fine alla risurrezione, alla vita piena e definitiva con Dio. Decidere di seguire Lui, il nostro Maestro e Signore che si è fatto Servo di tutti, esige di camminare dietro a Lui e di ascoltarlo attentamente nella sua Parola – ricordatevi: leggere tutti i giorni un passo del Vangelo – e nei Sacramenti.
Ci sono giovani qui in piazza: ragazzi e ragazze. Io vi domando: avete sentito la voglia di seguire Gesù più da vicino? Pensate. Pregate. E lasciate che il Signore vi parli.
La Vergine Maria, che ha seguito Gesù fino al Calvario, ci aiuti a purificare sempre la nostra fede da false immagini di Dio, per aderire pienamente a Cristo e al suo Vangelo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 13 settembre 2015

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci spingono alla lode di Dio, allo stupore per le Sue grandi opere, per la Sua fedeltà.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia, annuncia la salvezza di Israele, il ritorno in patria dei deportati e la ricostruzione di Gerusalemme dopo la sua distruzione effettuata dalle armate babilonesi. La fine di una fase così difficile viene descritta da Isaia come una sorta di rivoluzione, di "capovolgimento" del mondo: chi è infermo guarisce, la siccità lascia il passo all'abbondanza dell'acqua. Finisce dunque l'ansia e la luce dell'amicizia di Dio riappare chiaramente.
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo afferma che la fede non deve essere condizionata da indebiti riguardi verso i ricchi o la freddezza verso i poveri, e sottolinea come bisogna insistere sulla pratica materiale e senza finzioni della carità, in quanto espressione concreta della nostra relazione con Cristo.
Nel Vangelo di Marco, il racconto è inquadrato nella cornice del cosiddetto “segreto messianico”. Gesù infatti porta in disparte dalla folla il sordomuto e guaritolo, gli comanda di non dire niente a nessuno. Più che un prodigio spettacolare Gesù vuole compiere un atto che trasformi soprattutto la coscienza: gli orecchi sordi nel linguaggio biblico sono spesso segno di cuore indifferente. Senza la parola efficace del Cristo l’uomo resta sordo al Vangelo! E’ per questo che nel sacramento del Battesimo si è introdotto il rito dell’Effata sul bambino che è stato appena battezzato perchè diventi colui che ascolta la parola di Dio e la comunica agli altri con le sue labbra e la sua vita.

Dal libro del profeta Isaia
Dite agli smarriti di cuore:
«Coraggio, non temete!
Ecco il vostro Dio,
giunge la vendetta,
la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa.
La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua.
Is 35,4-7a

Il profeta Isaia (Primo Isaia autore dei capitoli 1-39) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C, quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini. Isaia si scagliò così contro i sacrifici umani (prevalentemente di bambini o ragazzi), i simboli sessuali, gli idoli di ogni forma e materiale. Altro bersaglio della riforma, e delle invettive di Isaia, furono le forme cultuali puramente esteriori, ridotte quasi a pratiche magiche. In particolare, condannò senza mezzi termini il digiuno, le elemosine, le ricche offerte, quando non sono seguite da una condotta di vita moralmente corretta, dal rispetto verso il prossimo, dal soccorso alla vedova e all'orfano, dall'onestà nell'esercizio di cariche pubbliche.
Questo brano fa parte della piccola apocalisse (c.34-35)) con cui Isaia celebra il rimpatrio dalla schiavitù babilonese per la ricostruzione di Gerusalemme dopo la sua distruzione effettuata dalle armate babilonesi. La deportazione in schiavitù fu un'esperienza terribile che il popolo d'Israele visse tra il 586 e il 538 a.C. e che determinò momenti di smarrimento gravissimo.
Il capitolo 35, da dove è tratto il brano liturgico, inizia con un invito rivolto da Dio, per bocca del profeta, al deserto: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo” L’esultanza del deserto si manifesta attraverso la nascita improvvisa di fiori insoliti in quella regione. Il deserto di cui si parla è quello che separa la Mesopotamia dalla Palestina: attraverso di esso gli esuli ritornarono nella loro terra.
Il brano liturgico inizia con un altro invito del Signore “agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».” Il messaggio chiaramente è rivolto agli esuli che si sono messi in cammino. Essi sono ancora infiacchiti dal lungo periodo di esilio, non hanno fiducia in se stessi, e soprattutto non hanno la sicurezza di poter riuscire nella loro impresa.
Vengono perciò incoraggiati con la promessa della presenza del Signore che li guida come aveva fatto un tempo con gli israeliti durante l’esodo dall’Egitto.
Egli porta con sé oltre alla salvezza, riservata al Suo popolo, anche il castigo per i loro nemici che sono anche i Suoi nemici. La ricompensa divina non consiste in un premio guadagnato con le proprie opere buone, ma nella salvezza donata gratuitamente da Dio al Suo popolo.
Alla venuta del Signore corrisponde la guarigione di persone afflitte da diverse infermità: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto
Gli esuli che si mettono in cammino sono paragonati a persone afflitte da mali che impediscono loro la possibilità stessa di fare un lungo cammino a piedi. Nonostante la loro inabilità, essi si mettono in cammino senza difficoltà per raggiungere la meta.
scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua. L’immagine del deserto che rifiorisce al passaggio degli esuli dà l’idea di un rinnovamento che, partendo dal cuore umano, si estende a tutto il creato.
Si può notare che Isaia inserisce nel suo racconto una doppia fila di immagini antitetiche: da una parte si incontrano simboli della natura: l’aridità del deserto, la steppa riarsa, la terra bruciata, si oppongono le acque, i torrenti, le paludi, le sorgenti zampillanti. Dall’altra prendono vita immagini corporali: al fisico malato dei ciechi, dei sordi, degli zoppi, dei muti si oppone il corpo risanato dotato di occhi con ottima vista, di orecchi sensibilissimi, di gambe saltellanti come quelle di un cervo, di labbra che esplodono in canti di gioia.
Il Nuovo Testamento farà sue queste espressioni per indicare in Gesù-Messia il vero realizzatore della salvezza.

Salmo 145 Loda il Signore, anima mia.

Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Il salmo è stato composto nel tardo postesilio come rivela la sua lingua aramaicizzante. Esso fa pensare a un tempo di pace, di normalità, quale si ebbe verso la fine dell'epoca persiana quando Giuda divenne uno stato teocratico autonomo con propria moneta fino alla persecuzione di Antioco IV Epifane (2Mac 4,1s).
Il salmista al proposito personale e di testimonianza di lodare il Signore per tutta la vita, fa seguire un'ammonizione basilare: “Non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”. I potenti, che amano circondarsi di un alone di gloria, non sono dei semidei, sono uomini che come tutti moriranno: “Esala lo spirito e ritorna alla terra: in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni”. Il salmista tuttavia non fa accenno ai guai, alle rovine a cui si espone chi confida nell'uomo, ma, in positivo, dice che è beato, “chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe”, cioè il Dio dei padri, il Dio delle promesse e dell'alleanza, riconoscendolo l'unico Dio, onnipotente creatore: “che ha fatto il cielo e la terra, il mare e quanto contiene".
Egli è fedele per sempre”, mai manca alla sua parola, e il suo governo è giustizia e bontà: “Rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati”.
Poi il salmista con ritmo incalzante presenta a tutti cinque motivi di confidenza in Dio.
Libera i prigionieri”; intendendo ciò in senso largo: deportati, carcerati ingiustamente, irretiti in trame di calunnia.
Ridona la vista ai ciechi”, dove il cieco è colui che ha smarrito la via della verità (Dt 28,29; Gb 12,25; Is 29,18; 35,5).
Rialza chi è caduto”, cioè chi è caduto nel peccato.
Ama i giusti”, cioè li guida nel giusto cammino e protegge nei loro passi.
Protegge i forestieri, egli sostiene l'orfano e la vedova”, cioè tre categorie di persone deboli, con scarsi punti di riferimento.
Poi una severa osservazione: “Ma sconvolge le vie dei malvagi”.
Dio è re, “regna per sempre”. Nessuno lo può contrastare, limitare il suo potere sovrano, nessuno può sperare di vincerlo; e il suo regnare è segnato dalla giustizia, dalla bontà e dalla misericordia.
Il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione”; Dio che ha fatto alleanza con Sion. Ma l'alleanza è diventata nuova in Cristo; Sion ha rifiutato la nuova ed eterna alleanza, ma Cristo non rinuncia al popolo di Sion, ora tronco morto dell'unico popolo di Dio, il cui tronco vivo è la Chiesa, ma un giorno il tronco morto diventerà vivo, accogliendo Cristo e facendo parte della Chiesa (Rm 11,25).
Commento di P. Paolo Berti

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro.
Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?
Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?
Gc 2,1-5

L'Apostolo Giacomo in questo brano della sua lettera ci dice chiaramente quali scelte dobbiamo fare nella nostra vita personale e sociale e quale strada intraprendere per essere dalla parte di Cristo e fare davvero nostro il Suo messaggio di amore, giustizia, uguaglianza e fratellanza universale.
Il brano inizia con l’esortazione: “Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali”
La fede in Cristo non può essere contaminata dal pensare secondo gli uomini, che si accerchiano di persone che li appoggiano e dalle quali sperano benefici, mentre escludono altre che hanno il torto di non volere essere compiacenti e che seguono Cristo.
Il favoritismo è sempre stato, anche allora, un male per le comunità, e Giacomo lo presenta in tutta la sua gravità, dopo averlo già trattato all’inizio della sua lettera (1,9-10). Disdicevole è anche che i cristiani inseguano i ricchi e si facciano loro servi compiacenti per averne qualche utile. Come disastrosa è l’azione dei cristiani che con favoritismi costituiscono gruppi per condizionare dall’interno le comunità.
L’apostolo passa poi a fare un esempio concreto descrivendo il comportamento, purtroppo sempre attuale anche nei nostri giorni: Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?”
Giacomo presenta veramente un esempio di favoritismo miserevole perché avviene proprio dentro ad un’assemblea eucaristica.
Poi l’apostolo passa alle raccomandazioni: “Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?
La scelta di Dio dei poveri Paolo la espresse così: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono”. (1Cor 1,27-28). Anche nel Magnificat troviamo espresse parole analoghe.
Dalla sete del denaro e del potere nascono gli inganni, le invidie, le liti, le oppressioni, le corruzioni, le divisioni, le guerre. Giacomo prende di petto l’eresia di fondo, quella che promuove e fa da supporto a tutte le eresie: il desiderio affannoso del potere.
Giacomo non si fa portatore di un quadro sociale dove tutto sia livellato, ma vuole che chi ha di più, per varie ragioni, non sia chiuso nella superbia, ma sia umile e caritatevole. D’altro canto il povero non deve avere anche lui la bramosia delle ricchezze e di conseguenza odiare il ricco perché le possiede.
Il rinnovamento del modo di pensare dell’uomo passa tutto attraverso l’adesione autentica a Cristo.
Nota: Sappiamo che nella dottrina sociale della Chiesa non si ha affatto il rifiuto del capitale, poiché esso è una forza con la quale si possono creare posti di lavoro; quello che fa scandalo è l’uso egoistico delle ricchezze possedute.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Mc 7,31-37

Questo brano del vangelo di Marco appartiene alla terza parte riguardante i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea. Questo episodio è riportato subito dopo la guarigione della figlia di una donna siro-fenicia (7,24-30), nella quale l’evangelista ha visto un’anticipazione del dono della salvezza ai pagani, e prima della moltiplicazione dei pani per una folla sempre di pagani (8,1-8). L’evangelista inizia il suo racconto con una indicazione di luogo:
Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano.
Gesù aveva lasciato la zona di Tiro, città della Fenicia, dove aveva guarito la figlia della donna sirofenicia, passa per Sidone e si dirige verso il mare di Galilea, ma invece di fermarsi in questa regione, si reca nella zona orientale Decapoli, (l'odierna Giordania), abitata anch’essa da popolazioni non giudaiche. La collocazione geografica del miracolo che sta per narrare, non è molto importante, ciò che interessa Marco è evidenziare il destinatario: anche lui, come la sirofenicia, è un pagano.
A parte questa indicazione implicita e la malattia da cui è afflitto, non si conoscono altri particolari del sordomuto e di coloro che lo portarono da Gesù; l’imposizione delle mani, che essi gli chiedono, era il gesto solito con cui si invocava la benedizione divina su una persona, e già altre volte era stato richiesto a Gesù o usato da lui e dai suoi discepoli per compiere un’azione straordinaria.
A questa richiesta Gesù risponde più con i gesti che con le parole: ”Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!».”
Gesù non si sottrae alla richiesta di coloro che accompagnano l’uomo e neppure solleva obiezioni, come aveva fatto poco prima con la donna sirofenicia, ma il fatto di compiere il miracolo in disparte indica una certa riservatezza, dovuta certamente al fatto che si trova in territorio non abitato da giudei. E’ questa forse anche la causa per cui Egli, per la prima volta, fa ricorso a gesti inusuali come il toccare gli orecchi con le dita e mettere la saliva sulla lingua, che sono simili a quelli usati dai guaritori dell’epoca.
Il guardare verso il cielo sta però ad attestare che Egli attribuisce non a questi gesti, ma a Dio, l’opera miracolosa.
I gesti di Gesù hanno un effetto immediato: ”E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno”.
Il comando che fa seguito alla guarigione fa parte del segreto messianico perchè non è chiaro a chi sia stato dato questo ordine, dal momento che Gesù si trovava solo con l’interessato.
E’ evidente però che Gesù vuole impedire che venga a saperlo la folla, che certamente è composta di pagani, i quali ancora più dei giudei potrebbero non capire ciò che Lui ha fatto.
L’evangelista però osserva: “Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano … e Marco osserva che i presenti, “pieni di stupore”, commentano l’accaduto con queste parole: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”.
La guarigione del sordomuto, al di fuori dei territori abitati tradizionalmente dai giudei, mostra nuovamente che la salvezza ha ormai raggiunto i pagani. Tra di essi Gesù non svolge un’attività di predicazione, ma si limita a fare alcuni segni mediante i quali dimostra che la salvezza è disponibile anche a loro.
Dall’atteggiamento di coloro che vengono a contatto con Lui appare che, diversamente dai giudei, essi sono disposti ad accogliere positivamente il dono di Dio, imparando ad ascoltare la Sua parola e a pregarlo con spirito di figli. Anzi essi stessi si fanno persino missionari del Suo vangelo.
Si apre così una nuova epoca nella storia dell’umanità, nella quale cade la barriera tra giudei e pagani, e con essa tutte le barriere di razza, lingua e religione, e le persone cominciano a capirsi e a condividere. È questo il segno più eclatante che il regno di Dio è vicino.

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"Il Vangelo di oggi racconta la guarigione di un sordomuto da parte di Gesù, un evento prodigioso che mostra come Gesù ristabilisca la piena comunicazione dell’uomo con Dio e con gli altri uomini. Il miracolo è ambientato nella zona della Decapoli, cioè in pieno territorio pagano; pertanto quel sordomuto che viene portato da Gesù diventa simbolo del non-credente che compie un cammino verso la fede. Infatti la sua sordità esprime l’incapacità di ascoltare e di comprendere non solo le parole degli uomini, ma anche la Parola di Dio. E san Paolo ci ricorda che «la fede nasce dall’ascolto della predicazione» (Rm 10,17).
La prima cosa che Gesù fa è portare quell’uomo lontano dalla folla: non vuole dare pubblicità al gesto che sta per compiere, ma non vuole nemmeno che la sua parola sia coperta dal frastuono delle voci e delle chiacchiere dell’ambiente. La Parola di Dio che il Cristo ci trasmette ha bisogno di silenzio per essere accolta come Parola che risana, che riconcilia e ristabilisce la comunicazione.
Vengono poi evidenziati due gesti di Gesù. Egli tocca le orecchie e la lingua del sordomuto. Per ripristinare la relazione con quell’uomo “bloccato” nella comunicazione, cerca prima di ristabilire il contatto. Ma il miracolo è un dono dall’alto, che Gesù implora dal Padre; per questo alza gli occhi al cielo e comanda: “Apriti!”. E le orecchie del sordo si aprono, si scioglie il nodo della sua lingua e si mette a parlare correttamente.
L’insegnamento che traiamo da questo episodio è che Dio non è chiuso in sé stesso, ma si apre e si mette in comunicazione con l’umanità. Nella sua immensa misericordia, supera l’abisso dell’infinita differenza tra Lui e noi, e ci viene incontro. Per realizzare questa comunicazione con l’uomo, Dio si fa uomo: non gli basta parlarci mediante la legge e i profeti, ma si rende presente nella persona del suo Figlio, la Parola fatta carne. Gesù è il grande “costruttore di ponti”, che costruisce in sé stesso il grande ponte della comunione piena con il Padre.
Ma questo Vangelo ci parla anche di noi: spesso noi siamo ripiegati e chiusi in noi stessi, e creiamo tante isole inaccessibili e inospitali. Persino i rapporti umani più elementari a volte creano delle realtà incapaci di apertura reciproca: la coppia chiusa, la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa… E questo non è di Dio! Questo è nostro, è il nostro peccato.
Eppure all’origine della nostra vita cristiana, nel Battesimo, ci sono proprio quel gesto e quella parola di Gesù: “Effatà! - Apriti!”. E il miracolo si è compiuto: siamo stati guariti dalla sordità dell’egoismo e dal mutismo della chiusura e del peccato, e siamo stati inseriti nella grande famiglia della Chiesa; possiamo ascoltare Dio che ci parla e comunicare la sua Parola a quanti non l’hanno mai ascoltata, o a chi l’ha dimenticata e sepolta sotto le spine delle preoccupazioni e degli inganni del mondo.
Chiediamo alla Vergine Santa, donna dell’ascolto e della testimonianza gioiosa, di sostenerci nell’impegno di professare la nostra fede e di comunicare le meraviglie del Signore a quanti incontriamo sul nostro cammino."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 6 settembre 2015

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica si presentano come un felice tentativo di coniugare – secondo una giusta scala di valori – legge e cuore, culto ed esistenza: Antico Testamento e il Vangelo si illuminano a vicenda e ci fanno crescere nella fede.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio, Mosè presenta al popolo la Torah, cioè le leggi che Dio gli aveva dato e dice che si dovevano osservare senza aggiungere o togliere nulla. La Torah, è presentata non come un castello di aride prescrizioni, ma come espressione dell’incontro tra la volontà del Dio “vicino” e l’adesione gioiosa della libera volontà dell’uomo. La religione non si vive guardando al passato, alle tradizioni, ma al presente, illuminato dalla fede nella presenza di Dio.
Nella seconda lettura, l’apostolo Giacomo ci dice che la parola di Dio ha bisogno di evangelizzatori e di testimoni e ci esorta ad essere tra “quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto”. La parola dunque non va solo ascoltata, ma anche vissuta e fatta conoscere a tutti.
Nel Vangelo di Marco, Gesù rimprovera i suoi ascoltatori di onorare Dio con le labbra, ma non con il cuore, e denuncia i limiti e gli errori del ritualismo fine a se stesso, ed enuncia in una specie di decalogo i veri peccati di cui l’uomo si macchia e che sono cosa ben più grave che la mancata osservanza di taluni precetti cultuali.

Dal Libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo.
Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».
Dt 4,1-2,6-8

Il Deuteronomio è il quinto libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. È stato scritto in ebraico intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi. È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge” la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire. Questi nuovi precetti sono orientati a regolare la vita stabile, sedentaria, che di lì a poco il popolo d'Israele avrebbe iniziato all'arrivo alla Terra Promessa. Ciononostante, queste leggi sono stilate con grande affetto, animando il compimento della Legge con motivi teologici.
Il Deuteronomio ci consente di comprendere che cos’è il popolo di Dio, di cogliere quanto l’Alleanza che unisce a Dio, comporta insieme di ricchezza e di esigenza: essa è un dono gratuito e appello pressante che bisogna vivere nelle realtà concrete.
Il Deuteronomio richiama continuamente il credente a quelli che sono gli atteggiamenti fondamentali: una fede che si fa sempre più profonda, un amore di Dio che esclude ogni compromesso, un servizio di Dio prestato con gioia, e una accettazione reale ed fiduciosa delle realtà terrestri.
In questo brano Mosè dopo aver fatto un riassunto del lungo viaggio, riassume nel suo discorso di commiato le leggi ricevute da Dio: Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo…”
Per dare maggior potenza ai suoi discorsi Mosè aumenta anche l’importanza del legame diretto che si è costituito tra Dio ed Israele affermando ancora: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”. Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? Mosè sa bene quello che dice e non dimentica l’origine vera della sua sapienza legislativa. Per questo intende rafforzare il concetto di origine divina delle leggi che egli ha promulgato e fatto rispettare e ravviva alla sua gente la memoria della loro origine divina perchè la conservino nel cuore e la trasmettano.
Proprio questa memoria della presenza di Dio obbliga il popolo ad assumere uno stile di vita differente da quello degli altri popoli e a presentarsi davanti a questi come un popolo legato in modo del tutto speciale al proprio Dio. Questo brano in particolare testimonia l’orgoglio che Israele sentiva per la Torah, la sua legge, e la convinzione che essa superava in saggezza tutte le altre. La Torah, qui è presentata non come un castello di aride prescrizioni, ma come una espressione dell’incontro con la volontà del Dio vicino e l’adesione gioiosa della libera volontà dell’uomo. Osservando liberamente questa parola il credente scopre la presenza del Dio Salvatore. Il Signore, infatti, non è tanto da cercare in cieli lontani, ma nella legge che Egli ha offerto al Suo popolo.

Salmo 14 Chi teme il Signore abiterà nella sua tenda.
Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore,
non sparge calunnie con la sua lingua.

Non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.

Non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre.

Il salmista considera le condizioni necessarie per abitare nella tenda del Signore, e dimorare sul suo santo monte.
Ne risulta una preghiera piena di propositi e di sentita, seppur implicita, invocazione per poterli attuare e mantenere.
La tenda del Signore sul santo monte è il tempio, dove nel “santo dei santi” c’era l’arca dell’alleanza con la presenza tra i cherubini della gloria di Jahwéh.
Questo salmo noi lo recitiamo guardando alla reale presenza di Cristo nell’Eucaristia. Per dimorare col cuore nella tenda, cioè rimanere nel raggio dell’Eucaristia, è necessaria una vita secondo il Vangelo. L’espressione “Ai suoi occhi è spregevole il malvagio, va spogliata della tentazione del disprezzo. E’ solo un non vedere il malvagio come un modello da imitare. Noi dobbiamo separare il peccato dal peccatore, per non cadere nell’errore di giudicare e condannare, benché egli sia ben riconoscibile quale peccatore (Mt 7,20): “Dai loro frutti dunque li riconoscerete”. Onorare chi teme il Signore è, per viceversa, stimarne l’esempio, imitarne il comportamento; è un rispetto profondo poiché Dio è presente - inabitazione - nel cuore del giusto.
Chi agisce con rettitudine rimane nel raggio dell’Eucaristia e da essa trae la forza per rimanervi con sempre maggiore intensità d’amore. Egli “resterà saldo per sempre”.
Commento di P. Paolo Berti

Dalla lettera di S. Giacomo apostolo
Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature.
Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi.
Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
Gc 1,17-18, 21b-22, 27

L’ autore di questa lettera, è l'apostolo Giacomo figlio di Alfeo, cioè Giacomo il Minore, che ebbe un posto di primo piano nella comunità madre di Gerusalemme. Paolo lo cita tra i testimoni della resurrezione (1Cor 15,7), Pietro uscendo di prigione si preoccupa di annunciargli subito la sua liberazione (At 12,17) e all’indomani della sua conversione Paolo prende contatto con lui (Gal 1,18-19). Giacomo prese parte nel 49 al Concilio di Gerusalemme in maniera determinante: quest’uomo di mentalità giudaica diede prova di conciliazione e di accoglienza nei riguardi dei convertiti provenienti dal paganesimo (At 15,13-29).
Fino alla dispersione iniziale degli apostoli degli anni 36-37, Giacomo sembra riscoprire la responsabilità della Chiesa madre; gli anziani si riunivano presso di lui, e sarà sempre lui ad accogliere Paolo che reca la colletta delle Chiese (At 21,18-26) poco prima del suo arresto nel tempio (Pentecoste 58).
Secondo lo storico Eusebio di Cesarea, Giacomo venne ucciso nell’anno 63 durante una sollevazione popolare istigata dal sommo sacerdote Hanan, che per quel delitto sarà poi destituito.
La lettera è indirizzata alle dodici tribù della diaspora; è scritta in greco, il che significa che si rivolge a comunità cristiane viventi fuori della Palestina, e la terra fuori della Palestina, per gli Ebrei, è diaspora. Giacomo Il giudaismo, come confederazione delle dodici tribù aveva già cessato di esistere dal 722 a.C., quindi la restaurazione di Israele in confederazioni di dodici tribù sarà compito escatologico del Messia (Os 9,9; Ger 3,18; Ez 37,19.24; ecc.). Questa speranza Giacomo la vede già compiuta nella comunità cristiana: essa è per lui il popolo delle dodici tribù, l’Israele definitivo.
La lettera nel suo complesso è piuttosto breve (cinque capitoli per un totale di quasi cento versetti), ma il suo contenuto è notevole per la sua attenzione verso i deboli, gli afflitti, il suo senso della povertà e la sua diffidenza per la ricchezza, la sua viva denuncia dell’ingiustizia sociale, i suoi avvertimenti agli operatori commerciali.
E’ difficile suddividere la lettera di Giacomo in sezioni, il brano che abbiamo si apre con i versetti con cui si conclude il primo capitolo: ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento, vale a dire: Dio è la fonte di ogni bene e in Lui non c’è il male. Con questa considerazione, Giacomo chiude la sua ampia riflessione sul tema della prova e introduce il tema della seconda parte del primo capitolo: Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature, cioè siamo stati rigenerati dalla Parola, che proviene da Dio, deponiamo dunque il nostro modo di operare secondo le logiche umane per rivestirci della Parola stessa.
Al termine del brano troviamo la sua esortazione: Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi…
Il nostro vivere quotidiano deve perciò riflettere in se stesso la luce della fede, accesa in noi dal battesimo e vivificata dalla potenza dello Spirito. Vivere la fede significa pertanto conformare e sintonizzare il nostro vivere a quelle realtà divine in cui ci troviamo. Ma per poterlo fare è quanto mai necessario conoscere queste realtà spirituali e l’unico strumento capace di farcele conoscere è la Parola di Dio.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto:
“Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro».
E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Mc 7, 1-8. 14-15. 21-23

In questo brano, tratto dal capitolo 7 del Vangelo di Marco, (’ultimo episodio che precede i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea), troviamo una raccolta di detti pronunciati da Gesù circa il significato che rivestono le pratiche giudaiche nel contesto del regno da Lui annunziato.
Il brano inizia riportando che “si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate”.
Per l’evangelista è importante sottolineare che non si tratta di un’iniziativa privata, ma ufficiale, di fronte alla quale Gesù deve prendere posizione proprio per il fatto che “alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani non lavate”. L’evangelista poi spiega che “tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame”.
I farisei e gli scribi dunque chiedono a Gesù: “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?
Le diverse abluzioni non erano prescritte dalle Scritture, ma rientravano in quella che era chiamata “legge orale”, che era trasmessa dai dottori della legge.
Per tutta risposta Gesù accusa i suoi interlocutori di ipocrisia, applicando loro un brano di Isaia: “Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Nel brano di Isaia citato (29,13) Dio condanna gli israeliti perché ciò che hanno nel cuore è diverso da quanto manifestano con le labbra e il culto che gli rendono è inutile, in quanto si basa su dottrine umane.
Gesù commenta le parole del profeta osservando: “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. Con queste parole Egli riduce le prescrizioni rituali a semplici precetti umani, opponendo loro la volontà di Dio, che si identifica con un unico comandamento.
Poi Gesù riprende il discorso e nei versetti non riportati nel brano accusa gli scribi e i farisei di essere veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la loro tradizione e, per sottolineare la loro ipocrisia, mostra poi come essi siano abili nell’aggirare questo comandamento.
Poi riprendendo il discorso sui cibi impuri, Gesù chiama nuovamente la folla e dice: “Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”. Secondo questo detto nessun cibo può rendere impuro l’uomo perché questi è contaminato solo da ciò che esce da lui.
In altre parole, Gesù afferma che non esiste altra impurità se non quella che deriva dal peccato morale, il quale ha la sua origine nel cuore dell’uomo.
Più tardi, lontano dalla folla, i discepoli interrogano Gesù sul significato di ciò che aveva detto ed Egli risponde: Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo.
Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo.
La lista, ispirata al decalogo, è molto simile per stile e contenuto ai cataloghi di vizi diffusi nel mondo giudeo-ellenistico e cristiano, specialmente a quello riportato in Rm 1,28-31.
Ponendosi sulla linea del messaggio profetico, Gesù sottolinea che nel rapporto con Dio non conta la purezza esteriore, ma solo quella che deriva dall’obbedienza profonda e sincera alla sua volontà.

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“Il Vangelo di questa domenica presenta una disputa tra Gesù e alcuni farisei e scribi. La discussione riguarda il valore della «tradizione degli antichi» che Gesù, rifacendosi al profeta Isaia, definisce «precetti di uomini» e che non deve mai prendere il posto del «comandamento di Dio». Le antiche prescrizioni in questione comprendevano non solo i precetti di Dio rivelati a Mosè, ma una serie di dettami che specificavano le indicazioni della legge mosaica. Gli interlocutori applicavano tali norme in modo assai scrupoloso e le presentavano come espressione di autentica religiosità. Pertanto, rimproverano a Gesù e ai suoi discepoli la trasgressione di esse, in particolare di quelle riferite alla purificazione esteriore del corpo.
La risposta di Gesù ha la forza di un pronunciamento profetico: «Trascurando il comandamento di Dio – dice – voi osservate la tradizione degli uomini» Sono parole che ci riempiono di ammirazione per il nostro Maestro: sentiamo che in Lui c’è la verità e che la sua sapienza ci libera dai pregiudizi.
Ma attenzione! Con queste parole, Gesù vuole mettere in guardia anche noi, oggi, dal ritenere che l’osservanza esteriore della legge sia sufficiente per essere dei buoni cristiani. Come allora per i farisei, esiste anche per noi il pericolo di considerarci a posto o, peggio, migliori degli altri per il solo fatto di osservare delle regole, delle usanze, anche se non amiamo il prossimo, siamo duri di cuore, siamo superbi, orgogliosi.
L’osservanza letterale dei precetti è qualcosa di sterile se non cambia il cuore e non si traduce in atteggiamenti concreti: aprirsi all’incontro con Dio e alla sua Parola nella preghiera, ricercare la giustizia e la pace, soccorrere i poveri, i deboli, gli oppressi. Tutti sappiamo, nelle nostre comunità, nelle nostre parrocchie, nei nostri quartieri, quanto male fanno alla Chiesa e danno scandalo quelle persone che si dicono molto cattoliche e vanno spesso in chiesa ma dopo, nella loro vita quotidiana, trascurano la famiglia, parlano male degli altri e così via. Questo è quello che Gesù condanna, perché questa è una contro-testimonianza cristiana.
Proseguendo nella sua esortazione, Gesù focalizza l’attenzione su un aspetto più profondo e afferma: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». In questo modo sottolinea il primato dell’interiorità, cioè il primato del “cuore”: non sono le cose esteriori che ci fanno santi o non santi, ma è il cuore che esprime le nostre intenzioni, le nostre scelte e il desiderio di fare tutto per amore di Dio. Gli atteggiamenti esteriori sono la conseguenza di quanto abbiamo deciso nel cuore, ma non il contrario: con l’atteggiamento esteriore, se il cuore non cambia, non siamo veri cristiani.
La frontiera tra bene e male non passa fuori di noi ma piuttosto dentro di noi. Possiamo domandarci: dov’è il mio cuore? Gesù diceva: “Dov’è il tuo tesoro, là è il tuo cuore”. Qual è il mio tesoro? E’ Gesù, è la sua dottrina? Allora il cuore è buono. O il tesoro è un’altra cosa? Pertanto, è il cuore che dev’essere purificato e convertirsi. Senza un cuore purificato, non si possono avere mani veramente pulite e labbra che pronunciano parole sincere di amore - tutto è doppio, una doppia vita -, labbra che pronunciano parole di misericordia, di perdono. Questo lo può fare solo il cuore sincero e purificato.
Chiediamo al Signore, per intercessione della Vergine Santa, di donarci un cuore puro, libero da ogni ipocrisia. Questo è l’aggettivo che Gesù dice ai farisei: “ipocriti”, perché dicono una cosa e ne fanno un’altra. Un cuore libero da ogni ipocrisia, così che siamo capaci di vivere secondo lo spirito della legge e giungere al suo fine, che è l’amore”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 30 agosto 2015

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica hanno al centro un elemento fondamentale nella storia di ogni uomo: chi scegliere! La decisione non è facile perchè è una scelta radicale che comporta il Dio vivente, geloso ed esigente, e non idoli comodi, ma falsi.
Nella prima lettura, Giosuè propone al popolo radunato a Sichem una scelta radicale: o gli dèi o il Signore Dio, che con generosità ha offerto la Sua protezione e i Suoi doni. Israele non può rispondere che con una piena adesione di fede e di amore.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo vede nell’amore degli sposi cristiani il riflesso dell’amore di Cristo per la Chiesa, e in questo amore spinto fino alla sacrificio estremo della croce propone il modello dell’amore umano
Nel Vangelo di Giovanni, dopo una lunga e faticosa giornata, in cui Gesù dopo aver compiuto il miracolo dei pani, e proposto se stesso come “il pane di vita” alla folla che era corsa festante con l’intenzione di farlo re, dopo il difficile e complesso discorso eucaristico in cui egli parla del “vero” pane e manifesta se stesso, come il pane disceso dal cielo, la stessa folla si dirada sconcertata e scandalizzata, e intorno a Gesù rimangono solo i dodici. Qui Gesù in un modo quanto mai umano, pone la domanda: Volete andarvene anche voi?
La risposta di Pietro anticipa quella di tanti credenti, di coloro che professano la loro fede pura nel Cristo, colui che ha “parole di vita eterna, il Santo di Dio”.

Dal libro di Giosuè
In quei giorni, Giosuè radunò tutte le tribù d’Israele a Sichem e convocò gli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi, ed essi si presentarono davanti a Dio. Giosuè disse a tutto il popolo: «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore».
Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; egli ha compiuto quei grandi segni dinanzi ai nostri occhi e ci ha custodito per tutto il cammino che abbiamo percorso e in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati.
Perciò anche noi serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio».
Gs 24,1-2a, 15-17, 18b

Il libro di Giosuè è un testo contenuto sia nella Bibbia cristiana che quella ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte.
Il libro prende il nome da Giosuè, successore di Mosè come guida su Israele. È composto da 24 capitoli descriventi la storia degli Israeliti dopo l’esodo dall’Egitto, e fornisce una panoramica delle campagne militari per conquistare la terra promessa, dando brevi e selettivi racconti di molte battaglie e del modo in cui la terra non solo fu conquistata, ma fu divisa nelle aree tribali. Il periodo descritto è tradizionalmente riferito al 1200-1150 a.C. L’idea centrale del libro è che Dio guida alla libertà, conduce la storia ed ogni conquista è opera di Dio.
Giosuè dopo la morte di Mosè ha ricevuto dal Signore un'eredità non certo facile: condurre i figli d'Israele verso il paese che Dio ha concesso loro in eredità. Giosuè è un uomo pieno di spirito e di saggezza, con un forte ascendente sul popolo, e riuscirà ad assolvere il suo compito.
In questo brano, viene narrata la grande assemblea di Sichem, nella quale Giosuè verso la fine della sua vita indice nello stesso luogo in cui Dio era apparso ad Abramo e gli aveva promesso una terra e una lunga discendenza. Al popolo, agli anziani d’Israele, i capi, i giudici e gli scribi. Giosuè rivolge un discorso alquanto deciso e duro “Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore”. Apparentemente sembra che il popolo debba decidere per la prima volta se accettare o no la proposta di entrare in un rapporto di alleanza con Dio, invece l’alleanza era già stata conclusa. Il popolo quindi non era libero di rifiutare la proposta di Dio! Ma Giosuè insiste che gli israeliti rinnovino la loro decisione, perché non basta quella del passato, e soprattutto prendano coscienza del significato dell’alleanza. Infatti questa implica non semplicemente il culto di una particolare divinità piuttosto che di un’altra, ma l’accettazione nella vita di un codice di comportamento, il decalogo, nel quale in primo piano ci sono i diritti dell’altro. Ciò vuol dire decidere ancora una volta di mettere il bene comune al di sopra del proprio interesse. È impossibile prestare a Dio un culto che prescinda dall’osservanza del decalogo. Il culto a Dio non può andare di pari passo con l’ingiustizia.
Il popolo rinnova con convinzione l’atto di fede affermando: “Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, … quel “noi”, tante volte ripetuto, indica che i presenti intendono essere partecipi e attualizzare la storia della salvezza. E’ quanto in realtà facciamo anche noi cristiani ogni volta che pronunciamo nelle nostre celebrazioni con il “Credo” il nostro atto di fede.
Come nota possiamo aggiungere che per i cristiani Giosuè è la prefigurazione di Cristo: Giosuè ha condotto nella Terra promessa il popolo d’Israele e Cristo è il Salvatore del popolo di Dio.

Salmo 33 - Gustate e vedete com’è buono il Signore.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Gli occhi del Signore sui giusti,
i suoi orecchi al loro grido di aiuto.
Il volto del Signore contro i malfattori,
per eliminarne dalla terra il ricordo.

Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce.
Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.

Molti sono i mali del giusto,
ma da tutti lo libera il Signore.
Custodisce tutte le sue ossa:
neppure uno sarà spezzato.

Il male fa morire il malvagio
e chi odia il giusto sarà condannato.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi;
non sarà condannato chi in lui si rifugia.

L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”. L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1).
Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fà il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di Padre Paolo Berti

Dalla lettera di S. Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto.
E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!
Ef 5,21-32

L’Apostolo Paolo in questo brano della lettera agli efesini tocca temi di grande attualità considerate le difficoltà in cui si trovano oggi le famiglie cristiane in Italia e in varie altre parti del mondo, con le crisi del matrimonio, della maternità e della paternità, con altre assurde e pseudo forme di vita coniugale, che contraddicono apertamente gli insegnamenti dell'etica naturale, biblica e cristiana.
Il brano inizia proponendo un codice domestico, perché il credente viva anche in famiglia la propria adesione al Signore. Dopo la proclamazione del principio generale di una vicendevole sottomissione, Paolo fa un piccolo trattato di morale familiare: l’unione dell’uomo e della donna nel matrimonio e l’unione di Cristo con la Chiesa s’illuminano a vicenda. Cristo è capo della Chiesa e la ama come il suo proprio corpo, così come avviene tra marito e moglie, in questo senso Cristo allora diventa un modello per il matrimonio.
Il rapporto fra Cristo e la Chiesa entra come principio vivificante tra gli sposi che sono uniti nel Cristo Gesù. La sottomissione della donna al marito è relazionata alla Chiesa con Cristo che è il capo, ma Cristo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la vita, per cui i mariti devono amare le mogli come Cristo ha amato la Chiesa per la quale si è immolato e si immola continuamente.
Il termine “sottomessi” ha sempre suscitato discussioni, sicuramente Paolo lo ha usato perché vicino all’ambiente del Medio Oriente, ma il suo pensiero lo esprime più chiaramente in 1Cor,7 ma c’è da leggere nella parola “sottomessi” un significato più profondo: chi ama non misura la quantità di quanto dà con quanto riceve, ama con tutta la forza del proprio cuore, il quale risponde solo alla legge dell’amore, non può fare a meno di amare, come di respirare. Paolo nel suo inno all’amore così lo definisce: L’amore è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Una unione, che ha come fondamento queste parole, non potrà mai avere fine!

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
Gv 6,60-69

L’evangelista Giovanni con il brano attuale registra con amarezza come il lungo discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao, tutto incentrato sull’Eucaristia, sia stato un gran fallimento.
L’evangelista non dice nulla circa le reazioni dei giudei, che erano stati presenti, ma segnala invece quella dei suoi discepoli, molti dei quali, dopo averlo ascoltato, dicevano:” Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”, e soggiunge che Gesù era perfettamente cosciente che essi “mormoravano” a proposito di quanto aveva detto e chiede loro: “Questo vi scandalizza?” Anch’essi dunque trovano nelle sue parole un ostacolo al loro rapporto con lui. Di conseguenza essi “mormorano”, come avevano fatto gli israeliti nel deserto.. Ma Gesù non attenua quanto aveva detto precedentemente, anzi lo conferma dicendo: “E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?” Pur senza smentire quanto ha detto, Gesù fa però una precisazione: “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”.
Con queste parole egli mette in luce il ruolo dello Spirito Santo, che rappresenta simbolicamente l’azione potente di Dio nel cuore dell’uomo. (v.. Ez 36,26-27). Solo lo Spirito è in grado di dare la vita vera, che consiste nella comunione con Dio.
Poi Gesù conclude: “Ma tra voi vi sono alcuni che non credono”. L’evangelista commenta osservando che Gesù sapeva chi tra di loro non credeva e chi l’avrebbe tradito. Poi Gesù aggiunge: “Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre”.
Gesù prende atto del suo fallimento ma non intende cambiare il programma, anzi provoca persino i dodici dicendo loro: “Volete andarvene anche voi?
In questa domanda si percepisce l’amara delusione di Gesù come dello sposo che non vede arrivare gli invitati al banchetto delle sue nozze, che non vede entrare nella sua Chiesa coloro che si professano cristiani e rimangono fuori, digiuni e affamati. È stata sicuramente consolante la confessione di Pietro che interviene a nome di tutti affermando: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. La risposta di Pietro è stupenda e rispecchia la sua indole spontanea e generosa, che pur senza capire tutto, accetta Gesù Messia e crede in lui e nel nome del gruppo professa la sua fede.
Anche noi oggi non sempre capiamo tutto, ma in fondo sappiamo che conviene rimanere perché come Pietro possiamo ancora affermare: ”Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”, e come Pietro continuiamo a credere in Gesù, a seguirlo anche nella nebbia più fitta, portando ognuno la propria croce e accettando il suo mistero

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“Si conclude oggi la lettura del capitolo sesto del Vangelo di Giovanni, con il discorso sul “Pane della vita”, pronunciato da Gesù all’indomani del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Alla fine di quel discorso, il grande entusiasmo del giorno prima si spense, perché Gesù aveva detto di essere il Pane disceso dal cielo, e che avrebbe dato la sua carne come cibo e il suo sangue come bevanda, alludendo così chiaramente al sacrificio della sua stessa vita. Quelle parole suscitarono delusione nella gente, che le giudicò indegne del Messia, non “vincenti”. Così alcuni guardavano Gesù: come un Messia che doveva parlare e agire in modo che la sua missione avesse successo, subito.
Ma proprio su questo si sbagliavano: sul modo di intendere la missione del Messia! Perfino i discepoli non riescono ad accettare quel linguaggio inquietante del Maestro. E il brano di oggi riferisce il loro disagio: «Questa parola è dura! – dicevano – Chi può ascoltarla?»
In realtà, essi hanno capito bene il discorso di Gesù. Talmente bene che non vogliono ascoltarlo, perché è un discorso che mette in crisi la loro mentalità. Sempre le parole di Gesù ci mettono in crisi, per esempio davanti allo spirito del mondo, alla mondanità. Ma Gesù offre la chiave per superare la difficoltà; una chiave fatta di tre elementi. Primo, la sua origine divina: Egli è disceso dal cielo e salirà «là dov’era prima». Secondo: le sue parole si possono comprendere solo attraverso l’azione dello Spirito Santo, Colui «che dà la vita» è proprio lo Spirito Santo che ci fa capire bene Gesù. Terzo: la vera causa dell’incomprensione delle sue parole è la mancanza di fede: «Tra voi ci sono alcuni che non credono», dice Gesù. Infatti da allora, dice il Vangelo, «molti dei suoi discepoli tornarono indietro». Di fronte a queste defezioni, Gesù non fa sconti e non attenua le sue parole, anzi costringe a fare una scelta precisa: o stare con Lui o separarsi da Lui, e dice ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?»
A questo punto Pietro fa la sua confessione di fede a nome degli altri Apostoli: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna». Non dice “dove andremo?”, ma “da chi andremo?”. Il problema di fondo non è andare e abbandonare l’opera intrapresa, ma è da chi andare.
Da quell’interrogativo di Pietro, noi comprendiamo che la fedeltà a Dio è questione di fedeltà a una persona, con la quale ci si lega per camminare insieme sulla stessa strada. E questa persona è Gesù. Tutto quello che abbiamo nel mondo non sazia la nostra fame d’infinito. Abbiamo bisogno di Gesù, di stare con Lui, di nutrirci alla sua mensa, alle sue parole di vita eterna! Credere in Gesù significa fare di Lui il centro, il senso della nostra vita. Cristo non è un elemento accessorio: è il “pane vivo”, il nutrimento indispensabile. Legarsi a Lui, in un vero rapporto di fede e di amore, non significa essere incatenati, ma profondamente liberi, sempre in cammino.
Ognuno di noi può chiedersi: chi è Gesù per me? È un nome, un’idea, soltanto un personaggio storico? O è veramente quella persona che mi ama che ha dato la sua vita per me e cammina con me? Per te chi è Gesù? Stai con Gesù? Cerchi di conoscerlo nella sua parola? Leggi il Vangelo, tutti i giorni un passo di Vangelo per conoscere Gesù? Porti il piccolo Vangelo in tasca, nella borsa, per leggerlo, ovunque? Perché più stiamo con Lui più cresce il desiderio di rimanere con Lui. Adesso vi chiederò cortesemente, facciamo un attimo di silenzio e ognuno di noi in silenzio, nel suo cuore, si faccia la domanda: «Chi è Gesù per me?». In silenzio, ognuno risponda nel suo cuore.
La Vergine Maria ci aiuti ad “andare” sempre a Gesù per sperimentare la libertà che Egli ci offre, e che ci consente di ripulire le nostre scelte dalle incrostazioni mondane e dalle paure.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 23 agosto 2015

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