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S.Messe (settimana)
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In ogni ultima domenica dell’Anno liturgico, la Chiesa celebra Cristo Re dell'Universo.
La storia di questa festa parte dal 1899 con papa Leone XIII, ma fu PIO XI che la confermò come festa con l'enciclica “Quas Primas” dell'11 dicembre 1925.
Gesù Cristo è re, perché è l'unico mediatore della salvezza di tutta la creazione, a Lui appartengono la gloria e il potere. Solo in Lui, tutte le cose trovano il loro compimento, la loro vera consistenza secondo il disegno creatore di Dio.
Nella prima lettura, il profeta Daniele in una visione prefetica contempla il Figlio dell’uomo, cioè il Messia, che viene sulle nubi del cielo per instaurare nel mondo un regno universale ed eterno.
Nella seconda lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, l’apostolo Giovanni, per incoraggiare le comunità cristiane perseguitate, annuncia la venuta gloriosa del Cristo giudice per compiere il giudizio sul mondo. La Sua gloria regale è passata attragerso l’immolazione e l’ignominia della croce.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù, dinanzi a Pilato, afferma con decisione la Sua regalità. Un regno, però, il Suo, che non è di questo mondo: solo la fede può intenderne la portata, testimoniare la verità e attuarne nella vita le sue esigenze di giustizia, di amore e di pace.
Il Cristo che oggi adoriamo non è un Cristo lontano dalle tempeste della vita umana; anzi è colui che spinge in avanti l’umanità senza armate o potenze politiche ed econom,iche, eppure riesce a seminare paura in mezzo alle file del male. Guardando alle vicende drammatiche di questi anni, il vero credente deve stringersi ancora di più a Cristo, roccia viva. Certo la storia sembra un groviglio di contraddizioni e un gioco scandaloso di potenze e corse sfrenate al potere, eppure è dotata segretamente di una logica misteriosa, quella del regno di Dio.
I primi cristiani si definivano come stranieri-residenti, impegnati in fondo in questo mondo, ma consapevoli della loro appartenenza al cielo. Solo i nostri fratelli perseguitati, e chiunque cerca di vivere la fede e la verità nella vita quotidiana, sono testimoni credibili della regalità di Cristo.

Dal libro del profeta Daniele
Guardando nelle visioni notturne,
ecco venire con le nubi del cielo
uno simile a un figlio d’uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui.
Gli furono dati potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano:
il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai,
e il suo regno non sarà mai distrutto.
Dn 7,13-14

Nel Libro del profeta Daniele si cerca di intravedere il senso della storia come si presenta ai credenti nel Dio d'Israele, nel II secolo a.C.. Il capitolo 7, da dove è tratto il brano liturgico, inizia con la visione apocalittica di quattro bestie che sorgono dall'oceano, il luogo del caos e del male. Le bestie rappresentano il dominio e il potere di quattro regni che si sono succeduti nel Medio Oriente e di cui è stato testimone il popolo d'Israele nel suo cammino faticoso: il leone che rappresenta Babilonia, l'orso che rappresenta il popolo della Media, il leopardo con quattro teste che è simbolo dei Persiani che scrutano in ogni direzione in cerca della preda, la quarta bestia, un mostro terribile, che richiama il regno di Alessandro Magno e dei suoi successori. Israele sta vivendo un tempo angoscioso in cui si ribella e tenta di conquistarsi una libertà, combattendo l'oppressione culturale e religiosa di Antioco IV Epifane (175-164 a.C.).
Nella visione, Daniele intravede il giudizio finale come un grande processo da parte di Dio, un vegliardo, che pronuncia la sentenza contro le bestie che opprimono il mondo con la violenza e continua:
“Guardando ancora nelle visioni notturne,ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto.
All'orizzonte, appare “uno simile a figlio d'uomo" che scende dalle nubi, ossia dal cielo, ed è portatore di speranza e di accoglienza, e che prenderà il posto rimasto vacante dalla caduta degli imperi. Porterà finalmente la pace ed il benessere. Egli, che ha ricevuto i poteri da Dio, sottometterà tutti i popoli. e regnerà indisturbato e giusto poiché il Signore gli avrà riconosciuto potenza e forza su tutti i regni della terra. Sull’interpretazione di questa visione ebbe inizio la guerra partigiana dei Maccabei e si sviluppò con vicende sempre più incoraggianti, fino a far pensare che si potesse arrivare, non solo alla indipendenza ma anche al dominio del mondo come, d'altronde lo fu per altre nazioni.
Purtroppo la storia ci ha riportato che anche i vincitori ebrei non seppero mantenere ferma l'alleanza con Dio ed anche loro mantennero il potere con violenza, oppressione, intrighi e crudeltà.
In alcune correnti del giudaismo “uno simile a un figlio d’uomo” è identificato con il Messia davidico, e numerosi studiosi vedono in questo “figlio dell'uomo” un essere celeste o angelico, con sfumature diverse, che potrebbe essere identificato con Michele, il leader dell'esercito celeste, oppure con Gabriele.
Il Nuovo Testamento riconosce la sua piena realizzazione in Gesù Cristo, che come “Figlio dell’uomo”, dopo essere passato attraverso la passione, si presenterà sulle nubi del cielo e sarà investito di ogni potere.
L’evangelista Matteo infatti interpreta questo passo facendo dire a Gesù davanti al Sinedrio “…io vi dico: d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo ”Mt 26,64 e prima di salire in cielo . “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra… Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.Mt28,18


Salmo 92 - Il Signore regna, si riveste di splendore.

Il Signore regna, si riveste di maestà:
si riveste il Signore, si cinge di forza.

È stabile il mondo, non potrà vacillare.
Stabile è il tuo trono da sempre,
dall’eternità tu sei

Davvero degni di fede i tuoi insegnamenti!
La santità si addice alla tua casa
per la durata dei giorni, Signore.

Questo salmo celebra la sovranità di Dio su tutto il mondo. Nulla sfugge a Dio; il suo disegno salvifico nel mondo è saldo e per esso tiene saldo il mondo. Il Signore di fronte all'agitarsi degli uomini afferma la sua sovranità. Egli nell'agitarsi degli imperi contro Israele interviene con la sua potenza; l'immagine che il salmo presenta è quella di un re guerriero che si riveste di armature lucenti: “Si riveste di maestà: si riveste il Signore, si cinge di forza".
Nessuno mai ha potuto annullare la sovranità di Dio, e nessuno lo potrà: “Stabile è il tuo trono da sempre, dall'eternità tu sei”.
Le acque dei fiumi e dei mari non possono più sommergere la terra, perché l'ordine cosmico fissato da Dio non è alterabile (Gn 1,9; 9,11), così pure i popoli non possono annullare il disegno salvifico di Dio nella storia.
I fiumi a cui il salmo fa riferimento sono il Nilo e l'Eufrate, entrambi producevano grandi alluvioni. Essi sono presi a simboli dell'Egitto e dell'Assiria che dilagavano con i loro eserciti nella Palestina. “I fiumi” alzano la loro voce, il loro fragore, ma nulla possono contro Dio. Gli Assiri si sono impadroniti di Tiro, grande potenza del mare, e così da Tiro, tradizionalmente vicino a Gerusalemme, parte la minaccia “dei flutti del mare”. Gli Egiziani, poi, si sono alleati con gli Assiri (2Re 23,29). Queste “acque impetuose” vogliono sommergere, travolgere il disegno di Dio, che ha come punto stabile Israele ricco degli insegnamenti di Dio e religiosamente organizzato attorno al tempio, vincolo di santità.
Il salmo è stato probabilmente composto dopo le grandi incursioni Egiziane e Assire nella Palestina, prima dell'affermarsi dell'impero Babilonese nel 612 con la distruzione di Ninive capitale dell'Assiria.
Il disegno salvifico di Dio, che è Cristo e la sua Chiesa non potrà mai essere abbattuto dalle “acque impetuose” dei popoli in agitazione (Cf. Ap 17,15).
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni Apostolo
Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen!
Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!
Ap 1,5-8

L‘Apocalisse di Giovanni, è l’ultimo libro del Nuovo Testamento, si compone di 22 capitoli, ed è uno dei testi più controversi e difficili da interpretare. Appartiene al gruppo di scritti neotestamentari noto come “letteratura giovannea“, in quanto redatta, intorno all’anno 95, verso la fine dell'impero di Domiziano, dai discepoli dell’apostolo che si sono ispirati al suo insegnamento.
I libri che hanno di più influenzato l'Apocalisse sono i libri dei Profeti, principalmente Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il Libro dei Salmi.
L'autore presenta sé stesso come Giovanni, esiliato a Patmos, isola dell‘Egeo, a circa 70 km da Efeso, a causa della Parola di Dio. Secondo alcuni studiosi, la stesura definitiva del libro, anche se iniziata durante l'esilio dell’autore, sarebbe avvenuta ad Efeso.
Questo brano è il prologo dell’Apocalisse che si apre come una specie di lettera inviata dall'apostolo Giovanni alle sette chiese che sono nell'Asia (cioè nell'attuale Turchia), e questi versetti presentano i motivi per cui Gesù deve essere considerato il sovrano dei re della terra.
Giovanni fa la presentazione in una sfolgorante liturgia celeste dicendo: “Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra”.
In poche parole sono ricordati i motivi della sua grandezza e della nostra fede in Lui. Gesù è il testimone fedele della promessa fatta un tempo a Davide (2Sam 7,1) e realizzata in Lui. E' primogenito dei morti, poiché è il primo ad essere risorto. E dopo la distruzione dei suoi nemici diventerà sovrano dei re della terra, un titolo con cui si fregiava ufficialmente l'imperatore romano.
“A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.”
Gesù ha fatto tutto questo per amore e grazie alla Sua morte in croce ci ha liberati dai nostri peccati. Questa liberazione ha un altro effetto: ci ha resi un regno, un popolo di sacerdoti che rendono culto a Dio. La professione di fede sfocia nell'adorazione, a Gesù Cristo si tributa gloria e potenza nei secoli. L'amen pone il sigillo a questa professione di fede. (Gli amen sono molto diffusi nell'Apocalisse, sono ripetizioni di inni liturgici che sono stati inseriti nel testo.)
“Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen! “
In questo versetto si ritrovano le profezie riguardanti il Messia. Il Cristo doveva ritornare nella gloria sulle nubi, come il figlio dell'uomo di Dn 7,13. Davanti a lui si batteranno il petto (Zc 12,10.14), tutti quelli che lo trafissero.
“Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente! “
L'alfa è la prima lettera del’alfabeto greco e Omega è l’ultima lettera. Allora, questa dichiarazione vuol dire che Gesù è attribuisce a sé una qualità di Dio, l'essere principio e fine di ogni cosa.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Gv 18, 33b-37

Per la solennità di Cristo re, è dal Vangelo di Giovanni che viene preso questo racconto della passione. Mentre per i vangeli sinottici il tema del regno è centrale nella parole di Gesù, per Giovanni acquista più rilievo alla fine dell’esistenza terrena di Gesù, ove la regalità di Cristo appare molte volte. Giovanni, dopo il racconto dell’arresto nell’orto degli Ulivi, riporta che Gesù viene condotto prima da Anna, che era stato precedentemente sommo sacerdote e aveva conservato un grande potere, il quale lo interroga, ma senza ottenere da lui una risposta; e poi che viene inviato da Caifa, che era invece il sommo sacerdote in carica, il quale, senza darsi cura neppure di interrogarlo, lo fa condurre nel pretorio, dove risiedeva il procuratore romano, Pilato. Ha qui inizio la seconda parte del processo tutto incentrato sul colloquio tra il rappresentante dell’impero romano e Gesù.
Il brano liturgico inizia con le domande di Pilato che rientrato nel pretorio, dopo aver conosciuto le accuse dei giudei contro Gesù, si rivolge a lui con questa domanda: “Sei tu il re dei Giudei?”.
Gesù allora gli chiede se dice ciò di sua iniziativa oppure perché altri gliel’hanno detto sul suo conto, al che Pilato risponde: “Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?”
Gesù era stato consegnato a Pilato con l’accusa di essere un malfattore, ma il procuratore aveva capito subito che si trattava di un’accusa di tipo religioso, e di conseguenza li aveva invitati a giudicarlo secondo la loro legge. Ma i giudei avevano rifiutato con la scusa di non poter mettere a morte nessuno: essi dunque avevano già deciso che Gesù doveva essere condannato a morte, ma questa pena poteva essere decretata solo dall’autorità romana, perciò non era in loro potere emettere sentenze.
Sulla base di questo dialogo tra i giudei e Pilato, appare chiaro che, secondo Giovanni, il crimine di cui Gesù era accusato consisteva nella pretesa di essere re. Ma siccome si era rifiutato di giudicarlo come un ribelle, è chiaro che Pilato parla di regalità non sul piano politico, ma su quello religioso, in cui si riteneva incompetente. Pilato sottolinea che a consegnare a lui Gesù non sono stati solo i sommi sacerdoti, ma tutta la nazione giudaica.
Una volta chiarito che l’iniziativa processuale è partita non da Pilato ma dai giudei, l’interrogatorio si trasforma in un dialogo intorno al significato che Gesù dà alla regalità che, secondo i suoi accusatori, egli si sarebbe attribuita.
Alla domanda di Pilato “che cosa hai fatto?” Gesù risponde: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”.
Con queste parole Gesù riconosce implicitamente la propria regalità, ma sottolinea che essa si differenzia totalmente dalla regalità di questo mondo. Il Suo regno anche se si realizza in questo mondo, non appartiene a questo mondo, in quanto non ne segue la logica. Siccome la regalità di quaggiù viene ottenuta e si mantiene con l’uso della forza, di conseguenza il regno di Gesù deve essere totalmente privo di ogni violenza.
Alla domanda ironica e provocatoria di Pilano, “Dunque tu sei re?”, Gesù, riconosce questa volta apertamente: “Tu lo dici: io sono re”. Solo l’evangelista Giovanni riporta non solo la risposta ma un dialogo e una definizione precisa del regno di Cristo: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. E’ a questo punto che appare la dimensione della regalità di Cristo che si fonda sulla testimonianza resa alla verità. E “verità “, nel linguaggio biblico, è un termine dalle molteplici risonanze, evoca infatti la rivelazione della bontà del Padre, è espressione della fedeltà di Dio alle sue promesse di salvezza, è l’annunzio del regno divino, è il Vangelo, è Cristo stesso!
Il confronto tra Cristo e Pilato è, quindi, la definizione di due regni contrastanti. Da un lato c’è quello imperiale che continua a incombere in forme diverse nelle varie fasi della storia umana, ed è un regno che, per dominare, non si fa scrupolo di usare i mezzi più brutali fino ad arrivare a spargimenti di sangue. Dall’altra parte c’è il “regno della verità”, che ha la sua radice nella solidarietà tra Dio e l’uomo, che ha bisogno di essere amato e compreso, e trova la sua attuazione, non nel sangue degli altri, ma nel sangue versato dal Suo re e Signore.
Il Cristo re dell’universo, che oggi adoriamo, non è un re assente dalla tempeste della vita umana, anzi è Colui che spinge in avanti l’umanità senza armate, o potenze politiche ed economiche. Guida la storia del mondo, come un nocchiero una nave in tempesta. Gesù Cristo è Colui che agisce pazientemente, ma con mano ferma, e il cristiano vero deve avere fiducia in Lui, “stella radiosa del mattino”, e seguirlo proprio nei momenti più tenebrosi e dolorosi.

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“La solennità di Gesù Cristo Re dell’universo, che celebriamo oggi, è posta al termine dell’anno liturgico e ricorda che la vita del creato non avanza a caso, ma procede verso una meta finale: la manifestazione definitiva di Cristo, Signore della storia e di tutto il creato. La conclusione della storia sarà il suo regno eterno.
L’odierno brano evangelico ci parla di questo regno, il regno di Cristo, il regno di Gesù, raccontando la situazione umiliante in cui si è trovato Gesù dopo essere stato arrestato nel Getsemani: legato, insultato, accusato e condotto dinanzi alle autorità di Gerusalemme. E poi, viene presentato al procuratore romano, come uno che attenta al potere politico, a diventare il re dei giudei. Pilato allora fa la sua inchiesta e in un interrogatorio drammatico gli chiede per ben due volte se Egli sia un re.
E Gesù dapprima risponde che il suo regno «non è di questo mondo». Poi afferma: «Tu lo dici: io sono re».
È evidente da tutta la sua vita che Gesù non ha ambizioni politiche. Ricordiamo che dopo la moltiplicazione dei pani, la gente, entusiasta del miracolo, avrebbe voluto proclamarlo re, per rovesciare il potere romano e ristabilire il regno d’Israele. Ma per Gesù il regno è un’altra cosa, e non si realizza certo con la rivolta, la violenza e la forza delle armi. Perciò si era ritirato da solo sul monte a pregare. Adesso, rispondendo a Pilato, gli fa notare che i suoi discepoli non hanno combattuto per difenderlo. Dice: «Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei».
Gesù vuole far capire che al di sopra del potere politico ce n’è un altro molto più grande, che non si consegue con mezzi umani. Lui è venuto sulla terra per esercitare questo potere, che è l’amore, rendendo testimonianza alla verità. Si tratta della verità divina che in definitiva è il messaggio essenziale del Vangelo: «Dio è amore» (1Gv 4,8) e vuole stabilire nel mondo il suo regno di amore, di giustizia e di pace. E questo è il regno di cui Gesù è il re, e che si estende fino alla fine dei tempi. La storia ci insegna che i regni fondati sul potere delle armi e sulla prevaricazione sono fragili e prima o poi crollano. Ma il regno di Dio è fondato sul suo amore e si radica nei cuori – il regno di Dio si radica nei cuori –, conferendo a chi lo accoglie pace, libertà e pienezza di vita. Tutti noi vogliamo pace, tutti noi vogliamo libertà e vogliamo pienezza. E come si fa? Lascia che l’amore di Dio, il regno di Dio, l’amore di Gesù si radichi nel tuo cuore e avrai pace, avrai libertà e avrai pienezza.
Gesù oggi ci chiede di lasciare che Lui diventi il nostro re. Un re che con la sua parola, il suo esempio e la sua vita immolata sulla croce ci ha salvato dalla morte, e indica – questo re – la strada all’uomo smarrito, dà luce nuova alla nostra esistenza segnata dal dubbio, dalla paura e dalle prove di ogni giorno. Ma non dobbiamo dimenticare che il regno di Gesù non è di questo mondo. Egli potrà dare un senso nuovo alla nostra vita, a volte messa a dura prova anche dai nostri sbagli e dai nostri peccati, soltanto a condizione che noi non seguiamo le logiche del mondo e dei suoi “re”.
La Vergine Maria ci aiuti ad accogliere Gesù come re della nostra vita e a diffondere il suo regno, dando testimonianza alla verità che è l’amore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 25 novembre 2018

Pubblicato in Liturgia

In questa domenica ricorre la Quinta giornata mondiale dei Poveri e il tema scelto dal Papa per quest’anno riprende l’evangelista Marco: “I poveri li avete sempre con voi” (14,7)-
Le letture che la Liturgia ci propone ci invitano a riflettere su come viviamo il tempo, e a prestare più attenzione ai segni che si presentano puntuali sul nostro cammino. Lungo l’anno liturgico, che ora volge al termine, abbiamo celebrato le tappe del mistero di salvezza, e con queste letture consideriamo la conclusione trionfale.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Profeta Daniele, il libro apocalittico dell’Antico Testamento, il profeta non vede la fine dei tempi come una catastrofe, ma come il giorno della salvezza per tutte le genti, che sono sotto l’oppressione. E’ uno dei testi in cui si afferma con chiarezza la resurrezione dei morti che “si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.”.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, afferma che a differenza dei sacerdoti dell’Antica Alleanza, Cristo ha offerto se stesso una volta per sempre per espiare i peccati ed è nella gloria, dove attende coloro che egli ha santificati.
Nel Vangelo di Marco, troviamo un brano difficile e complesso, con la sua collezione di immagini apocalittiche: le eclissi di sole e di luna, gli sconvolgimenti cosmici che sono però immagini da interpretare non letteralmente, ma simbolicamente. L’unica certezza per noi credenti è che alla fine dei tempi, Cristo verrà nella gloria per riunire tutti gli uomini nel Suo regno. Attento ai segni dei tempi, il credente vive con intensità e serenità il suo presente, la sua “generazione”, guidato dalla parola di Gesù che non passa, in attesa di quella parola decisiva e definitiva che sarà pronunziata da Dio nel momento opportuno e a Lui solo noto.

Dal libro del profeta Daniele
In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo.
Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.
Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.
I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre.
Dn 12,1-3


Il Libro del profeta Daniele è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana. È stato scritto in ebraico e una parte in aramaico e secondo molti studiosi, la redazione definitiva del libro è avvenuta in Giudea attorno al 164 a.C..
È composto da 12 capitoli che descrivono le vicende ambientate nell'esilio di Babilonia (587-538 a.C.) del profeta Daniele, saggio ebreo che rimase fedele a Dio, e visioni apocalittiche preannuncianti il Figlio dell’Uomo-Messia e il regno di Dio. Inserito tra i cosiddetti profeti maggiori, il libro di Daniele sarebbe in realtà uno scritto tardivo, assai posteriore a quelli di Isaia, Geremia ed Ezechiele. Si pensa che sia stato scritto durante la persecuzione di Antioco IV Epifane di Siria (215-164 a.C) , per infondere coraggio agli Ebrei a cui era stato vietato di praticare la propria religione.
Il libro si divide in due parti:
La prima parte, dal cap. 1 al cap. 6, narra la storia di Daniele e dei suoi compagni in esilio alla corte di Babilonia. Suggestivi sono il racconto del superamento della prova della fornace, dalla quale Daniele ed i suoi tre compagni vengono miracolosamente salvati, e quello di quando Daniele viene gettato nella fossa dei leoni ed anche in questa circostanza per la fede e la preghiera, Daniele è salvato miracolosamente.La seconda parte, dai cap. 7 al cap. 12, contiene quattro visioni, narrate in prima persona, e interpretate dall’angelo Gabriele.
In questo brano si parla degli ultimi tempi, argomento che riguarda tutti i popoli di tutte le religioni. Il profeta inizia il suo messaggio affermando: “In quel tempo, sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo”. Michele, che dall’ebraico significa “Chi è come Dio?” è spesso associato nella tradizione Ebraica-Cristiana-Musulmana alla battaglia spirituale (Cfr Daniele 10,13,21 Giuda1,9 e Apocalisse 12,7). Michele, che è l’avversario di Satana, ossia del male, quindi identificato come il grande principe, dimostra la sua forza vegliando sui figli del popolo di Dio, coloro che credono. Oltre al suo ruolo di guerriero spirituale, Michele ha un compito speciale nel proteggere Israele (il popolo di Dio) come custode spirituale di chi ha fede.
E prosegue dicendo: “Sarà un tempo di angoscia, come non c’era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro.”
Il tempo di angoscia si riferisce al tempo della persecuzione per Israele e della calamità mondiale conosciuta come la Grande Tribolazione, questo periodo è anche chiamato da Geremia il tempo dei guai di Giacobbe (30,7).
Il popolo ebraico ha conosciuto molti momenti davvero oscuri di tribolazione nella sua storia: dagli orrori della caduta di Samaria e di Gerusalemme ai terrori provocati da Antioco Epifane, alla distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani, alle persecuzioni della chiesa durante il Medioevo, ai pogrommi dell’Europa, alla Shoah del XX secolo. Ma questo momento di difficoltà profetizzato da Daniele sarà diverso e peggiore di quanto Israele abbia mai visto prima.
Anche Gesù nel Vangelo di Matteo (24,21) cita questo passaggio “vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora, né mai più ci sarà” Le Scritture insegnano che il peggio deve ancora venire per Israele e per il popolo di Dio, ma questo tempo non sarà assolutamente una fine, ma un nuovo e migliore. Non importa quanto sia grande l’attacco contro il popolo di Dio, il Signore ha promesso di preservarlo, la Sua promessa ad Abramo non verrà mai meno: “Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te” (Gn 17,7) Questa promessa di liberazione non è rivolta per ogni persona di origine ebraica, ma per tutti coloro che si trovano iscritti “nel libro” che simboleggia il “resoconto” di tutte le azioni compiute durante la vita di ogni uomo e di ogni donna. Non è concepibile per un DIO , che è bontà assoluta, escludere dalla salvezza le persone che non hanno avuto modo di conoscere la fede ebraica, cristiana o musulmana, perché a salvarsi sarà chiunque in Israele (nelle Nazioni del Mondo) indistintamente avrà compiuto il bene e avrà sfuggito il male.
Il testo prosegue facendo riferimento alla resurrezione del corpo e dello Spirito:
“Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna”.
L'espressione “quelli che dormono nella regione della polvere” è una perifrasi per indicare i morti, e “si risveglieranno” è un'espressione che troviamo anche in Is 26, 19 per indicare la certezza di un ritorno alla vita, in contrasto con l'affermazione che i morti non si risvegliano dal loro sonno, come si lamentava Giobbe al cap. 14, 12. Una parte di coloro che si risveglieranno, saranno risvegliati per la vita eterna, cioè per sempre. Questa tema della risurrezione dei giusti a vita eterna lo troviamo affermato e sviluppato nei due libri dei Maccabei e nel libro della Sapienza. Se alcuni saranno risvegliati a vita eterna altri invece, non essendo scritti nel libro della vita, si risveglieranno alla vergogna e per l’infamia eterna.
Il Nuovo Testamento afferma che ci sono due risurrezioni, una per coloro che saranno salvati e una per i dannati (Giovanni 5,29 ; Apocalisse 20, 4-6 e 11-15).
“I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”.
Questo versetto con termini escatologici cerca di precisare quale sarà il senso della vita eterna per coloro che sono scritti nel libro della vita e che si risveglieranno per vivere per sempre. Dicendo che essi saranno “come lo splendore del firmamento” si vuole indicare che essi parteciperanno alla condizione stessa di Dio che viene indicato come vero sole di giustizia e come vero splendore del firmamento.
Due sono dunque le categorie che beneficeranno in modo particolare di questa resurrezione a vita eterna: i sapienti e coloro che avranno “condotto molti alla giustizia”. Questi ultimi risplenderanno come le stelle per sempre,
Certamente il testo è ricco di interpretazioni, ma l'elemento centrale è di fondamentale importanza: la giustizia di Dio non permette che chi perde la vita per Lui, la perda definitivamente perché Dio ricompensa in modo particolare chi insegna che la comunione con Dio vale più della vita: “Poiché la tua grazia vale più della vita,le mie labbra diranno la tua lode. (Sal 63,4).

Salmo 15 - Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

Il salmista si rivolge a Dio con pace avendo eletto il Signore, quale suo rifugio. Non mancano a lui le difficoltà, gli avversari violenti. Senza l’unione con lui ogni cosa non sarebbe più per lui un bene. Egli ama i santi, i giusti; nel compimento messianico che è la Chiesa, i fratelli in Cristo. Egli si sente in forte comunione con loro, e trova forza da questo. Gli empi, che incalzano costruendo e affermando idoli, non lo sgomentano perché la sua vita è nelle mani di Dio, e niente per lui sarebbe sulla terra un bene senza il sommo bene, che è Dio: “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene”. L’orante considera come Dio lo aiuta e conforta e come per lui questo sia tutto. La sorte (il sorteggio) (Cf. Gd 17,1; Nm 26,55; ecc.) che assegnò un tempo i vari territori ai casati di Israele, ora è violata dall’ingiustizia dei dominatori idolatri, ma questo fa comprendere meglio all’orante che la vera sua sorte la sua vera sicurezza e forza è proprio il Signore, che gli dà pace e letizia: “Signore è mia parte di eredità e mio calice”. L’orante non tiene per se tutto questo, ma lo partecipa ai fratelli per un nutrirsi reciproco di luce. Non ha odio per gli empi e non li esclude dalla volontà salvifica di Dio: sono essi stessi ad escludersi da questa volontà con “le loro libagioni di sangue”, cioè i loro crimini, vero culto del male. Il salmista è certo che Dio non lo abbandonerà negli inferi una volta lasciata la terra: “non abbandonerai la mia vita negli inferi”. Ed egli sa che “il tuo Santo”, cioè il Cristo (Cf. At 13,35), avrà - ha avuto - vittoria sulla corruzione della tomba. Il salmista sa che percorrendo giorno dopo giorno “il sentiero della vita”, giungerà all’eterna dolcezza del cielo, alla destra di Dio, che è espressione letteraria indicante il glorioso essere con Dio. In assoluta eccellenza è Cristo che nella gloria è alla destra del Padre.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati.
Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.
Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato.
Eb 10,11-14, 18

Anche questo brano della Lettera agli Ebrei continua a trattare il sacerdozio di Cristo e la sua superiorità rispetto al sacerdozio dell'antica alleanza. In particolare il versetto precedente a questo brano recita così: “per quella volontà (la volontà di Dio che Gesù è venuto a compiere) noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre”.
Il discorso continua nel brano odierno spiegandoci in che senso siamo stati santificati:
“Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati”.
E’ nello stile dell’autore fare i paragoni tra Gesù e i sacerdoti del tempio. Egli li vede indaffarati ad offrire sacrifici che non sono per niente utili, poiché non possono eliminare i peccati con un sacrificio purificatore che ha una breve durata.
“Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi”
Cristo invece ha presentato la sua offerta una sola volta e ora può sedersi alla destra di Dio. C’è sempre il riferimento al salmo 110: “Oracolo del Signore al mio signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”. Grazie all'offerta di Cristo, anche i nemici saranno sconfitti e Gesù deve solo aspettare che gli vengano sottomessi.
“Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati.”
Solidale con i fratelli con cui ha condiviso la condizione mortale, Cristo li ha portati con sé rendendoli partecipi della sua condizione di “consacrato”. Quindi, non solo li ha strappati dalla condizione di peccato, ma li ha resi perfetti, li ha santificati, li ha totalmente consacrati a Dio realizzando le meta ultima della salvezza.
“Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più offerta per il peccato”.
Il brano non riporta i versetti 15-17 in cui è citato Geremia (1,33-34), in cui Dio per mezzo del profeta promette di porre la propria legge nel cuore dei suoi fedeli, in modo che possano conoscere il Signore senza più istruirsi l'un l'altro e termina con il perdono di Dio: non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità.. Conoscendo questi versetti mancanti possiamo comprendere meglio la conclusione di questo brano: se il peccato è stato perdonato non esiste più e non è più necessario presentare offerte per il perdono dei peccati.
Il peccato nella vita del cristiano dunque è perdonato in Cristo. Certo il peccato esiste ancora, i cristiani non sono indenni da errori e da cadute, ma hanno una via di uscita. Attraverso il sacramento della Riconciliazione ricevono il perdono, la cancellazione dei peccati, in forza del sacrificio di Cristo, che resta valido per tutti i luoghi e tutti i tempi.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».
Mc 13, 24-32

L’evangelista Marco a conclusione del ministero di Gesù a Gerusalemme inserisce un lungo discorso che Gesù tiene poco prima dell’arresto e in cui si sovrappongono e s’intrecciano, tra note di sgomento e toni di promessa, due annunzi diversi: quello della prossima fine di Gerusalemme e quello della fine dei tempi, col ritorno del Figlio dell’uomo
Il capitolo 13, da dove è tratto il brano liturgico, dopo che Gesù preannunzia la distruzione del tempio, e Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea gli chiedono quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi , Gesù continua preannunciando i segni premonitori e le persecuzioni future, a cui seguiranno l'annuncio dell’abominio della desolazione e dei falsi profeti.
A questo punto inizia il brano liturgico con l’annuncio della venuta del Figlio dell'uomo e la parabola del fico, e come conclusione un pressante invito alla vigilanza.
“In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte”.
L'inizio del versetto mostra un legame con la menzione dell'anticristo citato nel brano precedente (vv. 21-23), e contemporaneamente indica la fine di un tempo (quello della tribolazione e dell'abomino del v. 14) e l'irrompere di qualcosa di nuovo. E’ da notare che i verbi in questi versetti sono tutti al futuro e i segni cosmologici indicati da Gesù sono quelli classici dell'apocalittica (V. Is 13,10; 34,4) per indicare il giorno del giudizio divino. In questi versetti l'orizzonte si allarga sul cosmo intero, ma queste immagini più che l'aspetto spaventoso e di condanna della fine del mondo servono ad introdurre l'avvenimento centrale indicato subito dopo.
“Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria”.
L'apparizione del Figlio dell'uomo è il fulcro centrale del discorso. Egli è descritto come il giudice del mondo (la presenza delle nubi, l'indicazione della grande potenza e gloria trovano riferimento in Dn 7,13, ma anche Is 19,1)
“Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.”
La visione si completa con la riunione degli eletti (che sono i membri della comunità credente); dietro questa immagine c'è l'idea della dispersione del popolo di Dio e del giudizio come momento di salvezza universale.
Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina.
La breve parabola del fico riprende il tema del “quando”, l'albero di fico infatti nella breve primavera palestinese era indicativo per avvertire l'inizio della stagione estiva, essendo l'unico in quella regione a perdere le foglie nella stagione invernale.
“Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte”
Dunque quando accadranno le cose descritte fin qui (persecuzioni, l'abominio, l'apparsa dell'anticristo, segni celesti) il tempo sta per compiersi. Sembra che l'apparire dell'anticristo annunci definitivamente la fine, ma il discorso vuole più che altro indicare quale siano gli elementi che avvertiranno l'avvicinarsi dell'evento finale.
“In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga”.
Questa frase presa da sola testimonia un'attesa intensa, in quanto il termine “questa generazione”,espressione spesso usata nella bibbia, va intesa come riferita ai contemporanei di Gesù, ma più che un senso cronologico questa frase ha un contenuto Cristologico, perché la salvezza si attua nella pasqua di Cristo Gesù. La chiesa primitiva ha sempre insistito sull'incertezza del momento preciso del suo ritorno alla fine dei tempi.
“Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.
Questo versetto sottolinea in senso ampio il costante valore delle parole di Gesù, e non solo il riferimento al discorso escatologico. Queste parole sono il punto di riferimento su cui si compirà anche il giudizio finale, per cui la cosa importante non è sapere quando sarà il momento della fine, ma aderire alla parola di Gesù in cui si fonda la nostra speranza, .
“Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre”.
Questo versetto ha suscitato nel tempo molte discussioni sulla possibile ignoranza del Figlio; però esso mette in luce che non compete all’intelligenza e alla volontà determinare il tempo giusto per l’evento finale. Neanche gli angeli hanno questa competenza e questo potere neanche il Figlio. Qualche esperto riterrebbe che in questo caso il Figlio non conosce quel giorno e quell’ora in ragione della sua natura umana. E’ lecito però pensare che nelle parole di Gesù si rivela in modo meraviglioso la profondità del mistero che Egli vive e comunica ai discepoli. Egli mostra loro il suo rapporto figliare verso il Padre, il suo affidamento totale alla suprema volontà e sapienza paterna, al fine di chiarire che tra lui, il Figlio, e Dio, il Padre, sussiste un vincolo intenso di essere, di pensare e di agire.
Per concludere possiamo dire che la data della venuta e della pienezza del Regno è scritta solo nella mente di Dio e nel Suo progetto di salvezza. E’ inutile proporre oroscopi e agitarsi in ipotesi fantascientifiche come usano ancor oggi certe sètte apocalittiche. Attento ai segni dei tempi, il vero credente deve vivere con intensità e serenità il suo presente, la sua generazione, guidato dalla Parola di Gesù che non passa, in attesa di quella parola decisiva e definitiva che sarà pronunziata da Dio nel momento opportuno e a Lui solo noto.

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“Il Vangelo di questa penultima domenica dell’anno liturgico propone una parte del discorso di Gesù sugli avvenimenti ultimi della storia umana, orientata verso il pieno compimento del regno di Dio. E’ un discorso che Gesù fece a Gerusalemme, prima della sua ultima Pasqua. Esso contiene alcuni elementi apocalittici, come guerre, carestie, catastrofi cosmiche: «Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli verranno sconvolte»
Tuttavia questi elementi non sono la cosa essenziale del messaggio. Il nucleo centrale attorno a cui ruota il discorso di Gesù è Lui stesso, il mistero della sua persona e della sua morte e risurrezione, e il suo ritorno alla fine dei tempi.
La nostra meta finale è l’incontro con il Signore risorto. E io vorrei domandarvi: quanti di voi pensano a questo? Ci sarà un giorno in cui io incontrerò faccia a faccia il Signore. E’ questa la nostra meta: questo incontro. Noi non attendiamo un tempo o un luogo, ma andiamo incontro a una persona: Gesù. Pertanto, il problema non è “quando” accadranno i segni premonitori degli ultimi tempi, ma il farsi trovare pronti all’incontro.
E non si tratta nemmeno di sapere “come” avverranno queste cose, ma “come” dobbiamo comportarci, oggi, nell’attesa di esse. Siamo chiamati a vivere il presente, costruendo il nostro futuro con serenità e fiducia in Dio.
La parabola del fico che germoglia, come segno dell’estate ormai vicina, dice che la prospettiva della fine non ci distoglie dalla vita presente, ma ci fa guardare ai nostri giorni in un’ottica di speranza. E’ quella virtù tanto difficile da vivere: la speranza, la più piccola delle virtù, ma la più forte. E la nostra speranza ha un volto: il volto del Signore risorto, che viene «con grande potenza e gloria», che cioè manifesta il suo amore crocifisso trasfigurato nella risurrezione.
Il trionfo di Gesù alla fine dei tempi sarà il trionfo della Croce, la dimostrazione che il sacrificio di sé stessi per amore del prossimo, ad imitazione di Cristo, è l’unica potenza vittoriosa e l’unico punto fermo in mezzo agli sconvolgimenti e alle tragedie del mondo.
Il Signore Gesù non è solo il punto di arrivo del pellegrinaggio terreno, ma è una presenza costante nella nostra vita: è sempre accanto a noi, ci accompagna sempre; per questo quando parla del futuro, e ci proietta verso di esso, è sempre per ricondurci al presente. Egli si pone contro i falsi profeti, contro i veggenti che prevedono vicina la fine del mondo, e contro il fatalismo. Lui è accanto, cammina con noi, ci vuole bene. Vuole sottrarre i suoi discepoli di ogni epoca alla curiosità per le date, le previsioni, gli oroscopi, e concentra la nostra attenzione sull’oggi della storia.
Io avrei voglia di domandarvi - ma non rispondete, ognuno risponda dentro -: quanti di voi leggono l’oroscopo del giorno? Ognuno risponda. E quando ti viene voglia di leggere l’oroscopo, guarda a Gesù, che è con te. E’ meglio, ti farà meglio. Questa presenza di Gesù ci richiama all’attesa e alla vigilanza, che escludono tanto l’impazienza quanto l’assopimento, tanto le fughe in avanti quanto il rimanere imprigionati nel tempo attuale e nella mondanità.
Anche ai nostri giorni non mancano calamità naturali e morali, e nemmeno avversità e traversie di ogni genere. Tutto passa – ci ricorda il Signore –; soltanto Lui, la sua Parola rimane come luce che guida, rinfranca i nostri passi e ci perdona sempre, perché è accanto a noi. Soltanto è necessario guardarlo e ci cambia il cuore. La Vergine Maria ci aiuti a confidare in Gesù, il saldo fondamento della nostra vita, e a perseverare con gioia nel suo amore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 novembre 2015

Pubblicato in Liturgia

La Giornata del ringraziamento che ricorre in questa domenica ci sollecita a riconoscere il creato e tutte le sue ricchezze come dono di Dio, come espressione del dono del Padre e a cantare al Signore con cuore colmo di gratitudine: “Laudato si’”
Le letture che la Liturgia ci propone vedono protagoniste due vedove che nell’antico oriente avevano una situazione drammatica, perchè con la perdita del marito non avevano più chi assicurava loro una tutela giuridica e spesso si riducevano a mendicare in balìa della prepotenza altrui.
Nella prima lettura, tratta dal libro dei Re, Dio mette sul cammino del profeta Elia a Sarèpta una vedova, che a malapena riesce a provvedere a sé e al figlio. Mosso dalla sua fede incrollabile, Elia non teme di chiedere alla vedova ciò che le rimane per il suo sostentamento e, questa donna straniera, a differenza del popolo di Dio, che si era affidato a déi stranieri, si fida del Signore e rischia tutto sulla parola del profeta.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, l’autore afferma che Cristo a differenza degli antichi sacerdoti, che immolavano per il sacrificio più volte degli animali, ha offerto in sacrificio se stesso una volta per sempre. Grazie al Suo sacrificio il peccato è perdonato e la riconciliazione è realizzata.
Nel Vangelo di Marco, Gesù osserva il sublime gesto della povera vedova che versa due monetine. Avrebbe potuto offrirne anche una sola, e invece versandone due aveva rinunziato a tutto ciò che possedeva. E’ a questo punto che Gesù estrae questa donna dall’anonimato innalzandola al di sopra di tutti i “benefattori anonimi” del tempio.
La vedova di questi due racconti biblici è una figura emblematica, è il segno del vero credente che si affida in totalità a Dio. E’ il simbolo della Chiesa povera, tanto cara a Papa Francesco, ed è la rappresentazione dell’autentico amore e della donazione di se stessi.

Dal primo libro dei Re
In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta. Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po' d'acqua in un vaso, perché io possa bere».
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po' d'olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; va' a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d'Israele: "La farina della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”.
Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l'orcio dell'olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.
1Re 17,10-16

Il primo libro dei re, come il secondo, è un testo contenuto nella Bibbia ebraica (Tanakh, dove sono contati come un testo unico) e in quella cristiana. Sono stati scritti entrambi in ebraico e secondo molti esperti, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte, in particolare della cosiddetta fonte deuteronomista del VII secolo a.C., integrata da tradizioni successive.
Il primo libro è composto da 22 capitoli descriventi la morte di Davide, Salomone, la scissione del Regno di Israele dal Regno di Giuda, il ministero del Profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C..
In questo brano, incontriamo il grande profeta Elia, che svolse la propria missione sotto Acab (874-853 a.C.) re di Israele. Elia prima di rifugiarsi a Sarèpta, aveva profetizzato al re Acab, che spinto dalla moglie Gezabele, aveva organizzato in Israele il culto di Baal, dio siro-fenicio della fertilità, un lungo periodo di siccità.. Sotto l’’incubo della persecuzione della regina Gezabele, sua implacabile nemica, durante questa terribile carestia, Elia sconfina in Fenica, nella città di Sarepta, l’attuale Sarafand in Libano.
L’incontro che Elia farà in questa città con una vedova ridotta all’estremo, sarà ricordato anche da Gesù nella sinagoga di Nazareth. C’è da tenere presente che la situazione delle vedove dell’antico Oriente era particolarmente drammatica: con la perdita del marito non avevano più chi assicurava loro protezione e sostentamento e spesso si riducevano a mendicare, in balia della prepotenza altrui.
Il brano inizia riferendo che Elia “arrivato alla porta della città, vede una vedova che raccoglieva legna”. Le chiese di riempire una brocca d'acqua perché aveva sete e di portargliela. Poi “mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». La donna rispose che non aveva nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un goccio d'olio nell'orcio, e soggiunse “ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo”. Vediamo che questa donna non ha che un pugno di farina e qualche goccia d’olio, eppure è pronta a sacrificare tutto per il profeta, che l’aveva rassicurata dicendo: «Non temere; va' a fare come hai detto…. poiché così dice il Signore, Dio d'Israele: "La farina della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non diminuirà …”.
La donna fa ciò che Elia aveva ordinato”poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni”
Il racconto termina riportando che: “ La farina della giara non venne meno e l'orcio dell'olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia” .
Mosso dalla sua fede incrollabile, Elia non teme di chiedere alla vedova ciò che le rimaneva per il suo sostentamento e, questa donna straniera, a differenza del popolo di Dio che si era affidato a déi stranieri, si fida del Signore e rischia tutto sulla parola del profeta

Salmo 145 - Loda il Signore, anima mia
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l'orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Il salmo è stato composto nel tardo postesilio come rivela la sua lingua aramaicizzante. Esso fa pensare a un tempo di pace, di normalità, quale si ebbe verso la fine dell'epoca persiana quando Giuda divenne uno stato teocratico autonomo con propria moneta fino alla persecuzione di Antioco IV Epifane (2Mac 4,1s).
Il salmista al proposito personale e di testimonianza di lodare il Signore per tutta la vita, fa seguire un'ammonizione basilare: “Non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”. I potenti, che amano circondarsi di un alone di gloria, non sono dei semidei, sono uomini che come tutti moriranno: “Esala lo spirito e ritorna alla terra: in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni”. Il salmista tuttavia non fa accenno ai guai, alle rovine a cui si espone chi confida nell'uomo, ma, in positivo, dice che è beato, “chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe”, cioè il Dio dei padri, il Dio delle promesse e dell'alleanza, riconoscendolo l'unico Dio, onnipotente creatore: “che ha fatto il cielo e la terra, il mare e quanto contiene".
“Egli è fedele per sempre”, mai manca alla sua parola, e il suo governo è giustizia e bontà: “Rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati”.
Poi il salmista con ritmo incalzante presenta a tutti cinque motivi di confidenza in Dio.
“Libera i prigionieri”; intendendo ciò in senso largo: deportati, carcerati ingiustamente, irretiti in trame di calunnia.
“Ridona la vista ai ciechi”, dove il cieco è colui che ha smarrito la via della verità (Dt 28,29; Gb 12,25; Is 29,18; 35,5).
“Rialza chi è caduto”, cioè chi è caduto nel peccato.
“Ama i giusti”, cioè li guida nel giusto cammino e protegge nei loro passi.
“Protegge i forestieri, egli sostiene l'orfano e la vedova”, cioè tre categorie di persone deboli, con scarsi punti di riferimento.
Poi una severa osservazione: “Ma sconvolge le vie dei malvagi”.
Dio è re, “regna per sempre”. Nessuno lo può contrastare, limitare il suo potere sovrano, nessuno può sperare di vincerlo; e il suo regnare è segnato dalla giustizia, dalla bontà e dalla misericordia.
“Il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione”; Dio che ha fatto alleanza con Sion. Ma l'alleanza è diventata nuova in Cristo; Sion ha rifiutato la nuova ed eterna alleanza, ma Cristo non rinuncia al popolo di Sion, ora tronco morto dell'unico popolo di Dio, il cui tronco vivo è la Chiesa, ma un giorno il tronco morto diventerà vivo, accogliendo Cristo e facendo parte della Chiesa (Rm 11,25).
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l'aspettano per la loro salvezza.
Eb 9,24-28

Questo brano è tratto dalla parte centrale della Lettera agli Ebrei, in cui si affronta il tema del sacerdozio e del sacrificio di Cristo, in particolare descrive l’efficacia del suo sacerdozio in quanto esso si configura come un ingresso nel santuario celeste.
L’autore inizia affermando: “Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.”
Cristo sommo sacerdote, non è entrato nel tempio fatto dagli uomini, ma in quello vero, cioè al cospetto di Dio. Il tempio di Gerusalemme era solo una figura della corte celeste. Gesù è comparso davanti al Dio dell'universo per intercedere a nostro favore. Dal giorno dell‘ascensione Egli è davanti al trono di Dio, nel Suo corpo glorioso e parla di noi al Padre.
“E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: “
la Sua offerta ha valore perenne, non deve perciò essere ripetuta ogni anno come invece dovevano fare i sacerdoti a Gerusalemme. Inoltre Gesù non ha presentato l'offerta di animali per il sacrificio, ma Lui stesso è stato immolato e offerto, come vero agnello pasquale.
“in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso”.
Qui viene chiarito meglio l’aspetto definitivo del sacrificio di Cristo. Egli non deve offrire più volte se stesso perché il Suo sacrificio non ha semplicemente impetrato il perdono dei peccati, bensì ha annullato del tutto il peccato.
“E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio”
Anche per gli uomini vi è un evento definitivo e irreversibile, quello della morte. Dopo la morte avviene il giudizio, la valutazione di quanto di bene una persona ha fatto durante la sua vita terrena.
“così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l'aspettano per la loro salvezza.”
Gesù tornerà una seconda venuta nel mondo. Egli che si è offerto una sola volta per annullare il peccato, tornerà una seconda volta nella gloria; uscirà di nuovo dal santuario celeste, quando verrà a noi, non per morire, ma per salvare coloro che l’aspettano per essere ammessi nel Suo Regno.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Mc 12, 38-44

L’evangelista Marco continua a farci il resoconto dell’attività di Gesù dopo il suo ingresso a Gerusalemme e le varie controversie avute con i rappresentanti di diversi gruppi che componevano il giudaismo del suo tempo. Questo brano si apre con una ammonizione rivolta da Gesù alla folla: “Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa”.
Gesù accusa gli scribi di vanità e di ostentazione, che si rivelano nel loro modo di vestire e nel ricercare il saluto ossequioso della gente e i primi posti nella sinagoga. Gli scribi erano incaricati di leggere e interpretare la Legge di Mosè, venivano chiamati infatti anche dottori della legge, e diversi di loro facevano parte del Sinedrio, cioè l'organo amministrativo più importante del popolo di Gerusalemme, che aveva ancora una grande autorità, nonostante la dominazione romana.
Il loro comportamento dimostra come si servivano del loro ruolo per avere riconoscimenti e privilegi. A questi atteggiamenti si aggiunge anche lo sfruttamento nei confronti delle vedove, che rappresentavano la categoria più debole e più esposta della società giudaica: essi si approfittavano della loro posizione sociale e religiosa per impadronirsi (divorare) le loro case, che rappresentavano l’unica garanzia di una vita dignitosa. E quasi a nascondere o giustificare i soprusi commessi, essi si dedicavano a lunghe preghiere, strumentalizzando quindi la religione per fini immorali. E questa è stata anche l’accusa principale che i profeti avevano loro rivolta (per es.v. Am 2,6-8).
Agli scribi che si comportavano in questo modo, viene minacciato un castigo più severo di quello previsto a quanti, pur commettendo gli stessi misfatti, non si facevano scudo della religione.
Poi l’evangelista continua riferendo che Gesù “ Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo”
Questa scena si svolge nel recinto del tempio (atrio delle donne) in cui vi erano 13 cassette con apertura a forma di tromba per raccogliere offerte volontarie e imposte per la gestione del tempio. Gesù è seduto e segue i gesti degli offerenti. C’era un rituale preciso per compiere queste offerte: il donatore consegnava il suo dono al sacerdote incaricato. Costui contava l'ammontare dell'importo e la validità del denaro utilizzato e lo proclamava ad alta voce e questo dava adito a gesti di grande ostentazione
La povera vedova nell’Antico e Nuovo Testamento è il simbolo della completa mancanza di mezzi, poiché ella stessa ha diritto ad essere aiutata, ed in questo caso il suo dono, anche se è poca cosa, è sorprendente. Le due monetine sembrano testimoniare la totalità del dono e il particolare inoltre che getti due monetine può far pensare che avrebbe potuto trattenerne una, invece le dona entrambe, dona tutto ciò che aveva!
Il fatto poi che Marco precisi che due monetine fanno un soldo, sta a significare che i suoi contemporanei non conoscevano più il valore della moneta di quel tempio.
Allora Gesù, chiamati a sé i discepoli, fa questo commento: “In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.
Per Gesù la vedova ha dato più di tutti gli altri, non certo come quantità assoluta, ma perché, mentre i ricchi hanno dato solo parte del loro superfluo,lei ha dato tutto quanto aveva, cioè si è privata di quanto le era necessario per la sua sopravvivenza.
Gesù vuole così affermare che ognuno è gradito a Dio non per quanto egli può offrirgli in denaro, meriti, osservanze o gesti rituali, ma per il dono totale di sé, con il quale partecipa fino in fondo al suo progetto salvifico.
La vedova, rappresentante delle vedove che gli scribi avevano depredato, diventa così modello di gratuità e di dono, fino a divenire l'esempio del vero discepolo, della vera persona religiosa, il perfetto contrario degli scribi.
Gesù, nel fare il suo elogio, critica anche coloro che per finta virtù religiosa davano le offerte al tempio, la loro infatti era solo esibizione e non una condivisione dei propri beni. Il dono della vedova al contrario è stato il sacrificio nascosto in cui una persona lascia tutte le sue sicurezze per abbandonarsi completamente alla misericordia di Dio, (come la vedova di Sarèpta che aiutò Elia).
Il comportamento di queste due donne, dell’antico e nuovo Testamento, diventano così esempio della vera fede.

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“L’odierno episodio evangelico chiude la serie di insegnamenti impartiti da Gesù nel tempio di Gerusalemme e pone in risalto due figure contrapposte: lo scriba e la vedova.
Ma perché sono contrapposte? Lo scriba rappresenta le persone importanti, ricche, influenti; l’altra – la vedova – rappresenta gli ultimi, i poveri, i deboli. In realtà, il giudizio risoluto di Gesù nei confronti degli scribi non riguarda tutta la categoria, ma è riferito a quelli tra loro che ostentano la propria posizione sociale, si fregiano del titolo di “rabbi”, cioè maestro, amano essere riveriti e occupare i primi posti. Quel che è peggio è che la loro ostentazione è soprattutto di natura religiosa, perché pregano – dice Gesù – «a lungo per farsi vedere» e si servono di Dio per accreditarsi come i difensori della sua legge. E questo atteggiamento di superiorità e di vanità li porta al disprezzo per coloro che contano poco o si trovano in una posizione economica svantaggiosa, come il caso delle vedove.
Gesù smaschera questo meccanismo perverso: denuncia l’oppressione dei deboli fatta strumentalmente sulla base di motivazioni religiose, dicendo chiaramente che Dio sta dalla parte degli ultimi. E per imprimere bene questa lezione nella mente dei discepoli offre loro un esempio vivente: una povera vedova, la cui posizione sociale era irrilevante perché priva di un marito che potesse difendere i suoi diritti, e che perciò diventava facile preda di qualche creditore senza scrupoli, perché questi creditori perseguitavano i deboli perché li pagassero. Questa donna, che va a deporre nel tesoro del tempio soltanto due monetine, tutto quello che le restava e fa la sua offerta cercando di passare inosservata, quasi vergognandosi.
Ma, proprio in questa umiltà, ella compie un atto carico di grande significato religioso e spirituale. Quel gesto pieno di sacrificio non sfugge allo sguardo di Gesù, che anzi in esso vede brillare il dono totale di sé a cui vuole educare i suoi discepoli.
L’insegnamento che oggi Gesù ci offre ci aiuta a recuperare quello che è essenziale nella nostra vita e favorisce una concreta e quotidiana relazione con Dio.
Fratelli e sorelle, le bilance del Signore sono diverse dalle nostre. Lui pesa diversamente le persone e i loro gesti: Dio non misura la quantità ma la qualità, scruta il cuore, guarda alla purezza delle intenzioni. Questo significa che il nostro “dare” a Dio nella preghiera e agli altri nella carità dovrebbe sempre rifuggire dal ritualismo e dal formalismo, come pure dalla logica del calcolo, e deve essere espressione di gratuità, come ha fatto Gesù con noi: ci ha salvato gratuitamente; non ci ha fatto pagare la redenzione. Ci ha salvato gratuitamente. E noi, dobbiamo fare le cose come espressione di gratuità. Ecco perché Gesù indica quella vedova povera e generosa come modello di vita cristiana da imitare. Di lei non sappiamo il nome, conosciamo però il suo cuore – la troveremo in Cielo e andremo a salutarla, sicuramente –; ed è quello che conta davanti a Dio. Quando siamo tentati dal desiderio di apparire e di contabilizzare i nostri gesti di altruismo, quando siamo troppo interessati allo sguardo altrui e – permettetemi la parola – quando facciamo “i pavoni”, pensiamo a questa donna. Ci farà bene: ci aiuterà a spogliarci del superfluo per andare a ciò che conta veramente, e a rimanere umili.
La Vergine Maria, donna povera che si è donata totalmente a Dio, ci sostenga nel proposito di dare al Signore e ai fratelli non qualcosa di noi, ma noi stessi, in una offerta umile e generosa.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’11 novembre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci fanno meditare sul più grande comandamento, quello dell’amore di Dio che è completato dal secondo comandamento “Amerai il tuo prossimo come te stesso (Lv 19,1). L’amore verso Dio si completa con l’amore verso il prossimo, questi due comandamenti si sono sempre illuminati a vicenda.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, troviamo il celebre passo detto “Shema”, che è la preghiera più cara agli ebrei “Ascolta Israele… tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore…” Un amore che coinvolge “cuore, mente, forza” cioè tutte le dimensioni dell’essere umano nella sua interiorità e nella sua azione.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, l’autore afferma che Gesù è l’unico e perfetto sacerdote della nuova alleanza ed ha tutte le qualità per esserlo: egli infatti è morto e risorto e vive per sempre in cielo al cospetto di Dio e intercede a nostro favore presso il Padre.
Nel Vangelo di Marco, leggiamo che Gesù allo scriba che gli chiedeva quale fosse il primo comandamento risponde sottolineando l’importanza fondamentale dell’amore verso Dio e verso il prossimo. Per Gesù queste due dimensioni dell’amore sono inestricabili, si incrociano e si vivificano reciprocamente costituendo l’essere cristiano autentico. Se aderiamo a Cristo con tutto il nostro essere, potremo anche noi ascoltare da Gesù le stesse parole che egli ripeté allo scriba: “non sei lontano dal regno di Dio” e sentire nel cuore pronunciare il nostro nome.


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Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni.
Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».
Dt 6, 2-6

Il Deuteronomio è il quinto libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. È stato scritto in ebraico intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi. È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge” la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire. Questi nuovi precetti sono orientati a regolare la vita stabile, sedentaria, che di lì a poco il popolo d'Israele avrebbe iniziato all'arrivo alla Terra Promessa. Ciononostante, queste leggi sono stilate con grande affetto, animando il compimento della Legge con motivi teologici.
Il Deuteronomio ci consente di comprendere che cos’è il popolo di Dio, di cogliere quanto l’Alleanza che unisce a Dio, comporta insieme di ricchezza e di esigenza: essa è un dono gratuito e appello pressante che bisogna vivere nelle realtà concrete.
Il Deuteronomio richiama continuamente il credente a quelli che sono gli atteggiamenti fondamentali: una fede che si fa sempre più profonda, un amore di Dio che esclude ogni compromesso, un servizio di Dio prestato con gioia, e una accettazione reale ed fiduciosa delle realtà terrestri.
Il brano liturgico comincia con un invito pressante rivolto da Mosè al popolo di Israele:
“Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita,...” questi versetti sono l’introduzione al celebre passo detto “Shemà”, che è la preghiera molto cara agli ebrei. Al tempo di Gesù ogni ebreo lo doveva recitare al mattino e alla sera, mentre il testo scritto veniva portato nella teca di cuoio delle “filatterie” che si legavano alla fronte e al braccio durante l’orazione: “Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno”. Questa frase, contiene il Tetragramma biblico יה*ו*ה, non pronunciabile, e quindi viene letta Shema' Ysrael, Ado-nai Eloheinu, Ado-nai echad, e viene pronunciata coprendosi gli occhi.
“Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze”.
C’è un adesione gioiosa di obbedienza figliare, di ascolto alla richiesta fondamentale di Dio, quella dell’amore. Un amore che coinvolge “cuore, mente, forza” cioè tutte le dimensioni dell’essere umano nella sua interiorità e nella sua azione. Questo è l’unico comandamento dato da Dio, che esige una risposta di amore al Suo amore. Tutti gli altri comandamenti derivano da questo e sono soltanto una precisazione per dire come concretamente si può in ogni circostanza amare Dio.

Salmo 17 - Ti amo, Signore, mia forza.
Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.

Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.

Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.

La tradizione più autentica (2Sam 22,1) riferisce che questo salmo venne scritto da Davide quando si trovò liberato da molte peripezie, specialmente quelle causategli da Saul. Il salmo nel Breviario viene diviso in due parti per ragioni di lunghezza.
L’orante celebra la liberazione da situazioni drammatiche con immagini efficaci: “Mi circondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti infernali; già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali”. La liberazione da tante insidie gli ha comunicato una grande fede nell’aiuto di Dio, e per questo ha grande certezza di vittoria anche per il futuro: “Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici”.
L’orante presenta la descrizione dell’intervento di Dio usando le immagini di uno sconvolgimento cosmico: il cielo, la terra, il mare, il fuoco, la grandine, entrano in gioco ad esprimere l’ardente e terrorifica ira di Dio contro i suoi nemici, gli empi, i quali, infatti, non hanno solo cercato di colpire Israele, ma innanzitutto lui, il Re d’Israele, il Signore dell’universo. Gli empi sono coloro che hanno varcato quella misura di peccato, che genera l’ira assoluta di Dio, che pur manda il sole sui buoni e sui cattivi.
Si ha un crescendo nell’imponente descrizione dell’intervento di Dio. L’inizio dell’intervento di Dio è un terremoto: “La terra tremò e si scosse; vacillarono le fondamenta dei monti”: è il primo segno dello sfogo dell’ira di Dio sui suoi nemici. Dio viene presentato come una fornace di fuoco in cielo: “Dalle sue narici saliva fumo, dalla sua bocca un fuoco divorante, da lui sprizzavano carboni ardenti”. Il cielo viene abbassato con una nuvolaglia nera e Dio scende in combattimento cavalcando un cherubino, che vola in mezzo alle nubi nere e basse. Il guerriero squarcia al suo passaggio le nubi che riversano grandine in un immane bombardamento della terra e carboni di fuoco (i fulmini) che la incendiano. Infine il mare si riversa sulla terra in un immane diluvio che spazza via quanto è rimasto dei nemici di Dio: “Allora apparve il fondo del mare, si scoprirono le fondamenta del mondo”. Il popolo di Dio invece rimane indenne, come nel passaggio nel mar Rosso, poiché il Signore lo sottrae alla furia delle acque: “Stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque”.
L’orante che ha visto evolvere una situazione nella quale era impossibile che ne uscisse vivo in situazione di vittoria, ritornando al suo esordio orante celebra la bontà di Dio, la giustizia di Dio; e divenuto capo forte di un popolo compatto, si propone di non temere mai delle armate dei nemici né delle loro fortezze: “Con te mi getterò nella mischia, con il mio Dio scavalcherò le mura”.
Davide continua le sue lodi a Dio e presenta, non più in termini apocalittici, le imprese che ha potuto compiere.
Davide, grazie a Dio che lo ha guidato e sostenuto, ha visto rendersi concrete le prospettive della missione regale affidatagli; ma il disegno di Dio non si esaurisce con lui.
Davide è certo di Dio. Certo della sua fedeltà. La sua discendenza rimarrà.
Il suo trono sarà di uno che verrà dalla sua stirpe, ma che sarà superiore a lui, come presentò lui stesso nel salmo 109,1; 110: “Oracolo del Signore al mio signore” (Cf. Mt 22,4). Sarà il futuro Re, il Messia (Cf. 1Sam 2,10), che inaugurerà un regno che sarà eterno (2Sam 7,12) e che abbraccerà tutte le genti (Ps 71,8; 72). Così tutta la missione di Davide e le grazie date a Davide sono in funzione del Messia e provengono dal futuro Messia.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.
Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.
La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.
Eb 7,23-28

La Lettera agli Ebrei può essere divisa in due parti, la prima parte (fino al cap.10) è di contenuto puramente dogmatico, mentre la seconda è di carattere prevalentemente pratico-moralistico.
In questo brano, tratto dalla prima parte della lettera, che è incentrata sulla figura di Gesù Cristo, re dell’universo, anche in relazione ad altri personaggi biblici dell'A.T, l’autore. dopo aver trattato nei versetti precedenti “L’abrogazione della legge antica e “L’immutabilità del sacerdozio del Cristo” affermando che : “ciò non avvenne senza giuramento. Quelli infatti diventavano sacerdoti senza giuramento; costui al contrario con un giuramento di colui che gli ha detto:Il Signore ha giurato e non si pentirà: tu sei sacerdote per sempre. Per questo, Gesù è diventato garante di un’alleanza migliore” (7,20-23). in questo brano continua dicendo:
“ in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.”
L’istituzione del sacerdozio di Aronne non fu sigillato da un giuramento e perciò non aveva il sigillo di eterna esistenza, cioè di non essere sottoposto ad abrogazione. Il giuramento si ha per le cose di più alta importanza affinché restino stabili e invariabili. Aronne e i suoi successori terminavano il loro sacerdozio con la loro morte, Cristo invece “resta per sempre ”. Egli, sommo ed eterno sacerdote, intercede a favore di coloro che si avvicinano al Padre per mezzo di Lui.
“Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli”. Per avere accesso al Padre, nel perdono dei peccati e nella liberazione dalla colpa originale per mezzo del Battesimo, occorreva un sommo sacerdote perfetto, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli, quale Re dell'universo, e nessuno più di Cristo poteva essere una vittima, santa, innocente e senza pacchia.
“Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.”
I sacrifici sono tutto l'insieme dei sacrifici prescritti dalla Legge. Il sacrificio sull'altare della croce, ha un valore infinito, per cui non è necessario che venga ripetuto perché ha infinitamente soddisfatto la giustizia del Padre. Essendo Cristo sommo sacerdote eterno esercita questo suo sacerdozio mediante i ministri dell'altare che agiscono in persona Cristi. Il sacrificio Eucaristico è lo stesso della croce, diverso ne è solo il modo.
Nota: Il Concilio di Trento si è espresso al proposito con grande chiarezza “In questo divino sacrificio, che si compie nella Messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo, che si offerse una sola volta in modo cruento sull'altare della croce. Si tratta, infatti, di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. (Sessione 22, cap. 2):

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
Mc 12,28b-34

Dopo l’arrivo di Gesù a Gerusalemme, l’evangelista Marco ci riporta l’attività di Gesù di quel periodo e le varie controversie avute con i rappresentanti di diversi gruppi che componevano il giudaismo del suo tempo.
Il brano inizia riportando l’intervento di uno scriba che “gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?” Nei versetti precedenti Gesù era stato interrogato dai sadducei circa la risurrezione dei morti e lo scriba sicuramente fu soddisfatto dalla risposta che Gesù aveva dato perchè si era dissociato nettamente dalla posizione dei sadducei adottando quella dei farisei che credevano nella risurrezione dei morti. La domanda dello scriba fa pensare ad una preoccupazione diffusa tra i dottori che, pur dando uguale importanza a tutti i precetti della legge, cercavano una formula che ne fosse l’origine, il fondamento e persino la sintesi. Alla domanda dello scriba Gesù dà una risposta chiara e precisa: “Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Si può notare che lo scriba chiedeva i un comandamento, e Gesù ne cita due! Il primo è il comandamento contenuto nel Deuteronomio (6,4) in cui c’è un testo, recitato da ogni pio giudeo nella preghiera quotidiana, che esalta l’unicità di DIO, come salvatore del suo popolo, e l’obbligo di amarlo, e di praticare i suoi comandamenti non per opportunismo o interesse, bensì con un impegno che scaturisce dal profondo del cuore.
Poi Gesù cita quanto è scritto nel Levitico (Lv 19,18) dove si prescrive l’amore del prossimo.1
Al “cuore-mente-forza”, attraversati dall’amore di Dio corrisponde ora il tutto “te stesso” dell’amore per il prossimo. Per Gesù queste due dimensioni dell’amore si incrociano e si vivificano reciprocamente costituendo l’essere cristiano autentico.
La risposta di Gesù provoca nello scriba una evidente approvazione infatti non può fare a meno di dire:“Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».” Con queste parole, egli dimostra di essere in perfetta sintonia con quanto affermato da Gesù, il quale, “Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, gli disse: Non sei lontano dal regno di Dio».
Questo scriba, dunque, inizialmente lontano dalla prospettiva di Gesù, accogliendo con gioia questo doppio impegno “non è più lontano dal regno di Dio”, perché è diventato membro della comunità dell’amore.
L’evangelista conclude che “nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo”, infatti con questa controversia terminano le domande poste a Gesù dai rappresentanti del giudaismo.
Per concludere si può dire che lo scriba si trasforma nell’emblema di tutti coloro che, anche nel giudaismo, sceglieranno di aderire alla Legge, non col freddo rigore dell’osservanza o col timore del giudizio, ma con la totalità dell’amore, una via certamente più esigente di quella della semplice e fredda osservanza giudaica, ma ben più ampia ed esaltante

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“Al centro del Vangelo di questa domenica, c’è il comandamento dell’amore: amore di Dio e amore del prossimo.
Uno scriba chiede a Gesù: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» . Egli risponde citando quella professione di fede con cui ogni israelita apre e chiude la sua giornata e che comincia con le parole «Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore» . In questo modo Israele custodisce la sua fede nella realtà fondamentale di tutto il suo credo: esiste un solo Signore e quel Signore è “nostro” nel senso che si è legato a noi con un patto indissolubile, ci ha amato, ci ama e ci amerà per sempre. È da questa sorgente, questo amore di Dio, che deriva per noi il duplice comandamento: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutta la tua forza. […] Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Scegliendo queste due Parole rivolte da Dio al suo popolo e mettendole insieme, Gesù ha insegnato una volta per sempre che l’amore per Dio e l’amore per il prossimo sono inseparabili, anzi, di più, si sostengono l’un l’altro. Pur se posti in sequenza, essi sono le due facce di un’unica medaglia: vissuti insieme sono la vera forza del credente! Amare Dio è vivere di Lui e per Lui, per quello che Lui è e per quello che Lui fa. E il nostro Dio è donazione senza riserve, è perdono senza limiti, è relazione che promuove e fa crescere. Perciò, amare Dio vuol dire investire ogni giorno le proprie energie per essere suoi collaboratori nel servire senza riserve il nostro prossimo, nel cercare di perdonare senza limiti e nel coltivare relazioni di comunione e di fraternità.
L’evangelista Marco non si preoccupa di specificare chi è il prossimo, perché il prossimo è la persona che io incontro nel cammino, nelle mie giornate. Non si tratta di pre-selezionare il mio prossimo: questo non è cristiano. Io penso che il mio prossimo sia quello che io ho preselezionato: no, questo non è cristiano, è pagano; ma si tratta di avere occhi per vederlo e cuore per volere il suo bene. Se ci esercitiamo a vedere con lo sguardo di Gesù, ci porremo sempre in ascolto e accanto a chi ha bisogno. I bisogni del prossimo richiedono certamente risposte efficaci, ma prima ancora domandano condivisione. Con un’immagine possiamo dire che l’affamato ha bisogno non solo di un piatto di minestra, ma anche di un sorriso, di essere ascoltato e anche di una preghiera, magari fatta insieme.
Il Vangelo di oggi invita tutti noi ad essere proiettati non solo verso le urgenze dei fratelli più poveri, ma soprattutto ad essere attenti alla loro necessità di vicinanza fraterna, di senso della vita, di tenerezza. Questo interpella le nostre comunità cristiane: si tratta di evitare il rischio di essere comunità che vivono di molte iniziative ma di poche relazioni; il rischio di comunità “stazioni di servizio” ma di poca compagnia, nel senso pieno e cristiano di questo termine.
Dio, che è amore, ci ha creati per amore e perché possiamo amare gli altri restando uniti a Lui. Sarebbe illusorio pretendere di amare il prossimo senza amare Dio; e sarebbe altrettanto illusorio pretendere di amare Dio senza amare il prossimo.
Le due dimensioni dell’amore, per Dio e per il prossimo, nella loro unità caratterizzano il discepolo di Cristo. La Vergine Maria ci aiuti ad accogliere e testimoniare nella vita di ogni giorno questo luminoso insegnamento.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 4 novembre 2018

 

1(*) Nota. Secondo Hillel (vissuto verso il 25 a.C.) tutta la legge si riassume nella “regola d’oro”, che prescrive di “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” (Shab 31a). Hillel conclude il suo detto affermando: “Questa è tutta la Torah; il resto ne è l’interpretazione. Va’ e impara!”. Secondo lui i precetti della legge, pur essendo diverse applicazioni di uno stesso principio, restano singolarmente validi, in quanto rappresentano la manifestazione irrevocabile della volontà di Dio.
Aqiba (morto nel 135 d.C.) invece assegna questo ruolo al precetto “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Sifra Lv 19,18); si ricordi che nel Targum la regola d’oro è citata come commento di questo precetto (cfr. TgPsJ Lv 19,18).
Al tempo di Gesù l’amore del prossimo era tenuto in grande considerazione dai membri dei movimenti giudaici, e in modo speciale dagli esseni (cfr. manoscritti di Qumran, Giubilei e Testamenti dei XII Pariarchi).

Pubblicato in Liturgia

In questa domenica in cui ricordiamo la giornata missionaria mondiale in cui viene rinnovata la chiamata ad essere discepoli-missionari, le letture che la Liturgia ci propone ci parlano della salvezza di Dio nei confronti del suo popolo e di ciascuno di noi.
Nella prima lettura, il profeta Geremia racconta la sollecitudine di Dio per il popolo d’Israele esiliato a Babilonia. Il profeta pronuncia un oracolo di consolazione per gli esiliati, e annuncia il cambiamento dalla schiavitù alla libertà, dalle lacrime alla gioia. Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, il sacerdozio di Cristo è il tema su cui riflette l’autore: essendo vero uomo e Figlio di Dio, Gesù possiede in modo eminente tutte le qualità del vero sacerdote. inviato dal padre per dissipare le tenebre e rischiarare la via, egli è il mediatore perfetto tra la fragile umanità e la grandezza di Dio
Nel Vangelo di Marco, ci racconta la guarigione di Bartimeo (è raro che i Vangeli ci riportano i nomi dei miracolati) avvenuta poco prima che Gesù salisse a Gerusalemme per essere arrestato, condannato e messo a morte, ottenuta la vista il cieco vuole seguire Gesù. La sua storia diventa così la narrazione spirituale di una vocazione alla fede e al discepolato. In questo senso la vicenda di Bartimeo è aperta e possibile a tutti noi.
In questa Giornata missionaria Papa Francesco ci ricorda che Dio, nella Pasqua di Gesù, fa proprie le gioie, le sofferenze, i desideri, le angosce dell’umanità “vuole stabilire con ogni persona, lì dove si trova, un dialogo di amicizia”.

Dal libro del profeta Geremia
Così dice il Signore:
«Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni,
fate udire la vostra lode e dite:
“Il Signore ha salvato il suo popolo,
il resto d’Israele”.
Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione
e li raduno dalle estremità della terra;
fra loro sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente:
ritorneranno qui in gran folla.
Erano partiti nel pianto,
io li riporterò tra le consolazioni;
li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua
per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele,
Èfraim è il mio primogenito».
Ger 31,7-9

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli è pure l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà.
In questo brano tratto dal libro della consolazione, si sente tutta l’esplosione di felicità di Geremia che finalmente può abbandonare il tono doloroso e mesto dei suoi messaggi di sciagure per annunciare la gioia. E’ a nome del Signore che si rivolge al popolo in esilio per dire: “Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Il resto non sono più gli scampati alla deportazione, ma quel piccolo nucleo di esiliati che Dio raccoglie per continuare la storia della salvezza. Il loro ritorno in patria è opera di Dio, salvezza di Dio, per coloro che sono rimasti a Lui fedeli. E’ il Signore che ora parla tramite lui per dire: “Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla”.
Questo popolo passato attraverso le angosce dell’esilio e della persecuzione è composto di ciechi, zoppi, donne incinte e partorienti, che hanno in comune la difficoltà a camminare e non sono nelle condizioni ideali per compiere un viaggio.
“Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito”.
Israele è il nome dato a Giacobbe durante il suo ritorno dalla Mesopotamia e qui la parola Israele sta a significare tutti i discendenti di Giacobbe-Israele. Èfraim è il secondo figlio di Giuseppe e quindi è nipote; in più la tribù di Èfraim è la più piccola di tutte le tribù. Ma l'amore di Dio abbraccia anche lui: anzi, lo abbraccia con predilezione: quando dice: Èfraim è il mio primogenito!
Le parole consolanti di Geremia ci debbono far pensare che la storia di questi esiliati, dei più piccoli, spesso dimenticati, è la nostra storia. Chi si allontana dal Signore fa l'esperienza del pianto, ma il cammino del ritorno, pur impegnativo e disseminato di difficoltà, è ricco di soddisfazioni che Dio promette di farci incontrare, come tante sorgenti di acqua nel deserto, e la strada sarà dritta e senza inciampi. Possiamo sentirci tutti “Efraim e suoi primogeniti!”

Salmo 125 - Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.

Questo salmo era usato per i pellegrinaggi annuali a Gerusalemme. Probabilmente venne scritto dopo la ricostruzione del tempio e delle mura di Gerusalemme al tempo del ritorno dall'esilio; infatti la grande gioia alla notizia che “Andremo alla casa del Signore”, presuppone un fatto straordinario, lungamente atteso, e non uno dei tre pellegrinaggi annuali prescritti dalla legge (Es 23,17; 34,23).
Lo stupore di fronte alla compattezza che presenta la città si apre alla lode di Dio: “Gerusalemme è costruita come città unita e compatta”.
La città viene celebrata come il centro dell'unità religiosa per la presenza del tempio e come centro del governo civile: “E' là che salgono le tribù, le tribù del Signore (...) per lodare il nome del Signore. Là sono posti i troni del giudizio, i troni della casa di Davide”: benché politicamente non autonoma Gerusalemme è retta dalle leggi di Israele; la menzione di Davide dice che per l'Israelita Gerusalemme rimane legata a Davide, e quindi al futuro Messia.
Il salmista non manca di rivolgersi ai pellegrini invitandoli a pregare: “Chiedete pace per Gerusalemme”; e invoca pace su quanti la amano, cioè su quanti credono nel disegno di Dio su Gerusalemme. La pace invocata è quella che verrà portata dal Principe della pace.
A Gerusalemme si è formata la prima Chiesa particolare, che è stata la madre delle altre Chiese particolari, poiché il Vangelo è partito dalla comunità di Gerusalemme. Ma tutte le Chiese particolari, compresa quella di Gerusalemme, formano e sussistono nell'unica Chiesa di Cristo, che ha come vincolo di unità il successore di Pietro.
Il pellegrinaggio dei popoli, delle dodici tribù della terra, trova il suo gioioso approdo alle “porte” della Gerusalemme messianica, pronta ad accogliere tutte le genti. La Gerusalemme messianica è la “civitas cristiana”, che ha come costitutivo fondante la Chiesa (Cf. Ap 21,9s).
Per la “civitas cristiana”, o società dell'amore, bisogna sempre pregare perché tragga costantemente dal Cristo la sua pace e la diffonda estendendosi a tutta la terra.
Il pellegrinaggio, tuttavia, non è cessato perché terminerà solo con l'ingresso nella Gerusalemme celeste.
Lo stupore di potere andare nella “casa del Signore” i cristiani lo hanno avuto nell'erezione delle prime basiliche a Roma, dopo le ondate di persecuzione per annullare la Chiesa.
Il primo stupore di fronte alla Gerusalemme messianica, o civiltà dell'amore, i cristiani lo hanno avuto quanto hanno visto il potere politico di Roma aprirsi a Cristo e alla Chiesa.
Ora il potere politico delle nazioni si sta sempre più chiudendo alla Chiesa, ma non si annullerà il germe della “civitas cristiana”; verrà infatti il giorno in cui su tutta la terra fiorirà la civiltà della verità e dell'amore.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.
Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo.
Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse:
«Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo:
«Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».
Eb 5,1-6

Questo brano della lettera agli Ebrei segue immediatamente quello trattato nella XXIX domenica per continuare il tema su Cristo sommo sacerdote. L’argomento era decisamente molto importante per quegli ebrei che erano passati al cristianesimo perché fa comprendere loro la superiorità della fede in Cristo rispetto alla religione ebraica. Al tempo stesso la fede e il culto dell'antico Israele hanno molta importanza poiché sono l'ambiente in cui il popolo di Dio si è preparato all'avvento di Gesù, il Figlio di Dio.
L’autore inizia facendo un paragone tra Gesù e i sommi sacerdoti di Israele: “Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.”
Il sommo sacerdote è scelto tra gli uomini per le cose che riguardano Dio. Offre sacrifici per i peccati, cioè immola gli animali offerti per ottenere il perdono dei peccati.
“Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza.” Il sommo sacerdote è veramente tale perchè sente compassione nei confronti degli altri uomini per i quali offre i sacrifici. Sa che tanti peccati si compiono per ignoranza, non per malvagità. Anch'egli rimane un uomo ed è partecipe della debolezza dei suoi simili. Questo particolare della compassione del sommo sacerdote non è tratta dai testi biblici, sembra piuttosto una qualità inserita dall'autore per preparare la figura di Cristo, di cui il tratto più importante è appunto la compassione.
“A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo”.
Proprio perché rimane un uomo egli deve offrire i sacrifici anche per i propri peccati, purificare le proprie mani affinché la sua offerta sia sempre gradita a Dio.
“Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne.”
La funzione di sommo sacerdote è comunque un dono, il frutto di una scelta divina. Anche questo anticipa la totale gratuità dell'elezione di Gesù, il quale non faceva nemmeno parte della tribù di Levi, l'unica stirpe di Israele da cui potevano provenire i sacerdoti.
“Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì “. Da qui comincia la presentazione di Cristo come sommo sacerdote. Anch'egli non si arrogò il diritto di essere sommo sacerdote poiché Dio stesso gli ha conferito questa gloria. L'autore cita il salmo 110 per ricordare che Cristo è il figlio di Dio: “come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».”
La citazione del salmo 110 continua con l'investitura di Cristo. Egli è sacerdote non secondo l'ordine di Aronne, poiché non fa parte della discendenza di Levi. Il suo sacerdozio è ben più antico, poiché risale a Melchìsedek, il misterioso re-sacerdote che si incontra al cap. 14 della Genesi, e di lui si dice che era re di Salem (il nome più antico di Gerusalemme) sacerdote del Dio altissimo e che offrì ad Abramo pane e vino, doni votivi in segno di devozione.
Non si conosce la genealogia di Melchìsedek e proprio per questo rappresenta bene la condizione del Figlio di Dio fatto uomo e anche dei sacerdoti della Nuova Alleanza, che diventano tali perché chiamati da Dio e non per eredità di nascita.
Il sacerdozio nella Chiesa non si configura come una posizione sociale a cui aspirare, ma come una chiamata a cui rispondere quando la si accetta e di cui rispondere dopo che la si è esercitata. Teniamo presente che il sacerdote cristiano non si sostituisce a Cristo, ma bensì lo rappresenta.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».
Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose:
«Rabbunì, che io veda di nuovo!».
E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Mc 10, 46-52


Questo brano del Vangelo di Marco riporta l'ultimo miracolo che Gesù compie durante il suo viaggio verso Gerusalemme. Il racconto inizia riportando che “mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.”
Alla fine del suo viaggio verso Gerusalemme Gesù giunge finalmente a Gerico, la città più antica del mondo, collocata in un’oasi di tre chilometri di diametro posta nella valle del Giordano, a quasi 300 metri sotto il livello del mare. Non si conosce nulla circa l’itinerario da Lui percorso, ma da quanto accennato precedentemente (v. 10,1.32) sembra che vi sia arrivato dopo aver percorso la Perea, cioè movendosi al di fuori del territorio palestinese. Gesù è circondato dai discepoli e dalla folla. Non si sa neppure che cosa abbia fatto a Gerico, se non che, mentre ormai sta per lasciare la città, si imbatte in Bartimeo, un mendicante cieco (non si sa se dalla nascita) che siede lungo la via.
La reazione del cieco è così descritta: “Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!»”. Il suo grido di aiuto rappresenta un estremo tentativo di liberarsi dalla situazione disperata in cui si trova. Egli dà a Gesù il titolo di “Figlio di Davide”ed è la prima volta che Marco cita il nome di Davide, lo citerà ancora in 11,10 2 in 12,35-37.
E’ chiaro comunque che il figlio di Davide, a cui qui ci si riferisce è il messia atteso dai giudei (2Sam 7,12). Bartimeo fa dunque una professione di fede messianica, simile alla professione di fede di Pietro (8,29).In questa invocazione di aiuto il cieco non chiede nulla di particolare, ma solo una manifestazione della misericordia di Dio attraverso il suo inviato.
L’intervento del cieco è visto dai vicini con un certo fastidio, infatti l’evangelista annota che “Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me”.
E alla fine è Gesù stesso che prende l’iniziativa, infatti: “Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”. La folla, che prima come un muro separava il cieco da Gesù, gli trasmette ora il suo ordine di andare da Lui, anzi addirittura lo incoraggia.
Il fatto che il cieco risponda con prontezza all’invito è un altro particolare per indicare la sua fede e la sua disponibilità.
Il gesto di sbarazzarsi del mantello ha un valore simbolica: per il povero questo rappresentava un bene irrinunciabile che, quand’anche fosse stato dato in pegno, doveva essergli restituito alla sera perché gli fosse possibile difendersi dal freddo (V. Es 22,25). Buttarlo via significa quindi abbandonare le proprie sicurezze e riporre solo in Gesù la propria fiducia.
Il dialogo tra Gesù e il cieco viene così riportato: “Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato»”
Era chiaro che il cieco chiedesse il dono della vista, ma Gesù gli chiede di formulare chiaramente la sua richiesta per mettere in luce ancora una volta la sua fede. Il cieco nel rispondere a Gesù lo chiama rabbunì, “maestro mio”, usa certamente un modo affettuoso di rivolgersi al Maestro, altrimenti avrebbe usato il termine più formale e rispettoso di Rabbì. La richiesta espressa dal cieco di riavere la vista mette nuovamente in luce la sua fede nelle capacità soprannaturali di Gesù. La risposta di Gesù è però molto più ampia e, facendo riferimento espressamente alla sua fede, afferma che questa lo ha “salvato”.
Non si tratta dunque della semplice guarigione fisica, ma di una liberazione interiore dal peccato: in altre parole la guarigione fisica, che ora Gesù gli dà, simboleggia il nuovo rapporto che Dio, per mezzo Suo, stabilisce con lui. Il racconto termina con l’immagine del cieco che, ormai guarito, segue Gesù lungo la strada .
Bartimeo diventa così il simbolo dei discepoli che, ormai guariti dalla loro cecità, si mettono al seguito del Maestro nella strada che porta a Gerusalemme, verso il Suo destino di morte e di gloria.
La storia di un miracolo fisico diventa così la narrazione spirituale di una vocazione alla fede e al discepolato. In questo senso la vicenda di Bartimeo è aperta e possibile a tutti noi, anche se i nostri occhi fisici sono limpidi e la nostra vista nitida. Si tratta, infatti, della rappresentazione di un’illuminazione totale che penetra negli angoli remoti dell’esistenza.
Una volta guarito il credente non deve più restare ai margini della strada, immerso nella sua tristezza quotidiana e nella sua oscurità, si alza e segue il suo Signore e Salvatore.

*****

“L’episodio che abbiamo ascoltato è l’ultimo che l’evangelista Marco narra del ministero itinerante di Gesù, il quale poco dopo entrerà a Gerusalemme per morire e risorgere. Bartimeo è così l’ultimo a seguire Gesù lungo la via: da mendicante ai bordi della strada a Gerico, diventa discepolo che va insieme agli altri verso Gerusalemme. Anche noi abbiamo camminato insieme, abbiamo “fatto sinodo” e ora questo Vangelo suggella tre passi fondamentali per il cammino della fede.
Anzitutto guardiamo a Bartimeo: il suo nome significa “figlio di Timeo”. E il testo lo specifica: «il figlio di Timeo, Bartimeo» . Ma, mentre il Vangelo lo ribadisce, emerge un paradosso: il padre è assente. Bartimeo giace solo lungo la strada, fuori casa e senza padre: non è amato, ma abbandonato. È cieco e non ha chi lo ascolti; e quando voleva parlare lo facevano tacere. Gesù ascolta il suo grido. E quando lo incontra lo lascia parlare. Non era difficile intuire che cosa avrebbe chiesto Bartimeo: è evidente che un cieco voglia avere o riavere la vista. Ma Gesù non è sbrigativo, dà tempo all’ascolto.
Ecco il primo passo per aiutare il cammino della fede: ascoltare. È l’apostolato dell’orecchio: ascoltare, prima di parlare.
Al contrario, molti di quelli che stavano con Gesù rimproveravano Bartimeo perché tacesse . Per questi discepoli il bisognoso era un disturbo sul cammino, un imprevisto nel programma prestabilito. Preferivano i loro tempi a quelli del Maestro, le loro parole all’ascolto degli altri: seguivano Gesù, ma avevano in mente i loro progetti. È un rischio da cui guardarsi sempre. Per Gesù, invece, il grido di chi chiede aiuto non è un disturbo che intralcia il cammino, ma una domanda vitale. Quant’è importante per noi ascoltare la vita! I figli del Padre celeste prestano ascolto ai fratelli: non alle chiacchiere inutili, ma ai bisogni del prossimo. Ascoltare con amore, con pazienza, come fa Dio con noi, con le nostre preghiere spesso ripetitive. Dio non si stanca mai, gioisce sempre quando lo cerchiamo. Chiediamo anche noi la grazia di un cuore docile all’ascolto. Vorrei dire ai giovani, a nome di tutti noi adulti: scusateci se spesso non vi abbiamo dato ascolto; se, anziché aprirvi il cuore, vi abbiamo riempito le orecchie. Come Chiesa di Gesù desideriamo metterci in vostro ascolto con amore, certi di due cose: che la vostra vita è preziosa per Dio, perché Dio è giovane e ama i giovani; e che la vostra vita è preziosa anche per noi, anzi necessaria per andare avanti.
Dopo l’ascolto, un secondo passo per accompagnare il cammino di fede: farsi prossimi.
Guardiamo Gesù, che non delega qualcuno della «molta folla» che lo seguiva, ma incontra Bartimeo di persona. Gli dice: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» . Che cosa vuoi: Gesù si immedesima in Bartimeo, non prescinde dalle sue attese; che io faccia: fare, non solo parlare; per te: non secondo idee prefissate per chiunque, ma per te, nella tua situazione. Ecco come fa Dio, coinvolgendosi in prima persona con un amore di predilezione per ciascuno. Nel suo modo di fare già passa il suo messaggio: così la fede germoglia nella vita.
La fede passa per la vita. Quando la fede si concentra puramente sulle formulazioni dottrinali, rischia di parlare solo alla testa, senza toccare il cuore. E quando si concentra solo sul fare, rischia di diventare moralismo e di ridursi al sociale. La fede invece è vita: è vivere l’amore di Dio che ci ha cambiato l’esistenza. Non possiamo essere dottrinalisti o attivisti; siamo chiamati a portare avanti l’opera di Dio al modo di Dio, nella prossimità: stretti a Lui, in comunione tra noi, vicini ai fratelli.
Prossimità: ecco il segreto per trasmettere il cuore della fede, non qualche aspetto secondario.
Farsi prossimi è portare la novità di Dio nella vita del fratello, è l’antidoto contro la tentazione delle ricette pronte. Chiediamoci se siamo cristiani capaci di diventare prossimi, di uscire dai nostri circoli per abbracciare quelli che “non sono dei nostri” e che Dio ardentemente cerca. C’è sempre quella tentazione che ricorre tante volte nella Scrittura: lavarsi le mani. È quello che fa la folla nel Vangelo di oggi, è quello che fece Caino con Abele, è quello che farà Pilato con Gesù: lavarsi le mani. Noi invece vogliamo imitare Gesù, e come lui sporcarci le mani. Egli, la via (cfr Gv 14,6), per Bartimeo si è fermato lungo la strada; Egli, la luce del mondo (cfr Gv 9,5), si è chinato su un cieco.
Riconosciamo che il Signore si è sporcato le mani per ciascuno di noi, e guardando la croce ripartiamo da lì, dal ricordarci che Dio si è fatto mio prossimo nel peccato e nella morte. Si è fatto mio prossimo: tutto comincia da lì.
E quando per amore suo anche noi ci facciamo prossimi diventiamo portatori di vita nuova: non maestri di tutti, non esperti del sacro, ma testimoni dell’amore che salva.
Testimoniare è il terzo passo. Guardiamo i discepoli che chiamano Bartimeo: non vanno da lui, che mendicava, con un’acquietante monetina o a dispensare consigli; vanno nel nome di Gesù. Infatti gli rivolgono solo tre parole, tutte di Gesù: «Coraggio! Alzati. Ti chiama». Solo Gesù nel resto del Vangelo dice coraggio!, perché solo Lui risuscita il cuore. Solo Gesù nel Vangelo dice alzati, per risanare lo spirito e il corpo. Solo Gesù chiama, cambiando la vita di chi lo segue, rimettendo in piedi chi è a terra, portando la luce di Dio nelle tenebre della vita. Tanti figli, tanti giovani, come Bartimeo cercano una luce nella vita. Cercano amore vero. E come Bartimeo, nonostante la molta gente, invoca solo Gesù, così anch’essi invocano vita, ma spesso trovano solo promesse fasulle e pochi che si interessano davvero a loro.Non è cristiano aspettare che i fratelli in ricerca bussino alle nostre porte; dovremo andare da loro, non portando noi stessi, ma Gesù. Egli ci manda, come quei discepoli, a incoraggiare e rialzare nel suo nome. Ci manda a dire ad ognuno: “Dio ti chiede di lasciarti amare da Lui”. Quante volte, invece di questo liberante messaggio di salvezza, abbiamo portato noi stessi, le nostre “ricette”, le nostre “etichette” nella Chiesa! Quante volte, anziché fare nostre le parole del Signore, abbiamo spacciato per parola sua le nostre idee! Quante volte la gente sente più il peso delle nostre istituzioni che la presenza amica di Gesù! Allora passiamo per una ONG, per una organizzazione parastatale, non per la comunità dei salvati che vivono la gioia del Signore.
Ascoltare, farsi prossimi, testimoniare. Il cammino di fede nel Vangelo termina in modo bello e sorprendente, con Gesù che dice: «Va’, la tua fede ti ha salvato» . Eppure Bartimeo non ha fatto professioni di fede, non ha compiuto alcuna opera; ha solo chiesto pietà. Sentirsi bisognosi di salvezza è l’inizio della fede. È la via diretta per incontrare Gesù. La fede che ha salvato Bartimeo non stava nelle sue idee chiare su Dio, ma nel cercarlo, nel volerlo incontrare. La fede è questione di incontro, non di teoria. Nell’incontro Gesù passa, nell’incontro palpita il cuore della Chiesa. Allora non le nostre prediche, ma la testimonianza della nostra vita sarà efficace.”

Parte dell’OMELIA tenuta da Papa Francesco per la conclusione
della XV assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi
nella Basilica Vaticana - Domenica, 28 ottobre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica sono unite dal filo rosso del sangue della sofferenza e possono guidarci per una più profonda riflessione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Profeta Isaia, troviamo un frammento tratto dal quarto carme del Servo del Signore, un testo celebre soprattutto nella rilettura messianica cristiana. In quei pochi versetti viene spiegato il senso profondo delle sofferenze del Servo del Signore, che da innocente prende su di sé i peccati degli altri e diventa “salvezza” per molti.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, afferma che l’ offerta che Cristo ha fatto di sé per la nostra salvezza ce lo ha reso solidale. A Lui l’umanità peccatrice si rivolge con fiducia, sicura di incontrare il Signore che salva.
Nel Vangelo di Marco, Gesù ha appena annunciato per la terza volta la Sua passione e morte, ma i discepoli sono ben lontani dal capire, anzi discutono tra loro, preoccupati di assicurarsi i primi posti nel futuro regno messianico. Alla proposta di ricerca dei primi posti, Gesù oppone la proposta di un messianismo d’immolazione e di servizio. Il servizio è uno dei comandi di Gesù più sentiti e più fortemente raccomandati, (papa Francesco ce lo ricorda continuamente e ne dà l’esempio) e rimane uno dei criteri sui quali i cristiani misurano maggiormente la qualità della loro vocazione.

Dal libro del profeta Isaia
Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento
vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.
Is 53,10-11

Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “Deutero Isaia”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Il corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due parti, quelle composte prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12-48,22) e quelle che invece sono state composte dopo questo evento (Is 49,1-54,17) .
Nel libro del Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso, chiamato “Servo di JHWH”, di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato dato l’appellativo di ”Carmi del Servo di JHWH” (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Mentre il primo carme si trova all’inizio della prima parte, gli altri li troviamo nella seconda parte della raccolta. Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) si descrive la persecuzione che ha subito. I versetti sono alquanto simili ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina.
Questo breve brano che è un frammento del quarto carme che descrive la vicenda del Servo del Signore, è un testo celebre soprattutto nella rilettura messianica cristiana. E’ stato descritto all’inizio l’immagine di un virgulto cresciuto (Is. 53,2), come una radice in terra arida, come un uomo isolato. Il suo stesso esistere è apparso un miracolo, un dono divino, unica presenza viva all’interno del mondo morto e desolato del peccato umano. E’ impressionante la descrizione del suo volto sfigurato, che suscita imbarazzo e disprezzo perchè si interpreta il suo tormento come castigo divino! Ma la morte non è il termine definitivo verso cui scorre questa vita di dolore innocente, con la sua morte non è stata detta l’ultima parola, perchè:
”Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo,si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.” (*) Il Signore ha voluto che il Servo passasse attraverso la sofferenza, ma ha stabilito che,”avendo offerto se stesso in espiazione”, viva a lungo e abbia una grande discendenza.
Negli ultimi due versetti è il Signore che parla per confermare il successo del Servo: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.”
Questa morte, questo intimo tormento, fa fiorire il mistero di fecondità che quel virgulto conteneva, Questo servo giustificherà molti, salvandoli con il suo dolore espiatorio, fino a contemplare Dio stesso nella gloria con tutti coloro che ha portato alla salvezza. La sua vita e la sua morte dunque sono state un sacrificio liberatore per noi tutti, il suo essere “servo” ha generato la nostra giustificazione e riconciliazione con Dio.

(*) Nota: Il termine “sacrificio di riparazione” nell’originale ebraico indica sacrificio offerto per togliere un peccato con cui erano stati lesi i diritti di una persona (V. Lv 5,14-19): la morte del Servo viene dunque compresa come un gesto sacrificale, il cui scopo è quello di eliminare i peccati del popolo. Si deve tener presente che nei sacrifici la vittima non era punita al posto del peccatore, ma veniva immolata perché il suo sangue servisse come strumento di riconciliazione con Dio (V. Lv 17,11). La lunga vita promessa al Servo dopo la sua morte indica il successo del suo sacrificio e la rinascita del popolo. Per mezzo suo infatti si compie la volontà di Dio, cioè la conversione del popolo e il suo ritorno nella terra promessa.

SALMO 32 - Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni. La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.
Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore.
“Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.
Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”. La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere. Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi ”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15). Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.
Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
Eb 4,14-16

Questo breve brano,tratto dalla Lettera agli Ebrei, sviluppa un tema già iniziato al cap.2 “Gesù sacerdote misericordioso”. Nell’Antico Testamento, la condizione necessaria per essere sacerdoti era l’appartenenza alla tribù di Levi, una delle dodici tribù d’Israele, dalla quale provenivano Mosè ed Aronne. I sacerdoti erano coloro che interpretavano la volontà di Dio lanciando urim e tummin, che erano due pietre, che custodivano nel pettorale, e rappresentavano uno l’innocenza e l’altro la colpa; oltre al resto, insegnavano la Legge e si dedicavano al servizio del tempio. Quella dei sacerdoti era un’organizzazione gerarchica ed ereditaria, all’interno della quale solo il sommo sacerdote, rappresentante della linea primogenita, poteva entrare una volta l’anno, durante il giorno dell’espiazione (Yom kippur), nel luogo più santo del tempio, sancta sanctorum, dove si credeva che vi fosse la presenza di Dio. Nel Nuovo Testamento, invece, ogni sacerdozio particolare viene abolito con l’avvento di Gesù Cristo, che è il grande sommo sacerdote. Con Gesù ci troviamo di fronte ad un nuovo modello di sommo sacerdote, un modello, sin dall’inizio inusuale, dato che Gesù apparteneva alla tribù di Giuda e non a quella di Levi, dalla quale provenivano gli altri sacerdoti.
Il brano inizia con una forte esortazione: “poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede“
Sebbene il sacerdozio di Cristo sia stato consumato sulla croce esso continua a esercitarsi ancora oggi nei “cieli”, dove Egli è penetrato con la sua morte cruenta e ormai siede alla destra di Dio.
All’esortazione iniziale fa seguito una frase esemplificativa sul sacerdozio di Cristo: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato”. La grandezza del sacerdozio di Cristo non esclude, anzi esige che Egli sia solidale con la famiglia umana, che rappresenta davanti a Dio: Egli infatti è “uomo” in mezzo agli uomini e perciò è capace di comprendere fino in fondo i loro limiti e i loro peccati. Precedentemente l’autore aveva detto che Gesù, “ proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.” (2,18).
La solidarietà di Gesù con l’umanità ha però un limite: Egli è simile in tutto alla condizione umana “escluso il peccato”.
Si afferma così la perfetta santità di Cristo, che esclude ogni Sua partecipazione alla comune situazione di peccato. In realtà questa prerogativa non diminuisce la Sua solidarietà con gli uomini, anzi rappresenta la condizione indispensabile perché Egli possa effettivamente andare loro incontro e salvarli. Un peccatore infatti ha bisogno prima di tutto di essere lui stesso salvato: solo chi è santo può salvare gli altri!
L’autore conclude con una nuova esortazione:”Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.
L’invito iniziale a mantenere salda la professione di fede viene qui ripreso, dopo lo sviluppo riguardante la compassione di Gesù, sotto forma di richiamo ad accostarsi con piena fiducia al “trono della grazia”, cioè alla presenza del Dio misericordioso.
Dopo che Cristo “è passato attraverso i cieli”, Dio non deve essere più ricercato in un santuario terreno, ma proprio là dove Egli si trova, cioè nel Suo santuario celeste. In forza della mediazione di Cristo i credenti devono ormai sentirsi sicuri che Dio non negherà loro la salvezza e l’aiuto necessario tutte le volte che ne avranno bisogno.
Gesù dunque è il grande sommo sacerdote che soffre insieme a noi per le nostre debolezze, i nostri peccati, Egli è il nuovo grande sommo sacerdote che non se ne sta rinchiuso nel luogo santissimo “sancta sanctorum”, ma che è in mezzo a noi, che patisce con noi la fame, la sete, l’emarginazione; un Gesù che possiamo scorgere nel volto sofferente di ogni creatura.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria,
uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Mc 10,35-45

Questo brano del vangelo di Marco, che è l’unico che fa seguito al terzo annunzio della passione, morte e risurrezione di Gesù, affronta il tema dei primi posti nel regno di Dio. Il racconto inizia riporta ndo che i fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, due discepoli della prima ora, si fanno avanti e chiedono a Gesù: “Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra»”.
Ciò che essi chiedono a Gesù è una posizione alquanto di privilegio rispetto agli altri discepoli. Si può notare che lo chiedono non subito, ma al momento della gloria di Gesù, cioè quando Egli, in quanto Messia, avrà sconfitto i suoi nemici e instaurato il regno di Dio. La pretesa dei due discepoli si comprende nel contesto storico di Gesù: essi condividevano ancora l’attesa di un Messia glorioso e potente, che avrebbe instaurato il regno di Dio vincendo i suoi nemici e distribuendo i posti di comando ai suoi seguaci più fedeli. Probabilmente la richiesta dei due discepoli è sembrata sconveniente a Matteo, che l’ha attribuita non ai due interessati, ma alla loro madre (V: Mt 20,20), mentre Luca evita persino di citare questo episodio.
Gesù risponde loro: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato”. Il calice simboleggia il destino di sofferenza che lo attende, mentre il battesimo significa l’immersione in una prova molto dolorosa. In altre parole Gesù chiede ai due discepoli se sono disposti a condividere la sua passione e la sua morte da lui appena preannunziate. Essi rispondono affermativamente, dimostrando così che, nonostante le loro ambizioni, sono legati al Maestro da una profonda amicizia, da renderli disponibili a condividere le sofferenze che, essi pensano, siano connesse con la lotta, forse anche militare, per attuare il regno di Dio.
Gesù non rifiuta la disponibilità dei due discepoli, ma è chiaro e tassativo sulle loro pretese: “Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”.
Certo, essi parteciperanno fino in fondo alla sua esperienza di dolore e di morte, ma quanto ai primi posti, essi dipendono da Dio, che li darà a chi vuole. In altre parole i suoi discepoli non devono avere preoccupazioni per i primi posti o di onori speciali, ma limitarsi ad essere solidali con Lui fino alla fine. Se dunque il discepolo partecipa veramente all’esperienza del suo Maestro, lo aspettano non certo trionfi e primi posti, ma sofferenza e morte. Alla fine però potrà partecipare alla sua gloria, non per merito suo, bensì per un dono gratuito da parte di Dio.
Gli altri discepoli, avendo sentito la richiesta di Giacomo e Giovanni protestano contro di loro. Rendendosi conto di queste proteste, Gesù chiama a sé i suoi discepoli e dice loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”.

Con queste parole Gesù non si riferisce più al momento della gloria, cioè della venuta finale del regno di Dio, ma descrive l’esercizio dell’autorità nel gruppo dei discepoli e di riflesso nella comunità cristiana, mettendolo in contrasto con quanto avviene in questo mondo. I governanti delle nazioni, o almeno coloro che sono considerati come tali, “le dominano”, e i loro capi “le opprimono”, infatti anche nella società attuale coloro che detengono il potere lo usano per lo più a proprio vantaggio, sfruttando e utilizzando gli altri per i propri scopi egoistici, e questo in tutti i settori. Tra i discepoli (o chi si professa cristiano) invece ciò non deve accadere, ma al contrario chi vuol diventare grande o essere il primo, deve farsi “servitore” o perfino “schiavo di tutti”.
I discepoli devono prendere perciò come modello lo stesso Gesù perchè: “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto (*) per molti”.
Gesù attribuendosi l’appellativo di Figlio dell’uomo non pensa certamente alla figura gloriosa preannunziata dal profeta Daniele (Dn 7), ma si riferisce a se stesso in quanto partecipe dei limiti propri di ogni uomo, con il quale Egli stabilisce un legame di profonda solidarietà. Questa si manifesta nel fatto che Egli è venuto non “per farsi servire “, ma per “servire” e per dare la sua vita, cioè tutto se stesso, “in riscatto per molti”.(*)
Per concludere si può dire che tutte le volte che il “discepolo”, sul quale incombe un incarico o una responsabilità, si trasforma in un capo orgoglioso ed egoista, egli distrugge la Chiesa di Dio, riducendola ad un’organizzazione sociopolitica. (Su questo argomento Papa Francesco è tornato varie volte) Cristo, invece, è in mezzo agli uomini come un servo, pronto a compiere quel gesto che nell’antico Israele non poteva essere imposto neppure ad uno schiavo, il lavare i piedi ad un’altra persona: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. (Gv 13,14-15
Per concludere si può affermare che Gesù, si è fatto servo e ha dato la sua vita in riscatto per le moltitudini, cioè per tutti. Gesù non ha dominato, ma ha sempre servito fino a farsi schiavo, fino a lavare i piedi, fino ad accettare una morte ignominiosa, assimilato ai malfattori.

(*)Il termine “riscatto” indica il prezzo con cui veniva liberato uno schiavo: nel linguaggio biblico indica invece l’azione con cui Dio acquista per sé il suo popolo liberandolo dall’Egitto, dove era tenuto come schiavo, senza però dover pagare alcun prezzo. Il termine “molti”, usato più volte in Is 53, indica non alcuni a preferenza di altri, ma la moltitudine in senso inclusivo, quindi “tutti”.
Il servizio di Gesù consiste dunque nel riaggregare

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“L’odierna pagina evangelica descrive Gesù che, ancora una volta e con grande pazienza, cerca di correggere i suoi discepoli convertendoli dalla mentalità del mondo a quella di Dio. L’occasione gli viene data dai fratelli Giacomo e Giovanni, due dei primissimi che Gesù ha incontrato e chiamato a seguirlo.
Ormai hanno fatto parecchia strada con Lui e appartengono proprio al gruppo dei dodici Apostoli. Perciò, mentre sono in cammino verso Gerusalemme, dove i discepoli sperano con ansia che Gesù, in occasione della festa di Pasqua, instaurerà finalmente il Regno di Dio, i due fratelli si fanno coraggio, si avvicinano e rivolgono al Maestro la loro richiesta: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» .
Gesù sa che Giacomo e Giovanni sono animati da grande entusiasmo per Lui e per la causa del Regno, ma sa anche che le loro aspettative e il loro zelo sono inquinati, dallo spirito del mondo. Perciò risponde: «Voi non sapete quello che chiedete» . E mentre loro parlavano di “troni di gloria” su cui sedere accanto al Cristo Re, Lui parla di un «calice» da bere, di un «battesimo» da ricevere, cioè della sua passione e morte. Giacomo e Giovanni, sempre mirando al privilegio sperato, dicono di slancio: sì, «possiamo»! Ma, anche qui, non si rendono veramente conto di quello che dicono.
Gesù preannuncia che il suo calice lo berranno e il suo battesimo lo riceveranno, cioè che anch’essi, come gli altri Apostoli, parteciperanno alla sua croce, quando verrà la loro ora. Però – conclude Gesù – «sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato» . Come dire: adesso seguitemi e imparate la via dell’amore “in perdita”, e al premio ci penserà il Padre celeste. La via dell’amore è sempre “in perdita”, perché amare significa lasciare da parte l’egoismo, l’autoreferenzialità, per servire gli altri.
Gesù poi si accorge che gli altri dieci Apostoli si arrabbiano con Giacomo e Giovanni, dimostrando così di avere la stessa mentalità mondana. E questo gli offre lo spunto per una lezione che vale per i cristiani di tutti i tempi, anche per noi. Dice così: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti». È la regola del cristiano. Il messaggio del Maestro è chiaro: mentre i grandi della Terra si costruiscono “troni” per il proprio potere, Dio sceglie un trono scomodo, la croce, dal quale regnare dando la vita: «Il Figlio dell’uomo – dice Gesù – non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» .
La via del servizio è l’antidoto più efficace contro il morbo della ricerca dei primi posti; è la medicina per gli arrampicatori, questa ricerca dei primi posti, che contagia tanti contesti umani e non risparmia neanche i cristiani, il popolo di Dio, neanche la gerarchia ecclesiastica. Perciò, come discepoli di Cristo, accogliamo questo Vangelo come richiamo alla conversione, per testimoniare con coraggio e generosità una Chiesa che si china ai piedi degli ultimi, per servirli con amore e semplicità. La Vergine Maria, che aderì pienamente e umilmente alla volontà di Dio, ci aiuti a seguire con gioia Gesù sulla via del servizio, la via maestra che porta al Cielo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus 21 ottobre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica si possono definire un vademecum per realizzare la propria esistenza e per rendere sicuro ciò che abbiamo costruito con il nostro operato.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, l’antico saggio chiede a Dio la docilità del cuore, la capacità cioè di rendere giustizia e di distinguere il bene dal male, che equivale a chiedere la sapienza. Solo Dio è in grado di donarla ad ogni uomo, perché con essa possiamo vivere nel rispetto dei veri valori morali e religiosi.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, afferma che per imparare la vera sapienza non c’è nessun mezzo efficace quanto l’ascolto attento della Parola di Dio. Essa infatti è luce che rischiara e forza che ravviva le più nascoste energie dello Spirito.
Nel Vangelo di Marco, troviamo un brano celebre, costruito sulla tensione che intercorre tra ricchezza e cristianesimo, un passo che ha fatto scrivere ai padri della Chiesa pagine incandescenti. Gesù, al giovane che gli chiedeva cosa dovesse fare per avere in eredità la vita eterna, risponde invitandolo a capire con il cuore. La sfida che ci lancia Gesù è di provare a vivere, lasciando le nostre mentalità per abbracciare lo stile del Vangelo. C’è una ricchezza che noi possediamo: è la ricchezza della nostra vita personale. Davvero siamo tutti ricchi in questo senso. Tuttavia questo dono diventa ancora più prezioso nella misura in cui diventa dono per gli altri.

Dal libro della Sapienza
Pregai e mi fu elargita la prudenza,
implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni,
stimai un nulla la ricchezza al suo confronto,
non la paragonai neppure a una gemma inestimabile,
perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia
e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza,
ho preferito avere lei piuttosto che la luce,
perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni;
nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.
Sap 7,7-11

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. E’ stato scritto in greco, caso unico in tutto l’Antico Testamento, ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo. Si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) ed è composto da 19 capitoli.
L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoèlet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele.
L’autore in questa opera si preoccupa di insegnare la vera sapienza, quella necessaria per condurre una vita retta, non quella scienza che si può acquistare vivendo e pensando, ma una sapienza che viene da Dio. Ogni sapienza divina, di fatto, ha rivelato, guidando magistralmente la storia del popolo eletto, che la vera felicità appartiene agli amici di Dio. In altre parole, non scoprono il senso della vita se non coloro cui il Signore lo rivela.
L’Autore stimolato dall’ambiente circostante, ci dona un primo abbozzo di filosofia religiosa che si unisce a una bella meditazione di fede cui la liturgia si è spesso ispirata. All’incrocio dell’Antica Alleanza e dell’ellenismo si può affermare che il libro della Sapienza prepara Giudei e Greci alla venuta di Gesù Cristo.
In questo brano, Salomone parla in prima persona per proporsi come modello di vita. Egli afferma di aver pregato e gli “fu elargita la prudenza,” implorò e venne in lui “lo spirito di sapienza”. La preferì a “scettri e a troni”, fino a stimare “un nulla la ricchezza al suo confronto.”
Poi continua nel suo elogio dicendo: “ L’ho amata più della salute e della bellezza, ho preferito avere lei piuttosto che la luce, perché lo splendore che viene da lei non tramonta” e come conseguenza afferma ancora: “Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile”
Questo brano è una rilettura sapienziale della preghiera di Salomone e del suo esaudimento da parte di Dio (1Re 3,6-13) . Il chiedere, infatti, a Dio la docilità del cuore, la capacità di rendere giustizia e di distinguere il bene dal male, equivale, come riconosce Dio stesso, a chiedere la sapienza. Solo Dio è in grado di donarla all'uomo, perché con essa possiamo vivere nel rispetto dei veri valori morali e religiosi.

Salmo 89 Saziaci, Signore, con il tuo amore: gioiremo per sempre.

Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!

Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti,
per gli anni in cui abbiamo visto il male.

Si manifesti ai tuoi servi la tua opera
e il tuo splendore ai loro figli.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda.

Il salmo illustra la condizione precaria della vita dell'uomo esposta alle sofferenze del quotidiano unitamente a quelle dei rivolgimenti storici causati per le lotte di potere. Il salmista procede con un tono sapienziale, rischiarato dalla consapevolezza della brevità dei giorni dell'uomo. Questa consapevolezza è tanto importante che egli la invoca per tutti gli uomini: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”.
La composizione del salmo molto probabilmente è avvenuta nel tempo di pace relativa quando Antioco V ridiede la libertà religiosa ad Israele (163 a.C.).
Il salmista si rivolge a Dio come rifugio di Israele. Rifugio certo, perché Dio non è una creazione dell'uomo, egli, infatti, da sempre esiste: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”; "Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato".
Il salmista ha il vivo ricordo di tracotanti superbi entrati nel tempio di Gerusalemme credendo di affermarsi su Dio: Tolomeo III e Tolomeo IV erano entrati nel tempio offrendo sacrifici ai loro dei (ca. 220-221 a.C.); Antioco IV Epifane lo saccheggiò e vi fece sacrifici a Giove (ca. 169-167 a.C).
Ma l'uomo è un nulla di fronte a Dio, che per l'antico peccato lo fa ritornare polvere (Gn 3,19): “Tu fai ritornare l'uomo in polvere”. L'ira di Dio travolge i superbi: “Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l'erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca”; “Sì, siamo distrutti dalla tua ira”; “Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera”.
L'ira di Dio è rivolta a portare l'uomo al ravvedimento. E' saggezza sapere che la collera di Dio non è una finta, ma una realtà dura che incombe sui ribelli. E' saggezza temere la collera di Dio e non sfidarla, come già fece il faraone (Es 9,30): “Chi conosce l'impeto della tua ira e, nel timore di te, la tua collera?”.
Il salmista si colloca tra tutti gli uomini, ma anche presenta fin dall'inizio la sua appartenenza ad Israele: “Signore, tu sei stato per noi un rifugio...”; e per Israele invoca pace e gioia dopo giorni e anni di afflizione: “Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!...Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti".
Commento tratta da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.
Eb 4,12-13

L’autore della Lettera agli Ebrei nei capitoli precedenti questo brano che la liturgia ci propone, aveva parlato di un riposo promesso a quanti sono stati chiamati da Dio.. Il riposo è dunque la ricompensa a quanti sono stati fedeli e che potranno riposare dalle fatiche delle loro opere compiute nella volontà di Dio. C'è però il pericolo che qualcuno pur avendo ricevuto il Vangelo non entri in questo riposo a causa della propria disobbedienza. L'esortazione dunque è quella di affrettarsi a entrare in questo riposo, perché nessuno ne venga escluso.
Il brano che abbiamo, per confermare l'assoluta efficacia della Parola, ricorre ad una immagine molto forte quando afferma: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore”.
Questi due versetti sono un capolavoro, un vero dipinto letterario..La Parola di Dio viene esaltata sottolineandone cinque caratteristiche. Le prime quattro sono ricordate a due a due: viva ed efficace, tagliente e penetrante. L’ultima caratteristica completa la qualità delle altre: è capace di discernere i sentimenti e i pensieri del cuore. L'immagine della spada, riferita alla Parola di Dio è citata altre volte nella Bibbia (Sap 18,15; Ef 6,17). La spada a doppio taglio ci dà l'idea di una inesorabile forza di penetrazione, ma il significato fondamentale della spada è quello del giudizio che con la spada si esegue la sentenza. (V. Dt 13,13-16). La sentenza di Dio è inappellabile perché nulla può rimanere nascosto ai Suoi occhi. La spada entra in profondità e arriva al punto di divisione tra l'anima e lo spirito, la spada penetra fino alla divisione degli elementi interiori e superiori che costituiscono il composto umano e la sua realtà spirituale e morale.
Poi l’autore conclude affermando : “Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”
Nessuno dunque può mentire davanti al Signore! Queste parole così forti naturalmente non devono spaventarci e bloccare le nostre azioni, perché non saranno le nostre debolezze che verranno giudicate e condannate, bensì la nostra scelta fondamentale: la fede, l’amore, l'accoglienza del Vangelo, l'ascolto della Parola e l'obbedienza alla volontà di Dio.
Come conclusione si può ancora dire che La Parola di Dio è efficace perché mette l'uomo allo scoperto, denuncia le sue ipocrisie e se l'uomo la rifiuta, si troverà a rifiutare non solo Dio, ma la verità su se stesso.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
Mc 10, 17-30

Dopo il secondo annunzio della passione, l’evangelista Marco inserisce questo episodio, conosciuto anche come la difficoltà delle ricchezze, a cui fanno seguito alcuni detti riguardanti appunto i pericoli delle ricchezze, e poi la ricompensa riservata a coloro che riescono a distaccarsene.
Il brano inizia in modo analogo al racconto della chiamata dei primi discepoli riportando che un tale corre da Gesù e, “gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?»”.
Questo personaggio manifesta con il suo comportamento di essere consapevole di trovarsi di fronte a una persona carismatica. Egli dà a Gesù subito l’appellativo di “Maestro buono” e chiede che cosa deve fare per “avere in eredità la vita eterna”. Gesù risponde mettendo in discussione proprio l’appellativo che egli gli aveva attribuito: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”. Rifiutando l’appellativo di “buono”, Gesù intende mettere in secondo piano la sua persona per portare l’attenzione su Dio stesso. A tal scopo richiama un testo della Scrittura: “Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. Gesù cita il decalogo per sommi capi, con alcuni cambiamenti significativi. Anzitutto egli, avendo già suggerito che la vita eterna si raggiunge mediante un intimo rapporto con Dio, tralascia il primo comandamento. Omette poi il secondo (non pronunziare il nome di Dio invano), in quanto potrebbe essere visto come una ripetizione dell’ottavo, e il terzo, che si riferisce a una pratica, quella del sabato, tipica del mondo ebraico. Infine posticipa il comandamento riguardante l’onore dovuto al padre e alla madre, e aggiunge “non frodare” .
Il “tale” risponde allora: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Con questa risposta egli si mette chiaramente nella categoria dei fedeli osservanti della legge. La reazione di Gesù a queste parole non è di dubbio o di critica, ma di grande apprezzamento, l’evangelista infatti osserva: “Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi”.
Lo sguardo di Gesù manifesta tutto il suo amore per lui, e in forza di questo amore Gesù dice all’uomo che gli “manca” qualcosa. La cosa che gli manca è vendere i propri beni e seguirlo, dopo averne distribuito il ricavato ai poveri. Con queste parole Gesù propone la sequela come la strada maestra per ottenere la vita eterna; la rinunzia ai propri beni in favore dei poveri è solo una premessa, nella quale però si manifesta già la dinamica del regno di Dio, nel quale i poveri sono “beati” .
Naturalmente Gesù non chiede all’uomo di diventare povero lui per arricchire i poveri, ma di ridistribuire i suoi beni a coloro che ne sono stati defraudati, dimostrando così il suo amore per loro. Con questa proposta Gesù non intende dare meno valore alla via dei comandamenti e neppure propone una via che porta a una maggiore perfezione.
Di fronte alla richiesta di Gesù la disponibilità dell’uomo viene meno: “Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni”
Quest’uomo evidentemente non se l'è sentita di accettare per questo se ne andò rattristato e deluso. L'attaccamento alla ricchezza, il timore di perdere le possibilità e la sicurezza che materialmente essa offre, smorza anche gli slanci più generosi. Un giovane di buoni principi, disposto al bene, che però non ha il coraggio di fare il passo decisivo perde la grande occasione della sua vita, l'appuntamento con la felicità vera, che viene dal cuore. Non ha saputo raccogliere il messaggio di quello sguardo d'amore.
Appena l’uomo si allontana Gesù non può nascondere la sua la delusione e commenta: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». Di fronte alla meraviglia dei discepoli, Gesù non attenua quanto ha detto ma lo ripete una seconda volta, poi aggiunge: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio” ( ) .
Questa risposta crea un senso di sbigottimento tra i discepoli, i quali si chiedono: “E chi può essere salvato?”
In queste parole traspare la preoccupazione di coloro che, pur avendo aderito a Cristo, non hanno potuto seguirlo nel cammino di una rinuncia totale ai beni materiali. Gesù non risponde direttamente, ma osserva: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio.”
Queste parole significano che, sebbene il possesso di beni materiali comporti rischi tali da rendere quasi impossibile l’ingresso nel regno di Dio, anche coloro che per motivi indipendenti dalla loro volontà non sono in grado di rinunziarvi totalmente, possono raggiungere la salvezza perché Dio può cambiare il cuore dell'uomo donandogli la libertà interiore ed esteriore dai beni materiali, purché si appoggi a Lui solo.
È questo un segnale di speranza che doveva essere particolarmente apprezzato da quei cristiani che restavano legati alla loro famiglia e al loro lavoro: anche per loro è possibile salvarsi, ma solo per un dono speciale di Dio, che consente loro di usufruire dei loro beni con cuore distaccato (S.Paolo approfondirà questo tema in 1Cor 7,29-31).
Nell’ultima parte del brano si fa avanti Pietro, per chiedere chiarimenti e osserva: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”..Egli parla a nome di quelle persone che si sentono a posto con le richieste di Gesù e pongono la domanda circa la ricompensa che ne otterranno. Gesù risponde con un principio generale: “non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”.
Le parole di Gesù sono una risposta a quelle che potevano essere le aspettative dei suoi primi discepoli.
Si può notare che Pietro usa l’espressione “lasciare-seguire” alludendo alla loro vocazione sulle sponde del lago di Tiberiade. Gesù nella Sua risposta corregge la frase di Pietro con un accostamento positivo “lasciare-ricevere”. La donazione dei pochi possedimenti terreni a Cristo non significa la loro perdita, ma la loro moltiplicazione all’infinito. Ciò che si dona, lo si trova ancora aumentato, ampliato, e trasformato. Una gioia profonda, un benessere interiore, una sicurezza e una pace inaspettata diventano “già al presente” l’eredità gioiosa di chi si è svuotato da ogni attaccamento per far irrompere in sé Gesù Cristo e il Suo Vangelo.

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“La seconda Lettura ci ha detto che «la parola di Dio è viva, efficace e tagliente» (Eb 4,12). È proprio così: la Parola di Dio non è solo un insieme di verità o un edificante racconto spirituale, no, è Parola viva, che tocca la vita, che la trasforma. Lì Gesù in persona, Lui che è la Parola vivente di Dio, parla ai nostri cuori.
Il Vangelo, in particolare, ci invita all’incontro con il Signore, sull’esempio di quel «tale» che «gli corse incontro» (cfr Mc 10,17). Possiamo immedesimarci in quell’uomo, di cui il testo non dice il nome, quasi a suggerire che possa rappresentare ciascuno di noi. Egli domanda a Gesù come «avere in eredità la vita eterna» . Chiede la vita per sempre, la vita in pienezza: chi di noi non la vorrebbe? Ma, notiamo, la chiede come un’eredità da avere, come un bene da ottenere, da conquistare con le sue forze. Infatti, per possedere questo bene ha osservato i comandamenti fin dall’infanzia e per raggiungere lo scopo è disposto a osservarne altri; per questo chiede: «Che cosa devo fare per avere?».
La risposta di Gesù lo spiazza. Il Signore fissa lo sguardo su di lui e lo ama. Gesù cambia prospettiva: dai precetti osservati per ottenere ricompense all’amore gratuito e totale. Quel tale parlava nei termini di domanda e offerta, Gesù gli propone una storia di amore. Gli chiede di passare dall’osservanza delle leggi al dono di sé, dal fare per sé all’essere con Lui. E gli fa una proposta di vita “tagliente”: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri […] e vieni! Seguimi!». Anche a te Gesù dice: “vieni, seguimi!”. Vieni: non stare fermo, perché non basta non fare nulla di male per essere di Gesù. Seguimi: non andare dietro a Gesù solo quando ti va, ma cercalo ogni giorno; non accontentarti di osservare dei precetti, di fare un po’ di elemosina e dire qualche preghiera: trova in Lui il Dio che ti ama sempre, il senso della tua vita, la forza di donarti.
Ancora Gesù dice: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri». Il Signore non fa teorie su povertà e ricchezza, ma va diretto alla vita. Ti chiede di lasciare quello che appesantisce il cuore, di svuotarti di beni per fare posto a Lui, unico bene. Non si può seguire veramente Gesù quando si è zavorrati dalle cose. Perché, se il cuore è affollato di beni, non ci sarà spazio per il Signore, che diventerà una cosa tra le altre. Per questo la ricchezza è pericolosa e – dice Gesù – rende difficile persino salvarsi. Non perché Dio sia severo, no! Il problema è dalla nostra parte: il nostro troppo avere, il nostro troppo volere ci soffocano, ci soffocano il cuore e ci rendono incapaci di amare. Perciò San Paolo ricorda che «l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10). Lo vediamo: dove si mettono al centro i soldi non c’è posto per Dio e non c’è posto neanche per l’uomo.
Gesù è radicale. Egli dà tutto e chiede tutto: dà un amore totale e chiede un cuore indiviso.
Anche oggi si dà a noi come Pane vivo; possiamo dargli in cambio le briciole? A Lui, fattosi nostro servo fino ad andare in croce per noi, non possiamo rispondere solo con l’osservanza di qualche precetto. A Lui, che ci offre la vita eterna, non possiamo dare qualche ritaglio di tempo. Gesù non si accontenta di una “percentuale di amore”: non possiamo amarlo al venti, al cinquanta o al sessanta per cento. O tutto o niente.”
Papa Francesco Omelia del 14 ottobre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica affrontano il tema del matrimonio, l’unione dell’uomo con la donna, che affonda le radici nel mistero dell’amore di Dio Creatore e Redentore.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, l’autore sacro insegna con un linguaggio simbolico che Dio ha creato l’uomo e la donna parchè costituiscano nel matrimonio un’unione indissolubile, con uguali diritti e doveri.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, afferma che Cristo Gesù “coronato di gloria e di onore” è insieme Figlio di Dio e vero uomo, nostro fratello. Egli ci ha salvato con la sua morte in croce per renderci tutti partecipi della Sua gloria.
Nel Vangelo di Marco, le frasi forti di Gesù risuonano più come appelli che come comando. Non annunciano solo un codice morale di comportamento in cui non è ammesso il divorzio, ma vogliono evidenziare i segni del tempo ultimo, del Regno di Dio che è proclamato da uno stile di fedeltà, di purezza, di accoglienza. E’ come se Gesù proponesse un superamento delle norme del tempo, per vivere già con lo spirito dell’eternità. Infatti, la elegge di Mosè ammetteva il ripudio, ma Gesù oppone a questa norma umana il piano eterno di Dio, citando il racconto della Genesi in cui l’unione di Cristo con la Chiesa, e in esso emerge la somiglianza dell’umanità con Dio che l’ha creata a Sua immagine: l’immagine dell’amore e dell’unità.

Dal libro della Genesi
Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.
Gn 2,18-24

Il libro della Genesi è il primo libro della Bibbia e il primo del Pentateuco (i cinque libri raccolti in un unico rotolo: La Torà). E’ stato scritto in ebraico e si pensa composto nell'arco di tempo che intercorre tra Salomone ed Ezechia (950-680 a.C) sebbene la tradizione ebraica e varie confessioni religiose cristiane, ritengono persino che sarebbe stato scritto da Mosè in persona nel deserto, ma è solo pura immaginazione. Nei primi 11, dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica"(creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe), le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700 a.C.). Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano, l’autore di tradizione jahvista, lo apre con il bellissimo brano della creazione della donna: il creato, meraviglioso e perfetto nella sua creazione è stato donato da Dio all'uomo per la sua felicità, ma l'uomo non riusciva ad essere felice. Dio allora rivede quello che aveva fatto e disse: “«Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda». Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo”. E quando l'uomo la vide finalmente poté esclamare: “«Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta».”
Il racconto termina con la frase: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.” Infatti l'uomo e la donna lasciano i propri genitori per aderire l'uno all'altra perché Dio ha voluto partner uguali e complementari, chiamati a formare una cosa sola.
Il simbolismo della costola, la figura insostituibile della donna, la complementarietà dei due sessi, qui celebrate con lo stupore dell’uomo innamorato che eleva al cielo il primo ed eterno canto d’amore: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” hanno come scopo di sottolineare l’uguaglianza tra i due esseri e il fine per cui Dio li ha creati: l’amore. E’ per amore che essi abbandoneranno la loro casa per formare una sola carne, cioè un solo essere, e per donare, con Dio, la vita.

Nota: Nel Pentateuco si rilevano tre tradizioni compositive: quella jahvista, quella elohista e quella sacerdotale. La tradizione jahvista ebbe origine nella Giudea, mentre quella elohista nel nord della Palestina. Le due tradizioni convergono sostanzialmente sulla stessa storia, della tradizione jahvista ed elohista fanno parte del disegno divino di giungere al testo biblico e vanno considerate come ispirate. Le due tradizioni cominciarono a confluire in un unico patrimonio al tempo della costruzione del tempio di Salomone, centro religioso fondamentale sia del regno di Giuda che del regno di Israele (il regno del Nord). L’unificazione delle tradizioni jahvista ed elohista fu opera della tradizione sacerdotale.

Salmo 127 Ci benedica il Signore tutti i giorni della nostra vita.
Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.

La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.

Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.

Il salmo ammonisce che senza il Signore non è possibile la sicurezza e il benessere: “Se il Signore non costruisce...”.
Si costruiscono case, le mura delle città sono custodite da armati, ferve il lavoro nei campi, ma manca un vivo orientamento a Dio.
Si lavora intensamente, con affanno, per avere ricchezza, ma Dio ne darebbe senza tutto quell'affannarsi, se si fosse uniti a lui: “Al suo prediletto egli lo darà nel sonno”.
L'affanno per la ricchezza porta a diminuire il tempo dato ai figli per formarli. Essi sono dono di Dio, e perciò dono che va amato, rispettato, accudito, fatto fiorire. “I figli avuti in giovinezza” il padre li può formare, unitamente alla madre, con tutto se stesso, con la piena vivacità delle sue forze, e si troverà ad essere giovane coi figli giovani, senza pesante salto d'età.
L'avara soluzione di diminuirne il numero dei figli non solo va contro l'interesse di una comunità (Il salmo guarda alla ripopolazione della Palestina dopo il ritorno dall'esilio a Babilonia), ma anche contro quello individuale; infatti i numerosi figli avuti nella giovinezza sono poi la sicurezza del padre: “Non dovrà vergognarsi quando verrà alla porta a trattare con i propri nemici”. I “propri nemici” non potranno sgretolarne il morale facendolo sentire solo, senza appoggio, e chi lo attacca non potrà rimproveralo di non avere saputo dare vigore, forza, ideale, ai propri figli.
Il salmo a noi uomini del terzo millennio ci dice che i figli sono dono di Dio, sono un talento che va fatto fruttificare con ogni cura. I figli non basta vestirli, scaldarli, nutrirli e mandarli a scuola, per poi parcheggiarli davanti al televisore e ai giochi. E non ci si può sentire a posto di fonte ai figli adolescenti per aver dato loro una buona cifretta da spendere con gli amici, secondo disegni liberamente elaborati tra di loro.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti.
Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli.
Eb 2,9-11

L’ autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravvivare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
Questo brano, tratto dalla prima parte della lettera, inizia affermando: “quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti”.
Gesù in quanto uomo rispetto agli angeli è di poco inferiore, ma in quanto uomo, realizza la vera vocazione dell'uomo, superandone i limiti e il peccato. Lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. L'amore di Gesù si afferma in tutta la sua potenza nella sofferenza. Cristo scelse l'obbedienza a Dio attraverso l'amore per gli uomini, conquistandoli
“Conveniva infatti che Dio – per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria – rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza”.
Conveniva, ossia era proprio necessario, che Dio facesse passare attraverso la sofferenza il proprio Figlio, e questa sofferenza lo ha portato ad essere perfetto. La perfezione che l'uomo non ha potuto raggiungere con le sue forze, la raggiunge Cristo. Non si tratta solo di una perfezione morale, bensì di tutto il Suo essere, e proviene da una forte comunione con il Padre. Gesù è stato capace di compiere fino in fondo la Sua missione ed è diventato il capo che guida l'umanità alla salvezza.
“Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli”.
Dio conduce molti figli alla gloria. Il primo è Gesù, ma poi seguono tutti gli altri sulla via da Lui tracciata. Tutti provengono da Dio e a Dio ritornano. Ecco perché veniamo chiamati fratelli. Nonostante le nostre infedeltà, le nostre imperfezioni abbiamo un futuro, una meta di santità verso cui guardare.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro:«Che cosa vi ha ordinato Mosè?».
Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono.
Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva,imponendo le mani su di loro.
Mc 10,2-16

In questo brano l'evangelista Marco ci presenta Gesù mentre si reca nel territorio della Giudea oltre il Giordano, fuori perciò dalla Palestina, nella regione ad oriente del Giordano ( La Perea). E’ circondato da una grande folla composta da gente comune, ma anche da quei farisei che, non certo per trarre beneficio dal Suo insegnamento, vogliono solo fargli domande-trabocchetto nel tentativo di coglierlo in fallo.
I farisei si presentano dunque a Gesù con il chiaro intento di metterlo alla prova e gli “domandavamo se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie”.
Secondo la legislazione mosaica era lecito al marito (e a lui soltanto) allontanare la propria moglie nel caso avesse trovato in lei “qualcosa di vergognoso”; egli però doveva darle un documento di divorzio (Dt 24,1-4), in modo che lei poteva unirsi a un altro uomo senza essere considerata adultera.
Per tutta risposta Gesù chiede: “Che cosa vi ha ordinato Mosè?”. Ed essi rispondono: “Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla”.
Chiaramente la loro risposta si basa su quanto prescrive il Deuteronomio sul divorzio (c.24) . Gesù allora soggiunge: “Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma”.
Questa disposizione non è dunque da Dio, ma da Mosè, il quale ha permesso ciò non per sua libera decisione, ma “per la durezza del loro cuore” cioè per adattarsi alla mancanza di amore in cui l’uomo è venuto a trovarsi a causa del peccato (v. Ez 36,26). Poi dà la sua spiegazione: “Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola”.
Dio ha creato l’uomo e la donna come due esseri uguali e complementari e li ha chiamati ad unirsi in modo talmente completo da formare quasi un’unica persona (carne) (Gen 2,24).
Da queste citazioni della Torah Gesù dà questa conclusione: “Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. In tal modo Egli sottolinea che, in realtà, secondo il piano originario di Dio, l’uomo e la donna sono chiamati a raggiungere nel matrimonio un’unione totale. Perciò conclude che l’uomo non può separare ciò che Dio ha unito in un modo così perfetto. Secondo il piano divino il matrimonio è dunque indissolubile, e nessuno può separare coloro che sono stati uniti in questo modo.
L’evangelista poi nota che “A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento”, e Gesù precisa: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”.
Vengono così sottolineate due cose: anzitutto l’uomo commette adulterio verso la propria moglie solo se, dopo averla ripudiata, si risposa. Dal quanto scritto possiamo dedurre che non è tanto la separazione che conta, quanto piuttosto un secondo matrimonio della persona divorziata: solo facendo questo passo uno reca offesa al vincolo precedente; quindi se da una parte si riafferma la legalità del vincolo, dall’altra si accetta, in contrasto con quanto era stato detto prima, che due coniugi possono separarsi se la loro unione per un grave motivo non funziona. Si afferma anche che la stessa regola vale sia per l’uomo che per la donna. Uomo e donna sono su un piano di parità: questa precisazione era opportuna in una società, come quella romana, in cui anche le donne avevano la facoltà di divorziare.
Dopo la discussione sul divorzio l’evangelista racconta che a Gesù “presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono”. Ma Gesù interviene affinché i discepoli non impediscano ai bambini di andare da lui e afferma “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”
L’episodio dei bambini – a proposito dei quali è solo Marco ad annotare l’affetto umano di Gesù:”Lasciate che i bambini vengano a me…” evidenzia una completa divergenza tra Gesù e i discepoli nell'idea che si erano fatti della Sua missione.
I Suoi discepoli devono ancora imparare che il regno di Dio non è in mano alle persone che contano, che le preferenze di Dio sono rivolte a coloro che sono considerati insignificanti, che non hanno cioè valore giuridico, come i bambini, a coloro che sanno attendere e accogliere tutto da Lui, senza pretese, alla maniera dei piccoli. La reazione severa di Gesù, dà ragione alla spontaneità dei bambini e dei loro genitori e torto alla limitatezza dei discepoli.

 

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“Il Vangelo di questa domenica ci offre la parola di Gesù sul matrimonio.
Il racconto si apre con la provocazione dei farisei che chiedono a Gesù se sia lecito a un marito ripudiare la propria moglie, così come prevedeva la legge di Mosè. Gesù anzitutto, con la sapienza e l’autorità che gli vengono dal Padre, ridimensiona la prescrizione mosaica dicendo: «Per la durezza del vostro cuore egli – cioè l’antico legislatore – scrisse per voi questa norma» . Si tratta cioè di una concessione che serve a tamponare le falle prodotte dal nostro egoismo, ma non corrisponde all’intenzione originaria del Creatore.
E qui Gesù riprende il Libro della Genesi: «Dall’inizio della creazione (Dio) li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola» . E conclude: «Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
Nel progetto originario del Creatore, non c’è l’uomo che sposa una donna e, se le cose non vanno, la ripudia. No. Ci sono invece l’uomo e la donna chiamati a riconoscersi, a completarsi, ad aiutarsi a vicenda nel matrimonio.
Questo insegnamento di Gesù è molto chiaro e difende la dignità del matrimonio, come unione di amore che implica la fedeltà. Ciò che consente agli sposi di rimanere uniti nel matrimonio è un amore di donazione reciproca sostenuto dalla grazia di Cristo. Se invece prevale nei coniugi l’interesse individuale, la propria soddisfazione, allora la loro unione non potrà resistere.
Ed è la stessa pagina evangelica a ricordarci, con grande realismo, che l’uomo e la donna, chiamati a vivere l’esperienza della relazione e dell’amore, possono dolorosamente porre gesti che la mettono in crisi. Gesù non ammette tutto ciò che può portare al naufragio della relazione. Lo fa per confermare il disegno di Dio, in cui spiccano la forza e la bellezza della relazione umana.
La Chiesa, da una parte non si stanca di confermare la bellezza della famiglia come ci è stata consegnata dalla Scrittura e dalla Tradizione; nello stesso tempo, si sforza di far sentire concretamente la sua vicinanza materna a quanti vivono l’esperienza di relazioni infrante o portate avanti in maniera sofferta e faticosa.
Il modo di agire di Dio stesso con il suo popolo infedele – cioè con noi – ci insegna che l’amore ferito può essere sanato da Dio attraverso la misericordia e il perdono. Perciò alla Chiesa, in queste situazioni, non è chiesta subito e solo la condanna. Al contrario, di fronte a tanti dolorosi fallimenti coniugali, essa si sente chiamata a vivere la sua presenza di amore, di carità e di misericordia, per ricondurre a Dio i cuori feriti e smarriti.
Invochiamo la Vergine Maria, perché aiuti i coniugi a vivere e rinnovare sempre la loro unione a partire dal dono originario di Dio.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 7 ottobre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a farci comprendere che Dio è essenzialmente libero nel concedere i Suoi doni, Egli agisce al di fuori dei nostri schemi mentali (altrimenti non sarebbe Dio) e delle strutture consacrate, concedendo i suoi doni a chi vuole e come vuole.
Nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri, Giosuè va da Mosè per informarlo che due uomini, che non appartengono alla classe sacra dei 70 responsabili d’Israele, si sono messi a profetizzare, pervasi dallo spirito di Dio. Ma Mosè, nel commentare “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore….” riconosce l’importanza della docilità allo Spirito di Dio, che soffia dove vuole, come vuole e su chi vuole…”
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo avverte con fermezza i ricchi che dovranno subire il giudizio di Dio, in modo speciale se i beni sono ottenuti dallo sfruttamento dei lavoratori.
Nel Vangelo di Marco, Gesù replica a Giovanni, che gli riferiva che qualcuno a suo nome scacciava i demoni, di non impedirglielo… perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Ciò vuol dire che tutti coloro che non scelgono il male, ma si consacrano al bene e alla promozione umana e spirituale dell’uomo, qualunque sia la loro sigla o la loro bandiera, sono già al fianco di Cristo. Gesù dà poi una serie di istruzioni sulla fedeltà del discepolo, pronto a tagliare via tutto ciò che può impedirgli di essere un vero cristiano. Ci sono espressioni volutamente forti, proprio per indicare la decisione unica per Cristo, davanti al quale tutto perde di importanza.
L’autentico apostolo deve provare sentimenti di gioia per il bene che è seminato in ogni uomo, in ogni cultura e razza, perchè è convinto del valore del pluralismo e del dialogo. La tentazione settaria che vuole monopolizzare Dio, in un gruppo è anche una degenerazione della fede, anche se si illude di conservarne la purezza.

Dal libro dei Numeri
In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento.
Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».
Nm 11,25-29

Il libro dei Numeri, il quarto libro della Bibbia, è stato scritto in ebraico e, secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. La tradizione ebraica e varie confessioni religiose cristiane, ritengono persino che sarebbe stato scritto da Mosè in persona, ma la maggioranza degli esegeti moderni ritiene che tutto il Pentateuco sia in realtà una raccolta, formatasi in epoca post-esilica, di vari scritti di epoche diverse. “Numeri” è il titolo che l'antica traduzione greca ha dato a questo libro perchè contiene elenchi e censimenti degli Israeliti in cammino verso la "Terra promessa". È composto da 36 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.). Infatti molti eventi del Libro avvengono nel deserto, principalmente tra il secondo ed il quarantesimo anno del vagabondare degli Israeliti. I primi 25 capitoli riportano le esperienze della prima generazione d’Israele nel deserto, mentre il resto del libro descrive le esperienze della seconda generazione.
Il brano inizia narrando che il Signore scese nella nube e ancora una volta parla a Mosè “tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito.” Lo spirito qui è visto come un’azione più o meno permanente di Dio sul soggetto scelto; un’azione che trasforma l’uomo in profeta, anche se in tempo limitato. Lo spirito che è su Mosè passa sui settanta; essi dunque partecipano del dono di Mosè, ma in grado subordinato perché “non lo fecero più in seguito”. Il testo prosegue precisando: “Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento.”
I due uomini che non erano andati alla tenda del convegno, ma erano scritti nella lista, si misero dunque anch’essi a profetare. Giosuè viene informato da un giovane che due uomini qualsiasi, senza appartenere alla classe sacra dei 70 responsabili d’Israele e senza avere investiture ufficiali si sono messi a profetizzare, pervasi dallo Spirito di Dio.
Giosuè preoccupato, chiede «Mosè, mio signore, impediscili!». La risposta di Mosè centra subito la “gelosia” e il potere egoistico che è tipico di tutte le sètte e i movimenti integralistici : “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!». Nessuna istituzione, benché di origine divina, può impedire dunque allo Spirito di soffiare dove vuole e come vuole.
Riferendosi a questo episodio la Chiesa definisce locuzione interiore il rapporto che nasce tra il cuore dell'uomo e l'ascolto della parola di Dio. È di fondamentale importanza il silenzio interiore per arrivare a questa realtà.
Il teologo A.Tanquerey definisce il fenomeno cosi: "la locuzione interiore è una manifestazione divina sotto forma di parola intesa dai sensi esterni ed interni o direttamente dall'intelletto umano. Esse sono parole o di Gesù o della Madonna o dello Spirito Santo chiarissime, avvertite dalla persona che le riceve come se nascessero dal cuore, e che, collegate fra loro, formano un messaggio“.

Salmo 18 - I precetti del Signore fanno gioire il cuore.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Anche dall’orgoglio salva il tuo servo
perché su di me non abbia potere;
allora sarò irreprensibile,
sarò puro da grave peccato.

Il salmista si esprime considerando, in stato di riflessione laudante, la grandezza, la potenza, la bellezza dei cieli, della volta stellata……..
Il Creatore dell’universo ha stretto alleanza con il suo popolo dando una legge che è perfetta, perché non può ricevere appunti, e che rinfranca il cuore liberandolo dalle tenebre dell’ingiustizia. Questa legge d’amore è portata al suo vertice dal Cristo che la stampa nel cuore dei suoi dando loro lo Spirito Santo.
La legge, portata a compimento da Cristo, è la testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini. Tale testimonianza, che è stata sigillata dal sangue di Cristo, non delude. Essa è verace, luminosa, e rende saggio colui che non si presenta a Dio col vizio di pensieri oscuri.
Il salmista ha sperimentato nella sua vita quanto sia giusta la legge del Signore, tanto che fa gioire il cuore.
La legge, i suoi comandi, sono limpidi, perché non oscurano gli occhi portandoli a veder in modo malvagio le cose, ma li liberano dalle oscurità per dare loro la capacità di un luminoso vedere la bellezza delle cose,che inneggiano al Creatore e servono l’uomo.
“Il timore del Signore è puro”, perché non è come quello di chi teme la punizione perché colpevole, ma è il timore puro di chi teme di giungere a rattristare Dio con la disobbedienza alla legge d’amore verso lui e verso gli altri.
Il salmista comincia a focalizzarsi sull’effetto della legge su di lui; di lui che è piccolo, ma che è istruito dai giudizi di Dio, che sono contenuti nella legge, poiché Dio giudica gli uomini con quella legge.
Il salmista è consapevole di avere tante mancanze di cui non si rende pienamente conto: le “inavvertenze”. Di queste chiede a Dio perdono. Egli, infatti, anche se osserva la legge non reputa per niente di osservarla perfettamente e sa che sta nell’orgoglio la ragione di una scarsa osservanza. Orgoglio che se non dominato conduce l’uomo al grande peccato, cioè al peccato di una grande e palese disobbedienza alla legge.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”i

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni
Ecco il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza.
Gc 5,1-6

Questo brano tratto dal capitolo 5 della lettera di Giacomo ci stupisce perchè ha espressioni violente, che troviamo sin dal primo versetto: “Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco….“
Il linguaggio che viene usato ricorda quello degli antichi profeti, quando si scagliavano contro i misfatti della classe dirigente e benestante che angariavano e calpestavano i poveri.
Questa invettiva che Giacomo scaglia contro i ricchi, si riferisce ai loro beni a cui hanno consacrato la loro vita. E’ un linguaggio palesemente metaforico per indicare l’inutilità di questi beni e tutta la loro inconsistenza, poiché tutto ciò che è posto in questa nostra dimensione di spazio-tempo è soggetto ad essere inevitabilmente consumato e distrutto.
Giacomo rimprovera poi il loro comportamento improntato alla più profonda malvagità e superficialità del vivere defraudando i lavoratori del loro giusto salario, condannando e uccidendo così il giusto, che non è nella condizione di opporre loro resistenza.
Possiamo però anche dire che i destinatari non sono solo i cosiddetti ricchi, perché se ci pensiamo bene, tutti noi, quando siamo smaniosi di “avere”, di “possedere”, teniamo in gran conto le nostre ricchezze (tante o poche che siano) come il bene principale, il tesoro della nostra vita: un tesoro che ci costa fatica volerlo condividere con gli altri. La linea di confine tra ricchi e poveri non passa attraverso le differenze sociologiche, perché ci sono (e ci sono sempre stati, anche ai tempi di Gesù) ricchi dal cuore aperto a condividere tutto, veramente poveri nello spirito, ma anche poveri sulla carta, che sono smaniosi di possesso e che, ottenuto qualche bene di fortuna, o qualche eredità, sono del tutto recalcitranti ad aiutare gli altri.
Come deve comportarsi il vero cristiano? La parabola dell’uomo ricco che Gesù aveva raccontato è quanto mai efficace. Questo uomo ricco, aveva fatto un raccolto così grande che la sua preoccupazione era solo di ingrandire i magazzini per poterci raccogliere meglio tutti i suoi beni “Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio” Lc 12,20
Ricordiamoci che siamo solo amministratori dei nostri beni e non possessori, che tutto ci è stato dato in prestito, anche la vita, che dobbiamo restituire al nostro Creatore, con i talenti che ci ha dato, messi a frutto.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
Mc 9.38-43,45,47-48

Anche questo brano del Vangelo di Marco, fa parte della raccolta che l’Evangelista ha inserito dopo il secondo dei tre annunzi di Gesù della Sua morte e risurrezione.
Ci troviamo a Cafarnao, nella casa in cui Gesù è giunto con i suoi discepoli, e Giovanni riferisce a Gesù un fatto capitato poco prima: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Giovanni è il figlio di Zebedeo, uno dei primi quattro che Gesù ha scelto (V. Mc 1,19). Con suo fratello Giacomo si distingue dagli altri per la sua ambizione e per la sua passione, che gli ha guadagnato il titolo di “figlio del tuono” (3,17; cfr. Lc 9,54-55). Questa è l’unica volta in cui egli parla a nome di tutto il gruppo dei discepoli.
La pratica di scacciare i demòni nel nome di un personaggio particolarmente autorevole era consueto nel giudaismo. Non sorprende quindi il fatto che certi esorcisti, pur non essendo della cerchia di Gesù, si servissero del suo nome per le loro pratiche: un episodio simile capitò anche a Paolo mentre si trovava a Efeso (V. At 19,13).
Giovanni dunque intende impedire l’attività dell’uomo perché, dice, “non ci seguiva” cioè non era membro del loro gruppo. Questo è l’unico punto nel N.T. in cui si parla di seguire non Gesù, ma il gruppo dei discepoli, per cui è possibile che questa espressione faccia parte del linguaggio della prima comunità cristiana, nella quale era forte la tendenza a sentirsi depositaria esclusiva del nome di Gesù e dei Suoi poteri soprannaturali.
Il racconto è collegato al noto episodio riportato dal Libro dei Numeri, che la Liturgia ce lo propone nella prima lettura, e come Mosè, anche Gesù respinge la richiesta che gli è stata fatta: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi”.
Gesù ridimensiona le pretese di Giovanni e dei suoi discepoli. Compiere i miracoli nel nome di Gesù è come aver riconosciuto la Sua autorità, è già essere stati illuminati dallo Spirito Santo (lo dirà anche Paolo:"Nessuno può dire Gesù è il Signore se non sotto l'azione dello Spirito Santo”, 1Cor 12,3). La comunità dei credenti in Cristo è molto più grande del ristretto gruppo dei discepoli e Gesù invita i Suoi a non rinchiudersi in una mentalità chiusa e settaria.
Viene poi riportato un detto che si colloca sulla stessa linea: “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa” perciò anche senza appartenere al gruppo dei discepoli, è sufficiente un gesto di amicizia e di solidarietà nei loro confronti per ottenere la “ricompensa” a loro riservata. I discepoli non possono quindi pretendere di avere l’esclusiva della salvezza portata dal loro Maestro!.
Poi viene riportata un piccola raccolta di detti incentrata sul tema dello scandalo e delle sue conseguenze.
Nel primo detto Gesù afferma:
“Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare.”.Queste parole sono riferite ad una comunità divisa, in cui i piccoli, cioè i cristiani più deboli e impreparati, possono essere indotti da altri, più liberi, progressisti e intellettuali, a commettere azioni contrarie alla loro coscienza e quindi a peccare . La frase, chiaramente esagerata, mette in luce la gravità di gesti sconsiderati, che possono portare il prossimo a comportarsi in modo contrario alla volontà di Dio.
Nei detti successivi viene ripreso il tema dello scandalo, mediante tre esempi:
”Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile.
E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue”.
Si può intendere questo discorso in due modi: o lo scandalo che viene dato da un membro della comunità, oppure le azioni o le situazioni della vita di una singola persona che la possono scandalizzare, ossia farla rinunciare alla fede.
Nel primo caso la persona che dà scandalo alla comunità deve esserne allontanata decisamente. La stessa decisione deve essere utilizzata da ogni singola persona davanti a ciò che può far vacillare la propria fede. Il vero scandalo nasce dalle nostre azioni, dai nostri desideri, ecco perché Gesù parla di mano, piede ed occhio.
Secondo la mentalità ebraica le parti del corpo sono la sede dei diversi istinti umani. La mano in particolare è la sede delle azioni, molto spesso la mano viene descritta nel versare sangue innocente (Sir 6,18). La Geenna era la valle di Hinnon, a sud di Gerusalemme, di cui si parla già in Giosuè (15,8). All'epoca dei re Ahas e Manasse, la zona cadde in discredito poiché vi si sacrificavano figli e figlie agli dei, "facendoli passare per il fuoco" (2Re 23,10). Poiché la contaminazione veniva considerata troppo grande, la zona fu poi adibita a inceneritore per i rifiuti e le carogne degli animali. Era opinione comune che in questa "fossa maledetta" ci sarebbe stato il castigo finale. Quindi era meglio perdere una parte sola del corpo piuttosto che perdere tutto il corpo e tutta l'anima nel fuoco del giudizio finale.
Lo stesso discorso vale per il piede, inteso nel senso delle vie sbagliate che una persona può intraprendere.
Infine viene preso in considerazione l'occhio. Nella Bibbia si parla di occhi superbi e insaziabili (Sir. 6,17; 27,22). L'occhio esprime il desiderio della persona, quando guarda una cosa o una persona insistentemente per farla propria. Anche per l'occhio perciò vale lo stesso discorso,
Infine l’affermazione finale “dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue” trova riscontro nel versetto che chiude il Libro di Isaia (66,24), che contiene una profezia per l'avvenire , in cui Isaia prevede nuovi cieli e nuova terra, in cui tutti i popoli aderiranno al Signore, saliranno al tempio del Signore (a Gerusalemme) e lo adoreranno. Uscendo dal tempio vedranno coloro che si sono ribellati a Dio soffrire il supplizio continuo del verme e del fuoco..
Le due immagini del verme e del fuoco sono molto usate nell'Antico Testamento per indicare il castigo di chi non accetta il Signore e come simbolo di dissoluzione. Il verme è l'agente di decomposizione del corpo umano e il fuoco veniva utilizzato spesso per la distruzione dei cadaveri.
Questi detti, che Matteo riporta con sfumature diverse, nel contesto del discorso della Montagna (V. Mt 5,29-30), sono molto antichi e mettono bene in luce la radicalità delle scelte che Gesù richiedeva ai suoi discepoli.
Chiaramente Gesù non esige dai suoi che siano perfetti, ma piuttosto che sappiano ritornare sempre a ciò che costituisce il fulcro del suo messaggio, senza scendere a compromessi con la mentalità di questo mondo.

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“Il Vangelo di questa domenica ci presenta uno di quei particolari molto istruttivi della vita di Gesù con i suoi discepoli. Questi avevano visto che un uomo, il quale non faceva parte del gruppo dei seguaci di Gesù, scacciava i demoni nel nome di Gesù, e perciò volevano proibirglielo. Giovanni, con l’entusiasmo zelante tipico dei giovani, riferisce la cosa al Maestro cercando il suo appoggio; ma Gesù, al contrario, risponde: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi».
Giovanni e gli altri discepoli manifestano un atteggiamento di chiusura davanti a un avvenimento che non rientra nei loro schemi, in questo caso l’azione, pur buona, di una persona “esterna” alla cerchia dei seguaci. Invece Gesù appare molto libero, pienamente aperto alla libertà dello Spirito di Dio, che nella sua azione non è limitato da alcun confine e da alcun recinto. Gesù vuole educare i suoi discepoli, anche noi oggi, a questa libertà interiore.
Ci fa bene riflettere su questo episodio, e fare un po’ di esame di coscienza. L’atteggiamento dei discepoli di Gesù è molto umano, molto comune, e lo possiamo riscontrare nelle comunità cristiane di tutti i tempi, probabilmente anche in noi stessi. In buona fede, anzi, con zelo, si vorrebbe proteggere l’autenticità di una certa esperienza, tutelando il fondatore o il leader dai falsi imitatori. Ma al tempo stesso c’è come il timore della “concorrenza” – e questo è brutto: il timore della concorrenza –, che qualcuno possa sottrarre nuovi seguaci, e allora non si riesce ad apprezzare il bene che gli altri fanno: non va bene perché “non è dei nostri”, si dice. E’ una forma di autoreferenzialità. Anzi, qui c’è la radice del proselitismo. E la Chiesa – diceva Papa Benedetto - non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, cioè cresce per la testimonianza data agli altri con la forza dello Spirito Santo.
La grande libertà di Dio nel donarsi a noi costituisce una sfida e una esortazione a modificare i nostri atteggiamenti e i nostri rapporti. È l’invito che ci rivolge Gesù oggi. Egli ci chiama a non pensare secondo le categorie di “amico/nemico”, “noi/loro”, “chi è dentro/chi è fuori”, “mio/tuo”, ma ad andare oltre, ad aprire il cuore per poter riconoscere la sua presenza e l’azione di Dio anche in ambiti insoliti e imprevedibili e in persone che non fanno parte della nostra cerchia. Si tratta di essere attenti più alla genuinità del bene, del bello e del vero che viene compiuto, che non al nome e alla provenienza di chi lo compie. E – come ci suggerisce la restante parte del Vangelo di oggi – invece di giudicare gli altri, dobbiamo esaminare noi stessi, e “tagliare” senza compromessi tutto ciò che può scandalizzare le persone più deboli nella fede.
La Vergine Maria, modello di docile accoglienza delle sorprese di Dio, ci aiuti a riconoscere i segni della presenza del Signore in mezzo a noi, scoprendolo dovunque Egli si manifesti, anche nelle situazioni più impensabili e inconsuete. Ci insegni ad amare la nostra comunità senza gelosie e chiusure, sempre aperti all’orizzonte vasto dell’azione dello Spirito Santo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 30 settembre 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci invitano ad un discernimento e a una scelta: quale sapienza vogliamo abbracciare? Quella del mondo o quella del Vangelo?
Nella prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, l‘autore, nel ragionamento degli empi, nel quale appare chiaro quanto essi sragionino e sbagliano, ci dà, come in controluce, l'identità luminosa del giusto, prefigurazione dell'identità salvifica del Giusto per eccellenza, Gesù di Nazareth.
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo afferma che il vero sapiente è colui che si prodiga per la pace. e che cerca con tutte le proprie forze il Dio che l'ama e a Lui si dona. Lo cerca in semplicità come il Bene supremo da cui derivano tutti gli altri beni.
Nel Vangelo di Marco, troviamo il secondo annuncio della passione. Anche questa volta l’evangelista evidenzia la resistenza da parte dei discepoli nel comprendere la missione di Gesù. Dopo il primo annuncio era stato Pietro ad opporre resistenza, oggi è l’intero gruppo che discute su chi fosse il più grande Mentre Gesù annuncia di farsi servo di tutti fino alla Croce, i discepoli discutevano chi tra loro fosse il più grande!
Gesù ci insegna che non nell’affermazione del potere, ma nell’umile servizio dei fratelli, soprattutto dei piccoli, come i bambini, sta la grandezza del cristiano.

Dal Libro della Sapienza
Dissero gli empi:
«Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo
e si oppone alle nostre azioni;
ci rimprovera le colpe contro la legge
e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta.
Vediamo se le sue parole sono vere,
consideriamo ciò che gli accadrà alla fine.
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto
e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti,
per conoscere la sua mitezza
e saggiare il suo spirito di sopportazione.
Condanniamolo a una morte infamante,
perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
Sap 2,12.17-20

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, (anche allora ci si ricorreva) per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco ed è composto da 19 capitoli con vari detti di genere sapienziale, in particolare con l'esaltazione della Sapienza divina personificata.
L‘autore nel capitolo 2, da dove è tratto il nostro brano, affronta seriamente il problema di che cosa siamo e che cosa rimarrà di noi dopo la morte, ponendo ipotetiche questioni, poi in questo brano, ipotizza il ragionamento degli empi: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta”, in cui appare chiaro quanto essi sragionino e sbagliano. Il motivo del loro odio è la persona stessa del giusto, che con la sua debolezza e mitezza, ma soprattutto, la sua vita condotta in modo diverso, costituisce per loro, da sola, un rimprovero e una condanna. “Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine. Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Il libro della Sapienza, scritto almeno 50 prima di Gesù, non poteva riferirsi immediatamente a Lui, ma al giusto che accoglie la parola di Dio che a quel tempo veniva considerato figlio di Dio. Questo valeva per tutti i popoli, e per tutte le religioni. Solo dopo inizierà la fase della "nuova alleanza" con Gesù, che sarà il modello della figliolanza, per cui siamo chiamati a diventare figli in Lui. Prima i giusti erano comunque figli di Dio.
Il testo continua riportando il loro piano di come metterlo alla prova : “Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione” fino alla soluzione sprezzante finale “Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
E’ evidente come i primi cristiani leggendo questo passo hanno trovato un aiuto in più per capire la morte di Gesù, le sue scelte, la fedeltà all'annuncio del vangelo in una situazione di rifiuto e di rischio di morte.
Per concludere, non dobbiamo però pensare che la sofferenza sia una prova che Dio esige perché Lui ci conosce più di quanto noi conosciamo noi stessi, e non ha bisogno di nessuna prova, per cui non è necessario dover soffrire per essere giusti. Il Signore ci chiede solo di non stancarci mai di camminare nella direzione del bene, per questo è necessario chiederci sempre quali siano le ragioni delle nostre scelte, anche quando operiamo il bene.
C’è uno scritto di Thomas Merton che ci può essere di aiuto anche come preghiera:
« Io, Signore Iddio, non ho nessuna idea di dove sto andando. Non vedo la strada che mi sta davanti.
Non posso sapere con certezza dove andrò a finire. Secondo verità, non conosco neppure me stesso e il fatto che penso di seguire la tua volontà non significa che lo stia davvero facendo.
Ma sono sinceramente convinto che in realtà ti piaccia il mio desiderio di piacerti e spero di averlo in tutte le cose, spero di non fare mai nulla senza tale desiderio. So che, se agirò così, la tua volontà mi condurrà per la giusta via,quantunque io possa non capirne nulla. Avrò sempre fiducia in te, anche quando potrà sembrarmi di essere perduto e avvolto nell'ombra della morte.

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Salmo 53 Il Signore sostiene la mia vita.

Dio, per il tuo nome salvami,
per la tua potenza rendimi giustizia.
Dio, ascolta la mia preghiera,
porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.

Poiché stranieri contro di me sono insorti
e prepotenti insidiano la mia vita;
non pongono Dio davanti ai loro occhi.

Ecco, Dio è il mio aiuto,
il Signore sostiene la mia vita.
Ti offrirò un sacrificio spontaneo,
loderò il tuo nome, Signore, perché è buono.

Il salmo, molto breve, presenta un’invocazione a Dio per la salvezza contro nemici forti e arroganti. Il salmista è perseguitato a morte e chiede l’intervento di Dio: “Per la tua potenza rendimi giustizia”.
C’è nel salmo un’invocazione di maledizione sui nemici che la recitazione cristiana omette perché il cristiano rimette, come Cristo (1Pt 2,23), la sua causa a Dio senza maledire.
Il salmista sperimenta l’aiuto del Signore di fronte alla dura aggressione e promette di offrire a Dio un sacrificio, un olocausto. Un sacrificio non semplicemente rituale, ma ricco di lode al nome di Dio, cioè alla sua grandezza, potenza, fedeltà, bontà, misericordia. Dio è tutto questo ed è riconosciuto nella lode e nel ringraziamento per tutto questo. Il sacrificio che noi possiamo offrire a Dio è il nostro impegno di vita, la nostra penitenza, la quale nasce dal nostro essere in Cristo nell’unione al sacrificio Eucaristico.
Dio ha concesso al salmista, al re, la liberazione dai nemici, che può ormai guardare senza sgomento alcuno dalle mura della città. Il cristiano vince continuando ad amare; guarda dall'alto i suoi aggressori, cioè dalla sua condizione di figlio di Dio che lo fa luce posta sul candelabro della croce, guarda senza astio, né maledizione, ma con amore i suoi oppressori: “Il mio occhio ha guardato dall'alto i miei nemici”.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.
Gc 3,16-4,3

In questo brano della lettera di S. Giacomo, si può dedurre che anche ai suoi tempi, il mondo era segnato da una falsa sapienza che, non essendo quella che "viene dall'alto" (cioè da Dio), irretisce l'uomo portandolo a conseguire beni che hanno funzionalità immediate, ma solo per la vita terrena.
Il brano inizia affermando “dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera.”
La sapienza che viene dall’alto dunque “anzitutto è pura”, cioè è esente da inquinamenti terreni. E’ “pacifica”, poiché opera per la pace e non per il disordine. E’ “mite”, cioè rifugge la collera, la polemica fine a se stessa. E’ “arrendevole”, non perché sia portata ai compromessi, ma perché sa accogliere le ragioni giuste degli altri e quindi è accogliente. E’ “piena di misericordia e di buoni frutti”, poiché perdona; va oltre il peccato dell’altro per cercarne il cuore e liberalo dal peccato, e in questo ha tanti “buoni frutti”. E’ “imparziale”, cioè rifiuta i favoritismi. E’ “sincera”, cioè non risiede in un cuore falso.
“Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia”.
A chi fa “opera di pace” Dio semina “nella pace”, cioè non in un cuore instabile, un “frutto di giustizia”. Il “frutto di giustizia” è un frutto che nutre l’anima di luce e di vigore. E’ “di giustizia” poiché vive delle promesse di Dio.
“Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra?”
Giacomo, dal carattere mite qui sa essere anche irruente, ha un tomo forte, incisivo, eppure ancora dolce. “La ragione profonda dei litigi, delle guerre di vicinato o non, sta nelle passioni che travolgono una natura non guidata dallo spirito.
“Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!”
Giacomo pensa a coloro che, non ottenendo i risultati desiderati, si scagliano contro chi possiede. L’invidia toglie loro la pace e li spinge a lotte che diventano guerre.
Le comunità cristiane della diaspora giudaica alle quali Giacomo si rivolge avevano perso il vigore iniziale, e non mancavano problemi morali gravi.
“Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni“. Costoro, dominati dalle passioni, non riuscendo ad ottenere il soddisfacimento dei loro desideri mondani, non riescono neppure ad ottenere ciò che chiedono a Dio. La loro preghiera risulta infatti viziata nella domanda e nella fede, perché non mossa dall’amore, ma dalla bramosia di cose terrene.
Giacomo in sintesi ci vuole far comprendere che la persona pervasa dalla “sapienza che viene dall’alto” è una persona dal cuore retto, libero da ogni ipocrisia, che cerca con tutte le proprie forze il Dio che l'ama e a Lui si dona. Lo cerca in semplicità come il Bene supremo da cui derivano tutti gli altri beni.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Mc 9, 30-37

Questo brano del Vangelo di Marco, che fa parte della sezione in cui si descrive il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, si apre nel punto in cui viene riportato il secondo annunzio della passione.
L’evangelista inizia cosi il suo racconto: “Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
Gesù predice per la seconda volta la Sua morte e risurrezione in una breve apparizione in Galilea, durante la quale cerca di mantenere segreta la Sua presenza. Quanto Gesù dice circa i tragici eventi che lo aspettano è presentato da Marco non come un semplice preannuncio di un evento futuro, ma come un vero e proprio “insegnamento” fatto ai discepoli e per mezzo loro a tutti i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo.
L’espressione “consegnare nelle mani” è di solito usata per indicare l’atto con cui una persona è data in balìa di un potere nemico. Con essa di solito viene descritta la situazione dei giusti perseguitati descritta da Geremia (26,24), e soprattutto quella del Servo di JHWH (V. Is 53,6.12). Gesù aggiunge che, a seguito di ciò, gli sarà riservata una morte violenta, ma predice nuovamente anche la Sua risurrezione che avverrà dopo tre giorni, Questa predizione, come le altre due, rivela la determinazione con cui Gesù compie le Sue scelte, sapendo a cosa andrà incontro, ma che solo così potrà portare a compimento il Suo progetto.
Al termine l’evangelista sottolinea: “Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo”.
Ancora una volta emerge l’incomprensione da parte dei discepoli, i quali non hanno neanche il coraggio di fargli delle domande dirette.
Subito dopo la predizione della Sua morte e risurrezione Marco riporta che “Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?»”. Il dialogo tra Gesù e i discepoli ha luogo dunque a Cafarnao, in una casa (si ipotizza quella di Pietro) ed è lì che Gesù chiede ai discepoli di che cosa avevano discusso “lungo la strada”.
La domanda di Gesù è accolta da un silenzio imbarazzato perché “Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande” . I discepoli sanno di aver affrontato un tema non certo gradito a Gesù, quello cioè di chi tra loro dovesse essere considerato il primo; i discepoli pensavano ancora di poter ricavare privilegi e gloria dal loro coinvolgimento nel gruppo di Gesù: essi non solo non lo avevano capito ma non erano minimamente in sintonia con Lui. Il loro imbarazzo fa percepire che cominciavano a rendersene conto.
Il racconto continua riportando l’atteggiamento di Gesù: “Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Sedendosi, Gesù assume l’atteggiamento tipico del maestro, e si rivolge espressamente ai Dodici, che hanno condiviso con Lui la missione.
Anche qui il suo insegnamento è rivolto a tutti i discepoli di ogni tempi e di ogni luogo, e in modo speciale ai capi della Chiesa. In contrasto con quanto essi pensavano, Egli afferma che chi vuole essere primo, deve farsi “ultimo di tutti e il servitore di tutti”
Il secondo detto viene accompagnato da un gesto simbolico:
“E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».”
Il gesto di Gesù è un po‘ sorprendente perché nell’antico Oriente il bambino non era molto considerato, per cui Gesù provocatoriamente capovolge la normale concezione secondo cui il bambino può essere solo oggetto di educazione da parte dell’adulto, per diventare un soggetto che ha un messaggio prezioso da trasmettere proprio a colui che gli è per età, cultura e maturità, superiore.
Questo bambino, diviene così anche l’immagine del vero seguace, cioè l’immagine del discepolo che veramente si mette a servizio degli altri.
Gesù garantisce che dove c’è un individuo che per amore, liberamente e volontariamente, si mette a servizio degli altri, in questa persona si manifesta la Sua presenza e la presenza di Gesù porta quella di Dio stesso.

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“Non si può vivere il Vangelo facendo compromessi, altrimenti si finisce con lo spirito del mondo, che punta al dominio degli altri ed è «nemico di Dio»; ma bisogna scegliere la strada del servizio.
La riflessione del Papa, nell’omelia di martedì 25 febbraio, alla messa a Casa Santa Marta, è partita dal brano del Vangelo (Mc 9, 30-37) nel quale Gesù dice ai Dodici che se uno vuole essere il primo è chiamato a farsi ultimo e servitore di tutti.
Gesù sapeva che lungo la strada i discepoli avevano discusso tra loro su chi fosse il più grande «per ambizione».
Questo litigare dicendo «io devo andare avanti, io devo salire», ha spiegato il Pontefice, è lo spirito del mondo. Ma anche la prima lettura della liturgia del giorno (Gc 4, 1-10) ricalca questo aspetto, quando l’apostolo Giacomo ricorda che l’amore per il mondo è nemico di Dio. «Quest’ansia di mondanità — ha osservato il Papa — quest’ansia di essere più importante degli altri e dire: “No! Io merito questo, non lo merita quell’altro”. Questo è mondanità, questo — ha proseguito — è lo spirito del mondo e chi respira questo spirito, respira l’inimicizia di Dio».
«Gesù, in un altro passo, dice ai discepoli: “O siete con me o siete contro di me”. Non ci sono compromessi nel Vangelo. E quando uno vuole vivere il Vangelo facendo dei compromessi — ha commentato — alla fine si trova con lo spirito mondano, che sempre cerca di fare compromessi per arrampicarsi di più, per dominare, per essere più grande».
Tante guerre e tante liti vengono proprio dai desideri mondani, dalle passioni, ha evidenziato il Papa facendo ancora riferimento alle parole di san Giacomo. È vero «oggi tutto il mondo è seminato da guerre. Ma le guerre che sono fra di noi? Come quella che c’era fra gli apostoli: chi è il più importante?», si è chiesto Francesco. «“Guardate la carriera che ho fatto: adesso non posso andare indietro!”. Questo è lo spirito del mondo e questo non è cristiano. “No! Tocca a me! Io devo guadagnare di più per avere più soldi e più potere”. Questo è lo spirito del mondo», ha sottolineato il Pontefice. «E poi, la malvagità delle chiacchiere: il pettegolezzo. Da dove viene? Dall’invidia. Il grande invidioso — ha ribadito Francesco — è il diavolo, lo sappiamo, lo dice la Bibbia. Dall’invidia. Per l’invidia del diavolo entra il male nel mondo. L’invidia è un tarlo che ti spinge a distruggere, a sparlare, a annientare l’altro».
Nel dialogo dei discepoli c’erano tutte queste passioni e per questo, ha sostenuto Francesco, Gesù li rimprovera e li esorta a farsi servitori di tutti e a prendere l’ultimo posto: «Chi è il più importante nella Chiesa? — si è domandato — Il Papa, i vescovi, i monsignori, i cardinali, i parroci delle parrocchie più belle, i presidenti delle associazioni laicali? No! Il più grande nella Chiesa è quello che si fa servitore di tutti, quello che serve tutti, non che ha più titoli. E per far capire questo prese un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo con tenerezza — perché Gesù parlava con tenerezza, ne aveva tanta — disse loro: “Chi accoglie un bambino, accoglie me”, cioè chi accoglie il più umile, il più servitore. Questa è la strada», ha affermato Francesco sottolineando ancora che «la strada contro lo spirito del mondo è una sola: l’umiltà. Servire gli altri, scegliere l’ultimo posto, non arrampicarsi».
Non bisogna, quindi, «negoziare con lo spirito del mondo», non bisogna dire: «Ho diritto a questo posto, perché guardate la carriera che ho fatto». La mondanità, infatti, ha concluso il Papa, «è nemica di Dio». Bisogna invece ascoltare questa parola «tanto saggia» e incoraggiante che Gesù dice nel Vangelo: «Se uno vuole essere il primo sia l’ultimo di tutti, sia il servitore di tutti».”

Meditazione Mattutina di Papa Francesco nella cappella della Domus Sanctae Marthae
Il più grande è chi serve non chi ha più titoli
Martedì, 25 febbraio 2020

Pubblicato in Liturgia
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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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