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S.Messe (settimana)
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Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a porre la nostra attenzione sulla sequela di Gesù: seguire il Signore è percorrere la sua stessa strada.
La prima lettura, tratta dal primo dei Re, il profeta Elia gettando il suo mantello sulle spalle del discepolo Eliseo, lo invita a seguirlo e lo riveste del suo stesso ministero profetico. Eliseo accetta e per lui si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Galati, San Paolo afferma che con Cristo siamo stati chiamati a libertà, e la libertà del cristiano dà la capacità di portare a compimento la legge e di mettersi al servizio del prossimo. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Nel Vangelo, San Luca ci fa comprendere che chi intende mettersi alla sequela di Gesù non deve più guardare al passato, ma è chiamato a mettersi al servizio di Dio, in un cammino di libertà perché sotto l’azione dello Spirito si diventa forti e capaci di prendere su di sé ogni giorno la propria croce, come ha fatto Gesù.

Dal primo libro dei Re
In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto».
Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.
1Re19,16b, 19-21

Il primo libro dei re, come il secondo, è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh, dove sono contati come un testo unico) che in quella cristiana. Sono stati scritti entrambi in ebraico e secondo molti esperti, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte, in particolare della cosiddetta fonte deuteronomista del VII secolo a.C., integrata da tradizioni successive. E’ composto da 22 capitoli descriventi la morte di Davide, Salomone, la scissione del Regno di Israele dal Regno di Giuda, il ministero del Profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C..
Il ciclo di Elia (1Re 17,1 - 22,54; 2Re 1) rappresenta, insieme a quello di Eliseo, il nucleo centrale dei due libri dei Re, di cui mette chiaramente in luce il carattere profetico.
Riepilogando l’antefatto del brano che la liturgia ci propone, sappiamo che dopo il sacrificio del Carmelo (1Re 18,16-46), il profeta Elia, perseguitato da Gezabele, moglie di Acab, si reca al monte Oreb. Durante il cammino nel deserto è sostenuto da Dio, come Israele al tempo dell’esodo, con un pane e un’acqua miracolosi (1Re 19,1-8). Dopo aver camminato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, egli giunge al monte della rivelazione, dove Dio gli appare non nell’uragano, nel terremoto o nei lampi, ma “nel mormorio di un vento leggero” e questo significa che anche Elia, come Mosè, riceve la parola di Dio, non però mediante i fenomeni esterni della teofania, bensì nell’intimo del suo cuore, “pieno di zelo per il Signore”.
Sul monte Oreb Dio affida ad Elia tre compiti il cui scopo è quello di preparare le persone che scateneranno il castigo divino sul popolo peccatore (1Re 19,15-16). Per prima cosa dovrà consacrare Cazael come re di Damasco (2Re 8,7-15); in seguito dovrà ungere Ieu come re di Israele (2Re 9,1-13); infine dovrà ungere come suo successore Eliseo figlio di Safat (1Re 19,19-21). Elia non sarà dunque solo nella sua adesione incondizionata a DIO. Di ritorno dall’Oreb, Elia adempie per primo il terzo dei compiti che gli erano stati affidato, la chiamata di Eliseo.
Il testo liturgico si apre con l’ordine dato da DIO sull’Oreb: “Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto”. La scena dell’incontro di Elia con Eliseo si svolge probabilmente nel villaggio stesso in cui viveva Eliseo, Abel-Mecola. Eliseo è intento a un impegnativo lavoro agricolo, infatti: “arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo”. Al vederlo, “Elìa, gli gettò addosso il suo mantello”.
La sacralità del mantello di Elia apparirà in seguito, nella scena del congedo di Elia da Eliseo (2Re 2,8.l3-14), dove sono attribuite a esso proprietà miracolose. Il gesto di Elia però non ha un carattere miracoloso, e neppure indica un passaggio di poteri da Elia al nuovo discepolo. Questi due significati del mantello appariranno in occasione della dipartita di Elia. Qui invece si tratta di un segno di appropriazione, con il quale Dio prende possesso di un uomo per conferirgli una missione. Eliseo comprende immediatamente il significato del gesto di Elia infatti lascia subito i buoi e corre dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa gli risponde: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te».
Da quel momento la vita di Eliseo, contadino di Abel-Mecolà, villaggio della Transgiordania, è stravolta. Gli è stato consentito solo il congedo ufficiale dal suo nucleo familiare attraverso un pasto d’addio cotto proprio con gli attrezzi dell’aratro, che erano il simbolo della sua antica professione. Poi per Eliseo, si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica
La chiamata di Eliseo dà un’idea dell’origine e della radicalità della vocazione profetica. Infatti non è Eliseo che si mette a disposizione di Dio e neppure Elia che decide di chiamarlo al suo servizio, ma è Dio stesso che dà a Elia il compito di andarlo a cercare e di coinvolgerlo nella missione di guida spirituale del popolo.

Salmo 15 - Sei tu, Signore, l’ unico mio bene.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei tu».
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.

Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

L’intimità goduta con Dio dal sacerdote, autore certamente di questo carme, durante il culto del tempio di Gerusalemme, non può spegnersi con la morte. Nonostante le esitazioni della teologia dell’Antico Testamento, qui abbiamo, sia pure attraverso il ricorso a una simbologia spaziale (la via), una professione di fede nel destino glorioso del fedele. Sembra quasi che il salmista anticipi la speranza che pervade il cristiano il quale ha ascoltato le parole di Gesù: “Io vado a prepararvi un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perchè siate anche voi dove sono io” (Gv 14,2-3)
Commento tratto da “Il Salmi” di Gianfranco Ravasi

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.
Gal 5,1. 13-18

Paolo, scrive la lettera ai Galati tra il 50 e il 57 durante il suo terzo viaggio, probabilmente da Efeso o da Macedonia, per controbattere ad una predicazione fatta, dopo che l'apostolo aveva lasciato la comunità, da alcuni ebrei cristiani, che avevano convinto alcuni Galati che l'insegnamento di Paolo era incompleto e che la salvezza richiedeva il rispetto della Legge di Mosè, in particolare della circoncisione. Paolo condanna tale orientamento, proclamando la libertà dei credenti e la salvezza per mezzo della fede.
La lettera è importante anche perché si trovano delle informazioni storiche sulla vita di Paolo prima della conversione, sulla sua conversione, sugli anni successivi, i suoi rapporti con Pietro, con Gerusalemme, con Barnaba.
Nel brano non riportato dalla liturgia (vv. 2-12) Paolo aveva messo in guardia i galati nei confronti della circoncisione e di tutto ciò che essa comporta, cioè la pratica di tutta la legge. Coloro che cercano di imporla vogliono separarli da Cristo, e così facendo li pongono su una strada sbagliata. Essi devono dunque decidere se stare dalla sua parte o da quella dei suoi avversari. Ma devono anche sapere che nel primo caso scelgono la libertà, mentre nel secondo, pur pensando di fare proprie le prerogative del popolo eletto, scelgono in realtà un regime di schiavitù che svuota il vangelo del suo contenuto essenziale: la croce di Cristo. Il punto che l’apostolo vuole fare capire con chiarezza è uno solo: se egli si contrappone ai giudaizzanti, non è per difendere la sua autorità di apostolo, ma per garantire la verità e l’autenticità del vangelo. I galati possono rifiutare le sue direttive, ma così facendo abbandonano Cristo e rinunziano alla sua grazia. Tutta la legge si riassume infatti nel precetto che impone di amare il prossimo come se stessi. Paolo non predica dunque l’abolizione della legge in quanto tale, ma solo la liberazione da una legge concepita come una norma oggettiva da praticare con le proprie forze.
In questo brano Paolo inizia la sua esortazione con una frase che è tutto un programma: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”
Nel brano precedente Paolo aveva parlato dell'adesione alla Legge in termini di schiavitù. Cristo invece con il suo sacrificio sulla croce ha liberato i credenti. Questa liberazione è per la libertà, non perché si torni alla situazione di sottomissione precedente.
«Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri".
Qui si riprende il discorso sulla libertà ottenuta grazie a Cristo. Qui Paolo per libertà intende innanzitutto la libertà dal legalismo giudaico ma si tratta anche della libertà dal peccato, dall'egoismo. Infatti nella seconda parte di questo versetto si parla della carne. Con questo termine si intende la dimensione umana, sempre bisognosa e fragile. La carne per Paolo è anche la dimensione umana più incline a lasciarsi possedere dal peccato, dall'egoismo.
«Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Ecco il vero significato che sta alla base di tutta la legge: l'amore verso il prossimo. La libertà cristiana si esprime dunque in un servizio reciproco reso per amore, non oppressivo. E' una libertà da se stessi, che non ci rende più schiavi del peccato, ma ci mette a servizio gli uni degli altri.
Questo versetto sottolinea il contrasto tra l'amarsi gli uni gli altri e il divorarsi. Se non vi è amore reciproco, se ognuno vive la propria libertà per seguire il proprio interesse è ovvio che poi arriverà a voler distruggere gli altri che vengono visti solo come un ostacolo al soddisfacimento dei propri bisogni.
«Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne.»
Invece la libertà cristiana si lascia guidare dallo Spirito, si prende le sue responsabilità, non si lascia trascinare dal potere assoluto dei propri bisogni e desideri. Paolo mette in antitesi lo Spirito e la carne. Sono due dinamiche che definiscono l'agire della persona e spesso sono in contrasto tra di loro.
“La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. ”.
Con il termine “carne” Paolo questa volta qualifica l’uomo peccatore nel senso che ponendo se stesso egoisticamente al centro di tutte le cose, trasgredisce anche il comandamento del Decalogo “non desiderare” che rappresenta anch’esso, come il comandamento dell’amore, la sintesi di tutti i precetti divini.
Paolo infine conclude: “Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.” Colui che si lascia guidare dallo Spirito non ha più desideri mondani. La vittoria sul desiderio mondano, e quindi la possibilità di amare i fratelli, dipende dunque essenzialmente dal dono dello Spirito.
In questo testo Paolo mette con forza l’accento sulla libertà in quanto dono che viene fatto da Cristo al credente che consiste fondamentalmente nell’eliminazione di un rapporto servile con la legge. Paolo sottolinea però con chiarezza che questa libertà non consiste nel fare i propri comodi, ma nell’osservare il precetto fondamentale dell’amore, in cui tutta la legge è riassunta
La pratica dell’amore però non è una cosa che competa all’uomo se prima non ha accettato in se stesso il dono dello Spirito. Solo lo Spirito infatti è capace di sostituire i desideri del mondo con altri desideri che portano all’amore e al dono di sé (V. Rm 5,5; 8,1-4). Questo dono ha origine soprattutto dall’esempio di Cristo, dalla Sua totale dedizione al Padre e ai fratelli.
Solo chi assume lo Spirito di Gesù, che è anche lo Spirito di Dio, può essere veramente libero nella pratica dell’amore verso i fratelli.

Dal vangelo secondo Luca
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
Lc 9, 51-62

Luca presenta l’inizio del viaggio di Gesù con una frase emblematica: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» e precisa che Gesù “mandò messaggeri davanti a sé”. C’è un riferimento a Malachia (Ml 3,1) dove Dio invia un angelo a preparare la Sua venuta nel tempio di Gerusalemme e Luca interpreta questo incarico come l’invio di messaggeri ufficiali davanti al Messia per preparargli la strada verso Gerusalemme, dove avrebbe portato a termine la Sua missione.
Gli inviati “si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.” I samaritani erano i nemici tradizionali dei giudei e spesso ne ostacolavano il passaggio nella loro regione, per questo di solito i giudei evitavano di passare nel loro territorio. L’atteggiamento dei samaritani suscita la reazione dei discepoli Giacomo e Giovanni che reagiscono dicendo “«Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.” Gesù li rimprovera aspramente, e da questo episodio, che rivela il carattere impulsivo e vendicativo dei figli di Zebedeo, può far comprendere perché Gesù diede loro il soprannome di Boanèrghes, cioè figli del tuono.
Dopo l’episodio dei samaritani Luca inserisce tre scene di vocazione.
Nella prima scena, a un certo punto si presenta a Gesù un tale che gli dichiara la sua ferma decisione di seguirlo dovunque egli vada. La risposta di Gesù è emblematica: ”Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Prima di decidersi a seguire Gesù bisogna riflettere seriamente, perché si tratta di una scelta che implica privazioni, rischi, mancanza di sicurezze terrene. Una vita comoda e tranquilla non si addice a chi intende mettersi al suo seguito.
Nella seconda scena è Gesù che rivolgendosi ad un altro dice : «Seguimi!». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». C’è da tenere presente che nella società ebraica non c’era solo il compito di adempiere a tutti i doveri connessi con la sepoltura del padre, ma anche di assisterlo nell’ultimo periodo della sua vita.
Tutte queste incombenze erano rese obbligatorie dal quarto comandamento, che prescrive di onorare il padre e la madre. A questo riguardo Gesù esprime il suo pensiero con un’affermazione paradossale, formulata in perfetto stile semitico, uno stile che usa colori accesi e dichiarazioni esplosive: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Mettendosi al seguito di Gesù il discepolo ha scelto la “vita” e non deve più immischiarsi in faccende che riguardano coloro che sono ancora spiritualmente “morti”. Gesù considera quindi la sequela come un impegno talmente decisivo e radicale da far passare in secondo ordine persino gli obblighi più importanti e i legami familiari più stretti.
L’ultima scena riguarda un tale che prendendo lui stesso l’iniziativa si rivolge a Gesù dicendogli: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Costui si impegna a seguirlo, ma prima chiede di potersi accomiatare da quelli di casa sua. Ma Gesù risponde: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
L’aratro, simbolo del lavoro abbandonato da Eliseo, diventa segno del nuovo lavoro dell’apostolo “coltivatore” (chiamando i primi discepoli Gesù aveva parlato di pescatori di uomini). Ma c’è un’altra differenza più rilevante, tra queste scene di vocazione: nella chiamata per il Regno proposta da Cristo non c’è spazio per il “congedo da quelli di casa”.
Chi intende mettersi alla sequela di Gesù non guarda più al passato, è chiamato ad occuparsi di nuova vita; taglia i legami con le idee vecchie e con gli interessi individuali; deve essere disposto ad avventurarsi nel territorio del rinnovamento e della perfezione, deve essere disposto ad affrontare il rischio della novità, amare l’azzardo della libertà. Deve tenere in mente le parole di Gesù «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderò la propria vita per me la salverà»

 

*****

 

“Il Vangelo di questa domenica mostra un passaggio molto importante nella vita di Cristo: il momento in cui – come scrive san Luca – «Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme». Gerusalemme è la meta finale, dove Gesù, nella sua ultima Pasqua, deve morire e risorgere, e così portare a compimento la sua missione di salvezza.
Da quel momento, dopo quella “ferma decisione”, Gesù punta dritto al traguardo, e anche alle persone che incontra e che gli chiedono di seguirlo, dice chiaramente quali sono le condizioni: non avere una dimora stabile; sapersi distaccare dagli affetti umani; non cedere alla nostalgia del passato.
Ma Gesù dice anche ai suoi discepoli, incaricati di precederlo sulla via verso Gerusalemme per annunciare il suo passaggio, di non imporre nulla: se non troveranno disponibilità ad accoglierlo, si proceda oltre, si vada avanti. Gesù non impone mai, Gesù è umile, Gesù invita. Se tu vuoi, vieni. L’umiltà di Gesù è così: Lui invita sempre, non impone.
Tutto questo ci fa pensare. Ci dice, ad esempio, l’importanza che, anche per Gesù, ha avuto la coscienza: l’ascoltare nel suo cuore la voce del Padre e seguirla. Gesù, nella sua esistenza terrena, non era, per così dire, “telecomandato”: era il Verbo incarnato, il Figlio di Dio fatto uomo, e a un certo punto ha preso la ferma decisione di salire a Gerusalemme per l’ultima volta; una decisione presa nella sua coscienza, ma non da solo: insieme al Padre, in piena unione con Lui! Ha deciso in obbedienza al Padre, in ascolto profondo, intimo della sua volontà. E per questo la decisione era ferma, perché presa insieme con il Padre. E nel Padre Gesù trovava la forza e la luce per il suo cammino. E Gesù era libero, in quella decisione era libero. Gesù vuole noi cristiani liberi come Lui, con quella libertà che viene da questo dialogo con il Padre, da questo dialogo con Dio. Gesù non vuole né cristiani egoisti, che seguono il proprio io, non parlano con Dio; né cristiani deboli, cristiani, che non hanno volontà, cristiani «telecomandati», incapaci di creatività, che cercano sempre di collegarsi con la volontà di un altro e non sono liberi. Gesù ci vuole liberi e questa libertà dove si fa? Si fa nel dialogo con Dio nella propria coscienza. Se un cristiano non sa parlare con Dio, non sa sentire Dio nella propria coscienza, non è libero, non è libero.
Per questo dobbiamo imparare ad ascoltare di più la nostra coscienza. Ma attenzione! Questo non significa seguire il proprio io, fare quello che mi interessa, che mi conviene, che mi piace... Non è questo! La coscienza è lo spazio interiore dell’ascolto della verità, del bene, dell’ascolto di Dio; è il luogo interiore della mia relazione con Lui, che parla al mio cuore e mi aiuta a discernere, a comprendere la strada che devo percorrere, e una volta presa la decisione, ad andare avanti, a rimanere fedele.
Noi abbiamo avuto un esempio meraviglioso di come è questo rapporto con Dio nella propria coscienza, un recente esempio meraviglioso. Il Papa Benedetto XVI ci ha dato questo grande esempio quando il Signore gli ha fatto capire, nella preghiera, quale era il passo che doveva compiere. Ha seguito, con grande senso di discernimento e coraggio, la sua coscienza, cioè la volontà di Dio che parlava al suo cuore. E questo esempio del nostro Padre fa tanto bene a tutti noi, come un esempio da seguire.
La Madonna, con grande semplicità, ascoltava e meditava nell’intimo di se stessa la Parola di Dio e ciò che accadeva a Gesù. Seguì il suo Figlio con intima convinzione, con ferma speranza. Ci aiuti Maria a diventare sempre più uomini e donne di coscienza, liberi nella coscienza, perché è nella coscienza che si dà dialogo con Dio; uomini e donne, capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione.”
Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 30 giugno 2013

Pubblicato in Liturgia

La festa del Corpus Dominum, più propriamente chiamata solennità del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, è una delle principali solennità dell'anno liturgico e la celebrazione, chiudendo il ciclo delle feste del dopo Pasqua, vuole celebrare il mistero dell'Eucaristia. Questa festa è stata istituita nel lontano 1264 da Papa Urbano IV a ricordo del miracolo eucaristico avvenuto nel 1263 a Bolsena, anche se non era stato il primo .
La liturgia ci propone per questa celebrazione, nella prima lettura, un brano tratto dal Libro della Genesi, in cui incontriamo la figura di Melchisedek, che molto tempo prima della venuta di Cristo, offrì a Dio del pane e del vino, segno misterioso e anticipatore dell’Eucaristia.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, San Paolo, facendo memoria dell’ultima Cena, presenta il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia.
Nel Vangelo di San Luca troviamo il racconto del famoso miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Anche oggi la Chiesa, come già al tempo degli apostoli, legge il miracolo del pane in chiave eucaristica e fa compiere a Gesù i gesti dell’ultima cena: prende...benedice...spezza...dona . Come nell’ultima Cena, Gesù comanda agli apostoli di preparare da mangiare, ma è Lui in realtà che dona. L’uomo, nel suo cammino terreno, non è mai sazio perché la sua fame non è di solo pane, ma è fame di Dio.

Dal Libro della Genesi
In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici».
E [Abramo] diede a lui la decima di tutto.
Gen 14,18-20

Il Libro della Genesi è il primo libro del Pentateuco (cinque libri; in origine tutti in un unico rotolo: la Torà) e tratta delle origini dell’universo, del genere umano, del peccato originale, della storia dei patriarchi prediluviani, della chiamata di Abramo fino alla morte di Giacobbe. È stato scritto in ebraico e, secondo gli esperti, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11, dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi, Abramo, Isacco,Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente del II millennio a.C. (attorno al 1800-1700 a.C).
Per capire il brano liturgico è importante conoscere l’antefatto.
Dopo il racconto della vocazione di Abram, al quale Dio promette di conferire una speciale benedizione e di far sorgere da lui un grande popolo, segue quello del suo arrivo a Sichem, presso le Querce di Mamre, ma nel paese si trovavano allora i cananei. E’ solo in questo momento che Dio fa ad Abram anche la promessa di dare proprio quella terra alla sua discendenza.
Subito dopo l'arrivo nella terra di Canaan, Abram è costretto da una carestia ad andare in Egitto, in cui vediamo che in certi frangenti Abram manifesta anche la sua mediocrità e la sua poca fede. Ma Dio interviene sempre per riparare gli errori umani e fare in modo che la Sua promessa si attui.
Poi c’è il racconto della separazione di Lot da Abram e la generosità del patriarca di far scegliere a Lot il luogo in cui abitare, per cui ad Abram resta la zona montagnosa della Palestina. E subito Dio gli appare per dirgli che tutta quella regione apparterrà un giorno ai suoi discendenti. Si narra anche un incidente increscioso: in seguito all'incursione di quattro re orientali Lot viene fatto prigioniero. Abram allora raccoglie i suoi uomini, insegue le truppe dei quattro re e libera suo nipote (Gen 14,1-17).
Al suo ritorno da questa spedizione ha luogo nella Valle del re, vicino a Gerusalemme, l'incontro con Melchisedek.
Il brano che la liturgia ci propone è solo la parte iniziale di questo racconto ed ha come protagonisti Abramo e Melchisedek, re di quella Salem che diverrà la futura
Gerusalemme. Il re di Salem, Melchisedek, - due nomi dai significati simbolici di “pace” e di “re di giustizia-salvezza” offre pane e vino ad Abramo reduce dalla spedizione punitiva contro quattro re che avevano catturato suo nipote Lot. Il gesto è un segno di collaborazione perché permette ad Abramo e ai suoi di rifocillarsi. Melchisedek è però anche sacerdote del suo popolo e l’atto assume anche gli aspetti di un rito sacrificale, di ringraziamento e di alleanza con una benedizione solenne espressa con queste parole: “Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici”.
La benedizione è una parola efficace e irrevocabile che, anche pronunziata da un uomo, trasmette l’effetto che vi si esprime, poiché è Dio che benedice, ma anche l’uomo, a sua volta, benedice Dio, loda la sua grandezza e la sua bontà nello stesso tempo in cui augura di vederle affermarsi ed estendersi. Qui le due benedizioni sono associate. Abramo dimostra di gradire questa benedizione di Melchisedek dando “a lui la decima di tutto”
Il Salmo 110(109), che la Liturgia oggi ci propone, vedrà in lui una figura del Messia, re e sacerdote, e l’autore della lettera agli Ebrei, l’applicherà a Cristo. La tradizione patristica arricchirà questa esegesi allegorica vedendo nel pane e nel vino offerti da Melchisedek ad Abramo non solo un tipo di Eucaristia, ma anche un vero sacrificio, tipo del sacrificio eucaristico, fissando questa interpretazione nella preghiera eucaristica della Messa… “oblazione pura e santa di Melchisedeck, tuo sommo sacerdote” .

Salmo 109/110 «Tu sei sacerdote per sempre, Cristo Signore.»

Oràcolo del Signore al mio Signore:
«Siedi alla mia destra,
finché io ponga i tuoi nemici
a sgabello dei tuoi piedi».

Lo scettro del tuo potere
stende il Signore da Sion:
«Domina in mezzo ai tuoi nemici.

A te il principato nel giorno della tua potenza
tra santi splendori;
dal seno dell'aurora,
come rugiada, io ti ho generato».

Il Signore ha giurato
e non si pente:
«Tu sei sacerdote per sempre
al modo di Melchisedek».

Il Vangelo (Mt 22,44) afferma che questo salmo è stato scritto da Davide.
Davide presenta il Messia come il Signore, il che vuol dire che lo riconosce superiore a lui.
“”; Dio presenta al Messia l'evento della sua intronizzazione in cielo. Egli sedendo alla destra del Padre è il suo plenipotenziario (Cf. At 2,33s; Eb 1,13; 10,12; 1Pt 3,22).
Davide dice che il suo potere regale si è affermato a Sion: ”Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion”. La regalità di Cristo si è affermata con la conquista del genere umano operata sulla croce.
“Domina in mezzo ai tuoi nemici”; nessuno, dunque, potrà mai scalzare il suo dominio; ed egli è il giudice di tutti. Il “regno della terra” gli viene dato nel giorno della sua potenza, cioè della manifestazione della sua vittoria, che si avrà con la sua morte e risurrezione e l'ingresso trionfale in cielo. Trionfo avvenuto “tra santi splendori”, cioè nell'osanna delle schiere angeliche.
“Dal seno dell'aurora, come rugiada, io ti ho generato”; la risurrezione è unita alla glorificazione dell'umanità del Cristo. La glorificazione è presentata poeticamente come un nascere “dal seno dell'aurora”. Egli risorto e glorioso non cessa di essere in relazione con la terra, anzi la sua risurrezione lo costituisce come “rugiada” per la terra.
Egli è re per sempre e sacerdote per sempre. Non possiede un sacerdozio per via di nascita dalla tribù di Levi come era quello Aronitico, ma per elezione di Dio, come era quello di Melchisedek (Eb 5,6).
Dio sarà alla sua destra nel senso che la battaglia escatologica (il dies irae) contro i suoi nemici la condurrà su comando del Padre, il quale ne deciderà il momento (At 1,7): “Il Signore è alla tua destra! Egli abbatterà i re nel giorno della sua ira”.
Il Messia si disseterà “al torrente”, cioè vivrà lontano dagli agi di una corte terrena, e solleverà “alta la testa”, perché non avrà cedimenti col mondo.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
1Cor 11,23-26

Paolo scrivendo ai Corinzi, poco più di 20 anni dalla morte e resurrezione di Cristo, ci offre una preziosa descrizione della celebrazione eucaristica. Questo testo, il primo e il più antico sulla celebrazione eucaristica, si inserisce in un contesto di rimprovero per gli abusi contro la carità che venivano fatti nei riguardi dei più piccoli e poveri. Infatti, l’Apostolo (nei versetti precedenti 11,17-22 non riportati dalla liturgia odierna) rimprovera i Corinzi perchè era venuto a sapere che nelle loro assemblee c’erano divisioni.
In una situazione del genere le riunioni dovevano essere piuttosto fredde, ogni gruppo si isolava dall’altro e non vi era quindi condivisione, come dimostra il fatto che alcuni prendevano il pasto portato da casa, prima della cena del Signore, finendo poi per ubriacarsi, mentre altri, non avendo nulla, continuavano a rimanere nella fame.
Paolo propone allora un salutare ritorno alle origini della fede: se i Corinzi si sono dimenticati la ragione del loro riunirsi è bene ricordarglielo, per questo in tono solenne Paolo fa memoria dell’evento della Cena Eucaristica, iniziando dalla notte del tradimento. A consegnare Gesù non è solo "Giuda il traditore" né solo i sommi sacerdoti, gli anziani del popolo e Pilato. In quella notte è Gesù stesso che si consegna alla morte per amore: ed è il Padre che lo consegna "per tutti noi". La Messa dunque fa memoria e attualizza questo evento che è il fulcro della storia. Veste della Messa è il rito, la celebrazione, e indipendentemente dal valore del celebrante e della fede e partecipazione dei fedeli presenti, quel che conta è il significato di quello che avviene sull'altare. Gesù stesso, al momento della Consacrazione, si rende presente, in modo sacramentale, e con il Suo sacrificio d'amore si fa cibo per ognuno di noi.
La Chiesa vive di questo Pane e di questo Vino che sono il Corpo e il Sangue di Cristo immolato. Vive e cresce, purificata, santificata da Gesù che ancora "si dà per la vita di tutti". Paolo lo ribadisce dicendo: Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare».
Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.
Lc 9, 11b-17

Questo brano è tratto dal capitolo 9 che Luca dedica alla missione dei Dodici. Gesù aveva data loro potere e autorità sui demoni e di curare le malattie, e li aveva inviati ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi. E' un'anticipazione di quanto i discepoli compiranno negli Atti degli apostoli. Nel versetto successivo Luca riporta le considerazioni di Erode sulla figura e alle opere di Gesù, poi riporta l’attenzione sugli apostoli che ritornano da Gesù e gli raccontano ciò che hanno compiuto.
Nel brano parallelo l’evangelista Marco ricorda che Gesù invitò gli apostoli a riposare un po' in un luogo solitario, mentre Luca dice solo che li prese con sé e insieme si ritirarono in un luogo vicino alla città di Betsaida. 1* Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono.
“Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.”
Gesù voleva forse far riposare i suoi discepoli dopo averli mandati in missione o approfondire il suo insegnamento, ma è costretto a far fronte a un cambiamento di programma. Le folle lo seguono e Lui le accoglie, parlando loro del regno di Dio e guarendo quanti avevano bisogno di cure. Gesù dunque continua a svolgere il suo mandato di medico nei confronti dei malati, ma anche a salvare i peccatori dalla loro situazione di prigionia e di morte.
“Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».”
Gli apostoli prendono l'iniziativa, ma con un'idea piuttosto irrealizzabile: cinquemila persone non potevano essere rifocillate tanto facilmente nemmeno nei villaggi vicini. Si può notare che tra i quattro evangelisti solo Luca accenna all'alloggio. Egli risente probabilmente della geografia greca in cui non è facile passare la notte all'addiaccio, mentre per il clima palestinese questo non sarebbe stato un problema.
“Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente»”.
Gesù aveva già dato ai Dodici il mandato di predicare il vangelo e di guarire i malati. Ora affida loro anche il compito di dare da mangiare alla gente. Il pane e il pesce in salamoia era il cibo che solitamente si portava quando si era in viaggio e poteva bastare per fare cena. Quello che hanno a disposizione è comunque poca cosa. Certo non può bastare per sfamare tutta quella moltitudine. Ancora i Dodici cercano una soluzione "umana", andare loro ad acquistare i viveri per tutta la folla.
“C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa».”
Luca ci dice che la folla era composta da circa cinquemila uomini, senza contare perciò le donne e i bambini. Gesù ordina che la folla venga fatta “sedere a gruppi di cinquanta circa”. Li fa dunque accomodare e l'indicazione dei gruppi di 50 ricorda le suddivisioni del popolo di Israele nel deserto (V. Es 18,21.25). E' interessante notare che Gesù suddivide la folla in gruppi: non vuole che siano una massa anonima, ma che tra di loro si sentano un'unità dentro una realtà più grande. E' quello che accade a noi, non siamo soli nel rapporto con il Signore, ma siamo chiamati a viverlo all'interno di una comunità, ad avere dei compagni di cammino.
“Fecero così e li fecero sedere tutti quanti”. Anche a Emmaus i commensali erano seduti a tavola, quando Gesù spezzò il pane (Lc 24,30). Tutti siamo chiamati a sederci e a condividere questo pane, come quando condividiamo il cibo a casa nostra con i nostri familiari.
“Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla”.
A questo punto l’evangelista anticipa i gesti di Gesù sul pane e sul vino nell’Eucaristia:“Prese i cinque pani, alzò gli occhi al cielo”, in segno di comunione piena con il Padre, “recitò su di essi la benedizione, li spezzò”, sono le stesse parole dell’Eucaristia, quindi in questo episodio l’evangelista tratteggia il suo significato profondo. E’ interessante anche il particolare della presenza dei pesci, infatti nella parola greca con cui si identifica il pesce “ichtùs”, si leggeva l’ideogramma Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr,: Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore
“Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.”
L'episodio termina con un quadro di abbondanza e di pienezza. Il banchetto e la sazietà è un simbolo dei tempi messianici. Gesù realizza in pienezza le anticipazioni della storia di Israele. Egli è il nuovo Mosè che sfama le folle nel deserto. E' il nuovo Eliseo che con 20 pani di orzo e farro aveva sfamato 100 persone (2Re 4,42-44). Gesù è più importante di tutti loro. La manna scendeva dal cielo per opera di Dio e non di Mosè. Interessante anche sottolineare alcuni nomi utilizzati: gli avanzi vengono indicati con il nome di klasma, che nella comunità primitiva era l'avanzo del pane consacrato, che veniva custodito gelosamente dopo la celebrazione dell'Eucaristia. Il nome delle ceste indica quelle utilizzate per il trasporto del vitto dei soldati, quindi avevano una certa capienza. Le ceste erano dodici come il numero delle tribù d’Israele. Dio continua a provvedere al suo popolo. Il dodici può essere riferito anche ai dodici apostoli: c'è un'abbondanza che essi devono conservare e distribuire alla Chiesa.

*****

“Oggi, in Italia e in altre Nazioni, si celebra la solennità del Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini. Il Vangelo ci presenta l’episodio del miracolo dei pani che si svolge sulla riva del lago di Galilea. Gesù è intento a parlare a migliaia di persone, operando guarigioni. Sul far della sera, i discepoli si avvicinano al Signore e Gli dicono: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo» Anche i discepoli erano stanchi. Infatti erano in un luogo isolato, e la gente per comprare il cibo doveva camminare e andare nei villaggi. E Gesù vede questo e risponde: «Voi stessi date loro da mangiare». Queste parole provocano lo stupore dei discepoli. Non capivano, forse si sono anche arrabbiati, e rispondono: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente».
Invece, Gesù invita i suoi discepoli a compiere una vera conversione dalla logica del “ciascuno per sé” a quella della condivisione, incominciando da quel poco che la Provvidenza ci mette a disposizione. E subito mostra di aver bene chiaro quello che vuole fare. Dice loro: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa» . Poi prende nelle sue mani i cinque pani e i due pesci, si rivolge al Padre celeste e pronuncia la preghiera di benedizione. Quindi, comincia a spezzare i pani, a dividere i pesci, e a darli ai discepoli, i quali li distribuiscono alla folla. E quel cibo non finisce, finché tutti ne hanno ricevuto a sazietà.
Questo miracolo – molto importante, tant’è vero che viene raccontato da tutti gli Evangelisti – manifesta la potenza del Messia e, nello stesso tempo, la sua compassione: Gesù ha compassione della gente. Quel gesto prodigioso non solo rimane come uno dei grandi segni della vita pubblica di Gesù, ma anticipa quello che sarà poi, alla fine, il memoriale del suo sacrificio, cioè l’Eucaristia, sacramento del suo Corpo e del suo Sangue donati per salvezza del mondo.
L’Eucaristia è la sintesi di tutta l’esistenza di Gesù, che è stata un unico atto di amore al Padre e ai fratelli. Anche lì, come nel miracolo della moltiplicazione dei pani, Gesù prese il pane nelle sue mani, elevò al Padre la preghiera benedizione, spezzò il pane e lo diede ai discepoli; e lo stesso fece con il calice del vino. Ma in quel momento, alla vigilia della sua Passione, Egli volle lasciare in quel gesto il Testamento della nuova ed eterna Alleanza, memoriale perpetuo della sua Pasqua di morte e risurrezione.
La festa del Corpus Domini ci invita ogni anno a rinnovare lo stupore e la gioia per questo dono stupendo del Signore, che è l’Eucaristia. Accogliamolo con gratitudine, non in modo passivo, abitudinario. Non dobbiamo abituarci all’Eucaristia e andare a comunicarci come per abitudine: no! Ogni volta che noi ci accostiamo all’altare per ricevere l’Eucaristia, dobbiamo rinnovare davvero il nostro “amen” al Corpo di Cristo. Quando il sacerdote ci dice “il Corpo di Cristo”, noi diciamo “amen”: ma che sia un “amen” che viene dal cuore, convinto. È Gesù, è Gesù che mi ha salvato, è Gesù che viene a darmi la forza per vivere. È Gesù, Gesù vivo. Ma non dobbiamo abituarci: ogni volta come se fosse la prima comunione.
Espressione della fede eucaristica del popolo santo di Dio, sono le processioni con il Santissimo Sacramento, che in questa Solennità si svolgono dappertutto nella Chiesa Cattolica
La Madonna ci aiuti a seguire con fede e amore Gesù che adoriamo nell’Eucaristia.”

Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 23 giugno 2019

 

1* L'indicazione geografica non è del tutto plausibile, poiché attorno a Betsaida non vi sono zone deserte, come faranno invece notare gli apostoli al v. 12. Sicuramente Luca non aveva molta conoscenza della geografia della Palestina oppure gli serviva un aggancio per giustificare le invettive che Gesù rivolgerà nel capitolo seguente alle città di Corazin e di Betsaida, appunto (cf. Lc 10,13)

Pubblicato in Liturgia

Con le letture che la liturgia di questa domenica dopo Pentecoste ci presenta, noi cristiani contempliamo Dio nella Sua realtà più profonda e più intima: Dio è Padre creatore, Dio è Figlio redentore e Dio è Spirito Santo amore. Le tre Divine Persone ci permettono di vivere nella fede, nella speranza e nell’amore
Nella prima lettura, tratta dal libro dei Proverbi, possiamo renderci conto che già nell’Antico Testamento viene adombrato il mistero della Trinità santissima, dove la Sapienza di Dio è descritta accanto a Lui, come una persona, nel momento della creazione.
Nella seconda lettura, S.Paolo nella sua lettera ai Romani, ci ricorda che con il battesimo i cristiani fanno esperienza di essere figli adottivi di Dio. Possono conoscere così l’amore del Padre, la grazia del Figlio e la comunione dello Spirito Santo.
Nel Vangelo di Giovanni, troviamo ancora un’altra parte finale del lungo discorso di addio rivolto da Gesù ai Suoi discepoli durante l'ultima cena. Gesù in quella notte pronunzia per cinque volte una promessa dal contenuto costante: il dono dello Spirito Santo. Nella promessa che Gesù fa, emerge ancora una volta la relazione che intercorre tra lo Spirito Santo, il Padre e il Figlio.
La solennità della Santissima Trinità, celebrata già dal VI secolo e diffusasi all’inizio del secondo millennio, traduce in canti e preghiere il Simbolo della fede formulato nei concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381). Essa proclama che il Dio che a noi si è rivelato è uno, ma non è solo. E’ comunità d’amore: Padre, principio di tutte le cose, Figlio, rivelatore del Padre e artefice della redenzione del mondo, Spirito Santo, perfezionatore della Sua opera e santificatore, uniti nello stesso amore e nello stesso progetto di salvezza. Di questo Dio in Tre persone l’uomo porta l’immagine, per questo realizza se stesso nella relazione di amore

Dal libro dei Proverbi
Così parla la Sapienza di Dio
«Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività,
prima di ogni sua opera, all'origine.
Dall'eternità sono stata formata,
fin dal principio, dagli inizi della terra.
Quando non esistevano gli abissi, io fui generata,
quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua;
prima delle colline, io fui generata,
quando ancora non aveva fatto la terra e i campi
né le prime zolle del mondo.
Quando egli fissava i cieli, io ero là;
quando tracciava un cerchio sull'abisso,
quando condensava le nubi in alto,
quando fissava le sorgenti dell'abisso,
quando stabiliva al mare i suoi limiti,
così che le acque non ne oltrepassassero i confini,
quando disponeva le fondamenta della terra,
30 io ero con lui come artefice
ed ero la sua delizia ogni giorno:
giocavo davanti a lui in ogni istante,
giocavo sul globo terrestre,
ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo».
Pr 8,22.31

Il Libro dei Proverbi è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana. È stato scritto in ebraico, e secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la redazione definitiva del libro è avvenuta in Giudea nel V secolo a.C., raccogliendo testi composti da autori ignoti lungo i secoli precedenti fino al periodo monarchico (XI-X secolo a.C.). È composto da 31 capitoli contenenti vari proverbi e detti sapienziali. L'insegnamento contenuto, indica le regole da seguire per attuare un comportamento che non arreca problemi a chi le applica e a lungo andare lo rende felice nella vita.
Il brano che abbiamo fa parte della raccolta iniziale del libro e le massime sono poste sulla bocca del maestro, che si rivolge ai suoi alunni chiamandoli con l'appellativo di figli e dà loro le istruzioni per una vita saggia. La raccolta si divide in quattro parti. Nella prima parte(8,1-11) si presenta la sapienza, che scende in campo invitando tutti i “figli dell’uomo” ad ascoltarla per diventare assennati. Nella seconda (8,12-21) la sapienza pronunzia un ampio elogio delle proprie doti e capacità. Essa possiede prudenza, scienza e riflessione, detesta superbia, arroganza, cattiva condotta e bocca perversa; a lei appartiene il consiglio e il buon senso, l’intelligenza e la potenza.
Nella terza parte, che ci propone la liturgia, la sapienza continua il suo discorso descrivendo la sua origine e i suoi rapporti con Dio. Questo brano è composto di quattro strofe di cui le prime due descrivono l’origine della sapienza, la terza mette in luce la sua partecipazione alla creazione e l’ultima indica i suoi rapporti con l’umanità.
Nella prima strofa la Sapienza afferma: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera”, ed afferma di essere stata “formata, fin dal principio, dagli inizi della terra”.
Nella seconda strofa la Sapienza riafferma la propria anteriorità rispetto alle opere create da Dio, ed elenca cinque realtà che ancora non esistevano quando ha avuto origine: le prime due sono introdotte dalla preposizione “quando non”, le altre due da “prima che” e l’ultima nuovamente da “quando non”. Si tratta degli abissi, delle “sorgenti cariche d’acqua”, delle “basi dei monti,” delle “colline” e infine della “terra e i campi”, e “le prime zolle del mondo”.
Nella terza strofa la sapienza descrive l’opera della creazione in sei interventi: “Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull'abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell'abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno”
Nella Genesi è scritto che Dio ha fissato i cieli e ha tracciato un cerchio sull’abisso, ha condensato le nubi in alto e ha fissato le sorgenti dell’abisso (Gen 1,6-8), ha stabilito al mare i suoi limiti perché le acque non ne oltrepassassero la spiaggia e ha disposto le fondamenta della terra (Gen 1, 9-10). Mentre Dio portava a termine queste Sue opere la Sapienza afferma “io ero là”, era “con Lui come artefice”.
Sebbene il primo significato fa pensare al Libro della Sapienza (Sap 7,21), qui sembra invece che la Sapienza abbia partecipato alla creazione come un bambino che assiste al lavoro del padre: ciò che viene messo in risalto è dunque la presenza costante della sapienza accanto a Dio durante tutte le fasi della creazione. In questo ruolo la sapienza rappresenta per Dio una “delizia”.
Nella quarta strofa la sapienza delinea la sua opera nei confronti di Dio, della terra e dell’umanità. “giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo”. La Sapienza gioca davanti a Dio! Sembra che svolga come un servizio liturgico alla Sua presenza, ma al tempo stesso gioca sul globo terrestre e pone la sua delizia tra i figli dell’uomo, cioè trova gioia nello stare con l’umanità.
Come impressione finale si può dire che la Sapienza di Dio è dipinta con una vera e propria cascata di immagini cosmiche che rappresentano l’armonia del progetto divino. Ma la raffigurazione più originale è quella finale in cui la Sapienza è rappresentata mentre danza con i figli dell’uomo: “giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo.” Possiamo intuire che per Dio creare è una festa, è gioia. E l’uomo che sa scoprire il mistero dell’essere può partecipare a questa armonia e a questa felicità divina.
Questa immagine finale ci dovrebbe spingere a rispettare ed amare di più il creato come un dono ricevuto per essere a nostra volta consegnato ai chi viene dopo di noi.

Salmo 8/9 - O Signore nostro Dio, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!
Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell'uomo, perché te ne curi?

Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell'uomo, perché te ne curi?

Tutte le greggi e gli armenti
e anche le bestie della campagna,
gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
ogni essere che percorre le vie dei mari.

L’orante esprime il suo stupore verso Dio. Ogni cosa sulla terra manifesta la sua potenza e grandezza - “il suo nome” -. Egli è tanto potente che può abbattere i suoi avversari anche solo con la bocca dei bimbi e dei lattanti, proclamanti la sua maestà, che gli empi vorrebbero oscurare.
Lo spettacolo della volta stellata fa sentire l’orante piccolo, poca cosa, e quindi realtà trascurabile da Dio, ma non è affatto così. L’uomo - afferma l’orante – è fatto poco meno degli angeli, capace di dominio sulle cose create da Dio. Gli angeli sono puri spiriti e come tali hanno una natura superiore a quella dell’uomo, che apprende le cose in concomitanza con i sensi, mentre l’angelo è semplice intellezione. Tuttavia gli angeli non procreano, collaboratori di Dio, una carne, che è animata da un’anima creata all’istante da Dio per la formazione di un nuovo uomo o di una nuova donna. Poi nessun angelo ha una carne contro la quale lottare, e con la quale giungere a testimoniare il suo amore a Dio fino a sacrificare la vita.
L’orante termina il salmo con le stesse parole di stupore con il quale l’aveva cominciato.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l'accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.
La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Rm 5,1-5

Questo brano è tratto dalla prima parte della lettera ai Romani, quella che gli esperti definiscono "dogmatica" . Nei capitoli 1-4 Paolo aveva parlato della giustificazione dei peccatori e a partire dal capitolo 5, fino al cap. 11 analizza come il cristiano giustificato trova nell’amore di Dio e nel dono dello Spirito la garanzia della salvezza. Questo brano è stato scelto per la solennità di oggi poiché vi è descritta la vita del cristiano in una prospettiva trinitaria.
“Giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”.
Nei capitoli precedenti Paolo aveva spiegato che la fede rende giusti. Se nell'Antico Testamento la giustizia derivava dall'osservanza della Legge e dalla realizzazione delle opere da essa richieste, ora la vera giustizia dipende dalla fede per cui giusto è colui che si affida al Signore. La prima conseguenza per chi è stato giustificato è vivere in pace. Ciò non significa tranquillità e serenità d'animo, bensì un rapporto positivo con Dio, fonte di salvezza,. E' una situazione di grazia che abbiamo ottenuto grazie all'intervento di Cristo.
“Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l'accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio”.
La pace è dunque uno stato di grazia a cui si può accedere mediante la fede. La seconda caratteristica della vita del giustificato è la speranza, cioè l'apertura a un futuro esaltante di persone trasfigurate dalla gloriosa azione divina. E' solo un piccolo accenno che verrà sviluppato nei capitoli seguenti.
“E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza”.
Paolo sa bene che anche a Roma i cristiani subivano spesso persecuzioni. Però il credente se si vanta della speranza che lo attende, può vantarsi anche nelle tribolazioni che può affrontare solo se resta saldo nella fede. La tribolazione volontariamente accettata produce infatti la “pazienza”, cioè la capacità di resistere coraggiosamente alle prove dolorose della vita; questa pazienza si trasforma in una “virtù provata” e da questa virtù provata, o meglio in sintonia con essa, si sviluppa una “speranza” ancora più forte.
“La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.
Paolo non vuole illudere i suoi interlocutori. Il credente non lotta contro i mulini a vento. Non compie una battaglia inutile, perché la speranza non può deludere perché non si limita a provocare l’attesa delle realtà future, ma ne dà un’esperienza anticipata con la capacità di amare che lo Spirito santo “riversa” nei nostri cuori.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Gv16,12-15


Anche questo brano del Vangelo di Giovanni è tratto dalla seconda parte del discorso di addio che l'evangelista pone sulla bocca di Gesù durante l'ultima cena, poco prima del suo arresto.
Il discorso cerca di dare risposta ad una situazione precaria che la comunità subì per l’espulsione dalla comunità ebraica.1
La comunità giudeo-cristiana frequentava infatti il Tempio e le sinagoghe Gli ebrei non avevano accolto la predicazione dei primi cristiani, che si sentivano perciò discriminati. Pur non perdendo la fede nel messaggio di Gesù e nella risurrezione dei morti, la comunità era rimasta delusa dal loro fragile impatto sul mondo circostante.
L'evangelista Giovanni allo scopo di dare nuova fiducia a questa comunità, evidenzia la nuova situazione di Gesù: Egli è tornato al Padre, è glorificato e ricolma i suoi con il dono dello Spirito santo
“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso”.
Gesù ha fatto conoscere ai discepoli tutto ciò che ha udito dal Padre, ma, perché ne abbiano una comprensione più profonda, deve intervenire lo Spirito.
“Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future”.
Lo Spirito Santo è l'interprete di Gesù, l'era dello Spirito è quella in cui il passato si illumina attraverso il presente.
Non solo ma il Paraclito permetterà di parlare del Figlio glorificato, comunicherà ciò che gli appartiene nella sua perfetta comunione con il Padre. Le tre azioni dello Spirito Santo sono:
- guidare: Egli guiderà i discepoli verso la verità, La verità intera è la pienezza di tale mistero. Non sono molteplici verità. Si tratta della verità una e totale del Cristo glorificato in Dio e che si comunica come tale ai suoi.
- parlare: per guidare alla verità, lo Spirito deve parlare, o meglio esprimere ciò che ha udito dal Figlio Il Figlio continuerà a farsi comprendere grazie allo Spirito Santo. Lo Spirito, proprio come Gesù, non parla di Sua iniziativa perché ascolterà da Gesù come Gesù stesso ascoltava dal Padre. La Sua parola non risuona e si ferma nelle orecchie come faceva la parola di Gesù, ma raggiunge il cuore.

- comunicare: se lo Spirito parla, dice ciò che ascolta dal Figlio per comunicarlo. Annuncia, rivela una cosa sconosciuta, la ripete nuovamente. Lo Spirito sarà dunque l'espressione di Gesù stesso.
“Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”.
Lo Spirito Santo non riceve tanto parole di rivelazione per ripeterle agli altri, ma ciò che prende è qualcosa di prezioso perchè lo attinge da Gesù.
Rivelando questo tesoro inesauribile Egli glorificherà il Figlio, la cui missione aveva come scopo la partecipazione dei discepoli alla vita eterna già da questa terra.
“Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”
Quello che possiede il Figlio però viene dal Padre. L'annuncio dello Spirito Santo porta alla comprensione del mistero, ma anche e soprattutto alla vita che è nel Padre e nel Figlio, verso la gloria donata da tutta l'eternità al Figlio, verso l'amore che è Dio.
In questa pagina evangelica leggiamo la promessa dalla quale emerge ancora una volta la relazione che intercorre tra lo Spirito Santo e il Padre e il Figlio. Il Padre ha comunicato al Figlio tutto quanto possiede, cioè tutta la Sua vita e la Sua verità. Gesù ha comunicato a noi quella vita e quella verità, ma il mistero infinito di Dio esige per le nostre piccole menti una rivelazione che si dilati nel tempo e nello spazio. E questa è la missione dello Spirito donato alla Chiesa da Gesù risorto: “Egli ci guiderà alla verità tutta intera” illuminando in pienezza la ricchezza divina che Gesù ci ha portato.
La solennità di oggi ci offre un’idea del volto irraggiungibile di Dio. Egli non è un imperatore impassibile e solitario, avvolto nelle nubi della Sua trascendenza, ma si è legato a noi come Creatore, Salvatore e Rivelatore. La Sua Parola crea, redime e ci indica la meta ultima, quella dell’abbraccio pieno con Lui perché come afferma S.Paolo “ allora saremo sempre col Signore” (1Ts 4,17)

*****

“Oggi, festa della Santissima Trinità, il Vangelo di san Giovanni ci presenta un brano del lungo discorso di addio, pronunciato da Gesù poco prima della sua passione. In questo discorso Egli spiega ai discepoli le verità più profonde che lo riguardano; e così viene delineato il rapporto tra Gesù, il Padre e lo Spirito.
Gesù sa di essere vicino alla realizzazione del disegno del Padre, che si compirà con la sua morte e risurrezione; per questo vuole assicurare ai suoi che non li abbandonerà, perché la sua missione sarà prolungata dallo Spirito Santo. Ci sarà lo Spirito a prolungare la missione di Gesù, cioè a guidare la Chiesa avanti.
Gesù rivela in che cosa consiste questa missione. Anzitutto lo Spirito ci guida a capire le molte cose che Gesù stesso ha ancora da dire. Non si tratta di dottrine nuove o speciali, ma di una piena comprensione di tutto ciò che il Figlio ha udito dal Padre e che ha fatto conoscere ai discepoli . Lo Spirito ci guida nelle nuove situazioni esistenziali con uno sguardo rivolto a Gesù e, al tempo stesso, aperto agli eventi e al futuro. Egli ci aiuta a camminare nella storia saldamente radicati nel Vangelo e anche con dinamica fedeltà alle nostre tradizioni e consuetudini.
Ma il mistero della Trinità ci parla anche di noi, del nostro rapporto con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Infatti, mediante il Battesimo, lo Spirito Santo ci ha inseriti nel cuore e nella vita stessa di Dio, che è comunione di amore.
Dio è una “famiglia” di tre Persone che si amano così tanto da formare una sola cosa. Questa “famiglia divina” non è chiusa in sé stessa, ma è aperta, si comunica nella creazione e nella storia ed è entrata nel mondo degli uomini per chiamare tutti a farne parte. L’orizzonte trinitario di comunione ci avvolge tutti e ci stimola a vivere nell’amore e nella condivisione fraterna, certi che là dove c’è amore, c’è Dio.
Il nostro essere creati ad immagine e somiglianza di Dio-comunione ci chiama a comprendere noi stessi come esseri-in-relazione e a vivere i rapporti interpersonali nella solidarietà e nell’amore vicendevole.
Tali relazioni si giocano, anzitutto, nell’ambito delle nostre comunità ecclesiali, perché sia sempre più evidente l’immagine della Chiesa icona della Trinità. Ma si giocano in ogni altro rapporto sociale, dalla famiglia alle amicizie all’ambiente di lavoro: sono occasioni concrete che ci vengono offerte per costruire relazioni sempre più umanamente ricche, capaci di rispetto reciproco e di amore disinteressato.
La festa della Santissima Trinità ci invita ad impegnarci negli avvenimenti quotidiani per essere lievito di comunione, di consolazione e di misericordia. In questa missione, siamo sostenuti dalla forza che lo Spirito Santo ci dona: essa cura la carne dell’umanità ferita dall’ingiustizia, dalla sopraffazione, dall’odio e dall’avidità.
La Vergine Maria, nella sua umiltà, ha accolto la volontà del Padre e ha concepito il Figlio per opera dello Spirito Santo. Ci aiuti Lei, specchio della Trinità, a rafforzare la nostra fede nel Mistero trinitario e ad incarnarla con scelte e atteggiamenti di amore e di unità.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 22 maggio 2016

 

1 * Era stata pronunciata su di loro infatti la “Birkat Ha Minim”, che se appare come benedizione nella liturgia sinagogale in realtà aveva un significato diverso espresso in queste parole:: "Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell'orgoglio; e periscano in un istante i nozrim e i minim; siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano iscritti. Benedetto sei tu che pieghi i superbi.” Come si può notare, accanto ai minim (eretici o dissidenti) si impreca contro i nozrim, i nazareni, cioè i seguaci di Gesù di Nazareth, a cui venne appioppata la scomunica poiché, pur pretendendo di rimanere dentro la sinagoga, la dividevano nella fede, proteggevano i "gentili", soprattutto i romani, e distruggevano il principio dogmatico della habdàlàh ossia la separazione tra circoncisi e non.

Pubblicato in Liturgia
Venerdì, 03 Giugno 2022 09:37

Domenica di Pentecoste - Anno C - 5 giugno 2022

La festa della Pentecoste rievoca la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e la loro investitura missionaria, avvenuta cinquanta giorni dopo la Pasqua di resurrezione.
Il mistero di Cristo morto e risorto è sempre vivo e presente perché nella Chiesa l’azione dello Spirito Santo è costante. La Pentecoste, compimento del tempo pasquale, non è solo un episodio della storia della salvezza, è piuttosto il mistero vivo della Chiesa abitata per sempre dallo Spirito Santo.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, viene evidenziato come lo Spirito Santo scendendo sugli apostoli dà loro il potere di esprimersi in tutte le lingue. Da quel momento la Chiesa proclama un unico linguaggio, quello di Cristo e dell’amore. La diversità delle culture, delle razze e dei doni personali non è sorgente di incomprensione e di ostilità, ma diventa una “sinfonia” di voci che secondo i timbri e tonalità differenti annunziano la stessa gioia e la stessa speranza.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, Paolo ci ricorda che lo Spirito Santo nel Battesimo ci fa figli ed eredi in Cristo, coeredi della vita eterna. Lo Spirito diventa la nostra voce e ci permette di rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre”.
Nel Vangelo, Giovanni presenta Gesù che parla ai suoi discepoli di quando verrà il Consolatore, lo Spirito di verità, che gli renderà testimonianza, ricordando e rendendo più comprensivo tutto ciò che prima aveva loro insegnato e li guiderà alla verità tutta intera!
L’azione dello Spirito è rivolta sia al futuro (rivelazione), sia al passato (comprensione). Per il cristiano di ogni tempo e di ogni luogo si tratta di continuare a comprendere la rivelazione di Gesù nelle diverse e molteplici situazioni della propria vita.

Dagli Atti degli Apostoli
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
At 2,1-11

Luca inizia il suo racconto indicando il momento e il luogo in cui si è verificato l’evento: “Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste si trovavano tutti insieme nello stesso luogo.” In realtà stava per compiersi non tanto il giorno di Pentecoste, che era solo iniziato, ma il conto delle sette settimane, a partire dalla Pasqua, al termine delle quali ha luogo la Pentecoste1 .
Anche se non viene precisato chi fosse presente all’avvenimento, si può supporre che insieme ai discepoli fosse presente Maria insieme ad altre donne. Luca dicendo “si trovavano tutti insieme” vuole sottolineare non solo la presenza fisica nello stesso luogo ma anche l’unione che regnava tra coloro che costituivano il primo nucleo della Chiesa.
“Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano.”
I termini che Luca usa si ricollegano alla terminologia usata per descrivere la teofania
(V. 1Re 19,11), e il termine “vento” allude già allo Spirito (pneuma), che ad esso viene spesso assimilato (Ez 37,9; Gv 3,8). Il fragore venuto dal cielo “riempie” tutta la casa, così come lo Spirito “riempirà” tutti i presenti.
“Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.”
Il fuoco, a cui le lingue assomigliavano, è anch’esso un’immagine ricavata dalla rappresentazione biblica della teofania (Es 19,18). È indicativo inoltre che, la parola di Dio ha preso la forma di una torcia di fuoco
Il fatto che i presenti parlino “altre lingue” richiama la leggenda giudaica secondo la quale al Sinai la parola di Dio si divideva in 70 lingue. A prima vista sembra quindi che essi parlassero ognuno una lingua diversa dall’altra, ma dal seguito del racconto appare che si trattava piuttosto di un miracolo di audizione, simile a quello che, secondo le leggende giudaiche, si era verificato al Sinai: in realtà essi parlavano normalmente e i presenti li comprendevano nella propria lingua originaria.
Questo fenomeno non è conosciuto altrove nel N.T. perciò diversi studiosi pensano che originariamente si trattasse non di un ”parlare in altre lingue”, ma del “parlare in lingue”, cioè della “glossolalia”, un carisma che consiste nel lodare Dio in una lingua sconosciuta.
Il fragore della teofania viene udito anche all’esterno della casa in cui si trovavano gli apostoli, e subito si raduna una piccola folla di curiosi, pieni di stupore e di meraviglia, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua… delle grandi opere di Dio».
La gente che si era radunata era composta di giudei della diaspora e di proseliti, cioè pagani convertiti al giudaismo, venuti a stabilirsi a Gerusalemme. I loro paesi di origine sono elencati in modo tale da dare l’impressione che si tratti di tutto il mondo allora conosciuto. Pur essendo giudei di nascita o di religione, i testimoni della Pentecoste cristiana sono presentati come i rappresentanti delle nazioni alle quali sarà rivolto l’annunzio evangelico.
Lo Spirito Santo con la Sua discesa sugli Apostoli e Maria ha completato l’opera dell’Incarnazione di Dio: al momento della Sua prima discesa, lo Spirito Santo aveva compiuto nella santa Vergine l’Incarnazione del Verbo, permettendo che il Verbo divenisse, nel suo corpo, il Dio-Uomo, per esserlo nell’eternità. Al momento della Sua seconda discesa, durante la Pentecoste, lo Spirito Santo discende per dimorare nel Suo corpo che è la Chiesa.
Maria è presente poiché è l’unica che possa confermare la presenza e l’azione dello Spirito, in quanto lei è la sola che ne ha già fatto esperienza, avendo, per opera dello Spirito Santo, generato al mondo il Verbo consustanziale al Padre.
Gli Apostoli sono rivestiti di Spirito Santo e annunciano al mondo quel Verbo eterno, crocifisso e risorto che Maria ha generato nella carne. Essi proclamano, lei conferma! Loro annunciano, a lei è stato annunciato! Essi diffondo la Parola di Vita, lei ha dato vita alla Parola!

Salmo 103 Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra.

Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.

Togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.

Sia per sempre la gloria del Signore;
gioisca il Signore delle sue opere.
A lui sia gradito il mio canto,
io gioirò nel Signore.

Il salmista esordisce con un invito a se stesso a benedire il Signore. Di fronte alla grandezza, alla bellezza, alla potenza della creazione esprime il suo stupore e la sua lode a Dio: “Sei tanto grande, Signore, mio Dio!”.Egli contempla Dio nella sua sovranità universale, tratteggiandolo “avvolto di luce come di un manto”. Una luce gloriosa, non terrena, non degli astri, ma divina, con la quale illumina gli spiriti angelici, nel cielo. …
Il salmo, segue l'ordine della prima narrazione della creazione (Gn 1,1s), continua presentando la primordiale situazione della terra, ora fermamente salda “sulle sue basi”, intendendo per basi niente di formalmente vincolante, ma solo un'immagine tratta dalle congetture dell'uomo.
L'onnipotenza divina viene presentata come dominatrice delle acque che coprivano la terra: “Al tuo rimprovero esse fuggirono, al fragore del tuo tuono rimasero atterrite”. Le acque si divisero in acque sotto il firmamento e in acque sopra il firmamento (le nubi, pensate ferme in alto per la presenza di una invisibile calotta detta firmamento), così cominciò il ciclo delle piogge e le acque “Salirono sui monti, discesero nelle valli, verso il luogo (mare) che avevi loro assegnato”. Dio provvede, nel tempo privo di piogge, al regime delle acque, e fa scaturire nelle alte valli montane acque sorgive che poi scendono lungo i canaloni tra i monti per dissetare gli animali. Gli uccelli trovano dimora nei luoghi alti e cantano tra le fronde degli alberi. Tutto è predisposto perché non manchi il cibo: “Con il frutto delle tue opere si sazia la terra. Tu fai crescere l'erba per il bestiame e le piante che l'uomo coltiva...”.
E anche gli alberi alti sono sazi per la pioggia “sono sazi gli alberi del Signore (cioè gli alberi altissimi: nell'ebraico il superlativo assoluto è reso con un riferimento a Dio), i cedri del Libano da lui piantati”. (I cedri del Libano raggiungono anche i 40 m. di altezza, con un diametro alla base di 2,5 m.)
Dio per segnare le stagioni ha fatto il sole e la luna. Ritirando a sera la luce stende “le tenebre e viene la notte”; e anche nella notte prosegue la vita: “si aggirano tutte le bestie della foresta; ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda”. Con i loro ruggiti “chiedono a Dio il loro cibo”. Il salmo presenta che gli animali carnivori sono stati creati così da Dio. Il libro della Genesi (1,30) presenta un mondo animale che si cibava di erbe nella situazione Edenica; ma è un'immagine rivolta a presentare come all'inizio non ci fosse la ferocia tra gli animali, benché non mancassero animali carnivori, creati da Dio, come il nostro salmo presenta.
L'uomo comincia il suo lavoro col sorgere del sole: “Allora l'uomo esce per il suo lavoro, per la sua fatica fino a sera”.
Il salmista loda ancora il Signore per le sue opere.
Passa quindi a considerare le creature del mare; in particolare il Leviatan, nome col quale l'autore designa la balena.
Il mondo animale è oggetto pure esso dell'assistenza divina: “Nascondi il tuo volto: li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere”. Se Dio ritrae la sua assistenza gli animali periscono, non hanno più l'alito delle narici “togli loro il respiro”.
Ma se manda il suo Spirito creatore sono creati. Lo Spirito di Dio è all'origine della creazione: (Gn 1,2).
Il salmista chiede che sulla terra ci sia la pace tra gli uomini, affinché “gioisca il Signore delle sue opere”. “Scompaiano i peccatori dalla terra e i malvagi non esistano più” dice, augurandosi un tempo dove gli uomini cessino di combattersi. Questo sarà nel tempo di pace che abbraccerà tutta la terra, quando la Chiesa porterà Cristo a tutte le genti; sarà la società della verità e dell'amore. Noi dobbiamo incessantemente impegnarci con la preghiera e la testimonianza per questo tempo che invochiamo nel Padre Nostro dicendo: “Venga il tuo regno”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”
(Per avere un’idea più completa della bellezza di questo salmo è stato riportato il commento nella sua interezza e non solo per i versetti proposti dalla liturgia)

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.
Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.
E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Rm 8,8-17

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59 e lo fa anche per presentare se stesso, in vista di un suo viaggio a Roma. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
Nel c. 8, da dove è tratto questo brano, egli affronta il tema della vita nuova che si apre a colui che è diventato giusto mediante la fede. A tal fine riprende e rielabora alcune delle intuizioni che aveva già anticipato nel capitolo 5, e mostra anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato e prosegue mettendo in luce come lo Spirito stesso trasformi intimamente non solo il credente ma anche tutto l’universo.
Questo brano, inizia con l’affermazione: “quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio”. Poi l’Apostolo invita a considerare fino in fondo la nuova situazione in cui i destinatari delle sue lettere di allora, e noi oggi, si trovano. “Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi”. Ora se Cristo abita in loro, da una parte il loro corpo è morto a causa del peccato,cioè essi, in quanto partecipi di questa umanità dominata dal peccato restano soggetti alla morte; dall’altra però in loro opera lo Spirito che è sorgente di vita a causa della giustizia. In altre parole, essi vanno incontro alla morte fisica, ultimo effetto della loro condizione umana, ma in forza della giustizia, che è stata loro conferita, possiedono già la vita che è dono dello Spirito. Infatti Dio “farà vivere i loro corpi mortali” dando loro quello stesso Spirito mediante il quale ha risuscitato Gesù dai morti.
L’apostolo poi afferma: “noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E aggiunge che proprio in forza di questo Spirito noi gridiamo: «Abbà! Padre!»
Gesù per primo si è rivolto a Dio chiamandolo “Abbà! Padre!” non seguendo l’uso dei giudei di invocarlo come “Avinu malkeinu” Padre di tutto il popolo. Egli è stato costituito Figlio di Dio con potenza in forza della Sua risurrezione (Rm 1,4) ma era stato proclamato come Figlio da Dio stesso (Mc 1,11; 9,7) ed era stato riconosciuto come tale da un centurione al momento della sua morte (Mc 15,39). Comunque Egli era Figlio di Dio fin dalla sua nascita, anzi fin dall’eternità (Gv 1,14.18), e lo stesso Gesù aveva dato ai Suoi discepoli la prerogativa di rivolgersi a Dio con lo stesso appellativo di “Padre”.
Lo Spirito dunque non si limita a rendere possibile ai credenti l’osservanza della legge e a conferire loro la vita, ma, proprio in quanto “Spirito di Cristo”, li coinvolge in quello stesso rapporto filiale che Egli ha con il Padre.
Lo Spirito non solo dà ai credenti la possibilità di chiamare Dio con l’appellativo di “Padre”, ma insieme al loro spirito “attesta che siamo figli di Dio”. La figliolanza divina non è quindi un semplice concetto, ma un’esperienza che ha luogo nell’ambito della preghiera e sicuramente Paolo pensa qui alla preghiera comunitaria, durante la quale i credenti si rivolgono a Dio con l’appellativo di Padre.
”E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria”. Questa figliolanza divina porta con sé anche il privilegio di ottenere un giorno l’eredità promessa, perchè, in quanto figli, i credenti sono diventati eredi di Dio, coeredi di Cristo, cioè hanno ricevuto con Lui l’attuazione delle promesse fatte da Dio ad Abramo (Rm 4,13-17) di conseguenza essi parteciperanno alla stessa gloria che fin d’ora è propria del Figlio.
Ciò si realizza però a patto che sappiano soffrire con Lui, accettando cioè di passare attraverso le stesse sofferenze che hanno caratterizzato la Sua vita terrena.
Pur essendo giustificati, i credenti però non sono ancora arrivati alla meta finale, ma hanno davanti a sé un lungo cammino, che sarà caratterizzato da varie prove ed anche da sofferenze.
In questo brano Paolo cerca di collegare strettamente il ”già” e il “non ancora” della salvezza. I credenti in Cristo hanno già ricevuto il Suo Spirito, sono liberati dalla carne e sono già partecipi della nuova vita che Cristo ha portato con la Sua morte. Proprio in forza della loro unione con Cristo essi sono già diventati a tutti gli effetti figli di Dio. Per loro i tempi ultimi della salvezza sono già iniziati.


Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre.«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà
e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.
Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».
Gv 14, 15-16, 23b-26

Questo brano del Vangelo di Giovanni è ancora un’altra parte del discorso di addio rivolto da Gesù ai suoi discepoli durante l'ultima cena. Egli offre loro nuovi motivi per avere fiducia: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre”.
E’ la prima volta che nel vangelo di Giovanni, appare il termine greco: “Paraclito” che per sé significa “colui che si chiama a fianco (di qualcuno)”. E’ da notare che Gesù dice “un altro Paraclito” e lo dice quando sta per lasciare i Suoi discepoli, che non avranno più la consolazione della Sua presenza, e questo vuol dire che il primo Paraclito, il consolatore, è Gesù stesso e andandosene manderà un altro Paraclito che starà sempre con loro, presso di loro, in loro. In questo modo l'assenza di Gesù si trasforma in una presenza "nello Spirito”.
Gesù continua promettendo ancora "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui." Ossia Egli stesso con il Padre verrà ad abitare con chi lo ama e osserva la Sua parola.
La condizione che tutto questo avvenga è che vi sia la volontà da parte di ciascuno nell'aderire e nel seguire i Suoi insegnamenti. Gesù lo promette e la Sua non è una promessa di uomo, ma di Dio.
Gesù invita noi oggi, come i Suoi discepoli allora, ad osservare la Sua parola come dimostrazione del nostro amore per Lui. Se noi lo amiamo veramente desideriamo conoscerlo di più, e più lo conosciamo e più sentiamo di amarlo, è un cerchio di amore che si alimenta reciprocamente. Non dobbiamo pretendere che eventi straordinari (i miracoli) ci forzino a credere: Gesù stesso infatti disse "beati" quelli che senza aver visto crederanno. Noi non abbiamo visto e incontrato Gesù come i discepoli, ma lo Spirito ci aiuta a credere e a fidarci di Lui. Dobbiamo imparare a leggere gli eventi che accadono a noi e nel mondo con l’ottica di Dio: solo così potremo vedere nella storia la presenza dello Spirito che ha sostenuto e fatto crescere la comunità dei cristiani - la Chiesa - come se Gesù fosse stato presente. Questo dovrebbe alimentare la nostra speranza e la certezza che Dio continua ad agire cambiando anche il corso delle azioni, che se anche erano volte al male, con il tempo si tramutano in bene.

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“Oggi celebriamo la grande festa della Pentecoste, che porta a compimento il Tempo Pasquale, cinquanta giorni dopo la Risurrezione di Cristo.
La liturgia ci invita ad aprire la nostra mente e il nostro cuore al dono dello Spirito Santo, che Gesù promise a più riprese ai suoi discepoli, il primo e principale dono che Egli ci ha ottenuto con la sua Risurrezione. Questo dono, Gesù stesso lo ha implorato dal Padre, come attesta il Vangelo di oggi, che è ambientato nell’Ultima Cena. Gesù dice ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre» .
Queste parole ci ricordano anzitutto che l’amore per una persona, e anche per il Signore, si dimostra non con le parole, ma con i fatti; e anche “osservare i comandamenti” va inteso in senso esistenziale, in modo che tutta la vita ne sia coinvolta. Infatti, essere cristiani non significa principalmente appartenere a una certa cultura o aderire a una certa dottrina, ma piuttosto legare la propria vita, in ogni suo aspetto, alla persona di Gesù e, attraverso di Lui, al Padre.
Per questo scopo Gesù promette l’effusione dello Spirito Santo ai suoi discepoli. Proprio grazie allo Spirito Santo, Amore che unisce il Padre e il Figlio e da loro procede, tutti possiamo vivere la stessa vita di Gesù. Lo Spirito, infatti, ci insegna ogni cosa, ossia l’unica cosa indispensabile: amare come ama Dio.
Nel promettere lo Spirito Santo, Gesù lo definisce «un altro Paraclito», che significa Consolatore, Avvocato, Intercessore, cioè Colui che ci assiste, ci difende, sta al nostro fianco nel cammino della vita e nella lotta per il bene e contro il male. Gesù dice «un altro Paraclito» perché il primo è Lui, Lui stesso, che si è fatto carne proprio per assumere su di sé la nostra condizione umana e liberarla dalla schiavitù del peccato.
Inoltre, lo Spirito Santo esercita una funzione di insegnamento e di memoria. Insegnamento e memoria. Ce lo ha detto Gesù: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto». Lo Spirito Santo non porta un insegnamento diverso, ma rende vivo, rende operante l’insegnamento di Gesù, perché il tempo che passa non lo cancelli o non lo affievolisca.
Lo Spirito Santo innesta questo insegnamento dentro al nostro cuore, ci aiuta a interiorizzarlo, facendolo diventare parte di noi, carne della nostra carne. Al tempo stesso, prepara il nostro cuore perché sia capace davvero di ricevere le parole e gli esempi del Signore. Tutte le volte che la parola di Gesù viene accolta con gioia nel nostro cuore, questo è opera dello Spirito Santo.
Preghiamo ora insieme il Regina Caeli – per l’ultima volta quest’anno –, invocando la materna intercessione della Vergine Maria. Ella ci ottenga la grazia di essere fortemente animati dallo Spirito Santo, per testimoniare Cristo con franchezza evangelica e aprirci sempre più alla pienezza del suo amore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 maggio 2016

 

1 L'origine della festa di Pentecoste è ebraica e si riferisce allo Shavuot, celebrata sette settimane dopo la Pasqua ebraica. La festività era legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio sul Monte Sinai, dove Dio ha donato al popolo ebraico la Torah.

 

DavidTuroldo

Pubblicato in Liturgia

In questa domenica ricordiamo l’Ascensione del Signore che se anche è una festa di addio, paradossalmente non conosce lacrime e malinconia, perché Gesù lascia gli apostoli promettendo lo Spirito Santo che rende l’Ascensione, non una sparizione di Gesù in un mondo lontano, irraggiungibile, ma una vicinanza permanente nel cuore dei credenti.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli Gesù salendo al Padre conclude la Sua esistenza terrena. Con l’ascensione di Gesù, la Chiesa inizia la sua vicenda storica proprio con questa grande epifania del Cristo, il Signore e Salvatore risorto. Chi crede in Lui sa di vivere per mezzo di Lui nella Parola e nei sacramenti.
Nella seconda lettura, l’autore della Lettera agli Ebrei, ci dice che Gesù, vero e definitivo sommo sacerdote, è salito al cielo, per comparire davanti a Dio e intercedere in nostro favore. Egli ha realizzato così ciò che i riti del popolo ebreo compivano solo in figura. Il tempio era figura del cielo, il sacrificio con il sangue delle vittime doveva essere ripetuto ogni anno. Il sacerdote ogni anno, nella festa dell'Espiazione (Yom Kippur) offriva il sacrificio prima per i suoi peccati e poi per i peccati commessi dal popolo. Tutto questo viene superato dal sacrificio di Cristo sulla croce, che cancella il peccato e vale per tutti i secoli. Per questo motivo possiamo accostarci con fiducia al suo trono per chiedergli di donarci la sua salvezza.
Nel Vangelo di Luca sono riportati gli ultimi momenti della permanenza di Gesù con i Suoi discepoli. L’ultimo comando di Gesù ai Suoi discepoli, e da loro a noi oggi, è stato di andare in tutto il mondo e predicare il Vangelo a ogni creatura. La vera missione che oggi noi dobbiamo compiere, non è tanto di andare in tutto il mondo (non tutti hanno la capacità e le possibilità di farlo) ma è di annunciare il Vangelo al nostro piccolo mondo, a quello che ci circonda, quello che secondo le fasi della nostra vita, accostiamo. Forse sarà un mondo ancora più difficile di quello che si potrà trovare nella classica terra di missione, ma a quello siamo chiamati a dare la nostra testimonianza di credenti. Il Signore non ci chiede mai di scalare una montagna se prima non siamo in grado neanche di arrivare alla piccola altura del nostro cuore.

 

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Dagli Atti degli Apostoli
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella - disse - che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
At 1,1-11

In questo brano viene riportato il prologo degli Atti degli Apostoli e Luca lo inizia dedicando il suo libro a Teofilo,(la cui identità non è nota), lo stesso a cui aveva dedicato il suo Vangelo. Luca ricorda che nel suo primo racconto aveva già trattato di tutto quello “che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo”. Il gruppo dei Dodici, che dopo il tradimento di Giuda è ridotto a undici, viene così presentato fin dall’inizio come la cerchia degli intimi di Gesù, chiamati esplicitamente con l’appellativo di “apostoli”.
Dopo aver accennato all’ascensione di Gesù, Luca ci riporta al periodo precedente, affermando che Gesù è apparso agli apostoli per quaranta giorni.
Anche qui il numero 40 è un numero simbolico, che spesso è usato per indicare il tempo di preparazione a una particolare rivelazione divina (Mosè trascorre 40 giorni sul Sinai prima di ricevere le tavole dell’alleanza (Es 24,18), il popolo peregrina 40 anni nel deserto prima di giungere alla terra promessa (Nm 14,33), Elia cammina 40 giorni nel deserto verso il monte di Dio (1Re 19,8); nel giudaismo Esdra resta quaranta giorni con Dio quando gli sono consegnati i libri sacri (4Esd 14,23-45) e Baruc istruisce il popolo per quaranta giorni prima della sua assunzione in cielo (2Bar 76,1-4). Anche Gesù aveva trascorso 40 giorni nel deserto, digiunando, prima di iniziare la sua vita pubblica (Lc 4,1-2). Un tempo analogo è necessario agli apostoli per essere adeguatamente istruiti “con molte prove” circa il regno di Dio.
L’annunzio del regno di Dio era stato il programma di Gesù durante la Sua vita terrena, ora Egli lo affida agli apostoli e Luca si limita a riferire che egli ordinò loro di non lasciare Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre che essi avevano inteso da lui: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”. Il battesimo mediante lo Spirito santo viene inteso qui non come il rito cristiano che si sostituisce a quello del Battista, ma come il dono dello Spirito fatto alla nascente comunità cristiana nel giorno di Pentecoste. Come Gesù, all’inizio della Sua attività pubblica, ha ricevuto lo Spirito Santo in occasione del battesimo di Giovanni, così anche la Chiesa, all’inizio del suo cammino nel mondo, deve essere contrassegnata dalla presenza dello Spirito.
La domanda dei discepoli a Gesù: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele” dimostra che ancora non avevano compreso e pensavano che fosse ormai imminente il momento in cui i regni di questo mondo sarebbero stati distrutti e di conseguenza instaurata la sovranità di Dio mediante il popolo di Israele, come aveva profetizzato il profeta Daniele (7,27), ma Gesù risponde: “Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra”.
Anche per Gesù solo il Padre conosce i tempi in cui si attua il Suo progetto: ciò significa che l’instaurazione del regno non coincide con la fine del mondo perché in realtà il regno è già stato inaugurato da Gesù, ma dovrà passare ancora un lungo periodo di tempo prima della Sua venuta piena e definitiva.
Questo nuovo periodo, che inizierà appunto con la venuta dello Spirito Santo, sarà contrassegnato dalla testimonianza degli apostoli che si estenderà da Gerusalemme alla Giudea, alla Samarìa, fino agli estremi confini della terra.
Per Luca, Gerusalemme è il centro della salvezza, mentre gli estremi confini della terra sono il mondo dei pagani e in particolare Roma che, come capitale dell’impero romano, rappresenta, rispetto a Gerusalemme, l’estremo opposto del mondo.
In questo versetto, che delinea il progressivo espandersi del cristianesimo, Luca indica anche il piano della sua opera: egli intende narrare lo sviluppo dell’annunzio evangelico a Gerusalemme poi in Giudea e Samaria e infine, per mezzo di Paolo, in Anatolia e in Grecia.
Nel racconto dell’ascensione Luca si ispira anche a quanto scrive il profeta Daniele, che descrive l’apparizione, sulle nubi del cielo, di uno simile a un figlio di uomo, il quale si presenta davanti al trono di Dio e riceve potere, gloria e regno (Dn 7,13-14). Di questa scena nel racconto degli Atti rimane il particolare della nuvola, simbolo della manifestazione misteriosa di Dio, che sottrae Gesù dallo sguardo degli apostoli.
Come “figlio dell’uomo” Egli si presenta a Dio per ricevere il regno che si è acquistato con la Sua morte. Ma, contrariamente alle aspettative giudaiche, non è ancora venuto il momento della conclusione finale, infatti gli angeli annunziano che Egli dovrà ritornare un giorno “nello stesso modo” in cui i discepoli l’hanno visto andare in cielo. Sarà quello il momento della fine, nel frattempo gli apostoli non devono rimanere a guardare in cielo, come facevano coloro che ricevevano visioni apocalittiche (Dn 10,8), ma devono andare a svolgere la missione che è stata loro affidata, e da loro a tutta la Sua Chiesa, il Suo corpo mistico.
E proprio nell’impegno che noi oggi, Sua Chiesa, abbiamo di testimoniarlo, si sperimenta la Sua presenza, si scopre che Gesù non solo è venuto e verrà, ma che viene, oggi, nell’oggi di ognuno di noi, e lo colma di sé, della Sua gioia. La nostra testimonianza diviene allora indicazione di una presenza esperimentata, amata, e per questa ragione, comunicata.

Salmo 46 - Ascende il Signore tra canti di gioia.

Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
grande re su tutta la terra.
Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.

Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.

Il salmo è un inno festoso a Dio re dell’universo. Il salmo invita tutti i popoli ad applaudire il Signore. Dopo il momento terribile delle vittorie filistee e dei popoli della terra di Canaan, ecco la vittoria per Israele. La terra promessa sta per essere totalmente conquistata e Gerusalemme è stata sottratta ai Gebusei. Un corteo festante porta l’arca dentro la Città di Davide: “Ascende Dio tra le acclamazioni”.
La conquista della terra promessa, la presa di Gerusalemme sono solo una tappa di un disegno più ampio di Dio che riguarda tutti i popoli.
Israele ha visto come Dio ha posto ai suoi piedi le nazioni, e dunque nessuna nazione può resistergli.
Egli è “re di tutta la terra”. Il popolo di Abramo è come un germe chiamato ad attirare a sé i popoli. Il salmista vede profeticamente già attuato questo: “I capi dei popoli si sono raccolti come popolo del Dio di Abramo”. Questo avverrà per mezzo del futuro Messia, che produrrà la nuova ed eterna alleanza. Il segno della sua vittoria sarà la risurrezione, la sua salita al cielo - “ascende Dio tra le acclamazioni” -, il suo stare alla destra del Padre (Cf. Ps 110,1).
Commento tratto da Perfetta Letizia

La liturgia cattolica a causa del versetto “ascende Dio…” ha usato questo salmo per l’Ascensione del Cristo, mentre quella giudaica lo fa recitare sette volte prima che il corno dia il segnale inaugurale del nuovo anno. …
Al centro appare la figura monumentale del Signore re d’Israele, mentre tutt’attorno si odono suoni, voci, applausi: egli è: “altissimo, terribile, grande”. Si tratta di attributi che vogliono esaltare la trascendenza divina, il suo primato sull’essere, la sua onnipotenza.
Per un lettore cristiano il parallelo cristologico potrebbe essere la celebre pagina finale di Matteo in cui il Cristo risorto proclama:
“Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra…” 28,28
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi

Dalla lettera agli Ebrei
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.
Eb 9,24-28; 10,19-23

L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione. L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Bibbia, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se rimaste sconosciute. Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
Questo brano è tratto dalla parte centrale della lettera , in cui si affronta il tema del sacerdozio e del sacrificio di Cristo, in particolare descrive l’efficacia del suo sacerdozio in quanto esso si configura come un ingresso nel santuario celeste. L’autore inizia affermando:
“Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.”
Cristo sommo sacerdote, non è entrato nel tempio fatto dagli uomini, ma in quello vero, cioè al cospetto di Dio. Il tempio di Gerusalemme era solo una figura della corte celeste. Gesù è comparso davanti al Dio dell'universo per intercedere a nostro favore. Dal giorno dell‘ascensione Egli è davanti al trono di Dio, nel Suo corpo glorioso e parla di noi al Padre.
“E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: “
la Sua offerta ha valore perenne, non deve perciò essere ripetuta ogni anno come invece dovevano fare i sacerdoti a Gerusalemme. Inoltre Gesù non ha presentato l'offerta di animali per il sacrificio, ma Lui stesso è stato immolato e offerto, come vero agnello pasquale.
“in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso”.
Qui viene chiarito meglio l’aspetto definitivo del sacrificio di Cristo. Egli non deve offrire più volte se stesso perché il Suo sacrificio non ha semplicemente impetrato il perdono dei peccati, bensì ha annullato del tutto il peccato.
“E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio”
Anche per gli uomini vi è un evento definitivo e irreversibile, quello della morte. Dopo la morte avviene il giudizio, la valutazione di quanto di bene una persona ha fatto durante la sua vita terrena.
“così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l'aspettano per la loro salvezza.”
Gesù tornerà una seconda venuta nel mondo. Egli che si è offerto una sola volta per annullare il peccato, tornerà una seconda volta nella gloria; uscirà di nuovo dal santuario celeste, quando verrà a noi, non per morire, ma per salvare coloro che l’aspettano per essere ammessi nel Suo Regno.
Nei versetti (10,1-18) che il brano non riporta, l'autore riprende il paragone tra i sacrifici del culto ebraico e il sacrificio di Cristo, ricordando soprattutto che Gesù ha offerto il proprio corpo e non quello degli animali sacrificali.
Poi prosegue: “Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù,”
Grazie al sacrificio di Cristo ora abbiamo la possibilità anche noi di entrare nel santuario celeste. Il sangue che ci ha donato questa libertà non è più il sangue degli animali, ma il sangue di Cristo.
“via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne”
Cristo è una via nuova e vivente. Si può trovare riferimento alle parole di Gesù in Gv 14,6: Io sono la via, la verità e la vita, e questa via è stata tracciata attraverso il velo della Sua carne.
Il velo era la tenda che separava il luogo più sacro del tempio, il Santo dei Santi dove era conservata l'arca, dal resto del santuario. Al di là del velo potevano andarci solo i sacerdoti, in occasioni particolari. Con Cristo questa separazione è stata superata e chiunque può accostarsi alla gloria di Dio. Il corpo di carne di Cristo era il velo che non ci permetteva di vedere la Sua divinità. Ora con la morte di Gesù il velo è stato squarciato (Mt 27,51) e il tempio è diventato accessibile a tutti.
“e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio,”
Possiamo entrare nel santuario di Dio, non c'è più il velo che ci impediva l'ingresso. Nel santuario troveremo anche un grande sacerdote che ci aspetta solo per accoglierci, darci grazia e salvezza.
“accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura” .
Per entrare è necessario però avere alcuni requisiti: un cuore sincero, cioè il puro desiderio di accostarsi a Dio.
L'autore poi ricorda i tre elementi classici: fede, speranza e carità (V. 24) La fede è necessaria per fondare su Dio la nostra vita. Ci vuole un cuore purificato e un corpo lavato, elementi caratteristici del Battesimo. Per presentarsi a Dio è necessario credere in Lui e aver cominciato un cammino di conversione e di vita nuova.
“Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso”.
Oltre alla fede, importante per la vita cristiana è la speranza, la fede rivolta al futuro, il sapere che Dio sarà fedele alle Sue promesse.
La comunità, a cui scrive l'autore della Lettera agli Ebrei, era alquanto scoraggiata a causa della persecuzione e del prolungarsi dei tempi di attesa per la venuta del Signore. L'autore riafferma così che il Signore è degno di fede e realizzerà le Sue promesse.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Lc 24: 46-53

Luca chiude il suo Vangelo narrando l’ascensione di Gesù e apre l’altra sua opera, gli Atti degli Apostoli, raccontando ancora per la seconda volta l’ascensione di Gesù. Sembra voler dire che l'Ascensione, se da una parte indica la chiusura della vita pubblica di Gesù, dall'altra vuol evidenziare una Sua presenza più profonda nella vita dei discepoli tanto da essere l'inizio, quasi il fondamento, di tutta la storia seguente della Chiesa.
Il brano inizia riportando le ultime istruzioni di Gesù agli apostoli:
«Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno,
Gesù sa che si sta congedando dai suoi discepoli e ricorda l’annuncio della sua passione, l’annuncio della sua Pasqua: il Gesù che ha patito è il Gesù che è risuscitato. Questo dobbiamo sempre tenerlo in mente: non c’è risurrezione senza passione e non c’è passione senza risurrezione.
“e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati,” cominciando da Gerusalemme”. Nel nome cioè di Colui che ha patito ed è risuscitato dai morti il terzo giorno, proprio in virtù di quel nome saranno predicate a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme, che è il punto centrale e l’annuncio non può che cominciare da Gerusalemme. La permanenza a Gerusalemme, cioè nei luoghi della Pasqua, è garanzia per non fallire.
È da lì che si comincia ed è lì che bisogna ritornare.
“Di questo voi siete testimoni.” Il Signore Gesù impegna i suoi apostoli a proclamare il suo vangelo a tutti i popoli, per invitarli alla conversione e alla fede. Perciò i credenti debbono rendere testimonianza al Cristo risorto non solo con la vita ma anche con la parola, con l’annuncio del vangelo.
“Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».
Le promesse di Gesù non vengono meno. Lui se ne va, ma non lascia orfani i suoi amici. La promessa del Padre e la “potenza dall’alto” indicano la persona dello Spirito Santo.
“Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse”..Il gesto di saluto di Gesù è un dono. Dio non si allontana dai suoi, semplicemente si sottrae ai loro sguardi per apparire in altra veste.
“Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”
La separazione finale di Gesù risorto dai suoi discepoli è avvenuta in un contesto di benedizione. La benedizione dei discepoli richiama il passo del Levitico (9,22) dove è narrato che “Aronne, alzate le mani verso il popolo, lo benedisse”. Probabilmente Luca si è ispirato a questo, per cui Gesù risorto viene presentato come il sommo Sacerdote che benedice il suo popolo, prima di separarsi per colmarlo della Sua grazia divina. Gesù si allontana dai suoi discepoli fisicamente perché sale al cielo, ma la Sua benedizione e la Sua presenza rimangono in mezzo alla Sua comunità.
“Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio”.
Quel giorno i discepoli hanno sperimentato che il Signore era ormai definitivamente accanto a loro, con la Sua Parola e il Suo Spirito; una vicinanza certo più misteriosa ma ancora più reale di prima. Avranno compreso fino in fondo ciò che Gesù aveva detto loro “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.(Mt 18,20)
Da quel momento in poi la presenza di Gesù sarebbe stata ancor più ampia nello spazio e nel tempo; per sempre avrebbe accompagnato i discepoli, dovunque e comunque. Di qui il motivo della grande gioia. Nessuno al mondo avrebbe ormai potuto allontanare Gesù dalla loro vita.
La gioia dei discepoli, ora è anche nostra, perché possiamo vivere quel che loro sperimentarono.
“Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!” asserisce l’autore della Lettera agli Ebrei, (13,8) e niente è più vero di questo! Gesù non tradisce mai, è sempre pronto a sorreggere chi lo invoca, anche l’ultimo degli uomini … non esiste un peccato così grave che la Sua misericordia non possa perdonare. “
L’Ascensione di Gesù in Cielo crea un rapporto diretto tra noi e Dio, perché stabilisce tra Lui e le creature umane un rapporto personale e nello stesso tempo anche un rapporto di fiducia perché affida a ciascuno di noi (come a ciascun apostolo) il compito di annunciare e vivere la salvezza –rinnovamento “fino agli estremi confini della terra”.

 

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“Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra l’Ascensione di Gesù al cielo, avvenuta quaranta giorni dopo la Pasqua. Contempliamo il mistero di Gesù che esce dal nostro spazio terreno per entrare nella pienezza della gloria di Dio, portando con sé la nostra umanità. Cioè noi, la nostra umanità entra per la prima volta nel cielo.
Il Vangelo di Luca ci mostra la reazione dei discepoli davanti al Signore che «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». Non ci furono in essi dolore e smarrimento, ma «si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia». È il ritorno di chi non teme più la città che aveva rifiutato il Maestro, che aveva visto il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro, aveva visto la dispersione dei discepoli e la violenza di un potere che si sentiva minacciato.
Da quel giorno per gli Apostoli e per ogni discepolo di Cristo è stato possibile abitare a Gerusalemme e in tutte le città del mondo, anche in quelle più travagliate dall’ingiustizia e dalla violenza, perché sopra ogni città c’è lo stesso cielo ed ogni abitante può alzare lo sguardo con speranza. Gesù, Dio, è uomo vero, con il suo corpo di uomo è in cielo! E questa è la nostra speranza, è l'ancora nostra, e noi siamo saldi in questa speranza se guardiamo il cielo.
In questo cielo abita quel Dio che si è rivelato così vicino da prendere il volto di un uomo, Gesù di Nazareth. Egli rimane per sempre il Dio-con-noi – ricordiamo questo: Emmanuel, Dio con noi – e non ci lascia soli! Possiamo guardare in alto per riconoscere davanti a noi il nostro futuro. Nell’Ascensione di Gesù, il Crocifisso Risorto, c’è la promessa della nostra partecipazione alla pienezza di vita presso Dio.
Prima di separarsi dai suoi amici, Gesù, riferendosi all’evento della sua morte e risurrezione, aveva detto loro: «Di questo voi siete testimoni» . Cioè i discepoli, gli apostoli sono testimoni della morte e della risurrezione di Cristo, in quel giorno, anche dell’ Ascensione di Cristo. E in effetti, dopo aver visto il loro Signore salire al cielo, i discepoli ritornarono in città come testimoni che con gioia annunciano a tutti la vita nuova che viene dal Crocifisso Risorto, nel cui nome «saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati» .
Questa è la testimonianza – fatta non solo con le parole ma anche con la vita quotidiana – la testimonianza che ogni domenica dovrebbe uscire dalla nostre chiese per entrare durante la settimana nelle case, negli uffici, a scuola, nei luoghi di ritrovo e di divertimento, negli ospedali, nelle carceri, nelle case per gli anziani, nei luoghi affollati degli immigrati, nelle periferie della città… Questa testimonianza noi dobbiamo portare ogni settimana: Cristo è con noi; Gesù è salito al cielo, è con noi; Cristo è vivo!
Gesù ci ha assicurato che in questo annuncio e in questa testimonianza saremo «rivestiti di potenza dall’alto», cioè con la potenza dello Spirito Santo. Qui sta il segreto di questa missione: la presenza tra noi del Signore risorto, che con il dono dello Spirito continua ad aprire la nostra mente e il nostro cuore, per annunciare il suo amore e la sua misericordia anche negli ambienti più refrattari delle nostre città. È lo Spirito Santo il vero artefice della multiforme testimonianza che la Chiesa e ogni battezzato rendono nel mondo. Pertanto, non possiamo mai trascurare il raccoglimento nella preghiera per lodare Dio e invocare il dono dello Spirito. In questa settimana, che ci porta alla festa di Pentecoste, rimaniamo spiritualmente nel Cenacolo, insieme alla Vergine Maria, per accogliere lo Spirito Santo. “
Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’8 maggio 2016

Pubblicato in Liturgia
Mercoledì, 18 Maggio 2022 16:41

VI Domenica di Pasqua - Anno C - 22 maggio 2022

In questa sesta domenica di Pasqua, la liturgia ci propone delle letture che ci presentano tre aspetti diversi della Chiesa
Un aspetto lo troviamo nella prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, che contiene un documento sintetico che raccoglie il dibattito del primo Concilio celebrato a Gerusalemme, (che ebbe luogo intorno al 49) convocato per risolvere la spinosa questione dell’accoglienza diretta dei pagani nella comunità cristiana senza passare attraverso le pratiche giudaiche.
Un altro aspetto è presente nella seconda lettura, tratta dal Libro dell’Apocalisse, in cui la Gerusalemme nuova, immagine della comunità di fede, risplende della luce e della gloria che scaturiscono dalla grazia del Signore risorto.
L’ultimo aspetto lo troviamo nel passo del Vangelo di Giovanni, che come di consueto, in questo periodo pasquale è preso dai discorsi di Gesù nell’ultima cena. Gesù manifesta il Suo amore concreto verso i discepoli, e attraverso di loro, verso tutti coloro che crederanno nel Suo nome, mediante il dono dello Spirito Santo che è la Sua stessa vita. Coloro che credono in Lui, animati da questo Spirito, potranno vivere con amore nel loro quotidiano, le parole e i gesti del Signore e testimoniarlo. Sarà proprio lo Spirito a guidarli verso la nuova Gerusalemme, venuta dal Cielo, da Dio, figura e immagine della Chiesa nel tempo, in cammino verso l’eternità, città che non ha un tempio, perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello, sono il suo tempio.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione.
Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiàchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo.
Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose.
State bene!».
At 15,1-2.22-29

Questo brano, tratto dal capitolo 15 rappresenta il punto di svolta nella narrazione degli Atti e ci dà il resoconto del primo Concilio convocato a Gerusalemme intono all’anno 50 e costituisce la terza parte degli Atti. Dal cap.16 in poi, Luca si concentrerà unicamente sui viaggi missionari di Paolo fino al suo arrivo a Roma.
Nel brano si fa riferimento a una grave crisi che ha scosso la Chiesa primitiva. Da Luca sappiamo infatti che siccome ad Antiochia non tutti erano d’accordo sul fatto che i pagani potevano essere ammessi nella Chiesa senza ricevere la circoncisione, Paolo e Barnaba furono inviati a Gerusalemme per consultare gli apostoli. Anche lì esplode però la polemica; allora tutta la comunità, con gli apostoli e gli anziani si raduna per discutere il problema.
Il modo pacato con cui Luca descrive il conflitto nell’assemblea di Gerusalemme, che ha visto contrapporsi i due gruppi della Chiesa primitiva, separate proprio dal modo di annunziare il messaggio di Gesù in un ambiente diverso da quello giudaico, è comprensibile solo se si tiene conto che, quando egli scrive, questo conflitto si è ormai risolto. A Luca interessa spiegare che il Concilio di Gerusalemme, è stato una grande svolta nella storia della Chiesa, per cui non si ferma alla cronaca pura e semplice degli avvenimenti, ma rilegge le informazioni che gli sono pervenute alla luce della sua visione delle origini cristiane. La sua prospettiva è quella propria delle chiese sorte nel mondo greco, le quali, pur non osservando le prescrizioni della legge mosaica, si ritengono tuttavia le legittime continuatrici della Chiesa madre di Gerusalemme, la prima testimone della morte e risurrezione di Cristo.
Luca vuole così dimostrare che, se è vero che il centro di diffusione di una Chiesa ormai in continua crescita è stata la comunità di Antiochia, tuttavia Gerusalemme rimane sempre la Chiesa madre che, vincendo le proprie resistenze, ha dato il via all’evangelizzazione dei pagani, autorizzandone l’ammissione nella comunità senza l’obbligo della circoncisione.
In questa prospettiva la missione di Paolo, mediante la quale il cristianesimo si è esteso fino a Roma, appare non tanto come l’iniziativa personale del grande apostolo, ma come l’assenso cosciente della Chiesa Madre di Gerusalemme.
Nota: La formula di accordo del Concilio di Gerusalemme riportata dagli Atti dimostra, comunque, che il problema venne superato solo in parte, perché di fatto una divisione perdurò e se ne trova traccia nella maggior parte delle lettere di Paolo, nelle quali risalta la sua continua lotta contro le problematiche create nelle Chiese dai cristiani giudaizzanti.

Salmo 66 - Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti.
Dio abbia pietà di noi e ci benedica,
su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via,
la tua salvezza fra tutte le genti.

Gioiscano le nazioni e si rallegrino,
perché tu giudichi i popoli con rettitudine,
governi le nazioni sulla terra.

Ti lodino i popoli, o Dio,
ti lodino i popoli tutti.
Ci benedica Dio e lo temano
tutti i confini della terra.

Il salmista presenta come Dio abbia benedetto il suo popolo con un raccolto abbondante: “La terra ha dato il suo frutto”. Ma questo non chiude il salmista nell’appagamento dei beni dati dalla terra, poiché egli manifesta, fin dall’inizio del salmo, il desiderio di un ben più alto dono: quello della presenza del Messia. Per tale presenza il popolo sarà rinnovato e si avrà che tutti i popoli giungeranno a conoscere il vero Dio e a lodarlo: “Su di noi faccia splendere il suo volto; perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti ”. Il salmista conclude il salmo ripresentando il suo desiderio dei tempi messianici: “Ci benedica Dio; il nostro Dio, ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra”.
Noi, in Cristo, desideriamo vivamente una terra rinnovata dalla conoscenza di Cristo e dall’azione del suo Spirito, e dobbiamo, nella viva appartenenza alla Chiesa, adoperarci incessantemente per questo.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dal Libro dell’Apocalisse di S. Giovanni Apostolo
L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino.
È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte.
Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.
In essa non vidi alcun tempio:
il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello
sono il suo tempio.
La città non ha bisogno della luce del sole,
né della luce della luna:
la gloria di Dio la illumina
e la sua lampada è l’Agnello.
Ap 21,10-14. 22-23

Questo brano riporta la parte finale dell’Apocalisse che ci descrive in modo particolareggiato la Città Santa, la Gerusalemme nuova, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
La visione di Giovanni inizia così: “L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio.”
Il monte è stato sempre considerato il luogo di maggiore vicinanza a Dio. Ed è da Dio che scende la città.
La città è l'espressione visibile del popolo che vi abita, ma mentre le città della terra sono sempre imperfette, la città di Dio dell'Apocalisse è perfetta, è il luogo dove dimora il popolo di Dio nella sua pienezza. Rispecchia il suo ordine interno, la sua ricchezza, la sua gloria, la sua felicità, la sua relazione con Dio e la sua inesprimibile unione con Cristo. Il modello della città di Dio è Gerusalemme, la città della pace, il centro della storia della salvezza dell'Antico Testamento. Sulla terra ha trovato compimento nella Chiesa, in cui Cristo continua a vivere e ad agire.
“Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino”.
La città è splendente come una gemma preziosa, ma la pietra se non viene illuminata non può mostrare il suo splendore. (E’ strano che come paragone si porti il diaspro che di per sé è una pietra opaca)
“È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.”
La città è cinta da grandi e alte mura con dodici porte che delimitano lo spazio in cui abitano al sicuro i suoi abitanti. Le porte indicano il movimento di entrata e uscita. Gli angeli che erano stati messi a guardia del paradiso perduto, ora stanno alle porte come guardia d'onore di Dio. Il numero dodici esalta le dodici tribù della prima Alleanza e i dodici Apostoli della seconda Alleanza, con i loro nomi scritti su dodici basamenti. Le misure (che non vengono riportate in questo brano) sono enormi e certamente simboliche. I materiali da costruzione, naturalmente anch’essi simbolici parlano di oro (il metallo divino) e di pietre preziose, dodici delle quali sono alle fondamenta della città santa. Tutto il resto della descrizione dalle mura di diaspro, alle porte di perle, ecc., indica uno splendore estremo.
Già il profeta Ezechiele aveva descritto il piano architettonico della città santa. Qui viene completato. Il numero 12 che si ripete significa la misura piena raggiunta dal mondo chiamato alla salvezza.
“In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio.”
La particolarità di questa città è il fatto che non vi è alcun tempio. Ormai la presenza del Signore è ovunque e non c'è più bisogno di cercare di incontrare il Signore in un luogo definito e neanche in un tempo particolare. I beati non sono più legati alle ore di lavoro e di riposo, loro unica occupazione è adorare il Signore e stare con Lui.
“La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello”. L'ordine delle cose è completamente cambiato, non vi è più giorno e notte, il sole e la luna non hanno più motivo di esistere. Tutto viene illuminato dallo splendore che viene da Dio: l'Agnello, cioè Cristo, è la sua lampada. E' attraverso di Lui che si può godere della gloria di Dio.
San Paolo diceva che noi siamo il tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in noi (v.1^Cor 3,16 ) e un altro suo commento che può adattarsi a questa descrizione potrebbe essere: “voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti,” Ef 2.19-20)
.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.
Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».
Gv 14,23-29

Questo brano è la parte finale del discorso di addio rivolto da Gesù ai suoi discepoli durante l'ultima cena il cui inizio l’abbiamo meditato la scorsa domenica. Gesù, annunciando la Sua morte imminente, aveva assicurato che un giorno sarebbe ritornato. Ora invece parla del modo in cui i discepoli potranno continuare a gioire della Sua amicizia e della Sua presenza in questo periodo di separazione. Il discorso quindi non è più diretto ai discepoli presenti nel cenacolo, ma a quelli di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Gesù infatti non usa più il voi, ma parla in modo impersonale: " Se uno mi ama, osserverà la mia parola …chi non mi ama, non osserva le mie parole…” Gesù rivendica per sé, per la prima volta, il sentimento più importante del mondo umano: l'amore, ed entra nella nostra parte più intima e profonda con estrema delicatezza. Tutto poggia su quel “se”.
«Se mi ami osserverai la mia parola…»… Gesù lo dice oggi ad ognuno di noi e non esprime un ordine, ma ci dà la possibilità di scegliere liberamente. E’ il rispetto che ha Dio, che bussa alla porta del nostro cuore e attende pazientemente la nostra risposta.
Poi Gesù continua : “Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.”
I discepoli potranno capire ciò che Gesù dice solo con l'intervento del Paraclito, il Consolatore, cioè lo Spirito Santo. E' grazie al Paraclito mandato dal Padre che i discepoli potranno penetrare in pieno il senso della Parola di Gesù.
Al termine del suo discorso, Gesù ritorna al momento presente, ai suoi discepoli da cui sta per separarsi, dicendo loro:”Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore”.
Lasciando i discepoli, Gesù non augura loro la pace, ma gliela dà in dono, come Sua eredità. La pace che Egli dona è molto diversa da quella che gli uomini si augurano e tentano di realizzare.
Non a caso Giovanni nel suo vangelo parla di pace solo nel contesto della passione e della risurrezione. Il dono della pace viene annunciato all'inizio della passione e si realizza nell'incontro di Gesù risorto con i discepoli nel cenacolo. Si tratta di un vero dono che viene solo da Dio, è solo opera di Dio che dona ai discepoli come segno della Sua presenza.
L’invito dunque rivoltoci da Gesù in questa ultima domenica di Pasqua è di credere alla Sua presenza in mezzo a noi, una presenza silenziosa, discreta, ma anche reale ed efficace. Una presenza capace di consolarci in ogni situazione della nostra vita.

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“Il Vangelo di questa VI domenica di Pasqua ci presenta un brano del discorso che Gesù ha rivolto agli Apostoli nell’Ultima Cena . Egli parla dell’opera dello Spirito Santo e fa una promessa: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» . Mentre si avvicina il momento della croce, Gesù rassicura gli Apostoli che non rimarranno soli: con loro ci sarà sempre lo Spirito Santo, il Paraclito, che li sosterrà nella missione di portare il Vangelo in tutto il mondo. Nella lingua originale greca, il termine “Paraclito” sta a significare colui che si pone accanto, per sostenere e consolare. Gesù ritorna al Padre, ma continua ad istruire e animare i suoi discepoli mediante l’azione dello Spirito Santo.
In che cosa consiste la missione dello Spirito Santo che Gesù promette in dono? Lo dice Lui stesso: «Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». Nel corso della sua vita terrena, Gesù ha già trasmesso tutto quanto voleva affidare agli Apostoli: ha portato a compimento la Rivelazione divina, cioè tutto ciò che il Padre voleva dire all’umanità con l’incarnazione del Figlio. Il compito dello Spirito Santo è quello di far ricordare, cioè far comprendere in pienezza e indurre ad attuare concretamente gli insegnamenti di Gesù. E proprio questa è anche la missione della Chiesa, che la realizza attraverso un preciso stile di vita, caratterizzato da alcune esigenze: la fede nel Signore e l’osservanza della sua Parola; la docilità all’azione dello Spirito, che rende continuamente vivo e presente il Signore Risorto; l’accoglienza della sua pace e la testimonianza resa ad essa con un atteggiamento di apertura e di incontro con l’altro.
Per realizzare tutto ciò la Chiesa non può rimanere statica, ma, con la partecipazione attiva di ciascun battezzato, è chiamata ad agire come una comunità in cammino, animata e sorretta dalla luce e dalla forza dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. Si tratta di liberarsi dai legami mondani rappresentati dalle nostre vedute, dalle nostre strategie, dai nostri obiettivi, che spesso appesantiscono il cammino di fede, e porci in docile ascolto della Parola del Signore. Così è lo Spirito di Dio a guidarci e a guidare la Chiesa, affinché di essa risplenda l’autentico volto, bello e luminoso, voluto da Cristo.
Il Signore oggi ci invita ad aprire il cuore al dono dello Spirito Santo, affinché ci guidi nei sentieri della storia. Egli, giorno per giorno, ci educa alla logica del Vangelo, la logica dell’amore accogliente, “insegnandoci ogni cosa” e “ricordandoci tutto ciò che il Signore ci ha detto”. Maria, che in questo mese di maggio veneriamo e preghiamo con devozione speciale come nostra madre celeste, protegga sempre la Chiesa e l’intera umanità. Lei che, con fede umile e coraggiosa, ha cooperato pienamente con lo Spirito Santo per l’Incarnazione del Figlio di Dio, aiuti anche noi a lasciarci istruire e guidare dal Paraclito, perché possiamo accogliere la Parola di Dio e testimoniarla con la nostra vita.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 26 maggio 2019

Pubblicato in Liturgia

Siamo giunti alla quinta domenica di Pasqua e la liturgia ci propone delle letture che ci invitano a realizzare di più l’amore fraterno che “fa nuove tutte le cose” e rivela il vero volto di Dio. In questo giorno si celebra la giornata di sensibilizzazione per il sostegno economico della Chiesa cattolica.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, Paolo e Barnaba danno coraggio ai discepoli esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni».
Nella seconda lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, Cristo risorto ha operato la piena trasformazione dell’uomo e del mondo. L’uomo, liberato dal male e dal peccato, è diventato “dimora di Dio” e l’orizzonte del mondo si apre su “un cielo nuovo e una terra nuova.”
L’aggettivo “nuovo” caratterizza anche il passo del Vangelo di Giovanni in cui Gesù nel contesto dell’ultima cena propone il Suo “comandamento nuovo”. Gesù lo fa rivolgendosi ai suoi discepoli chiamandoli teneramente “figlioli”. E’ l’unica volta che li chiama così e lo fa nel dare loro il Suo comandamento nuovo. Ed è nuovo perché è la clausola fondamentale e unica della “nuova alleanza”, annunziata già più di 500 anni prima dal profeta Geremia,(31,31-34) ed ora inaugurata dalla Pasqua di Cristo. E’ un amore che diventa l’unico segno di riconoscimento dell’appartenenza alla comunità di Gesù Cristo, la testimonianza più viva e autentica per chi vive e crede in Lui.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto.
Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiochia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta
della fede.
At 14, 21b-27


Il brano descrive la parte finale del primo viaggio missionario di Paolo (At 13-14), che presenta le caratteristiche della missione apostolica quando è diretta a comunità già formate.
L’attività di Paolo e Barnaba a Derbe, viene così descritta nel versetto precedente, non riportato nel brano: «Dopo aver annunciato il Vangelo a quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia».
Con i due verbi “evangelizzare” e “fare discepoli” Luca mette in luce una feconda attività fatta soprattutto di contatti personali, che ha come risultato l’aggregazione di un buon numero di persone. Quando la comunità dà segno di poter continuare da sola il suo cammino, Paolo e Barnaba ritornano a Listra, Iconio e Antiochia di Pisidia.
Essi dunque ripercorrono a ritroso il cammino fatto e incontrano le comunità precedentemente fondate. Ciò offre loro l’occasione di incoraggiare i discepoli e di esortarli a “restare saldi nella fede, perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”. Con queste parole, che non nascondevano la realtà, li rendevano consapevoli che la strada per entrare nel regno di Dio non era scevra da molte dure prove.
Luca aggiunge che in ogni comunità costituirono degli anziani (dei presbiteri). “e dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto.”
E’ da notare che l’elezione non viene fatta dalla comunità come si usava presso gli Ebrei della diaspora, ed è Luca che attribuisce a Paolo l’introduzione di una struttura che in realtà si è affermata solo qualche decennio dopo la sua morte.
Paolo e Barnaba attraversano poi la Pisidia e raggiungono la Panfilia dove evangelizzano Perge, la città dove Marco si era separato da loro. Scendono poi ad Attalìa e di lì raggiungono via mare Antiochia di Siria, là dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l'impresa che avevano compiuto.
Ad Antiochia riuniscono la comunità e “riferiscono” tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come avevano aperto ai pagani la porta della fede.

Salmo 144 - Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.
Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza.

Per far conoscere agli uomini le tue imprese
e la splendida gloria del tuo regno.
Il tuo regno è un regno eterno,
il tuo dominio si estende per tutte le generazioni.

Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano nella composizione di questa composizione, che tuttavia risulta bellissima nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode.
Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C.
… Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate (Cf. Ps 148). Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore.
La lode a Dio sul labbro dei fedeli diventa annuncio a tutti gli uomini: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno”. “Il regno” (malkut) è Israele e le “imprese” sono quelle della liberazione dall'Egitto, ecc. Terminata la successione monarchica dopo la deportazione a Babilonia, Israele, pur senza scartare minimamente la tensione verso il futuro re, il Messia, si collegò alla tradizione premonarchica dove il re era unicamente Dio. Nel libro dell'Esodo si parla di Israele come regno (19,6): “Un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Israele come regno di Dio si manifesta in modo evidente mediante l'osservanza della legge data sul Sinai; ma Israele non è solo suddito di Dio, ma anche figlio (Cf. Es 4,22). ….
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più.
E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:
«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse:
«Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
Ap 21,1-5ª

Questo brano fa parte di quella sezione dell’Apocalisse in cui si descrive la definitiva e totale sconfitta del male, qui simbolicamente rappresentato dal mare (il mare, è il luogo di vita del drago e simbolo del male (Gb 7,12+), che, come al tempo del primo esodo, scomparirà, per sempre davanti alla marcia trionfale del nuovo popolo di Dio, che sarà definitivamente liberato da ogni tribolazione
Il brano inizia riportando la visione:
“Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più.”.
Nei versetti precedenti era stato descritto il giudizio finale in cui la morte e l'inferno vengono distrutti, gettati nel lago di fuoco come anche coloro che avevano fatto il male, cioè subivano la seconda morte. Dopo questo scenario di distruzione compare un cielo nuovo e una terra nuova, la nuova creazione. Tutto è stato ripreso in mano da Dio e ricreato, senza peccato, senza ribellione verso di Lui. Infatti il mare non c'era più. Nella concezione semitica il mare, profondo e misterioso, spesso caotico e abitato da animali enormi e spaventosi, è il simbolo del male.
“E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo”
In questa nuova creazione scende la "nuova Gerusalemme", simbolo della comunione del popolo con il suo Dio. La città santa viene da Dio, in essa appare ora in tutta la sua estensione la potenza e la grazia di Dio. E' adornata come una sposa, per il suo sposo.
“Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:«Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.”
Una voce che veniva in modo misterioso dal trono spiega la visione presentando la tenda di Dio con gli uomini.
Un tempo il Signore abitava nella Tenda e poi nel Tempio, poi nei tabernacoli della Nuova Alleanza. Quei simboli trovano ora il suo compimento: la Città santa è l'abitazione di Dio. Dio è presente direttamente in tutto, Dio e l'umanità si appartengono completamente, come un vincolo matrimoniale. Tutti i popoli finalmente sono entrati in comunione con Dio.
“E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate».
Questa immagine è straordinaria, che tocca nel profondo.: Dio asciugherà ogni lacrima, consola come soltanto Lui può consolare, non esorta a dimenticare bensì trasfigura le ferite. Tutto ciò che è passeggero, terrestre, doloroso, è stato trasformato nella nuova creazione. Il Dio che pone la tenda della Sua presenza in mezzo agli uomini è il vivente; in Lui non può sussistere né la sofferenza, né la morte!
“E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
Chi siede sul trono è Dio che dichiara: Ecco, io faccio nuove tutte le cose. Egli che è l'onnipotente, fa nuove tutte le cose. Realizza pienamente tutto ciò che era iniziato con la redenzione di Cristo ed è stato realizzato all'interno della storia della salvezza. Al principio Dio … e al termine Dio! Il tempo è inglobato nell’eterno presente di Dio.

Dal vangelo secondo Giovanni
Quando Giuda fu uscito[dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Gv 13, 31-33a,34-35

Questo brano tratto dal capitolo 13 di Giovanni ci riporta nel contesto dell'ultima cena: Gesù e i discepoli sono nel cenacolo e Lui ha rivelato che uno di loro lo avrebbe tradito e su richiesta di Giovanni lo aveva indicato come colui che aveva intinto il boccone nel piatto insieme a Lui. In quel momento Satana era entrato in Giuda e Gesù gli aveva detto: "Quello che vuoi fare, fallo presto". Quindi Giuda esce, ed è notte.
E' un momento molto drammatico di forte tensione. Gesù, che fino a pochi momenti prima era profondamente turbato nel dire che uno dei suoi lo avrebbe tradito (Gv 13,21), ora invece sembra esultare per la gloria che gli è stata data già in quel momento.
“Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. Il verbo “è stato glorificato” esprime il momento decisivo della missione di Gesù e si riferisce in modo totale alla Sua passione, morte, risurrezione e ascensione. È Dio che glorifica il Figlio dell’uomo; tuttavia si sottolinea anche che Dio stesso è glorificato “in lui” a motivo del dono volontario di sé con cui Gesù porta a compimento il suo disegno di salvezza. .
Il mistero della gloria di Dio è talmente profondo che in pochi versetti il verbo glorificare ritorna cinque volte e più volte anche “in lui” . Questo mistero della gloria ci manifesta un altro mistero: l'unità profonda che vi è tra il Padre e il Figlio. Il Figlio con la sua morte e risurrezione mostra a tutti la gloria del Padre, ma anche il Padre glorifica il Figlio poiché ha rinunciato alla sua gloria abbassandosi all'incarnazione e alla morte infamante della croce.
Non è il suo abbassamento che lo ha glorificato, ma il motivo per cui l'ha fatto: la salvezza degli uomini. Il Cristo aveva già la sua gloria (cf. Gv 17,5: Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse). Con l'incarnazione sembra averla abbandonata, ma di fatto tale gloria si manifesta in modo ancora più splendido in tutto ciò che Egli ha compiuto per il bene dell'umanità: ci ha fatto conoscere la grandezza di Dio e ci ha riscattato dal male e dalla morte.
“Figlioli, ancora per poco sono con voi”.
Con questo versetto inizia il discorso di addio di Gesù ai suoi discepoli. E’ stato saltato il versetto che dice: "voi mi cercherete, ma come ho già detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io voi non potete venire” e si riferisce alla sua morte imminente. Gesù sta per andarsene e cerca di far capire ai suoi discepoli i motivi della separazione da loro, ma darà anche la promessa di un suo ritorno e della piena comunione che li unirà al loro maestro una volta compiuta la sua ora .
“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.“ Il precetto dell’amore appare già nel contesto dell’alleanza del Sinai come compendio di tutta la legge (Lv 19,18.34), ma i profeti avevano predetto una nuova alleanza, in forza della quale la legge dell’amore non sarà più scritta su tavole di pietra, ma sul cuore del popolo (Ger 31,31-34; Dt 30,6; Ez 36,24-28). Ma la vera novità del comandamento di Gesù sta nel come bisogna amare: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.”
La particella “come” non stabilisce solo un confronto tra l’amore che i discepoli devono praticare e quello che Gesù ha avuto nei loro confronti, ma ne indica anche il fondamento e l’origine. Gesù diventa così la fonte e il modello dell’autentico amore cristiano.
In realtà la nuova legge è Gesù stesso in quanto esprime in termini umani l’amore di Dio.
Gesù conclude con questa affermazione: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”.
Gesù propone anche a noi oggi di amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amato, e se noi fossimo capaci di amare gli altri con l’intensità e la radicalità con cui ci ama Gesù Cristo-Dio, potremmo davvero cambiare la realtà, creare come i primi discepoli di Gesù una comunità su cui fondare il rinnovamento del mondo.

*****

“Nel Vangelo di oggi Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca. «Le mie pecore – dice – ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute». Leggendo attentamente questa frase, vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce.
Il Buon Pastore – Gesù – è attento a ciascuno di noi, ci cerca e ci ama, rivolgendoci la sua parola, conoscendo in profondità i nostri cuori, i nostri desideri e le nostre speranze, come anche i nostri fallimenti e le nostre delusioni. Ci accoglie e ci ama così come siamo, con i nostri pregi e i nostri difetti. Per ciascuno di noi Egli “dà la vita eterna”: ci offre cioè la possibilità di vivere una vita piena, senza fine. Inoltre, ci custodisce e ci guida con amore, aiutandoci ad attraversare i sentieri impervi e le strade talvolta rischiose che si presentano nel cammino della vita.
Ai verbi e ai gesti che descrivono il modo in cui Gesù, il Buon Pastore, si relaziona con noi, fanno riscontro i verbi che riguardano le pecore, cioè noi: «ascoltano la mia voce», «mi seguono». Sono azioni che mostrano in che modo noi dobbiamo corrispondere agli atteggiamenti teneri e premurosi del Signore. Ascoltare e riconoscere la sua voce, infatti, implica intimità con Lui, che si consolida nella preghiera, nell’incontro cuore a cuore con il divino Maestro e Pastore delle nostre anime. Questa intimità con Gesù, questo essere aperto, parlare con Gesù, rafforza in noi il desiderio di seguirlo, uscendo dal labirinto dei percorsi sbagliati, abbandonando i comportamenti egoistici, per incamminarci sulle strade nuove della fraternità e del dono di noi stessi, ad imitazione di Lui.
Non dimentichiamo che Gesù è l’unico Pastore che ci parla, ci conosce, ci dà la vita eterna e ci custodisce. Noi siamo l’unico gregge e dobbiamo solo sforzarci di ascoltare la sua voce, mentre con amore Egli scruta la sincerità dei nostri cuori. E da questa continua intimità con il nostro Pastore, da questo colloquio con Lui, scaturisce la gioia di seguirlo lasciandoci condurre alla pienezza della vita eterna.
Ci rivolgiamo ora a Maria, Madre di Cristo Buon Pastore. Lei, che ha risposto prontamente alla chiamata di Dio, aiuti in particolare quanti sono chiamati al sacerdozio e alla vita consacrata ad accogliere con gioia e disponibilità l’invito di Cristo ad essere suoi più diretti collaboratori nell’annuncio del Vangelo e nel servizio del Regno di Dio in questo nostro tempo.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 maggio 2019


Papa Francesco ci ricorda ancora:
"Per Dio noi non siamo numeri, siamo importanti, anzi siamo quanto di più importante Egli abbia; anche se peccatori, siamo ciò che gli sta più a cuore. Lasciamoci avvolgere dalla misericordia di Dio; confidiamo nella sua pazienza che sempre ci dà tempo; abbiamo il coraggio di tornare nella sua casa, di dimorare nelle ferite del suo amore, lasciandoci amare da Lui, di incontrare la sua misericordia nei Sacramenti. Sentiremo la sua tenerezza, sentiremo il suo abbraccio e saremo anche noi più capaci di misericordia, di pazienza, di perdono, di amore“.

Pubblicato in Liturgia

Con la quarta domenica di Pasqua ogni anno si celebra la 59^ Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni. Uniti a Papa Francesco chiediamo a Dio il dono di “sacerdoti innamorati del Vangelo” , capaci di farsi prossimi con i fratelli ed essere, così, segno vivo dell’amore misericordioso di Dio .
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, ci viene descritta l’opera missionaria di Paolo e Barnaba ad Antiochia: i discepoli “pieni di gioia e di Spirito Santo” erano attivissimi nel formare una comunità unita. Di fronte alla reazione di rifiuto dei Giudei del luogo, essi dichiarano che si sarebbero rivolti per il futuro ai pagani annunciando loro il Vangelo.
Nella seconda lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, Cristo viene presentato come l’agnello sacrificale che si trasforma in pastore: l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
Nel vangelo di Giovanni, Gesù viene presentato come il Buon Pastore che afferma: “Le mie pecore ascoltano la mia voce”. In questi tempi così tribolati l’umanità intera ha sete di Cristo, che come buon Pastore, la conduce, la conosce, la custodisce e la guarisce. In Lui non dobbiamo temere il fallimento e la sconfitta e non dobbiamo fingere di essere migliori di come siamo nella realtà. Solo Lui ci promette la vita eterna e sa guidarci “alle fonti delle acque della vita” che guariscono ogni ferita, e asciugheranno ogni nostra lacrima. Solo Lui ci ama per quello che siamo, non per quello che vorremmo essere

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiochia in Pisìdia e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero.
Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio.
Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore:
“Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”».
Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
At 13,14, 43-52

Dal capitolo 13 inizia una nuova suddivisione del libro degli Atti e la Chiesa d’Antiochia diventa il punto di partenza dell’opera che sta per compiersi fra le nazioni. Nel capitolo 9 viene riportato uno dei più gloriosi trionfi della grazia divina: la conversione di Saulo di Tarzo, folgorato sulla via di Damasco. Egli perseguitava i seguaci di Cristo in modo rigoroso e costante ed il viaggio che aveva intrapreso per Damasco aveva appunto lo scopo di smascherare e imprigionare gli adepti della nuova fede. Proprio mentre si stava recando in questa città fu avvolto da una luce ed udì una voce che gli disse “Saulo, Saulo, perché i perseguiti!”. Da quel momento egli nacque a nuova vita, cambiò tutto, anche il nome divenendo, Paolo l'Apostolo delle genti. Lui stesso in seguito affermerà “Io vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal. 2,20), ”.. Della vocazione di Saulo, Luca riporta tre relazioni, le cui divergenze nei particolari si spiegano secondo il diverso genere letterario usato. Il fatto è accaduto verosimilmente nel 36, dodici anni circa (o quattordici, secondo la maniera di computare degli antichi) prima del “concilio di Gerusalemme” (Gal 2,1s; cf. At 15), tenuto nel 49
In questo brano, che la liturgia ci presenta, vediamo Paolo e Barnaba, che dopo aver fatto la prima tappa all’isola di Cipro, giungono in Panfilia e proseguendo poi da Perge, arrivano ad Antiochia in Pisìdia. Ancora una volta si confrontano con i cristiani di Antiochia. ma mentre questa moltitudine di credenti sembra pendere dalle loro labbra, i Giudei, presi dalla gelosia, cercano di contraddire le loro affermazioni e il testo lo evidenzia: “i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo.” E' lo scontro penoso tra il cuore indurito di Israele e la docilità dei pagani, il rifiuto dei figli e l'assenso degli stranieri.
Il sabato seguente, Paolo e Barnaba non sono più all'interno della sinagoga e davanti a un pubblico esclusivamente giudeo, bensì tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Paolo e Barnaba allora dichiararono: “Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani”
Poi richiamando quanto diceva Isaia affermano: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”..(Is 49,6) per dimostrare come ogni distruzione delle barriere nazionali o razziali entri nel piano salvifico di Dio.
Il rifiuto giudaico del messaggio della salvezza portato dagli apostoli è il passaggio della promessa a una salvezza universale, rivolta a tutte le genti.
L'ostilità dei Giudei per Paolo e Barnaba sfocia nella persecuzione aperta e grazie all'influsso dei Giudei sui "notabili della città” e sulle "donne pie" del luogo, li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo”. L'episodio segna la rottura con l'ambiente giudaico, chiuso a una visione universalistica, e constatato il rifiuto, Paolo e Barnaba non si fermano, ma passano altrove, ai pagani.
La separazione viene espressa con il gesto di "scuotersi la polvere dai piedi“, che gli ebrei facevano quando rientravano da un territorio pagano, che li aveva resi "impuri".
Qui lo stesso gesto è rivolto ai "puri" per rivolgersi ai lontani. Per purezza si intende tutte quelle norme igieniche che erano scritte nella legge, da cui già i profeti avevano messo in guardia, dalla pratica dell'esteriorità che non rifletteva l'interno del cuore dell'uomo.
Il Vangelo è sempre passato e passa anche oggi continuamente attraverso i contrasti, le resistenze, le opposizioni più fanatiche. E' un "passaggio"inevitabile, che invece di bloccarlo lo spinge misteriosamente sempre altrove, verso gli "estremi confini della terra!“.

Salmo 99- Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida
Acclamate al Signore, voi tutti della terra,
servite il Signore nella gioia,
presentatevi a lui con esultanza.

Riconoscete che solo il Signore è Dio:
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.

Perché buono è il Signore,
Il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione.

Questo salmo è un invito a tutti i popoli della terra a riconoscere l'unico Dio e a servirlo, cioè obbedire al suo disegno, che ha come oggetto l'uomo stesso. Il salmista invita a servirlo nella gioia, cioè con la gratitudine, l'esultanza di chi si riconosce amato e salvato da Dio. Il salmista desidera che i popoli della terra riconoscano l'identità d Israele per poterne partecipare: “Riconoscete che solo il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo”. L'invito al tempio di Gerusalemme non ha confini. E' un invito espresso nell'attesa messianica, poiché a Gerusalemme, per mezzo del Messia, avverrà la ricomposizione dell'unità tra tutti i popoli. I popoli pagani sono invitati a orientarsi al Dio di Israele, al vero Dio, la cui gloria dimora nel tempio di Gerusalemme: “Varcate le sue porte con inni di grazie, i suoi atri con canti di lode...”. Tutti devono benedire la sua identità, (il suo nome), perché Dio è buono, misericordioso, fedele alla sua parola alle sue promesse.
Nel giorno della Pentecoste veramente si è avverato un andare a Gerusalemme di tanti e tanti, che, non Giudei, avevano abbracciato la religione di Israele (At 2,9s). A questi - i proseliti - vanno aggiunti i timorati di Dio, che non intendevano giungere al rito della circoncisione e alla pratica rituale della legge mosaica (At 10,2).
Noi in Cristo invitiamo i popoli ad accogliere il messaggio di Cristo, a riconoscere il vero Dio e a far parte col battesimo della Chiesa, le cui porte e atri sono aperte all'ingresso di tutti i popoli.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo
Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna,
perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».
Ap. 7,9, 14b-17

Nel brano tratto dal capitolo 5 presentato nella III Domenica, Giovanni ci ha raccontato dell'Agnello che riceveva da Dio il libro chiuso da sette sigilli. Nel capitolo 6 l'Agnello apre i primi sigilli ed ad ogni apertura corrisponde la realizzazione progressiva dei decreti di Dio. Volta per volta vengono rivelati coloro che devono realizzare questi decreti: i quattro cavalieri, i martiri con il loro invito alla giustizia, il cosmo, gli Angeli e i Santi con le loro preghiere.
Prima dell'apertura del settimo sigillo vi è una pausa. Gli angeli vengono mandati sulla terra a mettere un segno per distinguere gli eletti di Dio. Questo segno li pone sotto la protezione di Dio, grazie al Suo aiuto essi potranno resistere alle prove della persecuzione. Giovanni poi vede la schiera dei beati che si trova già in cielo, la Chiesa trionfante ed è questa descrizione che il brano di questa domenica riporta.
“Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani”.
I beati del cielo sono una folla immensa, che non si può calcolare e neanche si può esprimere nemmeno con un numero simbolico. Provengono da tutte le parti del mondo. Essi stanno in piedi, che è l'atteggiamento dell'uomo vivo e libero. Le “vesti candide” sono simbolo della gloria del cielo e le palme sono simbolo di vittoria.
“E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello.”
Nei versetti che il brano non riporta, uno degli anziani chiede a Giovanni chi siano queste persone e Giovanni a sua volta lo chiede all'anziano. Si tratta di coloro che hanno perseverato nel momento della prova. Essi hanno potuto resistere solo grazie al sangue di Cristo, alla sua redenzione, a cui hanno potuto accedere grazie alla fede e ai sacramenti.
“Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.”
Giovanni contempla la condizione dei beati: essi stanno sempre davanti al trono di Dio e “gli prestano servizio giorno e notte”, cioè celebrano di continuo le Sue lodi mentre Dio stende la Sua tenda su di loro, cioè si prende cura di loro.
“Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna”,
Essi non hanno più alcuna necessità, né soffrono per i problemi che avevano durante la vita terrena.
“perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.
L'Agnello diventa pastore, prendendosi cura dei beati, è Lui che li conduce alle acque della vita, cioè alla beatitudine e alla vita in pienezza. Verranno anche ammessi a questi beni celesti, ma se questo non bastasse a cancellare le sofferenze che hanno subito in vita, il Signore stesso asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. Dio come padre pieno di compassione, saprà consolare il loro animo da ogni dolore, saprà sanare ogni male che i Suoi eletti hanno dovuto subire. Il Signore che ha chiamato i Suoi, sa custodirli fino alla fine. E’ un'immagine stupenda, sublime, molto tenera e consolante!.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Gv 10, 27-30

Questo brano tratto dal capitolo 10 del Vangelo di Giovanni è la continuazione del tema “Gesù, Buon pastore” (meditato nella IV domenica di Pasqua – anno A e anno B) e cerca di indicare il fine dell’agire amoroso di Gesù
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Questo versetto, mette in rilievo la relazione che esiste tra le pecore e il pastore. Non si tratta certo di una conoscenza superficiale, anagrafica. Nella Bibbia il verbo "conoscere" significa una relazione d'amore personale, profonda; una relazione che supera l'intimità della stessa relazione nuziale e la tenerezza di una madre o di un padre nei confronti del proprio figlio.. Nel versetto precedente aveva detto ai Giudei che loro non erano le sue pecore e qui dice, non chi sono le pecore, ma cosa esse fanno: “ascoltano”!.
Nella Bibbia il verbo (shema’) indica sia "ascoltare" che "obbedire". Quindi “shema’ Israel”, non è soltanto "ascolta, Israele!", ma anche “aderisci, resta unito!". C’è da tener presente un particolare che in Israele, a differenza dei paesi d’Europa, gli ovini sono allevati non per la carne, ma per il latte e la lana, le pecore perciò rimanevano per anni e anni in compagnia del pastore che finiva per conoscere il carattere di ognuna e chiamarla con qualche nomignolo affettuoso. Gesù con queste immagini vuole comunicare che egli conosce i suoi discepoli (e come Dio tutti gli uomini) li conosce per nome, nel profondo nel loro intimo. Egli li ama con un amore unico, speciale, che raggiunge ciascuno come se fosse il solo ad esistere davanti a lui.
“Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” Nel linguaggio giovanneo “vita eterna” non allude tanto a un’infinita distesa di anni, a un’immortalità dell’anima, è invece la stessa vita divina, è la comunione di vita, di pace, di essere con Dio stesso.
“Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti “ Come creature noi apparteniamo a Dio; da Lui viene la nostra esistenza , è Lui che ci conosce sin dall’’inizio del mondo e proprio perché questa vita ci viene da Lui, è protetta e custodita da Lui.
“e nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. Sono le parole di speranza, di difesa che afferma Gesù nei riguardi dei suoi fedeli. Ogni uomo, dunque è nelle mani di Dio, quelle mani che lo hanno fatto e plasmato, come canta il Salmista (V. Sal 118), quelle mani forti e sicure che guidano e proteggono, quelle mani pronte ad accogliere, anche, i figli che si allontanano e ritornano pentiti; quelle mani tenere, come quelle di una madre, che accarezzano e confortano, che, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse, asciugheranno ogni lacrima, quando, superato il tempo, saremo davanti a Dio.
“Io e il Padre siamo una cosa sola”. Gesù affermando: “Io e il Padre siamo una cosa sola” vuole sottolineare che in effetti il Padre e Lui sono una cosa sola
Oggi Gesù ha bisogno di persone per portare la salvezza sino ai confini della terra. Ha bisogno di persone che con la loro esistenza totalmente consacrata a Lui sappiano annunciare il futuro di felicità che ci attende. Ognuno, in qualunque stato di vita, ha la sua chiamata specifica a essere “testimoni del Suo Amore”, cioè responsabile del servizio che fanno. . E' questo il significato della Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. Il Papa sottolinea appunto, nel suo messaggio, la preghiera insistente e fervorosa al "Padrone della messe perché mandi operai".

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“Nel Vangelo di oggi Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca. «Le mie pecore – dice – ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute». Leggendo attentamente questa frase, vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce.
Il Buon Pastore – Gesù – è attento a ciascuno di noi, ci cerca e ci ama, rivolgendoci la sua parola, conoscendo in profondità i nostri cuori, i nostri desideri e le nostre speranze, come anche i nostri fallimenti e le nostre delusioni. Ci accoglie e ci ama così come siamo, con i nostri pregi e i nostri difetti. Per ciascuno di noi Egli “dà la vita eterna”: ci offre cioè la possibilità di vivere una vita piena, senza fine. Inoltre, ci custodisce e ci guida con amore, aiutandoci ad attraversare i sentieri impervi e le strade talvolta rischiose che si presentano nel cammino della vita.
Ai verbi e ai gesti che descrivono il modo in cui Gesù, il Buon Pastore, si relaziona con noi, fanno riscontro i verbi che riguardano le pecore, cioè noi: «ascoltano la mia voce», «mi seguono». Sono azioni che mostrano in che modo noi dobbiamo corrispondere agli atteggiamenti teneri e premurosi del Signore. Ascoltare e riconoscere la sua voce, infatti, implica intimità con Lui, che si consolida nella preghiera, nell’incontro cuore a cuore con il divino Maestro e Pastore delle nostre anime. Questa intimità con Gesù, questo essere aperto, parlare con Gesù, rafforza in noi il desiderio di seguirlo, uscendo dal labirinto dei percorsi sbagliati, abbandonando i comportamenti egoistici, per incamminarci sulle strade nuove della fraternità e del dono di noi stessi, ad imitazione di Lui.
Non dimentichiamo che Gesù è l’unico Pastore che ci parla, ci conosce, ci dà la vita eterna e ci custodisce. Noi siamo l’unico gregge e dobbiamo solo sforzarci di ascoltare la sua voce, mentre con amore Egli scruta la sincerità dei nostri cuori. E da questa continua intimità con il nostro Pastore, da questo colloquio con Lui, scaturisce la gioia di seguirlo lasciandoci condurre alla pienezza della vita eterna.
Ci rivolgiamo ora a Maria, Madre di Cristo Buon Pastore. Lei, che ha risposto prontamente alla chiamata di Dio, aiuti in particolare quanti sono chiamati al sacerdozio e alla vita consacrata ad accogliere con gioia e disponibilità l’invito di Cristo ad essere suoi più diretti collaboratori nell’annuncio del Vangelo e nel servizio del Regno di Dio in questo nostro tempo.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 12 maggio 2019

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa terza domenica di Pasqua ci presenta la fragilità dell’umanità di Pietro e nello stesso tempo la forza della sua fede che diventa esempio per ogni discepolo di Cristo.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, vediamo come Pietro, e gli altri discepoli nell’aula processuale del Sinedrio a Gerusalemme testimoniano senza esitazione il loro amore e la loro fede nel Cristo risorto. Anche se questa testimonianza li ha condannati ad essere fustigati, loro dopo se ne vanno “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù”.
Nella seconda lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, la visione dell’apostolo Giovanni ci trasporta in una solenne liturgia di lode: davanti al trono di Dio appare l’agnello ”ritto…come immolato” e in suo onore si leva un inno di acclamazione nel quale si fondono le voci degli angeli e dei santi che stanno davanti a Dio.
Nel vangelo di Giovanni, Gesù si manifesta di nuovo ai discepoli sul lago di Tiberiade ed essi lo riconoscono dopo la pesca miracolosa. Gesù fermandosi sulla riva del lago a cuocere il pesce per loro, si presenta ancora come uno che serve, perché il risorto è tutto amore, ed è sull’amore che interroga Pietro. Di fronte alla debolezza di Pietro, in cui ci riconosciamo tutti, commuove la fiducia che Gesù continua a dargli. Quel dialogo umano fra Gesù e Pietro lo dovremmo sempre ricordare perché ci dice che Gesù, nello stesso modo accoglierà noi quando ci pentiamo dei nostri errori.. come dice Papa Francesco, il Signore non si stanca mai di perdonarci, siamo noi a volte che ci stanchiamo di chiedere perdono!

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo».
Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono».
Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.
At, 5,27b-32.40b-41

Luca in questo brano descrive il coraggio con il quale gli apostoli, e in particolare Pietro, mossi dalla forza dello Spirito rendono testimonianza al loro Maestro. L’antefatto del brano che abbiamo si svolge nell’aula del Sinedrio di Gerusalemme: il sommo sacerdote si era rivolto agli apostoli e, senza indagare sulla loro misteriosa liberazione, li aveva rimproverati perché, invece di obbedire al comando, dato precedentemente a Pietro e Giovanni, di non insegnare nel nome di Gesù, essi avevano riempito Gerusalemme della loro dottrina, con lo scopo di “far ricadere su di loro”, cioè sui membri del sinedrio, il sangue di quell’uomo. (L’espressione “far ricadere il sangue di una persona su..” significa attribuire a qualcuno la responsabilità di un crimine, scatenando la vendetta del sangue innocente ossia il castigo divino).
Il sinedrio è evidente che rifiuta questa responsabilità, e Luca ne è persuaso, come già Pietro stesso aveva affermato precedentemente (2,23; 3,13-15), che i giudei sono colpevoli della morte di Gesù. Non si tratta però del popolo ebraico nella sua totalità e tanto meno di quello delle epoche successive, ma di coloro che avevano partecipato direttamente o indirettamente alle vicende della passione. Per loro riconoscere la propria colpa significa arrivare alla conversione, cosa che il sommo sacerdote e il sinedrio non intendono fare.
Pietro a nome degli altri apostoli testimonia senza esitazione il suo amore e la sua fede nel Cristo risorto affermando decisamente: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini ...” sottolineando così che l'obbedienza a Dio va oltre ad ogni dovere umano, poi continua dicendo: Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono»
E con l’affermazione finale “E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono” Pietro ritorna così al concetto iniziale, lasciando comprendere che agli apostoli compete ora, in quanto si sono sottomessi a Dio, quell’autorevolezza che i membri del sinedrio hanno perso.
Il brano non riporta l’irritazione dei membri del sinedrio, i quali si calmano solo in seguito all’intervento del maestro Gamaliele, il quale fa osservare che se il movimento rappresentato dagli apostoli, viene dagli uomini, non avrà futuro, ma se invece viene da Dio nessuno potrà fermarlo.
Alla fine il sinedrio adotta la linea suggerita da Gamaliele e lascia liberi gli apostoli, non prima però di averli fatti fustigare e di aver ordinato loro ancora una volta di non continuare a parlare nel nome di Gesù. Ma essi se ne vanno felici di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù perchè così si sentivano più vicini al loro Maestro.

Salmo 29 - Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato.
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.

Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.

Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!».
Hai mutato il mio lamento in danza,
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.

L’autore del salmo riconosce di essere stato nel passato ampiamente beneficato da Dio, ma aveva peccato di presunzione dicendo tra sé: “Mai potrò vacillare!”.
Per questo Dio l’aveva abbandonato e gli aveva nascosto per “un istante” il suo volto. Per “un istante” l’aveva esposto ai suoi nemici, i quali giunsero ad un sol passo dal prevalere su di lui, ma Dio gli diede “vita” e così poté sfuggire alla morte. Per questo egli è diventato un testimone della bontà del Signore: “Cantate inni al Signore, o suoi fedeli”.
Permane però nelle insidie ed egli si rivolge a Dio chiedendo di conservarlo in vita, perché non ne trarrebbe nessun vantaggio dalla sua morte: “Quale guadagno dalla mia morte, dalla mia discesa nella fossa? Potrà ringraziarti la polvere e proclamare la tua fedeltà?”. La sua missione, il suo proclamare la fedeltà di Dio, sarebbe interrotta anzitempo.
Umile, invoca misericordia, e lascia il lamento sperimentando ancora una volta la fedeltà del Signore. Conclude confermandosi nell’amore per il Signore: “Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre”.

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato,
è degno di ricevere potenza e ricchezza,
sapienza e forza,onore, gloria e benedizione».
Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello
lode, onore, gloria e potenza,nei secoli dei secoli».
E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.
Ap 5,11-14

Il capitolo 5 dell’Apocalisse, da dove è tratto il nostro brano liturgico, si apre con una domanda, contenuta in un libro a forma di rotolo, che tiene in sospeso l’universo: “Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?”, ossia “ chi eserciterà il giudizio?” Giovanni non può fare a meno di piangere perchè si rende conto che “nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro”. Viene però consolato dalle parole di un vegliardo che gli dice: “Non piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli”. Uno solo dunque può farlo: colui che è senza peccato ed ha vinto Satana e il mondo con la Sua stessa perfezione. E’ Cristo questo “Leone della tribù di Giuda”!
Ma, subito dopo, Cristo è visto sotto l’aspetto di “un Agnello, in piedi, come immolato”. Il linguaggio dell’Apocalisse è alquanto sconcertante, ma è proprio così, Cristo è nello stesso tempo il vincitore e la vittima sacrificata, il leone e l’agnello.
Poi c’è la descrizione dell’’Agnello: “ aveva sette corna e sette occhi, i quali sono i sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra.” Le sette corna indicano la potenza vittoriosa dell’Agnello, mentre i sette occhi indicano la pienezza dello Spirito Santo, che Gesù possiede e che insieme al Padre invia su tutta la terra. “E l’Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono”. A questo punto, i quattro esseri viventi e i ventiquattro anziani si prostrano davanti all’Agnello, con in mano coppe ricolme del profumo effuso dalle preghiere dei santi e “cantavano un canto nuovo”. E’’ il canto di lode e di ringraziamento per la redenzione operata da Cristo, la nuova creazione “ hai fatto di loro per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra
Da qui inizia il brano liturgico
“Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia”
Qui Giovanni continua a descrivere la sua visione: egli si trova davanti alla corte celeste, vede il trono di Dio, attorno al quale vi sono 24 seggi sui cui sedevano 24 anziani. ( Per gli esperti essi rappresentano le comunità dei cristiani, per altri sono la storia dell'umanità) Vi sono i quattro esseri viventi (4,6-8) che la tradizione cristiana da sant’Ireneo, vi ha visto il simbolismo dei quattro evangelisti. Ma probabilmente Giovanni prende ispirazione dalle visioni di Ezechiele, dove i quattro animali reggono il trono di Dio e rappresentano il mondo creato. Gli angeli che attorniano il trono sono miriadi di miriadi. Le miriadi (10.000 unità) erano le unità militari. Tutto l'esercito del cielo è attorno al trono di Dio, al Suo servizio.
“e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza”. Gli anziani e gli esseri viventi cantano un canto nuovo all'Agnello e ad essi si uniscono ora le voci degli angeli. L'Agnello che è una figura di Cristo, è stato ucciso per la salvezza, non solo di Israele, ma di tutti i popoli della terra. Ecco perché il canto celebra la Sua dignità, Egli è degno di ricevere da Dio “potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”. Sono sette , il numero della pienezza!. L'Agnello proprio perché è stato immolato merita di ricevere ogni cosa.
“Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli».E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione”. Infine tutte le creature del mondo si uniscono a questo canto e come in un ritornello attribuiscono non solo all'Agnello, ma anche a Dio delle prerogative simili, per tutti i secoli. L'inno di lode è sceso fino a sotto la terra e nel fondo del mare, poi ritorna nei cieli, con i quattro esseri viventi che rispondono: Amen, e con gli anziani si prostrano in adorazione.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?».
Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
Gv 21, 1-19

Il 20^capitolo del Vangelo di Giovanni riporta il racconto delle apparizioni di Gesù ai discepoli nel Cenacolo e al termine c’è una breve conclusione da far sembrare che il Vangelo fosse terminato. Invece nel capitolo successivo, da dove è tratto questo brano, viene riportato il racconto di un’ulteriore apparizione di Gesù risorto, questa volta non più a Gerusalemme ma in Galilea.
Qui si racconta che sei discepoli di Gesù con Simon Pietro, vanno a pescare riprendendo così in un certo senso la vita di prima. Pescano tutta la notte, ma senza risultato! (La notte è simbolo dell’assenza di Gesù, luce del mondo: per questo il risultato della pesca è vano).
All’alba Gesù appare loro sulla riva, ma essi non lo riconoscono. Egli si rivolge a loro in modo affettuoso: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?” e alla loro risposta negativa dà loro più che un suggerimento, un comando: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. Questa precisa indicazione, evidenzia come la pesca abbondante non sia frutto di casualità, ma dell’intervento di Gesù, che ha indicato Lui stesso dove gettare le reti. Essi obbediscono e la rete si riempie di pesci, senza per questo spezzarsi.
Allora il discepolo che Gesù amava lo riconosce e dice a Pietro: “È il Signore”.
L'evangelista, anche qui, non lo chiama col suo nome, ma lo designa ancora una volta come "il discepolo che Gesù amava" per indicare in lui ogni vero discepolo che è oggetto dell'amore personale di Gesù e a sua volta risponde a tanto amore.
Sentito ciò, Pietro si getta in mare per poter raggiungere prima Gesù sulla riva; ritroviamo in questo gesto l’indole passionale e spontanea di Pietro.
Intanto arrivano anche gli altri discepoli trascinando la rete piena di pesci. Arrivati a terra, i discepoli vedono che è già pronto un fuoco con sopra del pesce e del pane. Gesù dice allora di portare un po’ del pesce che hanno appena preso.
Pietro, salito sulla barca, porta a terra la rete, nella quale vi sono centocinquantatre grossi pesci. (Il numero 153 ha una portata simbolica. Pare che a quell'epoca i naturalisti distinguessero 153 specie di pesci. Una missione quindi universale: raccogliere la grande varietà di popoli e razze umane nell'unità della Chiesa, simboleggiata dall'unica rete che non si spezza, nonostante la grandissima quantità di pesci).
Poi Gesù li invita a mangiare. Nessuno di loro osa chiedergli chi è “perché sapevano bene che era il Signore”. Gesù dà loro del pane e del pesce, e improvvisa così un banchetto in cui mangia anche Lui con i suoi discepoli la sua porzione di pesce arrostito.
L’evangelista conclude il racconto sottolineando che si trattava della terza volta in cui Gesù si era manifestato a loro dopo la sua risurrezione dai morti.
Il brano però prosegue riportando un dialogo tra Gesù e Pietro che inizia con la domanda di Gesù: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”una domanda ripetuta per ben tre volte, nonostante la risposta affermativa dell'apostolo; una domanda che sembra voler dare a Pietro l’occasione, per cancellare il ripetuto tradimento, nei giorni della Passione.
”Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene!”’ è la triplice risposta di Pietro, al quale Gesù affida il compito di condurre e confermare i fratelli nella fede e a guidare il nuovo popolo di Dio, che è la Chiesa, quella mistica rete stracolma di pesci che, tuttavia, non si rompe per il carico che porta.
Pietro è stato interrogato sull'amore per il suo Signore, e anche noi lo siamo, ogni giorno per tutto l'arco della nostra vita, come Pietro siamo chiamati ad ascoltare l'invito di Gesù che non si stanca di ripete ad ognuno : «Seguimi!».
Affidando dunque a Pietro il compito di pascere la Sua Chiesa, Gesù gli chiede una professione di fede e di amore perchè se lo amerà veramente sarà anche in grado di amare il suo gregge, saprà servirlo con la premura del responsabile e nello stesso tempo con il distacco del servo. Riuscirà a non cadere nella tentazione di spadroneggiare sulle persone a lui affidate, ma saprà farsi modello del gregge.
Dopo aver affidato a Pietro il ruolo di pastore, Gesù aggiunge: “In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”.
L’evangelista (che scrive intono al 90 perciò dopo la morte di Pietro) aggiungendo “questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio”, vuole sottolineare una predizione di Gesù sul martirio di Pietro: è questa infatti la meta a cui porta non solo la sequela di Cristo, ma anche la condivisione del Suo ruolo di pastore.

*****

“Il Vangelo di oggi narra la terza apparizione di Gesù risorto ai discepoli, sulla riva del lago di Galilea, con la descrizione della pesca miracolosa. Il racconto è collocato nella cornice della vita quotidiana dei discepoli, tornati alla loro terra e al loro lavoro di pescatori, dopo i giorni sconvolgenti della passione, morte e risurrezione del Signore. Era difficile per loro comprendere ciò che era avvenuto. Ma, mentre tutto sembrava finito, è ancora Gesù a “cercare” nuovamente i suoi discepoli. E’ Lui che va a cercarli. Questa volta li incontra presso il lago, dove loro hanno passato la notte sulle barche senza pescare nulla. Le reti vuote appaiono, in un certo senso, come il bilancio della loro esperienza con Gesù: lo avevano conosciuto, avevano lasciato tutto per seguirlo, pieni di speranza… e adesso? Sì, lo avevano visto risorto, ma poi pensavano: “Se n’è andato e ci ha lasciati … E’ stato come un sogno…”.
Ma ecco che all’alba Gesù si presenta sulla riva del lago; essi però non lo riconoscono. A quei pescatori, stanchi e delusi, il Signore dice: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». I discepoli si fidarono di Gesù e il risultato fu una pesca incredibilmente abbondante. A questo punto Giovanni si rivolge a Pietro e dice: «È il Signore!». E subito Pietro si tuffa in acqua e nuota verso la riva, verso Gesù.
In quella esclamazione: “E’ il Signore!”, c’è tutto l’entusiasmo della fede pasquale, piena di gioia e di stupore, che contrasta fortemente con lo smarrimento, lo sconforto, il senso di impotenza che si erano accumulati nell’animo dei discepoli. La presenza di Gesù risorto trasforma ogni cosa: il buio è vinto dalla luce, il lavoro inutile diventa nuovamente fruttuoso e promettente, il senso di stanchezza e di abbandono lascia il posto a un nuovo slancio e alla certezza che Lui è con noi.
Da allora, questi stessi sentimenti animano la Chiesa, la Comunità del Risorto. Tutti noi siamo la comunità del Risorto! Se a uno sguardo superficiale può sembrare a volte che le tenebre del male e la fatica del vivere quotidiano abbiano il sopravvento, la Chiesa sa con certezza che su quanti seguono il Signore Gesù risplende ormai intramontabile la luce della Pasqua. Il grande annuncio della Risurrezione infonde nei cuori dei credenti un’intima gioia e una speranza invincibile. Cristo è veramente risorto! Anche oggi la Chiesa continua a far risuonare questo annuncio festoso: la gioia e la speranza continuano a scorrere nei cuori, nei volti, nei gesti, nelle parole. Tutti noi cristiani siamo chiamati a comunicare questo messaggio di risurrezione a quanti incontriamo, specialmente a chi soffre, a chi è solo, a chi si trova in condizioni precarie, agli ammalati, ai rifugiati, agli emarginati. A tutti facciamo arrivare un raggio della luce di Cristo risorto, un segno della sua misericordiosa potenza.
Egli, il Signore, rinnovi anche in noi la fede pasquale. Ci renda sempre più consapevoli della nostra missione al servizio del Vangelo e dei fratelli; ci riempia del suo Santo Spirito perché, sostenuti dall’intercessione di Maria, con tutta la Chiesa possiamo proclamare la grandezza del suo amore e la ricchezza della sua misericordia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 10 aprile 2016

Pubblicato in Liturgia
Venerdì, 22 Aprile 2022 13:10

II Domenica di Pasqua - Anno C - 24 aprile 2022

La prima domenica dopo Pasqua, prima di chiamarsi della Divina Misericordia, era chiamta "domenica in albis". Questo nome era dovuto perché ai primi tempi della Chiesa il battesimo era amministrato durante la notte di Pasqua, ed i battezzandi indossavano una tunica bianca che portavano poi per tutta la settimana successiva, fino alla prima domenica dopo Pasqua, detta perciò "domenica in cui si depongono le vesti bianche" ("in albis depositis"). Questa domenica dal 2000 è stata proclamata Festa della Divina Misericordia per volontà del Papa Giovanni Paolo II, come testimonia la sua seconda Enciclica “Dives in Misericordia”, scritta nel 1980.
Le letture liturgiche però non hanno subito variazioni.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca sottolinea la crescita della prima comunità, la giovane Chiesa delle origini, che con gioia testimonia la fede nel Risorto, suscitando lo stupore della gente. Colpisce l’immagine dei malati che si accostano a Pietro per farsi almeno coprire con la sua ombra nella speranza della guarigione.
Nella seconda lettura tratta dal libro dell’Apocalisse, Gesù risorto appare a Giovanni in visione come giudice universale, e gli affida la missione per le sette Chiese, raffigurate simbolicamente in sette candelabri d’oro. A Giovanni quasi privo di sensi Gesù lo rassicura dicendo: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente…” Gesù è l’eterno vivente e ad ogni celebrazione liturgica noi lo possiamo incontrare!
Il Vangelo di Giovanni riporta l’incontro di Gesù risorto con gli apostoli e il Suo saluto: Pace a Voi ! L’episodio di Tommaso, con i suoi umanissimi dubbi, è particolarmente utile per tutti coloro che, specialmente in questi tempi sempre più difficili, procedono a tentoni alla ricerca di Dio. Tommaso alla fine è stato in grado di proclamare la sua fede con una purezza straordinaria, forse la più alta del quarto Vangelo: “Mio Signore e mio Dio!”

Dagli Atti degli Apostoli
Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava.
Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro.
Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.
At 5,12-16

Questo brano è uno (il terzo) dei cosiddetti “sommari” che Luca ha inserito all’interno degli Atti per fare il punto del racconto e per offrirne quasi una guida di lettura e di comprensione.
Inizia riportando che “Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli.” La stessa frase la troviamo espressa in modo similare nel primo sommario sulla vita della comunità (V 2,43b).
“Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; “ Qui si precisa che tutti si ritrovavano nel portico di Salomone e Luca osserva che essi formavano un gruppo abbastanza chiuso, in quanto “nessuno degli altri osava associarsi a loro,” e precisa ulteriormente, che il popolo li esaltava ossia che era loro favorevole.
A questa constatazione aggiunge che “Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne,” ossia che aumentava il numero non solo di uomini, ma anche di donne che credevano nel Signore.
“tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro.” Qui vengono spiegati gli effetti dei prodigi compiuti dagli apostoli sulla gente. Anche se la descrizione è chiaramente esagerata, c’è da tener presente che l’ombra era vista come continuazione della persona con tutti i suoi poteri, per cui si portavano gli ammalati nelle piazze, si ponevano su lettucci e giacigli, nella speranza che, al giungere di Pietro, la sua ombra coprisse qualcuno di loro.
Poi Luca aggiunge che “Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti. “
Questa descrizione ricorda l’attività di Gesù (Lc 6,17-19) ed anche quella di Paolo a Efeso (At 19,11.12).
Come il loro maestro, anche gli apostoli annunziano la venuta del regno di Dio più con i segni che con le parole, noncuranti dei fenomeni di superstizione che accompagnavano inevitabilmente la loro opera taumaturgica.
La comunità qui appare in tutta la sua bellezza e la sua unità: Apostoli e discepoli insieme e concordi e, allo stesso tempo, si presenta come un gruppo giudaico ben separato dagli altri e in continua crescita.
Questa immagine della comunità è quella che più sottolinea il favore e l’entusiasmo del popolo e questo non poteva non infastidire i detentori del potere.

Salmo 117 - Rendete grazie al Signore perché è buono:il suo amore è per sempre
Dica Israele:«Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».

La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo!

Ti preghiamo, Signore: dona la salvezza!
Ti preghiamo, Signore: dona la vittoria!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Vi benediciamo dalla casa del Signore.
Il Signore è Dio, egli ci illumina.

Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi. Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare.
Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici. Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
“La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
“Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male. Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”. Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore. Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento tratto da “Perfetta Letizia"

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Io,Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese».
Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».
Ap 1,9-11a, 12-13, 17-19

L’Apocalisse di Giovanni, ultimo libro del Nuovo Testamento, si compone di 22 capitoli, ed è uno dei testi più controversi e difficili da interpretare. Appartiene al gruppo di scritti neotestamentari noto come “letteratura giovannea“, in quanto redatta, intorno all’anno 95, verso la fine dell'impero di Domiziano, dai discepoli dell’apostolo che si sono ispirati al suo insegnamento.
I libri che hanno di più influenzato l'Apocalisse sono i libri dei Profeti Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il Libro dei Salmi. L'autore presenta sé stesso come Giovanni, esiliato a Patmos, isola dell‘Egeo, a circa 70 km da Efeso, a causa della parola di Dio. Secondo alcuni studiosi, la stesura definitiva del libro, anche se iniziata durante l'esilio dell’autore, sarebbe avvenuta ad Efeso.
Questo brano presenta la prima rivelazione avuta da Giovanni, durante un’estasi:
“Io,Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.” Giovanni inizia la sua testimonianza dando alcune indicazioni su di sé, così sappiamo che scrive mentre si trova in esilio nell'isola di Patmos, presso Efeso. Si dichiara fratello e compagno dei cristiani a cui si rivolge in tre ambiti differenti. Il primo è la tribolazione, le persecuzioni che tutti loro stanno soffrendo. Il secondo è il regno, perché sa di essere unito nel regno di Dio con i suoi fratelli in Cristo. Terzo: la perseveranza nell'attesa di Gesù, perché egli aspetta con costanza e fede il Signore che tornerà e porterà tutto a perfezione.
“Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese»”.
Giovanni ha fatto un'esperienza straordinaria e qui la racconta. Il giorno del Signore è la domenica, e il fatto che lui lo evidenzia in modo così solenne ci deve far pensare che non sia una semplice indicazione di tempo, bensì un'importante intervento del Signore nella storia. Il giorno del Signore ci ricorda anche la Pasqua, il trionfo di Gesù sulla morte, e l'annuncio della Parusia, il ritorno glorioso di Cristo.
Giovanni proprio in questo giorno dunque viene rapito in estasi e lo Spirito di Dio lo mette in contatto con un mondo soprannaturale. Egli sente una voce “come di tromba”!. La tromba era lo strumento musicale più forte e nella sacra scrittura viene associato spesso alla manifestazione del divino. La voce lo invita a prendere nota di quello che vede e di comunicarlo alle sette chiese dell'Asia minore (il brano liturgico non riporta i versetti con il nome delle chiese).
“Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro”
Giovanni deve voltarsi, cioè deve lasciare la terra per rivolgersi a Dio. I sette candelabri d'oro ci ricordano il candelabro a sette bracci che nel Tempio bruciava senza interruzione davanti a Dio (Es 25,31-40).
Anche il profeta Zaccaria utilizzerà il simbolo del candelabro e Giovanni si ispira molto a questo profeta
“in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.”
Il Figlio d'uomo è una definizione che troviamo per la prima volta nel libro del profeta Daniele (7,13-14) e che è stata utilizzata dall'apocalittica ebraica per designare un essere misterioso, esecutore escatologico del disegno di Dio e titolare dell'autorità regale e giudiziaria. Gesù stesso ha utilizzato questo termine per indicare se stesso, quindi questo personaggio misterioso è Cristo che appare in tutta la sua gloria. La veste talare indica il sacerdozio e la cintura d'oro la regalità.
Il brano liturgico non riporta i versetti 14-16 in cui si dice che il personaggio aveva i capelli bianchi (che sono simbolo di eternità), era splendente come il sole, teneva in mano sette stelle e dalla bocca gli usciva come una spada acuminata (simbolo della Parola di Dio).
“Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”.
Giovanni cade come morto e la sua reazione causata dalla paura è sempre quella dell'essere umano quando si trova al cospetto del divino. Ma il Signore lo esorta a non temere e lo richiama alla vita.
Egli è il Primo, l’Ultimo e il Vivente, tre definizioni che rivelano il volto autentico del Risorto. Egli è la sorgente e la fine della storia, egli è la fonte della vita che non può essere cancellata dalla morte. Non solo, ha anche potere sulla morte e sull‘oltretomba. Queste prerogative gli sono state date perché si è sottoposto alla morte di croce e con la sua resurrezione ha vinto la morte.
“Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».”
Giovanni riceve dunque un mandato importante. Ha già visto qualcosa, vedrà altre cose riguardanti il presente e il futuro, egli deve scrivere tutto e comunicarlo ai suoi fratelli nella fede

Dal vangelo secondo Giovanni
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Gv 20, 19-31

In questo brano di Vangelo, Giovanni narra l’apparizione del risorto ai suoi discepoli il giorno stesso di Pasqua e la loro paura si trasforma in gioia.
“ La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”.
È il primo giorno dopo il sabato, inizio perciò di una settimana nuova, di un tempo nuovo. I discepoli sono spaventati, hanno paura dei Giudei e l’evangelista precisa che le porte erano chiuse. I discepoli spaventati sono rassicurati da Gesù quando presentandosi dice: “Pace a voi”. Non è un augurio di pace qualsiasi è la pace che li renderà in grado di superare lo scandalo della croce e ottenere la liberazione nella loro vita.
“Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco”. Questo particolare sta ad indicare la continuità tra il Gesù della croce e il Risorto. Giovanni sottolinea con forza che Gesù, che appare e che sta in mezzo ai discepoli, è un essere reale, è lo stesso Gesù appeso sulla croce, per questo mostra i segni del suo martirio. Giovanni è il solo a dare rilievo alla piaga del costato; già nella crocifissione l'aveva citata per il significato profondo del sangue e dell’acqua che ne uscirono (Gv 19,34-35).
“E i discepoli gioirono al vedere il Signore”. La gioia dei discepoli è una gioia incontenibile che non è possibile contenere ma che deve essere condivisa: il Cristo risorto è sorgente inesauribile di perdono e i discepoli dovranno annunciarla a tutti .
“Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».” Il saluto pasquale ripetuto due volte: “Pace a voi” è il primo dono della Pasqua: è liberazione dall’angoscia della morte che turbava il cuore dei discepoli e li teneva prigionieri della paura..
“Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».”
Il soffio sui discepoli da parte di Gesù evoca sicuramente il gesto creativo di Dio. Nel libro della Genesi (2,7) troviamo questo alitare di Dio sull’uomo per cui l’uomo divenne un essere vivente. Questo gesto di soffiare di Gesù, è una promessa che si verificherà a Pentecoste (At 2,1-4), afferma la Sua divinità, indicando, nel dono dello Spirito, la vera vita a cui la Chiesa deve sempre attingere,
“Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo»”.
Tommaso non era rimasto con gli altri discepoli che, seppure intimoriti erano rimasti uniti. Non essendo con gli altri Tommaso non vede il Risorto e non accogliendo subito l’annuncio evangelico della risurrezione che gli viene dato, ricerca altre conferme perchè non riesce ancora a credere. Tommaso non è un curioso, perché Gesù non si manifesta ai curiosi, ma Gesù viene apposta per lui, a lui che si vuole rendere conto, che cerca qualcosa in più per dare ragione alla propria fede.
“Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!»”
Gesù è lo stesso della prima apparizione, entra a porte chiuse e presentandosi dice ancora: “Pace a voi”.
E subito dopo si rivolge a Tommaso negli stessi termini da lui utilizzati, per mostrare che, nel suo amore, egli conosce che cosa il suo discepolo desiderava fare. e lo invita a costatare con le sue mani i segni della Sua passione, per calmare le sue apprensioni e non essere incredulo, ma credente!»”
Tommaso tocca con mano che quel Gesù che ha patito ed è morto è quel medesimo Gesù che è risuscitato. La prova della sua risurrezione è quella di essere presente davanti a Lui: quelle piaghe sono la prova della sua risurrezione. “Metti”: è un imperativo presente attivo, quasi un invito a continuare il gesto del mettere il dito-
“Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio”. Tommaso compie qui una confessione di fede assoluta “mio Signore e il mio Dio". Questa dichiarazione afferma letteralmente che Gesù è Kyrios (Signore) ossia il Messia inviato da Dio e poi Theos (ossia Dio stesso).
Tommaso ora crede non per sentito dire e non teme di esagerare nella sua professione di fede. In nessun punto del Vangelo di Giovanni infatti c'è una dichiarazione di fede così ferma e chiara. Tra la prima professione del discepolo Natanaele (1,49) all'ultima di Tommaso è contenuto il cammino di fede della comunità.
Noi dobbiamo in un certo senso essere grati a Tommaso! Il mondo ha bisogno di cristiani come lui, di gente che è alla ricerca continua della verità, che dica: “Proprio perché ho messo il dito nelle piaghe posso dire che il Signore è risorto”. Non è certo facile toccare le piaghe delle sofferenze del mondo e dire: “Mio Signore e mio Dio”.
Per due volte possiamo notare che Tommaso ripete l'aggettivo "Mio", che ha un significato unico straordinario, è un “mio” che non indica possesso geloso, è come quando noi diciamo in modo spontaneo “Gesù mio”, ma indica chi mi ha rubato il cuore, chi mi fa vivere, la parte migliore di me, la mia identità e la mia gioia. "Mio", come lo è il cuore e senza, non potrei vivere. "Mio", come lo è il respiro della mia anima.
Qualcosa di simile che esprime lo stesso concetto lo possiamo trovare in un’espressione di P. Pedro Arrupe, Preposito generale della Compagnia di Gesù dal 1965 al 1983, quando ha detto “Togliete Gesù Cristo dalla mia vita e tutto crollerà come un corpo al quale si togliessero lo scheletro, il cuore e la testa.” come dire: “Mio Signore e Mio Dio” senza di te non potrei vivere.
“Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”.
Le parole che Gesù qui pronuncia non rappresentano certo una critica nei confronti di coloro che appartengono alla categoria di Tommaso, ma piuttosto esprimono un grande apprezzamento per tutti quelli che, pur non avendo avuto un’esperienza diretta di Gesù, hanno creduto sulla parola dei testimoni oculari.

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“Il Vangelo di oggi narra che il giorno di Pasqua Gesù appare ai suoi discepoli nel Cenacolo, alla sera, portando tre doni: la pace, la gioia, la missione apostolica.
Le prime parole che Egli dice sono: «Pace a voi» . Il Risorto reca l’autentica pace, perché mediante il suo sacrificio sulla croce ha realizzato la riconciliazione tra Dio e l’umanità e ha vinto il peccato e la morte. Questa è la pace. I suoi discepoli per primi avevano bisogno di questa pace, perché, dopo la cattura e la condanna a morte del Maestro, erano piombati nello smarrimento e nella paura. Gesù si presenta vivo in mezzo a loro e, mostrando le sue piaghe – Gesù ha voluto conservare le sue piaghe –, nel corpo glorioso, dona la pace come frutto della sua vittoria.
Ma quella sera non era presente l’apostolo Tommaso. Informato di questo straordinario avvenimento, egli, incredulo dinanzi alla testimonianza degli altri Apostoli, pretende di verificare di persona la verità di quanto essi affermano. Otto giorni dopo, cioè proprio come oggi, si ripete l’apparizione: Gesù viene incontro all’incredulità di Tommaso, invitandolo a toccare le sue piaghe. Esse costituiscono la fonte della pace, perché sono il segno dell’amore immenso di Gesù che ha sconfitto le forze ostili all’uomo, il peccato, la morte. Lo invita a toccare le piaghe. È un insegnamento per noi, come se Gesù dicesse a tutti noi: “Se tu non sei in pace, tocca le mie piaghe”.
Toccare le piaghe di Gesù, che sono i tanti problemi, difficoltà, persecuzioni, malattie di tanta gente che soffre. Tu non sei in pace? Va’, va’ a visitare qualcuno che è il simbolo della piaga di Gesù. Tocca la piaga di Gesù. Da quelle piaghe scaturisce la misericordia. Per questo oggi è la domenica della misericordia. Un santo diceva che il corpo di Gesù crocifisso è come un sacco di misericordia, che attraverso le piaghe arriva a tutti noi. Tutti noi abbiamo bisogno della misericordia, lo sappiamo. Avviciniamoci a Gesù e tocchiamo le sue piaghe nei nostri fratelli che soffrono. Le piaghe di Gesù sono un tesoro: da lì esce la misericordia. Siamo coraggiosi e tocchiamo le piaghe di Gesù. Con queste piaghe Lui sta davanti al Padre, le fa vedere al Padre, come se dicesse: “Padre, questo è il prezzo, queste piaghe sono quello che io ho pagato per i miei fratelli”. Con le sue piaghe Gesù intercede davanti al Padre. Dà la misericordia a noi se ci avviciniamo, e intercede per noi. Non dimenticare le piaghe di Gesù.
Il secondo dono che Gesù risorto porta ai discepoli è la gioia. L’evangelista riferisce che «i discepoli gioirono al vedere il Signore». E c’è anche un versetto, nella versione di Luca, che dice che non potevano credere per la gioia. Anche a noi, quando magari è successo qualcosa di incredibile, di bello, viene da dire: “Non ci posso credere, questo non è vero!”. Così erano i discepoli, non potevano credere per la gioia. Questa è la gioia che ci porta Gesù. Se tu sei triste, se tu non sei in pace, guarda Gesù crocifisso, guarda Gesù risorto, guarda le sue piaghe e prendi quella gioia.
E poi, oltre alla pace e alla gioia, Gesù porta in dono ai discepoli anche la missione. Dice loro: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». La risurrezione di Gesù è l’inizio di un dinamismo nuovo di amore, capace di trasformare il mondo con la presenza dello Spirito Santo.
In questa seconda domenica di Pasqua, siamo invitati ad accostarci con fede a Cristo, aprendo il nostro cuore alla pace, alla gioia e alla missione. Ma non dimentichiamo le piaghe di Gesù, perché da lì escono la pace, la gioia e la forza per la missione. Affidiamo questa preghiera alla materna intercessione della Vergine Maria, regina del cielo e della terra.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 28 aprile 2019

Pubblicato in Liturgia
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(Papa Giovanni XXIII)

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