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S.Messe (settimana)
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Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore il rifiuto della parola di Dio.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Ezechiele, vediamo che Dio affida al profeta la missione di andare dagli Israeliti, definiti popolo di ribelli, pur sapendo che non sarà ascoltato. Il fine per cui Dio lo manda è uno solo: far sapere che in mezzo a loro c’è un profeta e Dio, che è fedele, non li ha abbandonati.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Corinto, Paolo contro i suoi calunniatori, rivendica con forza la sua dignità d apostolo. L’autenticità del suo ministero è confermata dalle persecuzione e dalla “spina nella carne” permessa da Dio per rendere fecondo il suo servizio al Vangelo, e afferma che proprio quando è debole, è allora che è forte.
Nel Vangelo, Marco ci racconta che gli abitanti di Nazareth rifiutano di riconoscere in Gesù, loro concittadino, il Messia atteso: l’incredulità, l’indifferenza, l’ostilità di fronte alla Parola, la presa di posizione nei suoi confronti appartengono quanto mai al mistero della libertà umana. Gesù suggella tutto questo con l’espressione «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua».

Dal libro del profeta Ezechièle
In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse:
«Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi.
Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».
Ez 2,2-5

Ezechiele era di stirpe sacerdotale e fu fra i primi deportati dopo il primo assedio di Gerusalemme conclusosi nel 596 a.C. Il suo ministero ha due fasi ben distinte, prima dell'esilio e durante l'esilio.
Inizia il suo ministero nel 593 a.C., quinto anno dell'esilio del re Ioiachin, e prosegue certamente fino al 571 a.C, anno della presa di Tiro da parte di Nabucodonosor, (avvenimento esplicitamente citato in 29,18).
Il ministero di Ezechiele è segnato da un unico drammatico avvenimento, lasciando il resto degli eventi storici al ruolo di contorno: la profanazione e la distruzione del Tempio nel corso del secondo e definitivo assedio di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor, nel 586 a.C.. Tale avvenimento segna la fine del regno di Giuda e uno spartiacque fra due epoche per la storia degli ebrei.
Il suo libro è diviso in due da questo evento: la prima parte contiene quasi esclusivamente oracoli che minacciano l'inevitabile punizione delle gravi colpe di Giuda, mentre la seconda parte, accaduto l'irreparabile, lascia filtrare bagliori di speranza in un futuro riscatto non troppo lontano, concludendosi con la visione della nuova Gerusalemme e del suo nuovo Tempio.
Rispetto agli altri due grandi profeti scrittori, Isaia e Geremia, Ezechiele introduce alcuni elementi nuovi, accanto agli oracoli, fra cui la “visione” ed il “mimo”.
La visione è uno dei mezzi con cui DIO comunica con il profeta, che di solito esce sconvolto dall'esperienza, senza però mai abbandonare la sua missione. Come in un sogno o un delirio, Ezechiele vede l'aspetto visibile della gloria del Signore. È da notare come questi elementi non vengano mai legati fra loro a dare un'immagine antropomorfa di Dio, che rimane ineffabile come il Suo nome.
Il mimo è invece un mezzo che DIO stesso suggerisce al profeta per trasmettere il proprio messaggio ai suoi compagni di esilio: di volta in volta, Ezechiele mette in scena complesse rappresentazioni che però, per quanto comprese dai suoi compagni, vengono di regola ignorate o prese con sufficienza, quando non con disprezzo e scherno. Ezechiele, comunque, non si perde d'animo e porta avanti la missione affidatagli.
Ezechiele fu certamente un profeta di un rinnovamento profondo che fa presentire l’annuncio del Mistero di Gesù, specialmente come lo vede S.Giovanni. Si comprende come il IV Vangelo e l’Apocalisse utilizzino abbondantemente le immagini e le formule di Ezechiele.
Il brano che abbiamo, tratto dalla seconda relazione della chiamata profetica di Ezechiele, con l’espressione “Figlio dell’uomo” cara al profeta, viene svelato già il destino sconcertante del chiamato. Infatti intorno a lui si stringerà solo un popolo ostinato e peccatore, una vera e propria razza di ribelli, desiderosa solo di segni comodi e di parole inoffensive e neutre. Eppure anche se “Ascoltino o non ascoltino” – non potranno far tacere o ignorare la voce scomoda del profeta. La parola infatti che il profeta comunica non è sua, ma quella di Dio stesso: Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio…” La fermezza nell’ostilità e nell’isolamento sarà, infatti, la caratteristica di questo profeta, “pastore degli esuli” a Babilonia, lontano dalla sua terra in mezzo a connazionali ottusi e incattiviti dalla schiavitù. Egli sa che la sua predicazione non sarà accettata, ma lui nonostante tutto deve parlare ugualmente affinché sappiano che Dio non li ha abbandonati. Egli è un Dio fedele per questo è sempre presente!

Salmo 122 I nostri occhi sono rivolti al Signore.
A te alzo i miei occhi,
a te che siedi nei cieli.
Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni.

Come gli occhi di una schiava
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.

Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
siamo già troppo sazi di disprezzo,
troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.

Il salmo riflette una situazione di dolore e di smarrimento alla quale l'orante reagisce con una grande fiducia in Dio.
Molto probabilmente si tratta di eventi dell'epoca Maccabaica. Quando venne ucciso Giuda Maccabeo i rinnegati di Israele, quelli passati ai costumi ellenistici, ripresero forza con Bacchide, che perseguitò coloro che si erano uniti nella fedeltà all'alleanza (1Mac 9,22-26). Stessa situazione si ebbe dopo la morte del successore di Giuda Maccabeo, Gionata (1Mac 12,52).
In quel tempo mancavano profeti e i fedeli in attesa di una guida che li conducesse alla vittoria guardavano a Dio per sapere come muoversi, come reagire.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.”
Cor 12,7-10

Paolo continuando la sua seconda lettera al Corinzi, dopo aver percorso nei primi capitoli la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto, ed aver esortati gli abitanti di Corinto alla generosità, si vede costretto anche a fare, nei versetti precedenti questo brano, il proprio elogio e parla del suo rapimento al terzo cielo. –“ Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa - se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo” (12,2…) Paolo qui offre una testimonianza straordinaria. Il suo spirito fu elevato alla più alta contemplazione dei misteri divini, che nessuna parola umana può descrivere. Fu rapito al terzo cielo, cioè nel più alto dei cieli, fu tirato come fuori di sé, fino a perdere ogni sentimento della propria vita corporea, tanto il suo spirito era stato investito in questa esperienza. Questo avvenne intorno all’anno 42, a cinque anni quindi dalla conversione. Paolo era allora in Siria o in Cilicia, e mancavano ancora alcuni anni all’inizio delle sue grandi missioni.
Il brano liturgico, che è uno dei più discussi a causa di certe particolari espressioni, inizia riportando una situazione molto tormentata: “affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia”
Non si sa molto bene cosa fosse questa spina nella carne, probabilmente una malattia – dalla quale Cristo non ha voluto guarirlo e che moltiplica le difficoltà della sua vita apostolica. Altri esperti pensano non tanto ad una malattia quanto che l’inviato di satana potrebbe essere un oppositore dell’apostolato di Paolo, inviato appunto da satana: quindi, qualcuno che gli sta creando problemi nell’apostolato.
Paolo non esita a presentarsi come uomo, soggetto agli attacchi di Satana nella carne. E' salito al terzo cielo, ha avuto rivelazioni luminosissime, avrebbe desiderato rimanere in quello stato di estasi, ma ecco che gli attacchi del nemico gli ricordano che è ancora in cammino e che ha una carne contro la quale combattere con volontà decisa e preghiera incessante affinché il Signore lo allontani da questo nemico. “Ma il Signore gli risponde: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»”, cioè “ti deve bastare la mia forza, che agisce in te. Sono io che opero in te perché sei in comunione con me, ed essere in comunione con me è un mio dono d’amore”.
Il Signore perciò gli fa capire che la spina nella carne (questa afflizione) è parte di quella debolezza che rientra nel disegno mirabile di salvezza e permette alla potenza di Dio di manifestarsi pienamente.
Paolo così può affermare: “perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.”

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
Mc 6, 1-6

L’evangelista Marco ci narra in questo brano la visita di Gesù nella Sua patria che riprende il tema della mancanza di fede del popolo ebraico.
Appena arrivato di sabato a Nazareth con i suoi discepoli, Gesù si reca subito alla sinagoga per poter insegnare: La Sua fama si era diffusa ben oltre la Galilea e aveva raggiunto persino Gerusalemme; per questo in molti accorrono nella sinagoga per ascoltare le parole del loro concittadino. Tutti i presenti,nonostante lo conoscano bene, restano stupiti delle parole che escono dalla sua bocca. E si pongono anche la domanda giusta, quella che dovrebbe aprire alla fede: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Se gli abitanti di Nazareth avessero ricordato le parole rivolte a Mosè: "" Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto.(Dt 18 15), avrebbero accolto non solo le parole ma lo stesso Gesù come inviato di Dio. Purtroppo, gli abitanti di Nazareth si bloccano davanti al carattere ordinario della sua presenza: non è così che essi immaginavano un inviato di Dio; pensavano che un profeta dovesse avere i tratti della straordinarietà e del prodigioso, e che i suoi tratti debbano essere quelli della forza e della potenza umana. Gesù, invece, si presenta loro come un uomo normale, e la Sua famiglia è davvero normale, né ricca né povera.
Non sembra neanche di godere di particolare stima da parte dei suoi concittadini che infatti commentano : Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?».
Gli abitanti di Nazareth credono di conoscere Gesù meglio di chiunque altro perché lo hanno visto crescere ed esercitare il suo mestiere. Incontrano ogni giorno sua madre e i membri della sua famiglia di cui conoscono ogni cosa. Di fronte a Gesù si sentono turbati, imbarazzati e persino irritati. Rifiutano di lasciar mettere in discussione il loro piccolo mondo e la valutazione che si erano fatta sulla sua persona. Gli riconoscono certamente una notevole sapienza e una rilevante capacità soprannaturale, ma la vera questione è che essi non possono accettare che Egli parli con autorità sulla loro vita e sui loro comportamenti. Ecco perché la meraviglia si trasforma subito in scandalo. Infatti Marco riporta " Ed era per loro motivo di scandalo.”.
E ciè che doveva essere un trionfo per Gesù diviene un totale fallimento. Marco riporta con un tono di tristezza il commento di Gesù quando dichiara: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.
Marco aggiunge “E lì non poteva compiere nessun prodigio,…. Gesù non poté operare miracoli; non è che non volle, "non poté". I suoi concittadini volevano che operasse qualche miracolo, ma non avevano capito che non si trattava di prodigi o di magie al servizio della propria fama. Il miracolo è la risposta di Dio a colui che tende la mano e chiede aiuto. Nessuno di loro tese la mano, tutti semmai avanzavano pretese.
Questo episodio naturalmente va al di là del rifiuto di un piccolo paese della Galilea, prefigura infatti il rifiuto dell'intero Israele (Gv 1,11). Che un profeta poi sia rifiutato dal suo popolo non è una novità, se perfino un proverbio, nato da una lunga esperienza che ha accompagnato tutta la storia d'Israele, lo afferma, e trova la sua più clamorosa dimostrazione nella storia del Figlio di Dio e che continuerà a ripetersi continuamente nella storia umana.
“ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì Da questo particolare vediamo che Gesù si rende disponibile anche per quei pochi malati, guarendoli. Il Signore guarda sempre l’umile e l’oppresso anche se fa parte di una comunità che non lo accetta: Lui guarda nei cuori e non giudica per sentito dire.

*****

“L’odierna pagina evangelica presenta Gesù che ritorna a Nazareth e di sabato si mette a insegnare nella sinagoga.
Da quando se ne era andato e si era messo a predicare per le borgate e i villaggi vicini, non aveva mai rimesso più piede nella sua patria. È tornato. Pertanto, ci sarà stato tutto il paese ad ascoltare questo figlio del popolo, la cui fama di maestro sapiente e di potente guaritore dilagava ormai per la Galilea e oltre. Ma quello che poteva profilarsi come un successo, si tramutò in un clamoroso rifiuto, al punto che Gesù non poté operare lì nessun prodigio, ma solo poche guarigioni.
La dinamica di quella giornata è ricostruita nel dettaglio dall’evangelista Marco: la gente di Nazareth dapprima ascolta, e rimane stupita; poi si domanda perplessa: «da dove gli vengono queste cose», questa sapienza?; e alla fine si scandalizza, riconoscendo in Lui il falegname, il figlio di Maria, che loro hanno visto crescere. Perciò Gesù conclude con l’espressione divenuta proverbiale: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria».
Ci domandiamo: come mai i compaesani di Gesù passano dalla meraviglia all’incredulità? Essi fanno un confronto tra l’umile origine di Gesù e le sue capacità attuali: è un falegname, non ha fatto studi, eppure predica meglio degli scribi e opera miracoli. E invece di aprirsi alla realtà, si scandalizzano. Secondo gli abitanti di Nazareth, Dio è troppo grande per abbassarsi a parlare attraverso un uomo così semplice! È lo scandalo dell’incarnazione: l’evento sconcertante di un Dio fatto carne, che pensa con mente d’uomo, lavora e agisce con mani d’uomo, ama con cuore d’uomo, un Dio che fatica, mangia e dorme come uno di noi. Il Figlio di Dio capovolge ogni schema umano: non sono i discepoli che hanno lavato i piedi al Signore, ma è il Signore che ha lavato i piedi ai discepoli (cfr Gv 13,1-20). Questo è un motivo di scandalo e di incredulità non solo in quell’epoca, in ogni epoca, anche oggi.
Il capovolgimento operato da Gesù impegna i suoi discepoli di ieri e di oggi a una verifica personale e comunitaria. Anche ai nostri giorni infatti può accadere di nutrire pregiudizi che impediscono di cogliere la realtà. Ma il Signore ci invita ad assumere un atteggiamento di ascolto umile e di attesa docile, perché la grazia di Dio spesso si presenta a noi in modi sorprendenti, che non corrispondono alle nostre aspettative. Pensiamo insieme a Madre Teresa di Calcutta, per esempio. Una suorina piccolina - nessuno dava dieci lire per lei – che andava per le strade per prendere i moribondi affinché avessero una morte degna. Questa piccola suorina con la preghiera e con il suo operato ha fatto delle meraviglie! La piccolezza di una donna ha rivoluzionato l’operato della carità nella Chiesa. È un esempio dei nostri giorni. Dio non si conforma ai pregiudizi. Dobbiamo sforzarci di aprire il cuore e la mente, per accogliere la realtà divina che ci viene incontro. Si tratta di avere fede: la mancanza di fede è un ostacolo alla grazia di Dio. Molti battezzati vivono come se Cristo non esistesse: si ripetono i gesti e i segni della fede, ma ad essi non corrisponde una reale adesione alla persona di Gesù e al suo Vangelo. Ogni cristiano - tutti noi, ognuno di noi - è chiamato ad approfondire questa appartenenza fondamentale, cercando di testimoniarla con una coerente condotta di vita, il cui filo conduttore sempre sarà la carità.
Chiediamo al Signore, per intercessione della Vergine Maria, di sciogliere la durezza dei cuori e la ristrettezza delle menti, perché siamo aperti alla sua grazia, alla sua verità e alla sua missione di bontà e misericordia, che è indirizzata a tutti, senza alcuna esclusione”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 luglio 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore la fede, la vita e la morte.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, troviamo una riflessione sul perchè Dio ci ha creati: per la vita sicuramente, e la morte non può venire da Lui, infatti viene affermato: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo esorta i cristiani di Corinto a dare un significato spirituale cristiano alla generosità materiale della colletta fatta per soccorrere la povertà della chiesa-madre di Gerusalemme.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco descrivendoci i due miracoli intende presentarci diversi livelli della fede: quella imperfetta, come quella della donna che vuole toccare il mantello di Gesù per essere guarita e quella disperata di chi nella disperazione più completa è sicuro che Gesù potrà intervenire a favore della sua figlioletta, ormai moribonda. Di fronte alla sua fede, scatta il miracolo: il Signore Gesù compie ciò che è umanamente impossibile: ridona la vita.
I miracoli di Gesù non sono solo segni della Sua potenza, prova della Sua natura divina, sono atti di compassione e d’amore. Lo possiamo notare con quale dolcezza si rivolge all’emorroissa chiamandola: “Figlia…” e all’umanissima premura perchè alla bambina appena risuscitata si dia da mangiare.

Dal Libro della Sapienza
Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano;
le creature del mondo sono portatrici di salvezza,
in esse non c’è veleno di morte,
né il regno dei morti è sulla terra.
La giustizia infatti è immortale.
Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura.
Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo
e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.
Sa 1,13-15; 2,23-24

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico.
È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) . L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco e si compone di 19 capitoli che si possono ricondurre a tre parti principali:
Nella Prima parte (cap. 1-5), da dove viene tratto il brano che la liturgia ci presenta, viene presentata la possibilità di due diversi atteggiamenti che derivano dal senso che si dà all’esistenza e cioè:
- o siamo nati per caso, per cui dopo questa vita non esiste niente;
- oppure veniamo da Dio e a Lui ritorniamo conducendo una vita santa, restando saldi nel Suo amore.
Al di fuori di tale sapienza vi è la morte, ma Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi, poiché il Signore non vuole la morte ma la vita.
La Seconda parte (cap. 6,1-11,3) ci invita a ricercare la Sapienza di Dio, “amica degli uomini”, così da farne “la compagna della nostra vita”, lasciandoci attirare dalla sua bellezza.
Il re Salomone tesse un elogio alla Sapienza con parole che di fatto non sono sue. L’autore del libro, infatti, per sviluppare il tema, usa la storia del re così come viene riferita nel Primo libro dei Re al cap. 3 e dal secondo libro delle Cronache. In base ai due racconti, Salomone trascorse la notte in preghiera nel santuario in cima al monte Gabon, per chiedere al Signore la saggezza necessaria per governare il suo popolo. In questa seconda parte la Sapienza si rivela come presenza di Dio nel mondo e nell’uomo, per condurre quest’ultimo sulle vie di Dio.
Nella Terza parte (cap. 11,4 - 19,22) la Sapienza sembra quasi scomparire dalla storia del popolo israelita. L’autore allora tenta di dimostrare la grandezza di Dio e la missione del popolo in un momento in cui nuove culture lo stanno seducendo. Secondo l’autore l’uomo saggio è l’uomo giusto chiamato a vivere nell’eternità di Dio. E poiché la Sapienza è una realtà misteriosa nascosta nel cuore del mondo, essa si rivela a chi la ricerca con tutto il cuore ed è concessa proprio come dono di Dio.
Dio partecipa all’uomo la Sapienza con cui ha creato il mondo, ma per riceverla in dono è necessario che l’uomo stia lontano dal male allontanandosi dalle cose terrene effimere, e troppo superficiali.
La Sapienza non è dunque una filosofia che insegna l’arte del vivere, piuttosto indica una scelta di fede che permette di entrare in contatto con Dio e rimanere in relazione con Lui.

Salmo 29 - Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.

Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.

Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza,
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.

L’autore del salmo riconosce di essere stato nel passato ampiamente beneficato da Dio, ma aveva peccato di presunzione dicendo tra sé: “Mai potrò vacillare!”.
Per questo Dio l’aveva abbandonato e gli aveva nascosto per “un istante” il suo volto. Per “un istante” l’aveva esposto ai suoi nemici, i quali giunsero ad un sol passo dal prevalere su di lui, ma Dio gli diede “vita” e così poté sfuggire alla morte. Per questo egli è diventato un testimone della bontà del Signore: “Cantate inni al Signore, o suoi fedeli”.
Permane però nelle insidie ed egli si rivolge a Dio chiedendo di conservarlo in vita, perché non ne trarrebbe nessun vantaggio dalla sua morte: “Quale guadagno dalla mia morte, dalla mia discesa nella fossa? Potrà ringraziarti la polvere e proclamare la tua fedeltà?”. La sua missione, il suo proclamare la fedeltà di Dio, sarebbe interrotta anzitempo. Umile, invoca misericordia, e lascia il lamento sperimentando ancora una volta la fedeltà del Signore. Conclude confermandosi nell’amore per il Signore: “Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa.
Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
2Cor 8,7,9,13-15

Paolo continuando la sua seconda lettera al Corinzi, dopo aver percorso nei primi 6 capitoli la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto, nel capitolo ottavo esorta gli abitanti di Corinto alla generosità con temi che gli sono cari: la povertà, fonte di arricchimento per gli altri, l’esempio di Cristo, il dono di Dio, che suscita il dono dei cristiani.
Il brano liturgico inizia con l’esortazione:
“Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa”.
Paolo riconosce nella comunità di Corinto una fede viva che travalica i confini della città e si riversa nel mondo circostante perché la comunità ha saputo fondare la propria vita di credenti sulla parola, sulla fede, sulla scienza, sullo zelo, sulla carità. Questa modo di vivere è l’essenza del Vangelo ed è stata insegnata loro da Paolo!
“Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”.
Con questa espressione Paolo passa ad un esame vero e proprio sulla consistenza dell’essere cristiani, perchè tramite l’opera di carità si saprà chi veramente cammina dietro Cristo per imitarlo, e chi invece va dietro di Lui solo per qualche interesse umano. Il cristianesimo è, prima di ogni altra cosa, sequela di Cristo, imitazione di Lui. Chi vuole essere cristiano non solo deve camminare dietro Cristo, deve anche imitarlo, poiché è nell’imitazione di Cristo che si raggiunge la perfezione morale, si raggiunge la pienezza nella fede, nella speranza, nella carità.
Poi nel versetto seguente è più esplicito: “Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza”. La chiesa di Gerusalemme ha dato ai Corinzi i beni spirituali, la verità e la grazia del signore nstro Signore Gesù Cristo, è ben giusto per questo che la comunità dei Corinzi doni alla chiesa di Gerusalemme quanto può perché sopravviva in un momento di così grave carestia.
“Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
L’abbondanza e l’indigenza sono su due piani differenti, si tratta di abbondanza spirituale e di indigenza materiale. La chiesa di Gerusalemme è sempre nell’abbondanza spirituale e questa abbondanza viene riversata sull’indigenza spirituale che accompagna la comunità di Corinto.
Paolo domanda agli abitanti di Corinto in sintesi solo il loro superfluo, mentre i cristiani di Macedonia (citati nei versetti 2-3 non riportati nel brano liturgico) nella loro “estrema povertà” hanno saputo dare “al di là dei loro mezzi” . Ma Paolo, proponendo l’esempio di Cristo, li invita discretamente a imitare la generosità dei loro fratelli macedoni.
Il messaggio che arriva a noi oggi è che solo con la condivisione può esserci la vera comunità che ci salva. Ogni uomo, per piccolo e povero che sia, ha qualcosa da dare agli altri e nessuno è così ricco da non poter più ricevere niente dagli altri

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina.
Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Mc 5,21-43

L’evangelista Marco in questo brano ci presenta due miracoli di Gesù intrecciati tra loro, quello della donna colpita da emorragia e la resurrezione della figlia di Giàiro, capo della sinagoga di Cafarnao.
Gesù si trova nella cornice vociante e affollata di una località intorno al lago di Tiberiade, punto centrale della prima fase della sua missione. Negli episodi raccontanti precedentemente Marco aveva narrato la tempesta sedata, che aveva lasciato scioccati i discerpoli e subito dopo la guarigione dell’indemoniato.
Questo brano dopo aver precisato che “Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, e la molta folla che si era radunata intorno a lui, ci riporta che “venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.”
Ora l’evangelista sposta la nostra attenzione su di un nuovo personaggio emblematico nel quale ognuno di noi si può immedesimare: “ una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio“.
Il sangue è la vita, e perdere sangue significa perdere la vita. Una donna in queste condizioni, secondo il Libro del Levitico (15,25), è una donna in perenne condizione di impurità. Se non è sposata non trova nessuno che la sposa, se è sposata non può avere rapporto con il marito, quindi è destinata alla sterilità, anzi il marito la può perfino ripudiare. Quindi è una donna che non ha nessuna speranza; è impura, non può entrare nel tempio, è equiparata a un lebbroso. Allora, per la donna non ci sono speranze; se continua ad osservare la legge va incontro alla morte, ma lei, che “aveva sentito “parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata»”.
Ci prova di nascosto perché una donna che, nelle sue condizioni, pubblicamente e volontariamente, toccava un uomo, era passibile di morte, perché lo rendeva impuro. “E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male”.
Gesù avverte che una “forza era uscita da lui”, una forza di vita e “si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Il commento che fanno i suoi discepoli è quello di considerare Gesù quasi un insensato. I discepoli sono accanto a Gesù, ma non gli sono vicini, loro lo accompagnano, ma non lo seguono. Non basta stare accanto a Gesù per percepirne e riceverne la forza della vita.
“Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto” impaurita perché sapeva di aver compiuto una trasgressione e quindi si aspettava sicuramente una punizione, “venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità”. Ecco, quello che, agli occhi della religione, è considerato un sacrilegio, agli occhi di Gesù invece … “Egli le disse “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.
La donna sparisce dalla scena, è subito risucchiata dalla folla e scompare, lasciando viva la sua immagine in questa pagina evangelica.
Ora l’attenzione si sposta di nuovo su Gesù che aveva appena finito di parlare “quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Sicuramente lo sconforto invase l'animo del povero Giàiro e forse anche la sua fede divenne più debole. “Ma Gesù, udito quanto dicevano, gli disse “Non temere, soltanto abbi fede!”. E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo”, ossia i tre discepoli che in seguito saranno presenti alla sua trasfigurazione e alla sua angoscia mortale nel Getsemani. Dopo la risurrezione, essi potranno narrare queste cose, e allora anche la risurrezione della figlia di Giàiro apparirà a loro sotto una nuova luce.
L’evangelista: annota: “Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano”.
Gli atti che Gesù compie una volta entrato in quella camera, dove giaceva il corpo esamine della bambina, nel silenzio e nella solitudine, dopo aver sicuramente allontanato il gruppo delle lamentatrici, dei musici, dei parenti afflitti, hanno le sue radici nel divino eterno. Cerchiamo di immaginare la scena: Egli stende la Sua mano, la stessa mano di Dio, e alla mano si aggiunge la parola efficace e creatrice. Bastano solo due parole pronunziate in una lingua umana, quella parlata da Gesù, l’aramaico : "Talita kum", Fanciulla, io ti dico: àlzati!» e la bambina si alzò e si mise a camminare. Davanti alla morte, nemica di Dio e dell’uomo, si è levata la voce di Cristo che ridona la vita. In questa bambina si anticipa simbolicamente il mistero della Pasqua in cui la morte è solo un “sonno”, come l’aveva chiamata Gesù, in attesa dell’incontro con l’eterno di Dio.
Da questi due racconti di miracolo esce un grande richiamo che ci invita ad avere una fede pura e totale, libera da magie e superstizioni, fiduciosa solo nel Dio della vita. Da imperfetta come quella della donna, persino da disperata come quella di Giàiro, la fede può crescere, maturare e diventare totale. E’ questo l’impegno fondamentale del cammino spirituale del cristiano, che tanto auspica Papa Francesco.

 

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Le parole di papa Francesco

Il Vangelo di questa domenica presenta due prodigi operati da Gesù, descrivendoli quasi come una sorta di marcia trionfale verso la vita.
Dapprima l’Evangelista narra di un certo Giairo, uno dei capi della sinagoga, che viene da Gesù e lo supplica di andare a casa sua perché la figlia di dodici anni sta morendo. Gesù accetta e va con lui; ma, lungo la strada, giunge la notizia che la ragazza è morta. Possiamo immaginare la reazione di quel papà. Gesù però gli dice: «Non temere, soltanto abbi fede!» Arrivati a casa di Giairo, Gesù fa uscire la gente che piangeva - c’erano anche le donne prefiche che urlavano forte - ed entra nella stanza solo coi genitori e i tre discepoli, e rivolgendosi alla defunta dice: «Fanciulla, io ti dico: alzati!» . E subito la ragazza si alza, come svegliandosi da un sonno profondo.
Dentro il racconto di questo miracolo, Marco ne inserisce un altro: la guarigione di una donna che soffriva di emorragie e viene sanata appena tocca il mantello di Gesù. Qui colpisce il fatto che la fede di questa donna attira – a me viene voglia di dire “ruba” – la potenza salvifica divina che c’è in Cristo, il quale, sentendo che una forza «era uscita da lui», cerca di capire chi sia stato. E quando la donna, con tanta vergogna, si fa avanti e confessa tutto, Lui le dice: «Figlia, la tua fede ti ha salvata» .
Si tratta di due racconti ad incastro, con un unico centro: la fede; e mostrano Gesù come sorgente di vita, come Colui che ridona la vita a chi si fida pienamente di Lui. I due protagonisti, cioè il padre della fanciulla e la donna malata, non sono discepoli di Gesù eppure vengono esauditi per la loro fede. Hanno fede in quell’uomo. Da questo comprendiamo che sulla strada del Signore sono ammessi tutti: nessuno deve sentirsi un intruso, un abusivo o un non avente diritto. Per avere accesso al suo cuore, al cuore di Gesù, c’è un solo requisito: sentirsi bisognosi di guarigione e affidarsi a Lui. Io vi domando: ognuno di voi si sente bisognoso di guarigione? Di qualche cosa, di qualche peccato, di qualche problema? E, se sente questo, ha fede in Gesù? Sono i due requisiti per essere guariti, per avere accesso al suo cuore: sentirsi bisognosi di guarigione e affidarsi a Lui. Gesù va a scoprire queste persone tra la folla e le toglie dall’anonimato, le libera dalla paura di vivere e di osare. Lo fa con uno sguardo e con una parola che li rimette in cammino dopo tante sofferenze e umiliazioni. Anche noi siamo chiamati a imparare e a imitare queste parole che liberano e questi sguardi che restituiscono, a chi ne è privo, la voglia di vivere.
In questa pagina evangelica si intrecciano i temi della fede e della vita nuova che Gesù è venuto ad offrire a tutti. Entrato nella casa dove giace morta la fanciulla, Egli caccia fuori quelli che si agitano e fanno lamento e dice: «La bambina non è morta, dorme» . Gesù è il Signore, e davanti a Lui la morte fisica è come un sonno: non c’è motivo di disperarsi. Un’altra è la morte di cui avere paura: quella del cuore indurito dal male! Di quella sì, dobbiamo avere paura! Quando noi sentiamo di avere il cuore indurito, il cuore che si indurisce e, mi permetto la parola, il cuore mummificato, dobbiamo avere paura di questo. Questa è la morte del cuore. Ma anche il peccato, anche il cuore mummificato, per Gesù non è mai l’ultima parola, perché Lui ci ha portato l’infinita misericordia del Padre. E anche se siamo caduti in basso, la sua voce tenera e forte ci raggiunge: «Io ti dico: alzati!». E’ bello sentire quella parola di Gesù rivolta a ognuno di noi: “Io ti dico: alzati! Vai. Alzati, coraggio, alzati!”. E Gesù ridà la vita alla fanciulla e ridà la vita alla donna guarita: vita e fede ad ambedue.
Chiediamo alla Vergine Maria di accompagnare il nostro cammino di fede e di amore concreto, specialmente verso chi è nel bisogno. E invochiamo la sua materna intercessione per i nostri fratelli che soffrono nel corpo e nello spirito.
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 luglio 2018

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche delle domeniche precedenti ci hanno presentato un Gesù dominatore delle malattie e delle potenze demoniache. Oggi il suo potere si allarga fino ad abbracciare gli elementi della natura nella loro raffigurazione più grandiosa e potente: il mare. Il mare esercita su tutti un fascino straordinario: è un segno dell’infinito quando esso si distende davanti agli occhi di chi lo contempla, ma è anche il simbolo del mistero più oscuro quando si scatena in una tempesta o in un maremoto.
Anche la prima lettura, tratta dal discorso divino indirizzato a Giobbe fa riferimento al mare come simbolo del caos e delle potenze oscure di fronte al quale l’uomo ha i suoi limiti: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nella sua seconda lettera ai Corinzi, afferma che nella sua missione non è mosso da considerazioni umane, ma il suo criterio di valutazione e le sue relazioni sono ispirati dalla fede in Cristo morto e risorto.
Nel Vangelo di Marco, Gesù calma il mare in tempesta. Nel racconto primeggiano due domande: quella di Gesù che chiede ai suoi discepoli: Non avete ancora fede?». e quella dei discepoli che si domandano: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»La loro domanda si apre sul mistero di Cristo e dimostra che i discepoli non hanno ancora capito chi sia il loro maestro, oppure hanno persino timore di riconoscere che solo Dio poteva operare un tale prodigio.

Dal libro di Giobbe
Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano:
«Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando usciva impetuoso dal seno materno,
quando io lo vestivo di nubi
e lo fasciavo di una nuvola oscura,
quando gli ho fissato un limite,
gli ho messo chiavistello e due porte
dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre
e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».
Gb 38,1-8-11

Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi di molti studiosi, la prima redazione risale all'XI-X secolo a.C., mentre la redazione definitiva, con le aggiunte in prosa, è stata composta in Giudea verso il 575 a.C.. La storia di Giobbe nasce dagli infiniti interrogativi che il problema del male porta all'umanità. Ci troviamo di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
Ambientata in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente, il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute. Sarà poi afflitto da una piaga maligna, sarà cacciato anche di casa dalla moglie, stanca di quest'uomo per la sua fedeltà incrollabile. Qualcuno ha commentato che per rendere peggiore la situazione di Giobbe, Dio gli ha lasciato quel tipo di moglie. Giobbe soffriva non solo per il dolore fisico e per l’incomprensione dei suoi familiari e amici, ma piuttosto perché si sentiva abbandonato da Dio. In questa situazione egli vede l’esistenza umana come un seguito di avvenimenti senza senso, di fronte ai quali l’uomo resta pieno di angoscia, mentre il tempo passa troppo in fretta o troppo lentamente a seconda delle circostanze.. Dalla sua condizione di sofferenza Giobbe aveva sfidato Dio, ed era giunto a maledire il giorno della sua nascita, e aveva posto una critica radicale al piano di Dio, al disegno della creazione..
Questo brano riporta una parte del lungo discorso di Dio a Giobbe con le varie domande «Chi ha chiuso tra due porte il mare,quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura,quando gli ho fissato un limite,….
C’è da tener presente che gli antichi Israeliti non amavano il mare e non erano certamente un popolo di navigatori; per loro, un modesto lago come quello di Genesaret era un mare vero e proprio come il Mediterraneo. In questa parte del libro Dio fa capire a Giobbe che i suoi tentativi di comprenderLo e di conoscere il mondo sono destinati a fallire: chi può conoscere perfettamente l’universo se non Colui che l’ha creato? Dio ricorda a Giobbe, che è una creatura e quindi un essere limitato. Gli fa scoprire che la sua vita, e la vita dell’umanità stessa, non sta al centro o al di sopra delle altre creature, ma va accostata come parte di una realtà più grande. Nella creazione c’è un limite per tutto, anche per le insondabili forze del male, persino Dio stesso si pone un limite di fronte alla libertà umana, non può che rispettarla.
La consapevolezza di essere piccolo, di non essere a capo e al centro del mondo, conduce Giobbe a ridimensionarsi, a scoprire di dover mettersi in rapporto con Dio in modo nuovo per lui sorprendente..
A Giobbe si manifesta il volto di Dio che non offre soluzioni alle sue domande e non spiega il perché del suo dolore, ma soffre insieme a lui e gli fa scoprire che Lui, Dio, si pone come suo vicino, e si mette in relazione con lui. Questa presa di coscienza prepara la conclusione pratica: il dolore resta un mistero per l’uomo. Nel Nuovo Testamento la morte di Cristo cercherà di darvi una risposta.

Salmo 106 - Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre.
Coloro che scendevano in mare sulle navi
e commerciavano sulle grandi acque,
videro le opere del Signore
e le sue meraviglie nel mare profondo.

Egli parlò e scatenò un vento burrascoso,
che fece alzare le onde:
salivano fino al cielo, scendevano negli abissi;
si sentivano venir meno nel pericolo.

Nell’angustia gridarono al Signore,
ed egli li fece uscire dalle loro angosce.
La tempesta fu ridotta al silenzio,
tacquero le onde del mare.

Al vedere la bonaccia essi gioirono,
ed egli li condusse al porto sospirato.
Ringrazino il Signore per il suo amore,
per le sue meraviglie a favore degli uomini.

Il salmo è stato chiaramente scritto nel postesilio, quando i vari gruppi di Israeliti deportati ritornarono in Palestina. Il salmo ci dà notizia che i deportati ritornarono praticamente dai quattro punti cardinali. Ci furono anche prigionieri condotti in Egitto dal faraone Necao (2Cr 36,4) (l'Egitto venne conquistato da Cambise (530-522), figlio di Ciro); essi ritornarono dal mezzogiorno. Altri furono fatti prigionieri dai Babilonesi e posti al loro servizio nella costa mediterranea (Tiro venne conquistata dai Babilonesi nel 574), così giunsero dall'occidente. Altri giunsero attraverso il deserto Siro-Arabico, passando per Damasco, cioè dal settentrione; altri attraverso il deserto Arabico, cioè dall'oriente. …
Il salmo presenta una sintesi della storia di Israele.
Parte dalla grande siccità, intervallata da temporali furibondi, che si ebbe quando i fratelli di Giuseppe andarono a cercare cibo in Egitto. Gli Israeliti prosperarono poi in Egitto, mentre la terra di Canaan riprendeva la sua floridezza: “Poi cambiò il deserto in distese d'acqua e la terra arida in sorgenti d'acqua”. Questa terra venne poi data agli “affamati”, cioè ad Israele che usciva dal deserto Sinaitico. Ci fu la prosperità, ma poi allontanandosi da Dio vennero colpiti da numerose sventure e infine, ridotti a pochi per le decimazioni delle guerre, vennero deportati verso mete a loro ignote: “Li fece vagare nel vuoto, senza strade”.
Ma ritornato in patria, il derelitto (“il povero”) Israele tornò a prosperare: “Moltiplicò le sue famiglie come greggi”.
Il salmo si conclude con l'invito a considerare tutte “queste cose”: “Chi è saggio osservi queste cose e comprenderà l'amore del Signore”.
Noi sappiamo che siamo stati riscattati da Cristo; liberati dal cumulo dei nostri peccati. Abbiamo pure noi sperimentato situazioni difficili a causa delle nostre disubbidienze a Dio, e, ritornati a lui, ne siamo stati liberati.
Altre volte la malattia ci rimane, ma ne veniamo sostenuti.
Altre volte, a causa della testimonianza, i cristiani conoscono la prigionia, ma in questo caso non è disgrazia, punizione, bensì gloria.

Dalla II lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
2Cor 5,14-17

Paolo proseguendo la sua seconda lettera ai Corinzi continua ad approfondire il tema già iniziato ed espone le ragioni che lo spingono ad annunciare il Vangelo. Già ne aveva menzionate due: la profonda persuasione che ha della sua verità (4:14) e il timore che bisogna avere per il Signore (5:11). In questo brano ne presenta un'altra: “l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. ”
E’ proprio questo amore che spinge Paolo ad evangelizzare. Proprio lui che prima della sua conversione ha perseguitato Gesù, perseguitando con grande fervore coloro che avevano creduto in Lui. L’incontro con Gesù ha stravolto però la sua vita ed è stato l’amore di Cristo a spingerlo a servirlo in maniera così instancabile. Paolo è giunto a questa conclusione dopo aver valutato attentamente i fatti e i dati a sua disposizione: la sua non è una fede superficiale, è qualcosa di profondo radicato dentro di lui e lo si comprende ancora meglio quanto afferma:
“(Cristo) egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro”.
La visione di questa nuova realtà che si è realizzata con la resurrezione di Cristo, impone a Paolo, e con lui a tutti noi oggi, di non considerare più gli altri secondo la carne, cioè come se Cristo non fosse entrato nella loro vita, ma alla luce di quel destino nuovo che Cristo ha realizzato per rendere tutti nuova creatura in Lui. Per questo afferma: “se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove”.
Il credente in Cristo è veramente una creatura nuova, deve perciò lasciare perdere le opere della carne, del mondo in cui viviamo, e guardarle con distacco. Questo non significa che una volta diventati creature nuove, diventiamo all'improvviso perfetti, ma con l'aiuto di Dio e il nostro lasciarci plasmare da Lui, riusciremo a soggiogare il male che ci circonda e che è sempre in agguato..
L'espressione nuova creatura è ripresa dagli ambienti apocalittici, nei quali si diceva che alla fine del mondo ogni persona sarebbe diventata una nuova creatura. Paolo prende il termine e lo adatta al messaggio evangelico. La nuova creatura si realizzerà alla fine dei tempi, ma già da ora chi crede in Cristo è una nuova creatura, perché l'esperienza di liberazione portata da Cristo per il singolo credente è pari allo sconvolgimento della fine dei tempi, è l'irrompere di una nuova epoca.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Mc 4,35-41

Questo episodio della tempesta che si sviluppa all’improvviso, si colloca nella sequenza dei quattro miracoli che accompagnano le parole dette da Gesù nel discorso in parabole (La tempesta sedata, L’indemoniato geraseno; Guarigione dell’emorroissa e risurrezione della figlia di Giairo). Al centro di ognuno di questi miracoli c’è un lineamento del volto segreto dell’uomo Gesù, i cui contorni sono sempre più misteriosi e sconvolgenti.
In questo brano, Marco ci riporta che Gesù “venuta la sera, disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui”.
I discepoli, dunque, iniziano la traversata del lago “Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena!.
Teniamo sempre presente che per gli ebrei il mare era il grande nemico, vinto dal Signore quando fece uscire il suo popolo dall’Egitto (cf. Es 14,15-31); era la residenza del Leviatan, il mostro marino (cf. Gb 3,8; Sal 74,14); era il grande abisso che, quando scatenava la sua forza, impauriva i naviganti (cf. Sal 107,23-27)..
È notte, e la paura scuote quei discepoli, che non riescono più a governare la barca. Il naufragio sembra ormai inevitabile, eppure incredibilmente Gesù “se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva”. Allora i discepoli, in preda all’angoscia, al vedere Gesù addormentato decidono di svegliarlo gridandogli «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Finalmente Gesù “si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.” Poi subito dopo rimprovera i discepoli: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
Questo miracolo operato da Gesù ha un gran valore simbolico, perché ognuno di noi nella propria vita conosce ore di tempesta e in certe situazioni, in particolare quando durano a lungo, si ha l’impressione che Dio non veda, non senta le grida e i gemiti di chi si lamenta.. La sofferenza, l’angoscia, la paura ci rendono simili ai discepoli sulla barca della tempesta. Per questo Gesù li deve rimproverare con parole dure. Non solo chiede loro: Perché avete paura “ma aggiunge anche: “Non avete ancora la fede?.
Di fronte a queste parole così severe di Gesù, ma anche di fronte al prodigio che hanno visto con i loro occhi, il discepoli “furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Gesù, nel suo modo di essere e di agire, genera grande curiosità ed anche timore perché solo Dio creatore ha potere sul vento e sul mare, ma qui i discepoli vedono con i propri occhi che il vento e il mare hanno obbedito a quell’uomo che sta nella barca e che poco prima dormiva tranquillo.
Marco ci conduce gradatamente davanti al mistero di Cristo: due grandi sorprese suscitate da due paure: il disappunto per l’uomo che dorme nonostante la tempesta e la meraviglia per il maestro che destato dal loro richiamo comanda ai venti e al mare… eppure si tratta sempre dello stesso Gesù
Quando Marco scriveva il suo vangelo e lo consegnava alla chiesa di Roma, la piccola comunità cristiana nella capitale dell’impero era nella tempesta e regnava in essa una grande paura, tale da impedire a quei cristiani la missione presso i pagani. Così Marco con questo racconto li invita a non temere l’“uscita” missionaria, li invita a conoscere le prove che li attendono come necessarie (Mc 10,30); prove e persecuzioni nelle quali Gesù, il Vivente, non dorme, ma è sempre in mezzo a loro

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Le Parole di Papa Francesco

Nell’Orazione Colletta abbiamo pregato: «Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua grazia coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore». E le Letture che abbiamo ascoltato ci mostrano come è questo amore di Dio verso di noi: è un amore fedele, un amore che ricrea tutto, un amore stabile e sicuro.
Il Salmo ci ha invitato a ringraziare il Signore perché «il suo amore è per sempre». Ecco l’amore fedele, la fedeltà: è un amore che non delude, non viene mai meno.
Gesù incarna questo amore, ne è il Testimone. Lui non si stanca mai di volerci bene, di sopportarci, di perdonarci, e così ci accompagna nel cammino della vita, secondo la promessa che fece ai discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Per amore si è fatto uomo, per amore è morto e risorto, e per amore è sempre al nostro fianco, nei momenti belli e in quelli difficili. Gesù ci ama sempre, sino alla fine, senza limiti e senza misura. E ci ama tutti, al punto che ognuno di noi può dire: “Ha dato la vita per me”. Per me! La fedeltà di Gesù non si arrende nemmeno davanti alla nostra infedeltà. Ce lo ricorda san Paolo: «Se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso» (2 Tm 2,13). Gesù rimane fedele, anche quando abbiamo sbagliato, e ci aspetta per perdonarci: Lui è il volto del Padre misericordioso. Ecco l’amore fedele.
Il secondo aspetto: l’amore di Dio ri-crea tutto, cioè fa nuove tutte le cose, come ci ha ricordato la seconda Lettura.
Riconoscere i propri limiti, le proprie debolezze, è la porta che apre al perdono di Gesù, al suo amore che può rinnovarci nel profondo, che può ri-crearci. La salvezza può entrare nel cuore quando noi ci apriamo alla verità e riconosciamo i nostri sbagli, i nostri peccati; allora facciamo esperienza, quella bella esperienza di Colui che è venuto non per i sani, ma per i malati, non per i giusti, ma per peccatori (cfr Mt 9,12-13); sperimentiamo la sua pazienza – ne ha tanta! - la sua tenerezza, la sua volontà di salvare tutti. E quale è il segno? Il segno che siamo diventati “nuovi” e siamo stati trasformati dall’amore di Dio è il sapersi spogliare delle vesti logore e vecchie dei rancori e delle inimicizie per indossare la tunica pulita della mansuetudine, della benevolenza, del servizio agli altri, della pace del cuore, propria dei figli di Dio. Lo spirito del mondo è sempre alla ricerca di novità, ma soltanto la fedeltà di Gesù è capace della vera novità, di farci uomini nuovi, di ri-crearci.
Infine, l’amore di Dio è stabile e sicuro, come gli scogli rocciosi che riparano dalla violenza delle onde. Gesù lo manifesta nel miracolo narrato dal Vangelo, quando placa la tempesta, comandando al vento e al mare. I discepoli hanno paura perché si accorgono di non farcela, ma Egli apre il loro cuore al coraggio della fede. Di fronte all’uomo che grida: “Non ce la faccio più”, il Signore gli va incontro, offre la roccia del suo amore, a cui ognuno può aggrapparsi sicuro di non cadere. Quante volte noi sentiamo di non farcela più! Ma Lui è accanto a noi con la mano tesa e il cuore aperto.
Cari fratelli e sorelle torinesi e piemontesi, i nostri antenati sapevano bene che cosa vuol dire essere “roccia”, cosa vuol dire “solidità”. Ne dà una bella testimonianza un famoso poeta nostro:
«Dritti e sinceri, quel che sono, appaiono: teste quadre, polso fermo e fegato sano, parlano poco ma sanno quel che dicono, anche se camminano adagio, vanno lontano. Gente che non risparmia tempo e sudore – razza nostrana libera e testarda –.Tutto il mondo conosce chi sono e, quando passano… tutto il mondo li guarda».
Possiamo chiederci se oggi siamo saldi su questa roccia che è l’amore di Dio. Come viviamo l’amore fedele di Dio verso di noi. Sempre c’è il rischio di dimenticare quell’amore grande che il Signore ci ha mostrato. Anche noi cristiani corriamo il rischio di lasciarci paralizzare dalle paure del futuro e cercare sicurezze in cose che passano, o in un modello di società chiusa che tende ad escludere più che a includere.
In questa terra sono cresciuti tanti Santi e Beati che hanno accolto l’amore di Dio e lo hanno diffuso nel mondo, santi liberi e testardi. Sulle orme di questi testimoni, anche noi possiamo vivere la gioia del Vangelo praticando la misericordia; possiamo condividere le difficoltà di tanta gente, delle famiglie, specialmente quelle più fragili e segnate dalla crisi economica. Le famiglie hanno bisogno di sentire la carezza materna della Chiesa per andare avanti nella vita coniugale, nell’educazione dei figli, nella cura degli anziani e anche nella trasmissione della fede alle giovani generazioni.
Crediamo che il Signore è fedele? Come viviamo la novità di Dio che tutti i giorni ci trasforma? Come viviamo l’amore saldo del Signore, che si pone come una barriera sicura contro le onde dell’orgoglio e delle false novità? Lo Spirito Santo ci aiuti a essere sempre consapevoli di questo amore “roccioso” che ci rende stabili e forti nelle piccole o grandi sofferenze, ci rende capaci di non chiuderci di fronte alla difficoltà, di affrontare la vita con coraggio e guardare al futuro con speranza. Come allora sul lago di Galilea, anche oggi nel mare della nostra esistenza Gesù è Colui che vince le forze del male e le minacce della disperazione. La pace che Lui ci dona è per tutti; anche per tanti fratelli e sorelle che fuggono da guerre e persecuzioni in cerca di pace e libertà.
Carissimi, ieri avete festeggiato la Beata Vergine Consolata, la Consola’, che “è lì: bassa e massiccia, senza sfarzo: come una buona madre”. Affidiamo alla nostra Madre il cammino ecclesiale e civile di questa terra: Lei ci aiuti a seguire il Signore per essere fedeli, per lasciarci rinnovare tutti i giorni e rimanere saldi nell’amore. Cosi sia.

Parte dell’Omelia che Papa Francesco ha tenuta a Torino domenica 21 giugno 2015

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Le letture liturgiche di questa domenica per parlarci del Regno di Dio prendono spunto dalla parabola del seme: la Parola di Dio si diffonde tra gli uomini non per la capacità o la bravura degli uomini, che restano solo collaboratori per l’avvento del Regno di Dio, ma l’azione dello Spirito Santo che fa germogliare e crescere il seme, che guida e anima la Chiesa.
Nella prima lettura il profeta Ezechiele si rivolge al popolo ebreo sfiduciato e scoraggiato, deportato in esilio a Babilonia e adopera l’immagine della cima del cedro reciso e trapiantato su di un altro terreno. Il popolo ebreo teme di essere stato abbandonato da Dio, teme di essere destinato alla dispersione, di essere votato allo sterminio. Solo pochi rimangono fedeli e radicati nella speranza, fedeli alle promesse.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, ci esorta ad avere fiducia in Dio ed essere sicuri che Dio non dimentica nulla di quanto facciamo di bene nel suo amore.
Nel Vangelo di Marco, Gesù con le parabole del piccolo seme che germoglia e cresce e del granello di senape che si sviluppa fino a diventare un grande arbusto, mette in evidenza la sproporzione tra gli umili inizi e il grandioso risultato del Regno di Dio che Egli annuncia.

Dal libro del profeta Ezechièle
Così dice il Signore Dio:
«Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami lo coglierò
e lo pianterò sopra un monte alto, imponente;
lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti
e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
Sapranno tutti gli alberi della foresta
che io sono il Signore,
che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso,
faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.
Io, il Signore, ho parlato e lo farò».
Ez 17,22-24

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo.
Centro del messaggio di Ezechiele è la trascendenza di Dio, caratteristica condivisa con gli altri grandi profeti. Nella grande teofania iniziale e nella seconda grande teofania, evita accuratamente di dare una rappresentazione della divinità, e descrive in termini fantasticamente antropomorfici 'la corte divina',e non la divinità in sé. Ezechiele aveva fatto proprio anche un messaggio di giudizio. Giuda aveva disobbedito alle leggi di Dio, trascurato il sabato, profanato il Tempio, praticato l'impurità, stretto legami con popoli stranieri e per tutto questo doveva essere punito. Ma Ezechiele si fece portatore anche di un messaggio di speranza, perché Giuda si sarebbe risollevato dalla sua caduta come un morto che risuscita dalla tomba.
Questo brano ci porta all’anno 597 a.C. quando Nabucodonosor deportò in Babilonia il re Ioiachin e mise al suo posto Sedecia, il quale non solo ruppe l’alleanza con il re di Babilonia, ma anche con Dio.
Il Signore allora lo castiga, ma senza però interrompere con il popolo di Israele l’opera di salvezza promessa. Infatti tramite Ezechiele annuncia la restaurazione del regno ricorrendo a delle allegorie, (nei versetti precedenti questo brano c’è l’allegoria dell’Aquila che richiamava Nabucodonosor) ora con l’allegoria dell’agricoltore dichiara:
“Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico”.
Ezechiele paragona la storia del suo popolo a un grande cedro nato e cresciuto per iniziativa di Dio. L'albero è divenuto infruttuoso a causa dell'infedeltà, perciò Dio reciderà un ramoscello dalla sua cima per trapiantarlo in un altro terreno (simbolo della deportazione in Babilonia).
In mezzo all'infedeltà generale, però, un "piccolo resto" è rimasto fedele a Dio e alla Sua alleanza e, grazie ad esso, il piano di Dio giungerà a compimento.
Questo "resto fedele“, simboleggiato nel ramoscello che Dio stesso ha reciso “dalla cima del cedro”, e piantato di nuovo sul monte alto d’Israele, metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico” alla cui ombra ogni volatile riposerà.
E’ l’albero messianico, simbolo di vita, di speranza e di protezione, un segno verso il quale volgeranno lo sguardo gli altri popoli per arrivare al culto del vero Dio.
In questa interpretazione dell'esilio babilonese si sente l'eco dell'esodo dall'Egitto: due esperienze distanti nel tempo, ma che hanno aiutato Israele a crescere nella coscienza di popolo di Dio; un Dio che tra le complesse vicende umane è sempre capace di costruire e tracciare una nuova storia per il Suo popolo. E'Dio il garante del futuro soprattutto per chi è debole, piccolo e senza speranza.
Il versetto finale: “Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco” che possiamo collegare alle parole di Maria nel Magnificat: "Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili..“ ci presentano un Dio che vuole anche oggi un futuro, una dignità, per ogni persona anche piccola, per ogni popolo povero e oppresso. Nessuno nella vita può considerarsi un fallito, perché veglia su di lui il Dio della vita che si fa solidale con l'uomo.


Salmo 91 È bello rendere grazie al Signore.
È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte.
Il giusto fiorirà come palma
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore
fioriranno negli atri del nostro Dio

Nella vecchiaia daranno ancora frutti
saranno verdi e rigogliosi
per annunciare quanto è retto il Signore:
mia roccia, in lui non c’è malvagità.

Il salmo esordisce presentando la bellezza del dar lode a Dio, della preghiera che canta contemplando ciò che Dio è: “Al tuo nome, o Altissimo”.
Il salmo è individuale, ma celebra la preghiera liturgica del tempio, dove erano in uso gli strumenti musicali e dove si lodava Dio anche durante veglie notturne. A questa preghiera nel tempio egli partecipava.
Il salmista, probabilmente un levita, riflette sulla grandezza delle opere di Dio: la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai, la conquista della Terra Promessa, la costruzione del tempio.
Egli osserva che i pensieri di Dio hanno una profondità tale che gli uomini non possono esaurirne la comprensione (Cf. Ps 35,7; 39,6).
Gli uomini insensati non sono umili, per questo non possono intendere le cose di Dio, e scelgono i loro vaneggiamenti che li conducono alla rovina eterna, che come tale è irreversibile. Il loro fiorire e affermarsi “è solo per la loro eterna rovina”.
Il salmista ha molti nemici, che sono anche e principalmente nemici di Dio, ma riceve da Dio la forza per la lotta: “Tu mi doni la forza di un bufalo, mi hai cosparso di olio splendete”.
Noi in Cristo la forza la riceviamo dallo Spirito Santo, e l'olio che abbiamo ricevuto è quello del crisma del sacramento della Confermazione.
La forza e la sicurezza che il salmista sente nella fede lo porta a non temere gli uomini, gli avversari: “I miei occhi disprezzeranno i miei nemici”. Per noi cristiani non c'è il disprezzo dei nemici in quanto persone, ma solo disprezzo delle loro lusinghe per travolgerci, delle loro intimidazioni per fiaccarci.
E' certo che gli empi non potranno prosperare che per un attimo, ma poi cadranno in rovina: “Contro quelli che mi assalgono, i miei orecchi udranno sventure”.
Il contrario avverrà per i giusti, che si radicano nella frequentazione del tempio, e per questo fioriranno “negli atri del nostro Dio”, e nella vecchiaia “daranno ancora frutti”. Esempi perfetti di questo sono Simeone ed Anna (Lc 2,25s.36s).
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla Seconda Lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.
Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi.
Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.
2Cor 5,6-10

Paolo sente la necessità di scrivere una seconda lettera ai Corinzi perchè aveva saputo che a Corinto erano arrivati in quel periodo degli evangelizzatori che avevano, non soltanto preso le loro distanze dalla persona di Paolo (anziché riconoscerne l'autorità e il suo ruolo di privilegio nei confronti dei Corinzi, essendo egli il fondatore di quella comunità), ma addirittura erano giunti a contestare la sua autorità di apostolo e di padre della comunità. Erano con tutta probabilità giudeo-cristiani venuti da fuori regione, con delle lettere credenziali che avevano lo scopo di "raccomandarli" presso la comunità di Corinto, e presentandosi, si definivano "servitori di Cristo e suoi apostoli“. Con tutta probabilità si facevano mantenere dalle comunità stesse (per questa ragione Paolo, polemicamente, insiste sul suo lavoro con cui ha provveduto personalmente al proprio mantenimento senza pesare sugli altri). Paolo si mostra dunque molto duro e severo anche con la comunità di Corinto che li ha accettati e seguiti, anziché metterli al bando e restare fedele al suo fondatore.
In questo brano l’Apostolo, continua ad approfondire il tema, già iniziato, di tenere sempre lo sguardo rivolto ai beni eterni, e presenta il desiderio di lasciare il corpo per abitare presso il Signore, cioè giungere alla visione beatifica. Queste parole ci dicono come l'anima fedele dopo la morte salirà a Dio vedendolo così come egli è (Fil 1,23; 1Gv 3,2). La visione beatifica non sarà dunque solo alla risurrezione dei corpi, ma dopo la morte per quelli che sono morti in Cristo. Non si dà assolutamente una sospensione dell'attività dell'anima, (come ad esempio si vede nella parabola del ricco epulone), ma anzi essa è superattiva nella carità perché non cammina più nella fede, ma è nella visione di Dio. (Ap 4,4) . Dio inoltre darà all'anima, con una suprema luce, la possibilità di vederlo faccia a faccia (1Cor 13,12). Inoltre, quando l'anima si separerà dal corpo per la morte, c'è subito un giudizio per ciascuno, il giudizio particolare: “Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male”.
Fa un po’ impressione leggere: “comparire davanti al tribunale di Cristo”, ma dobbiamo pensare che la nostra salvezza è sicura. Noi non compariremo in giudizio, ma tutta la nostra vita sarà ripercorsa, come in un film, rivelando tutto ciò che avremo fatto, “di bene o di male”, e riceveremo o un guadagno o una perdita. Ma, nello stesso tempo, il Signore mostrerà come la sua grazia abbia saputo trarre il suo fulgore anche dai nostri peccati.
Ciò che conta è di essere fin da oggi graditi a Dio rendendosi docili alla Sua volontà, svolgendo sempre bene le proprie azioni quotidiane, per essere pronti a sostenere vittoriosi il giudizio davanti al tribunale di Cristo. L’invito è a vivere quaggiù con la speranza fondata su Cristo e non sulle proprie forze.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
Mc 4,26-34

Da questa domenica riprendiamo la lettura del vangelo di Marco che ci accompagnerà fino al prossimo Avvento Su questo brano meditiamo su due parabole: la prima, è quella del “seme” che germoglia e cresce da solo, tipica di Marco, la seconda è quella della senape, narrata anche da Matteo e Luca, ma con minor apporto di particolari.
La prima parabola inizia parlando di un uomo che getta il seme nella terra “dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura”. Con questo paragone Gesù ci vuole far comprendere come l'agricoltore che semina il buon seme deve anche saper attendere pazientemente il raccolto. Nello stesso modo dobbiamo fare anche noi: dobbiamo cioè seminare il bene attorno a noi e, a suo tempo, raccoglieremo questo bene, moltiplicato, anche se, il più delle volte, saranno gli altri, che verranno dopo di noi, a vedere i frutti.
La seconda parabola Gesù la fa iniziare con una domanda: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”.
Nella Terra Santa, ai tempi di Gesù, con il nome di senapa chiamavano, oltre alla pianta che noi conosciamo, anche un albero che raggiunge diversi metri di altezza. Questa parabola ci insegna come il Signore, per diffondere il bene nel mondo, si serve di strumenti umili e semplici. Sono queste le Sue preferenze, e così ha fatto anche quando ha scelto gli Apostoli, umili e semplici pescatori, e li ha fatti diventare evangelizzatori del mondo.
Gesù con le Sue parabole cerca di dare soprattutto una risposta alle idee e alle aspettative messianiche degli Ebrei del Suo tempo. C'erano i Farisei, i quali pensavano che si potesse affrettare l'avvento del Regno di Dio con la penitenza, con i digiuni, con l'osservanza, in genere, della Legge e delle tradizioni. C'erano poi gli Zeloti, che cercavano di impiantare il Regno ricorrendo alla violenza e alla resistenza armata contro i conquistatori romani. C'erano infine gli Apocalittici, che erano convinti di stabilire con precisione, attraverso i loro calcoli complicati, l'ora e il luogo della gloriosa manifestazione del Messia.
Gesù corregge queste varie attese e afferma solennemente che il Regno dei cieli è opera di Dio e non degli uomini. Entrambe le parabole, infatti, mettono in evidenza la inadeguatezza e l' assoluta irrilevanza degli strumenti umani, che Dio usa per realizzare il suo Regno.
La parola di Dio è come il seme, una volta entrata nel cuore non rimane senza effetto, ma germoglia e cresce anche quando tutto sembra spento e morto. Non dobbiamo mai dimenticare che è Dio che lo fa crescere, quando e come vuole.

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“Nell’odierna pagina evangelica (cfr Mc 4,26-34), Gesù parla alle folle del Regno di Dio e dei dinamismi della sua crescita, e lo fa raccontando di due brevi parabole.
Nella prima parabola, il Regno di Dio è paragonato alla crescita misteriosa del seme, che viene gettato sul terreno e poi germoglia, cresce e produce la spiga, indipendentemente dalla cura del contadino, che al termine della maturazione provvede al raccolto. Il messaggio che questa parabola ci consegna è questo: mediante la predicazione e l’azione di Gesù, il Regno di Dio è annunciato, ha fatto irruzione nel campo del mondo e, come il seme, cresce e si sviluppa da sé stesso, per forza propria e secondo criteri umanamente non decifrabili. Esso, nel suo crescere e germogliare dentro la storia, non dipende tanto dall’opera dell’uomo, ma è soprattutto espressione della potenza e della bontà di Dio, della forza dello Spirito Santo che porta avanti la vita cristiana nel Popolo di Dio.
A volte la storia, con le sue vicende e i suoi protagonisti, sembra andare in senso contrario al disegno del Padre celeste, che vuole per tutti i suoi figli la giustizia, la fraternità, la pace. Ma noi siamo chiamati a vivere questi periodi come stagioni di prova, di speranza e di attesa vigile del raccolto. Infatti, ieri come oggi, il Regno di Dio cresce nel mondo in modo misterioso, in modo sorprendente, svelando la potenza nascosta del piccolo seme, la sua vitalità vittoriosa. Dentro le pieghe di vicende personali e sociali che a volte sembrano segnare il naufragio della speranza, occorre rimanere fiduciosi nell’agire sommesso ma potente di Dio. Per questo, nei momenti di buio e di difficoltà noi non dobbiamo abbatterci, ma rimanere ancorati alla fedeltà di Dio, alla sua presenza che sempre salva. Ricordate questo: Dio sempre salva. È il salvatore.
Nella seconda parabola, Gesù paragona il Regno di Dio a un granellino di senape. E’ un seme piccolissimo, eppure si sviluppa così tanto da diventare la più grande di tutte le piante dell’orto: una crescita imprevedibile, sorprendente.
Non è facile per noi entrare in questa logica della imprevedibilità di Dio e accettarla nella nostra vita. Ma oggi il Signore ci esorta a un atteggiamento di fede che supera i nostri progetti, i nostri calcoli, le nostre previsioni. Dio è sempre il Dio delle sorprese. Il Signore sempre ci sorprende. È un invito ad aprirci con più generosità ai piani di Dio, sia sul piano personale che su quello comunitario.
Nelle nostre comunità occorre fare attenzione alle piccole e grandi occasioni di bene che il Signore ci offre, lasciandoci coinvolgere nelle sue dinamiche di amore, di accoglienza e di misericordia verso tutti.
L’autenticità della missione della Chiesa non è data dal successo o dalla gratificazione dei risultati, ma dall’andare avanti con il coraggio della fiducia e l’umiltà dell’abbandono in Dio. Andare avanti nella confessione di Gesù e con la forza dello Spirito Santo. È la consapevolezza di essere piccoli e deboli strumenti, che nelle mani di Dio e con la sua grazia possono compiere opere grandi, facendo progredire il suo Regno che è «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17). La Vergine Maria ci aiuti ad essere semplici, ad essere attenti, per collaborare con la nostra fede e con il nostro lavoro allo sviluppo del Regno di Dio nei cuori e nella storia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 giugno 2018

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La festa del Corpus Domini, più propriamente chiamata solennità del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, è una delle principali solennità dell'anno liturgico e la celebrazione, chiudendo il ciclo delle feste del dopo Pasqua, vuole celebrare il mistero dell'Eucaristia. Questa festa è stata istituita nel lontano 1264 da Papa Urbano IV a ricordo del miracolo eucaristico avvenuto nel 1263 a Bolsena.
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo, leggiamo che il popolo d’Israele ai piedi del monte Sinai strinse solennemente l’alleanza con Dio, impegnandosi ad osservare con totale fedeltà i comandamenti del Signore. Il sangue sparso sull’altare e sul popolo prefigura il sangue di Cristo nostro Salvatore.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, l’autore afferma che il sangue di Cristo, immolato sulla croce una volta per sempre, elimina l’ostacolo dell’incontro con Dio, cioè il peccato, che l’antico rituale ebraico non era in grado di togliere.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco ci fa rivivere la scena della Cena Pasquale, in cui Gesù istituisce l’Eucaristia nella quale si offre vittima per i peccati del mondo. La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore è una pregustazione di una intimità senza incrinature e senza frontiere con Dio. E’ per questo che l’Eucaristia domenicale è celebrata sempre “nell’attesa della venuta” gloriosa di Cristo. L’eucaristia è espressione della presente vicinanza di Dio con il Suo popolo, che pellegrina in mezzo alle oscurità della storia, ma è anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno eliminati per sempre.

Dal Libro dell’Esodo
In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!».
Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.
Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
Es. 24,3-8

Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nel brano che la Liturgia ci propone, tratto dal 24^ capitolo, troviamo descritte varie operazioni che compie Mosé per celebrare un rito che sancisce un'Alleanza con Dio e il Suo l popolo. Dio accetta questi riti perché sono segni che si praticavano a quei tempi e la gente li capiva. In questo modo il Signore vuole garantire un'alleanza concreta con il Suo popolo attraverso il sacrificio di animali con il mutuo consenso del popolo intero e non solo di Mosè. Così metà del sangue è versato sull'altare (che rappresenta Dio): Dio in tal modo esprime il Suo consenso. Un'altra metà è posta in catini. Poi dopo queste azioni Mosé “prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».” Un'alleanza si compie quando per tutti sono chiare le clausole e si sa quello che si accetta. E qui vengono lette le leggi che il popolo deve mantenere per stare ai patti e quindi meritare la fiducia del Signore e la Sua protezione. Il popolo accetta e formula anche verbalmente la propria adesione. Accettata l'alleanza perché c'è accordo con le regole-leggi di Dio, Mosè versa l'altra metà del sangue contenuta nei catini “dicendo «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!”.
Con tutta probabilità, anche se non viene riportato, si asperge il popolo versando il sangue su dodici stele o colonnine, presumibilmente disposte in cerchio che rappresentano le 12 tribù. La medesima vita, rappresentata dal sangue, lega i due contraenti: Dio e il Suo popolo diventano "consanguinei". Un patto di sangue lega ormai il Signore e Israele in una relazione di intimità e di amore.
E’ proprio a quelle parole che Gesù si ricollega nell’ultima sera della Sua vita terrena, quando nel cenacolo celebra la cena pasquale con i Suoi discepoli.

Salmo 115 - Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore.

Che cosa renderò al Signore,
per tutti i benefici che mi ha fatto?
Alzerò il calice della salvezza
e invocherò il nome del Signore.

Agli occhi del Signore è preziosa
la morte dei suoi fedeli.
Io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.

A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo.

Il salmista ha provato momenti di sgomento di fronte agli inganni degli uomini. Si era trovato imprigionato, ma poi ha visto la libertà: “hai spezzato le mie catene”. Come risposta il salmista offrirà “un sacrificio di ringraziamento".
Una parte delle vittime sacrificate spettava all'offerente, che la consumava in un convito coi famigliari, gli amici, i poveri (Cf. Ps 21,27). Durante il convito l'offerente prendeva una coppa di vino presentandola al Signore e poi ne beveva lui e tutti gli altri: “Alzerò il calice della salvezza”.
Il salmista dice che “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli”, intendendo affermare che l'ora della morte dei fedeli a Dio non è ad arbitrio degli uomini. Lui decide il dove, il come e il quando, e questo per il bene del fedele.
Il salmista offrirà "un sacrificio di ringraziamento" davanti a tutto il popolo, e con piena ortodossia nel tempio del Signore, a Gerusalemme, testimoniando così pubblicamente la sua fede nel Signore.
L'esistenza del tempio porta a pensare ad un personaggio perseguitato per la sua fedeltà a Dio da un qualche re di Gerusalemme rivolto agli dei pagani; come fu il caso di Geremia.
“Il calice della salvezza”, nel sensus plenior è quello eucaristico.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Lettera agli Ebrei
Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.
Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?
Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.
Eb 9,11-15

L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Bibbia, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se rimaste sconosciute. Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica .
Il capitolo 9, da dove è tratto questo brano, mette a confronto il sacrificio di Cristo, sacerdote e vittima con quello offerto nel grande giorno dell’espiazione. Nel rito ebraico il sommo sacerdote una volta all’anno, durante la festa dell’Espiazione (Yom Kippur), entrava con il sangue dell’espiazione nel Santo dei Santi e lì, nascosto alla vista del popolo, rimaneva però al suo servizio in quanto ne espiava le colpe offrendo il sacrificio annuale.
A confronto del sommo Sacerdote, Cristo è entrato una sola volta e per sempre nel santuario celeste e non con il sangue di capri e di tori ha offerto il sacrificio, ma con il proprio sangue proclamando per tutti una redenzione definitiva, eterna, perchè il Suo sacrificio ha valore eterno. Infatti se già purificava il sacrificio di sangue di capri e tori, di gran lunga maggiore sarà la purificazione ottenuta con un sangue senza macchia e per di più del Figlio di Dio. Per questo Gesù è divenuto mediatore di un nuovo patto, una nuova alleanza, assolutamente perfetta, che assicura a quelli che credono in Lui l’eredità promessa.

Il “Santo dei Santi o Sancta sanctorum”, letteralmente “camera posteriore”, era la parte più santa del tempio, era il luogo della presenza di Dio, il luogo in cui si trovava l’arca con le tavole della legge, coperta dal propiziatorio costituito da una lastra d’oro e due angeli che la coprivano con le loro ali.
Il Santo dei Santi era una cella cubica di circa 9 metri di lato e separata dall’altra parte del tempio da una porta, poi sostituita da una tenda: il “Velo del tempio” che si squarciò alla morte di Gesù in croce (Mc 15,38; Mt, 27,51; Lc 23,45

Dal Vangelo secondo Marco
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Mc 14,12-16.22-26

L’evangelista Marco struttura il racconto della cena del Signore su quanto si legge nel Libro dell’Esodo, in cui Mosè prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo, poi prese il sangue e ne asperse il popolo e disse “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole”.
Il brano liturgico inizia in questo modo: Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».1
I discepoli chiedono a Gesù dove vuole celebrare la Pasqua in modo di avere il tempo per i vari preparativi come la pulizia rituale degli ambienti e l’acquisto dell’agnello e di gli altri cibi necessari prima del calar del sole. Come risposta alla domanda dei discepoli Gesù manda due di loro in città dopo aver programmato tutto nel minimo dettaglio. I discepoli allora vanno e, entrati in città, trovano come aveva detto loro e preparano per la Pasqua. Ancora una volta, come in occasione dell’ingresso in Gerusalemme, Gesù agisce come il regista di un piano preordinato da Dio e da Lui pienamente conosciuto e accettato.
All’inizio della cena Gesù dimostra nuovamente la piena consapevolezza di quanto sta per accadere (anche il tradimento di Giuda) e dei suoi sviluppi futuri. Il brano precisa che mentre mangiavano, Gesù “prese il pane e recitò la benedizione”; questi gesti richiamano il rito con cui aveva inizio non solo la cena pasquale, ma ogni banchetto giudaico.
Per i giudei la benedizione consisteva in un ringraziamento a Dio per i benefici accordati al Suo popolo, dei quali il pane era simbolo; mangiando insieme il pane spezzato i commensali esprimevano da una parte l’accettazione dei doni di Dio e dall’altra il rapporto di comunione tra loro, che ne era la diretta conseguenza. Gesù, pur seguendo il rituale, ne offre all’improvviso un significato sorprendente e inedito perchè afferma rivolto ai commensali “Prendete, questo è il mio corpo!”. Ciò significa, secondo il linguaggio biblico, che il pane rappresenta Lui stesso, la Sua persona. Spezzando quel pane e offrendolo ai commensali, Gesù stabiliva con loro un legame di comunione profonda, facendo si che essi entrassero nella Sua stessa vita, nella Sua morte e nella Sua gloria.
Secondo il costume giudaico, alla consumazione del pane azzimo e dell’agnello pasquale seguiva la benedizione solenne che si pronunziava su una coppa di vino per ringraziare Dio per i benefici concessi al Suo popolo: tutti i commensali poi ne bevevano, per testimoniare così nuovamente la comunione che si era stabilita tra di loro in forza del dono ricevuto da Dio. Anche a questo punto Gesù imprime al rituale una svolta con le parole del Suo “ringraziamento”: “ Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”. E’ qui che riecheggiano le parole di Mosè al Sinai: il vino della Pasqua è ora il sangue di Cristo, che crea l’alleanza piena e perfetta tra Dio e l’uomo. “Il sangue versato per molti”, è un’espressione orientale per indicare che è il sangue di una persona sacrificata per salvare tutti gli uomini.
Gesù poi aggiunge un ultimo messaggio: “io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio” ossia Egli annunzia che dopo la cena eucaristica e la pausa buia della morte, berrà il calice del vino nuovo nel regno di Dio.
E’ il banchetto della perfezione celeste cantato da Isaia, in cui “il Signore Dio eliminerà la morte per sempre; asciugherà le lacrime su ogni volto” Is 25,8
La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore è, quindi una pregustazione di un’intimità senza limiti con Dio.
Dobbiamo sempre avere in mente che l’eucaristia è espressione della presente vicinanza di Dio con il Suo popolo in cammino in mezzo alle oscurità della storia, ma anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno eliminate per sempre.

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Si conoscono tanti Miracoli Eucaristici, il più conosciuto è quello di Bolsena, che ha dato origine alla festa del Corpus Domini, ma il più straordinario è senza dubbio quello di Lanciano che è avvenuto intorno all'anno settecento.. Ciò si desume da circostanze e concomitanze storiche dovute alla persecuzione in Oriente da parte dell'Imperatore Leone III, l'Isaurico, il quale iniziò una feroce persecuzione contro la Chiesa e il culto delle immagini sacre (iconoclastia).
In concomitanza della "lotta iconoclasta" nella Chiesa orientale, molti monaci greci si rifugiarono in Italia, tra essi i monaci basiliani, discepoli di San Basilio (329-379) Vescovo di Cesarea di Cappadocia (nell'attuale Turchia Orientale). Alcune comunità di esse si rifugiarono a Lanciano.
Un giorno un monaco mentre celebrava la Santa Messa fu assalito dal dubbio circa la presenza reale di Gesù nella Santa Eucaristia. Pronunziate le parole della consacrazione sul pane e sul vino, all'improvviso, dinanzi ai suoi occhi vide il pane trasformarsi in Carne, il vino in Sangue…
Alle varie ricognizioni ecclesiastiche, condotte fin dal 1574, seguì, nel 1970-1971 e ripresa in parte nel 1981, quella scientifica, compiuta da illustri scienziati. Le analisi, eseguite con assoluto rigore scientifico e documentate da una serie di fotografie al microscopio, hanno dato questi risultati: La Carne è vera Carne. Il Sangue è vero Sangue. La Carne e il Sangue appartengono alla specie umana. La Carne è un "CUORE" completo nella sua struttura essenziale. Nella Carne sono presenti, in sezione, il miocardio, l'endocardio, il nervo vago e, per il rilevante spessore del miocardio, il ventricolo cardiaco sinistro. La Carne e il Sangue hanno lo stesso gruppo sanguigno: AB, lo stesso del lenzuolo della Sacra sindone di Torino .
La conservazione della Carne e del Sangue miracolosi, lasciati allo stato naturale per dodici secoli ed esposti all'azione di agenti fisici, atmosferici e biologici, rimane un fenomeno straordinario.
A conclusione si può dire che la Scienza, chiamata in causa, ha dato una risposta sicura ed esauriente circa la autenticità del Miracolo Eucaristico di Lanciano.

Oggi in molti Paesi, tra i quali l’Italia, si celebra la solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, o, secondo la più nota espressione latina, la solennità del Corpus Domini. Il Vangelo ci riporta le parole di Gesù, pronunciate nell’Ultima Cena con i suoi discepoli: «Prendete, questo è il mio corpo». E poi: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti». Proprio in forza di quel testamento d’amore, la comunità cristiana si raduna ogni domenica, e ogni giorno, intorno all’Eucaristia, sacramento del Sacrificio redentore di Cristo. E attratti dalla sua presenza reale, i cristiani lo adorano e lo contemplano attraverso l’umile segno del pane diventato il suo Corpo.
Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, mediante questo Sacramento così sobrio e insieme così solenne, noi facciamo esperienza della Nuova Alleanza, che realizza in pienezza la comunione tra Dio e noi. E in quanto partecipi di questa Alleanza, noi, pur piccoli e poveri, collaboriamo a edificare la storia come vuole Dio.
Per questo, ogni celebrazione eucaristica, mentre costituisce un atto di culto pubblico a Dio, rimanda alla vita e alle vicende concrete della nostra esistenza. Mentre ci nutriamo del Corpo e Sangue di Cristo, siamo assimilati a Lui, riceviamo in noi il suo amore, non per trattenerlo gelosamente, bensì per condividerlo con gli altri. Questa logica è inscritta nella Eucaristia riceviamo in noi il suo amore e lo condividiamo con gli altri. Questa è la logica eucaristica. In essa infatti contempliamo Gesù pane spezzato e donato, sangue versato per la nostra salvezza. E’ una presenza che come fuoco brucia in noi gli atteggiamenti egoistici, ci purifica dalla tendenza a dare solo quando abbiamo ricevuto, e accende il desiderio di farci anche noi, in unione con Gesù, pane spezzato e sangue versato per i fratelli.
Pertanto, la festa del Corpus Domini è un mistero di attrazione a Cristo e di trasformazione in Lui. Ed è scuola di amore concreto, paziente e sacrificato, come Gesù sulla croce. Ci insegna a diventare più accoglienti e disponibili verso quanti sono in cerca di comprensione, di aiuto, di incoraggiamento, e sono emarginati e soli. La presenza di Gesù vivo nell’Eucaristia è come una porta, una porta aperta tra il tempio e la strada, tra la fede e la storia, tra la città di Dio e la città dell’uomo.

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 3 giugno 2018

 

1 Il termine Pasqua indica due feste che in origine erano separate, la Pasqua propriamente detta, che consisteva nell’immolazione dell’agnello e nella sua consumazione nell’ambito familiare, e gli Azzimi, che consisteva nel consumare pane azzimo per la durata di una settimana (Es 12,1-20). Nel volgere degli anni le due feste sono state fuse: il giorno di Pasqua in senso proprio è diventato così il primo giorno della settimana degli Azzimi, la quale termina poi con un’altra assemblea festiva. La Pasqua aveva luogo il 15 del mese di Nisan. Siccome il calendario allora in uso era basato sui cicli lunari, la data della pasqua variava ogni anno. La celebrazione della festa iniziava il giorno precedente, dopo il calar del sole. La Pasqua rappresenta per gli ebrei il ricordo annuale dell’uscita degli israeliti dall’Egitto; ad essa era collegato, il ricordo di altri eventi salvifici, quali la creazione, l’alleanza di Dio con Abramo, il sacrificio di Isacco e infine la venuta del Messia.

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica dopo Pentecoste, invitandoci a fissare lo sguardo sul mistero della SS Trinità, ci fanno intravedere il volto di Dio invisibile, misericordioso e pietoso, che si occupa di ognuno di noi, che è Padre, Figlio e Spirito Santo.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, Mosè parla alla sua gente per spiegare loro che mai nessun popolo sulla terra ha avuto l’esperienza di Dio come Israele in Egitto: sentirsi scelti da Dio e soprattutto sul Sinai sentire la voce del proprio Dio e rimanere vivi.
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera ai Romani, approfondisce il tema della figliolanza con Dio, facendo osservare ai destinatari della sua lettera che essi non hanno ricevuto uno spirito da schiavi, che li farebbe ricadere inevitabilmente nella paura, ma uno Spirito che rende figli adottivi. E aggiunge che proprio in forza di questo Spirito noi gridiamo:Abbà! Padre!.
Nel Vangelo, Matteo ci dice che tra i compiti affidati da Gesù ai suoi discepoli prima di ascendere al cielo c’è quello di battezzare “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.
Nel Battesimo il credente è introdotto nella vita di Dio ed è immerso nel Suo amore trinitario, e come figlio può chiamare Dio “Padre”, perché partecipe dello stesso Spirito del Figlio Unigenito. La Trinità non è un mistero da contemplare o da sforzarsi di capire:, è un abbraccio di amore in cui abbandonarsi.

Dal Libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?
O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi?
Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».
Dt 4,32-34,39-40

Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È’ composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali (nella Torah, o “Legge mosaica”, sono enumerati anche un insieme di 613 mitzvòt, o precetti). Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque solo allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
Questo brano, in cui Mosè continua a ricordare alla sua gente la grandezza di Dio e le grandi cose che Lui ha fatto per il Suo popolo, inizia con delle domande che non necessitano di risposta: “vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?”... Mai nessun popolo sulla terra ha avuto l’esperienza di Dio come Israele in Egitto … riuscire a capire che Dio è vicino al Suo popola per essere sorgente di vita!
Poi Mosè invita il popolo a meditare bene nel proprio cuore che: “il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre”.
L'esperienza d'Israele è quella di “un Dio misericordioso; che non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri”. (Dt4,31).
Il senso della fede del popolo di Dio è tutta relazionale; la dimensione spirituale passa attraverso il rapporto amorevole o conflittuale con l'unico Dio che ha scelto per ragioni misteriose proprio quel popolo, lo ha reso Suo “partner” con un Patto che si è mantenuto saldo per Sua misericordiosa volontà.
Tutto quello che siamo anche noi oggi è legato al bene che Dio ci vuole; ogni giorno possiamo essere certi che Lui ci vuole bene perché il bene, che i nostri padri hanno ricevuto al loro tempo, in realtà è fatto anche a noi oggi. Quella che ora meditiamo è una grande dichiarazione d'amore che è scritta nel nostro DNA e che va oltre lo spazio e il tempo.
La felicità per noi oggi, e per i nostri figli domani, sta nella fede che ci fa sentire Dio vicino a noi, come nostro Padre, nella gioia originata dalla comunione col Signore Gesù che ci fa gustare il sapore della vera felicità nel rendere felici gli altri, perché testimoni della Misericordia che lo Spirito Santo continuamente ci annuncia.

Salmo 32 Beato il popolo scelto dal Signore.
Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Dalla parola del Signore furono fatti i cieli,
dal soffio della sua bocca ogni loro schiera.
Perché egli parlò e tutto fu creato,
comandò e tutto fu compiuto.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore,
Signore, come da te noi speriamo.

Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni.
La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.
Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore.
“Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.
Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”.
La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere.
Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi ”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15).
Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.
Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di San Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Rm 8,14-17

Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È’ composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali (nella Torah, o “Legge mosaica”, sono enumerati anche un insieme di 613 mitzvòt, o precetti). Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque solo allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
Questo brano, in cui Mosè continua a ricordare alla sua gente la grandezza di Dio e le grandi cose che Lui ha fatto per il Suo popolo, inizia con delle domande che non necessitano di risposta: “vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?”... Mai nessun popolo sulla terra ha avuto l’esperienza di Dio come Israele in Egitto … riuscire a capire che Dio è vicino al Suo popola per essere sorgente di vita!
Poi Mosè invita il popolo a meditare bene nel proprio cuore che: “il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre”.
L'esperienza d'Israele è quella di “un Dio misericordioso; che non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri”. (Dt4,31).
Il senso della fede del popolo di Dio è tutta relazionale; la dimensione spirituale passa attraverso il rapporto amorevole o conflittuale con l'unico Dio che ha scelto per ragioni misteriose proprio quel popolo, lo ha reso Suo “partner” con un Patto che si è mantenuto saldo per Sua misericordiosa volontà.
Tutto quello che siamo anche noi oggi è legato al bene che Dio ci vuole; ogni giorno possiamo essere certi che Lui ci vuole bene perché il bene, che i nostri padri hanno ricevuto al loro tempo, in realtà è fatto anche a noi oggi. Quella che ora meditiamo è una grande dichiarazione d'amore che è scritta nel nostro DNA e che va oltre lo spazio e il tempo.
La felicità per noi oggi, e per i nostri figli domani, sta nella fede che ci fa sentire Dio vicino a noi, come nostro Padre, nella gioia originata dalla comunione col Signore Gesù che ci fa gustare il sapore della vera felicità nel rendere felici gli altri, perché testimoni della Misericordia che lo Spirito Santo continuamente ci annuncia.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Mt 28, 16-20

L’evangelista Matteo nel capitolo 28 nel suo Vangelo racconta che l’angelo al sepolcro aveva detto alle donne di riferire ai discepoli che Gesù risorto li avrebbe preceduti in Galilea e là lo avrebbero visto. Ora egli precisa che effettivamente i discepoli si sono recati in Galilea e si sono radunati su un monte. Anche questo monte, come quello delle beatitudini, ha un significato teologico perchè proprio nel luogo prescelto essi vedono Gesù e si prostrano davanti a Lui, ma Matteo però precisa che nello stesso tempo essi dubitano.
La loro reazione evidenzia una fede mescolata al dubbio, che nel cammino dei credenti rimane sempre presente, come un’ombra inseparabile. Matteo non descrive i dettagli di questa apparizione, ma riporta che è Gesù che prende l’iniziativa facendosi vedere; e avvicinandosi a loro dichiara: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra.” In forza della Sua morte e risurrezione è stato conferito a Gesù il potere stesso di Dio, che consiste nella capacità di instaurare il Suo regno e di portare la salvezza a tutta l’umanità. La pienezza di questo potere è sottolineata dall’espressione “in cielo e sulla terra”, che indica i due estremi che racchiudono ogni realtà creata.
“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”.
L’autorità del Risorto viene conferita ai discepoli, che in nome del Maestro dovranno andare in tutto il mondo per compiere diverse azioni: fare discepoli, battezzare, insegnare.
L’attività degli Undici consisterà dunque nel “fare discepoli tutti i popoli”… il programma dunque è il discepolato, che ora, dopo la risurrezione di Gesù, deve essere esteso a tutti. Matteo non pensa a una cristianizzazione in massa dei pagani, ma alla formazioni di comunità in cui i pagani diventano, allo stesso modo dei giudei, discepoli di Gesù. Questi pagani, come conseguenza del fatto di essere diventati anche loro discepoli, dovranno essere battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: in questa formula si mostra come il battesimo, amministrato originariamente nel nome di Gesù (v. At 8,16; 10,48; 19,5), comporti non solo un coinvolgimento nella persona e nell’insegnamento del Figlio, ma anche un’immersione per mezzo Suo nel Padre e nello Spirito Santo.
Ciò che Gesù comanda ai suoi discepoli non è certo facile da eseguire , il suo sembrerebbe un comandamento arduo se Lui non avesse aggiunto: “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Gesù assumendo la nostra natura umana, è divenuto veramente l'"Emmanuele", cioè il "Dio con noi" .In un dialogo incessante d'amore Gesù risorto continua a ripetere ad ognuno di noi: “non temere Io sono con te!“.

 

**********


Stavo rimpiangendo il passato
e temendo il futuro.
Improvvisamente il Signore parlò:
Mi chiamo: Io sono .
Tacque
Attesi
Egli continuò:
Quando vivi nel passato,
coi suoi errori e i suoi rimpianti è duro:
io non ci sono.
Il mio nome non è: io ero.

Quando vivi nel futuro,
coi suoi problemi e le sue paure,
è duro. Io non ci sono.
Il mio nome non è: io sarò.
Quando vivi nel momento presente
non è difficile.
Io ci sono,
il mio nome è: IO SONO

“Oggi, domenica dopo Pentecoste, celebriamo la festa della Santissima Trinità. Una festa per contemplare e lodare il mistero del Dio di Gesù Cristo, che è Uno nella comunione di tre Persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Per celebrare con stupore sempre nuovo Dio-Amore, che ci offre gratuitamente la sua vita e ci chiede di diffonderla nel mondo.
Le Letture bibliche di oggi ci fanno capire come Dio non voglia tanto rivelarci che Lui esiste, quanto piuttosto che è il “Dio con noi”, vicino a noi, che ci ama, che cammina con noi, è interessato alla nostra storia personale e si prende cura di ognuno, a partire dai più piccoli e bisognosi. Egli «è Dio lassù nei cieli» ma anche «quaggiù sulla terra» (cfr Dt 4,39). Pertanto, noi non crediamo in una entità lontana, no! In un’entità indifferente, no! Ma, al contrario, nell’Amore che ha creato l’universo e ha generato un popolo, si è fatto carne, è morto e risorto per noi, e come Spirito Santo tutto trasforma e porta a pienezza.
San Paolo che in prima persona ha sperimentato questa trasformazione operata da Dio-Amore, ci comunica il suo desiderio di essere chiamato Padre, anzi “Papà” - Dio è “Papà nostro” -, con la totale confidenza di un bimbo che si abbandona nelle braccia di chi gli ha dato la vita. Lo Spirito Santo – ricorda ancora l’Apostolo – agendo in noi fa sì che Gesù Cristo non si riduca a un personaggio del passato, no, ma che lo sentiamo vicino, nostro contemporaneo, e sperimentiamo la gioia di essere figli amati da Dio. Infine, nel Vangelo, il Signore risorto promette di restare con noi per sempre. E proprio grazie a questa sua presenza e alla forza del suo Spirito possiamo realizzare con serenità la missione che Egli ci affida. Qual è la missione? Annunciare e testimoniare a tutti il suo Vangelo e così dilatare la comunione con Lui e la gioia che ne deriva. Dio, camminando con noi, ci riempie di gioia e la gioia è un po’ il primo linguaggio del cristiano.
Dunque, la festa della Santissima Trinità ci fa contemplare il mistero di Dio che incessantemente crea, redime e santifica, sempre con amore e per amore, e ad ogni creatura che lo accoglie dona di riflettere un raggio della sua bellezza, bontà e verità. Egli da sempre ha scelto di camminare con l’umanità e forma un popolo che sia benedizione per tutte le nazioni e per ogni persona, nessuna esclusa. Il cristiano non è una persona isolata, appartiene ad un popolo: questo popolo che forma Dio. Non si può essere cristiano senza tale appartenenza e comunione. Noi siamo popolo: il popolo di Dio. La Vergine Maria ci aiuti a compiere con gioia la missione di testimoniare al mondo, assetato di amore, che il senso della vita è proprio l’amore infinito, l’amore concreto del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 27 maggio 2018

Pubblicato in Liturgia
Domenica, 23 Maggio 2021 14:47

Domenica di Pentecoste - Anno B - 23 maggio 2021

La festa della Pentecoste rievoca la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e la loro investitura missionaria, avvenuta cinquanta giorni dopo la Pasqua di resurrezione.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, viene evidenziato come lo Spirito Santo scendendo sugli apostoli dà loro il potere di esprimersi in tutte le lingue. Da quel momento la Chiesa proclama un unico linguaggio, quello di Cristo e dell’amore. La diversità delle culture, delle razze e dei doni personali non è sorgente di incomprensione e di ostilità, ma diventa una “sinfonia” di voci che secondo i timbri e totalità differenti annunziano la stessa gioia e la stessa speranza.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Galati, Paolo ci esorta a camminare secondo lo Spirito, lottando contro le tendenze negative della carne e ci fa comprendere che noi siamo già di Cristo, che la Sua forza (cioè il Suo Spirito) è in noi e che perciò possiamo dare i frutti che lo Spirito fa maturare in noi.
Nel Vangelo, Giovanni presenta Gesù che parla ai suoi discepoli di quando verrà il Consolatore, lo Spirito di verità, che gli renderà testimonianza, ricordando e rendendo più comprensivo tutto ciò che prima aveva loro insegnato e li guiderà alla verità tutta intera!
L’azione dello Spirito è rivolta sia al futuro (rivelazione), sia al passato (comprensione). Per il cristiano di ogni tempo e di ogni luogo si tratta di continuare a comprendere la rivelazione di Gesù nelle diverse e molteplici situazioni della propria vita.

Dagli Atti degli Apostoli
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
At 2,1-11

Luca inizia il suo racconto indicando il momento e il luogo in cui si è verificato l’evento: Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. In realtà stava per compiersi non tanto il giorno di Pentecoste, che era solo iniziato, ma il conto delle sette settimane, a partire dalla Pasqua, al termine delle quali ha luogo la Pentecoste . 1

Anche se non viene precisato chi fosse presente all’avvenimento, si può supporre che insieme ai discepoli fosse presente Maria insieme ad altre donne. Luca dicendo “si trovavano tutti insieme” vuole sottolineare non solo la presenza fisica nello stesso luogo ma anche l’unione che regnava tra coloro che costituivano il primo nucleo della Chiesa.
“Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano”.
I termini che Luca usa si ricollegano alla terminologia usata per descrivere la teofania
(V. 1Re 19,11), e il termine “vento” allude già allo Spirito (pneuma), che ad esso viene spesso assimilato (Ez 37,9; Gv 3,8). Il fragore venuto dal cielo “riempie” tutta la casa, così come lo Spirito “riempirà” tutti i presenti.
“Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”.
Il fuoco, a cui le lingue assomigliavano, è anch’esso un’immagine ricavata dalla rappresentazione biblica della teofania (Es 19,18). È indicativo inoltre che, la parola di Dio ha preso la forma di una torcia di fuoco.
Il fatto che i presenti parlino “altre lingue” richiama la leggenda giudaica secondo la quale al Sinai la parola di Dio si divideva in 70 lingue. A prima vista sembra quindi che essi parlassero ognuno una lingua diversa dall’altra, ma dal seguito del racconto appare che si trattava piuttosto di un miracolo di audizione, simile a quello che, secondo le leggende giudaiche, si era verificato al Sinai: in realtà essi parlavano normalmente e i presenti li comprendevano nella propria lingua originaria.
Questo fenomeno non è conosciuto altrove nel NT perciò diversi studiosi pensano che originariamente si trattasse non di un ”parlare in altre lingue”, ma del “parlare in lingue”, cioè della “glossolalia”, un carisma che consiste nel lodare Dio in una lingua sconosciuta.
Il fragore della teofania viene udito anche all’esterno della casa in cui si trovavano gli apostoli, e subito si raduna una piccola folla di curiosi, pieni di stupore e di meraviglia, “perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua… delle grandi opere di Dio». La gente che si era radunata era composta di giudei della diaspora e di proseliti, cioè pagani convertiti in modo pieno al giudaismo, venuti a stabilirsi a Gerusalemme. I loro paesi di origine sono elencati in modo tale da dare l’impressione che si tratti di tutto il mondo allora conosciuto. Pur essendo giudei di nascita o di religione, i testimoni della Pentecoste cristiana sono presentati come i rappresentanti delle nazioni alle quali sarà rivolto l’annunzio evangelico.
Lo Spirito Santo con la Sua discesa sugli Apostoli e Maria ha completato l’opera dell’Incarnazione di Dio: al momento della Sua prima discesa, lo Spirito Santo aveva compiuto nella santa Vergine l’Incarnazione del Verbo, permettendo che il Verbo divenisse, nel suo corpo, il Dio-Uomo, per esserlo nell’eternità. Al momento della Sua seconda discesa, durante la Pentecoste, lo Spirito Santo discende per dimorare nel Suo corpo che è la Chiesa.
Maria è presente poiché è l’unica che possa confermare la presenza e l’azione dello Spirito, in quanto lei è la sola che ne ha già fatto esperienza, avendo, per opera dello Spirito Santo, generato al mondo il Verbo consustanziale al Padre.
Gli Apostoli sono rivestiti di Spirito Santo e annunciano al mondo quel Verbo eterno, crocifisso e risorto che Maria ha generato nella carne. Essi proclamano, lei conferma! Loro annunciano, a lei è stato annunciato! Essi diffondo la Parola di Vita, lei ha dato vita alla Parola!

Salmo 103 - Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra.

Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.
Togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.

Sia per sempre la gloria del Signore;
gioisca il Signore delle sue opere.
A lui sia gradito il mio canto,
io gioirò nel Signore.

Il salmista esordisce con un invito a se stesso a benedire il Signore. Di fronte alla grandezza, alla bellezza, alla potenza della creazione esprime il suo stupore e la sua lode a Dio: “Sei tanto grande, Signore, mio Dio!”.Egli contempla Dio nella sua sovranità universale, tratteggiandolo “avvolto di luce come di un manto”. Una luce gloriosa, non terrena, non degli astri, ma divina, con la quale illumina gli spiriti angelici, nel cielo. …
Il salmo, segue l'ordine della prima narrazione della creazione (Gn 1,1s), continua presentando la primordiale situazione della terra, ora fermamente salda “sulle sue basi”, intendendo per basi niente di formalmente vincolante, ma solo un'immagine tratta dalle congetture dell'uomo.
L'onnipotenza divina viene presentata come dominatrice delle acque che coprivano la terra: “Al tuo rimprovero esse fuggirono, al fragore del tuo tuono rimasero atterrite”. Le acque si divisero in acque sotto il firmamento e in acque sopra il firmamento (le nubi, pensate ferme in alto per la presenza di una invisibile calotta detta firmamento), così cominciò il ciclo delle piogge e le acque “Salirono sui monti, discesero nelle valli, verso il luogo (mare) che avevi loro assegnato”. Dio provvede, nel tempo privo di piogge, al regime delle acque, e fa scaturire nelle alte valli montane acque sorgive che poi scendono lungo i canaloni tra i monti per dissetare gli animali. Gli uccelli trovano dimora nei luoghi alti e cantano tra le fronde degli alberi. Tutto è predisposto perché non manchi il cibo: “Con il frutto delle tue opere si sazia la terra. Tu fai crescere l'erba per il bestiame e le piante che l'uomo coltiva...”.
E anche gli alberi alti sono sazi per la pioggia “sono sazi gli alberi del Signore (cioè gli alberi altissimi: nell'ebraico il superlativo assoluto è reso con un riferimento a Dio), i cedri del Libano da lui piantati”. (I cedri del Libano raggiungono anche i 40 m. di altezza, con un diametro alla base di 2,5 m.)
Dio per segnare le stagioni ha fatto il sole e la luna. Ritirando a sera la luce stende “le tenebre e viene la notte”; e anche nella notte prosegue la vita: “si aggirano tutte le bestie della foresta; ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda”. Con i loro ruggiti “chiedono a Dio il loro cibo”. Il salmo presenta che gli animali carnivori sono stati creati così da Dio. Il libro della Genesi (1,30) presenta un mondo animale che si cibava di erbe nella situazione Edenica; ma è un'immagine rivolta a presentare come all'inizio non ci fosse la ferocia tra gli animali, benché non mancassero animali carnivori, creati da Dio, come il nostro salmo presenta.
L'uomo comincia il suo lavoro col sorgere del sole: “Allora l'uomo esce per il suo lavoro, per la sua fatica fino a sera”.
Il salmista loda ancora il Signore per le sue opere. Passa quindi a considerare le creature del mare; in particolare il Leviatan, nome col quale l'autore designa la balena.
Il mondo animale è oggetto pure esso dell'assistenza divina: “Nascondi il tuo volto: li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere”. Se Dio ritrae la sua assistenza gli animali periscono, non hanno più l'alito delle narici “togli loro il respiro”.
Ma se manda il suo Spirito creatore sono creati. Lo Spirito di Dio è all'origine della creazione: (Gn 1,2).
Il salmista chiede che sulla terra ci sia la pace tra gli uomini, affinché “gioisca il Signore delle sue opere”. “Scompaiano i peccatori dalla terra e i malvagi non esistano più” dice, augurandosi un tempo dove gli uomini cessino di combattersi. Questo sarà nel tempo di pace che abbraccerà tutta la terra, quando la Chiesa porterà Cristo a tutte le genti; sarà la società della verità e dell'amore. Noi dobbiamo incessantemente impegnarci con la preghiera e la testimonianza per questo tempo che invochiamo nel Padre Nostro dicendo: “Venga il tuo regno”.
Commento da “Perfetta Letizia”
(Per avere un’idea più completa della bellezza di questo salmo è stato riportato il commento nella sua interezza e non solo per i versetti proposti dalla liturgia)

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge.
Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.
Gal 5,16-25

Paolo, scrive la lettera ai Galati tra il 50 e il 57 durante il suo terzo viaggio, probabilmente da Efeso o da Macedonia, per controbattere ad una predicazione fatta da alcuni ebrei cristiani, dopo che l'apostolo aveva lasciato la comunità, i quali avevano convinto alcuni Galati che l'insegnamento di Paolo era incompleto e che la salvezza richiedeva il rispetto della Legge di Mosè, in particolare della circoncisione. Paolo condanna tale orientamento, proclamando la libertà dei credenti e la salvezza per mezzo della fede.
Dopo aver accennato nella parte precedente all’amore come pienezza della legge (v 5,14) Paolo in questo brano raccomanda: “camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne”. La libertà dalla legge sfocia nell’amore del prossimo solo nella misura in cui si lascia libero campo all’opera dello Spirito. Per evitare di cedere ai desideri della carne, ossia del mondo, il credente deve perciò camminare “secondo lo Spirito” . Egli poi prosegue: “La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste”. Quindi non solo la carne, cioè l’uomo debole e peccatore, ma anche lo Spirito “ha desideri” e questo in senso metaforico lo si può intendere, nel senso cioè che persegue finalità sue proprie, che sono opposte a quelle della carne. Tutto questo porta l’uomo a fare ciò che non vorrebbe, in quanto lo spinge ad andare contro quelle che sono le norme fondamentali della sua coscienza (v. Rm 7,15-23); l’uomo però resta sempre responsabile delle sue azioni malvagie, in quanto Dio non priva mai nessuno della Sua grazia.
Paolo conclude questo passo affermando: “Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge”. Chi obbedisce cioè allo Spirito non ha più nulla a che fare con i desideri della carne, all’insorgere dei quali aveva cominciato a sentire la volontà di Dio come una legge imposta dall’esterno (v. Rm 7,7-12).
La vittoria sul desiderio, e quindi la possibilità di amare i fratelli, dipende dunque essenzialmente dal dono dello Spirito.
Dalle affermazioni di principio, Paolo passa subito a indicare quali siano rispettivamente i comportamenti ispirati dalla carne e dallo Spirito: a tale scopo egli elenca prima i vizi provocati dalla carne e poi le virtù che provengono dallo Spirito e introduce il’argomento dicendo. “Del resto sono ben note le opere della carne”. L’espressione “opere della carne” indica tutto ciò che rappresenta una trasgressione della volontà divina.
I vizi elencati da Paolo sono quattordici, e possono facilmente dividersi in due gruppi, di cinque e di nove.
Nel primo gruppo appaiono i seguenti vizi: fornicazione,(che è l’immoralità in campo sessuale ma spesso indica nell’AT l’idolatria), impurità, che designa, sempre nell’AT, l’insufficienza morale e cultuale dell’uomo di fronte al Dio santo (v. Is 6,5) dissolutezza, che è la sfrenatezza in tutti i campi, specialmente in quello sessuale, spesso connesso con i culti pagani; idolatria, il culto degli dèi pagani, mentre la “stregonerie” indica l’uso di arti magiche.
Tutti questi vizi, pur avendo una caratteristica sessuale, riguardano dunque direttamente o indirettamente la vita religiosa in quanto tale. Paolo mostra così di condividere la mentalità giudaica, in forza della quale esiste uno stretto rapporto, di carattere pratico e simbolico, tra deviazioni sessuali e infedeltà a Dio (v. Rm 1,24-25).
I vizi del secondo gruppo riguardano invece il campo sociale: “inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere.” sono infatti comportamenti che turbano profondamente i rapporti tra le persone, rendendo impossibile una vera vita comunitaria.
Per Paolo è dunque chiaro che il rifiuto di Dio, presente sia nell’esaltazione della legge propria dei giudaizzanti che nell’idolatria pagana (v., 4,8-11), si rivela inevitabilmente nella vita sociale (v. Rm 1,18-32).
Egli conclude perciò con una severa ammonizione: “chi le compie non erediterà il regno di Dio”, cioè non potrà aver parte alla fase finale della salvezza già inaugurata dalla morte di Cristo.
All’elenco dei vizi fa seguito la descrizione delle virtù operate dallo Spirito che a differenza dei vizi, le virtù sono presentate non come opere, ma come “il frutto dello Spirito” cioè come un comportamento che sgorga spontaneo dalla sua azione nei credenti.
In questo elenco troviamo: amore, che indica il corretto rapporto con Dio (Dt 6,5) e con il prossimo (Lv 19,18); gioia, pace, che rappresentano le due caratteristiche più importanti dei tempi messianici (v. Is 9,1-6); magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, le quali sono costanti dell’agire divino, ma diventano, in forza dell’alleanza, comportamenti dell’uomo nei suoi rapporti con Dio e con gli altri membri del popolo; infine mitezza, che rappresenta l’assenza di violenza, e va di pari passo con il “dominio di sé”.
Mentre per coloro che praticano i vizi sopra elencati,è chiuso l’accesso al regno di Dio, per chi pratica le virtù ispirate dallo Spirito “contro queste cose non c’è Legge” che obbliga e condanna .
Nella breve conclusione Paolo sintetizza il suo pensiero circa il complesso rapporto tra fede e morale “Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito”. Colui che ormai “vive dello Spirito” deve come conseguenza anche “camminare secondo lo Spirito”!.
Ancora una volta il dono di Dio (la vita nello Spirito) viene presentato come la fonte da cui deve scaturire spontaneamente un comportamento conforme alla natura stessa di Dio.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Gv 15,26-27.16,12-15

Anche questo brano fa parte dei “discorsi di addio” che Giovanni pone nella cornice dell’ultima cena. Per comprendere meglio dobbiamo tenere presente che Gesù quando pronuncia queste parole sta per affrontare consapevolmente l’umiliazione della Sua passione e morte, ed i Suoi amici non hanno ancora compreso, o per lo meno, nella loro mentalità, non accettano ciò che appare ai loro occhi come un contrasto stridente: la dignità messianica di Gesù con la fine drammatica e cruenta della Sua vita terrena.
Gesù continua così il suo discorso: “Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.” Il Paraclito, lo Spirito della verità, che Gesù invierà, avrà la funzione di avvocato difensore. E’’ il secondo inviato ed ha lo scopo di rendere testimonianza a Gesù e di confermare la validità della Sua predicazione.
Lo Spirito, tuttavia, procede dal Padre, in quanto la Sua missione nel mondo in unione con quella del Cristo, ha la Sua origine nell’iniziativa salvifica del Padre.
“e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio”. I discepoli testimonieranno in favore di Gesù tenendo vivo, mediante il rapporto vitale con Lui, il Suo messaggio e attuando il Suo progetto di salvezza. La loro testimonianza quindi non sarà costituita solo da parole, ma anche e soprattutto da opere, che rappresentano il “frutto” della loro unione con Lui . È attraverso i discepoli che lo Spirito testimonierà in favore di Gesù, dimostrando la verità della Sua parola!
Dopo aver parlato della persecuzione che attende i discepoli, non riportato nel brano liturgico, Gesù riprende a parlare dello Spirito che Egli invierà dopo essere ritornato al Padre.
“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso”. Questa ulteriore rivelazione però non sarà portata a termine da Gesù, perchè “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità”. Sarà quindi lo Spirito colui che porterà a termine la rivelazione di Gesù, diventando così il mediatore della rivelazione completa e definitiva. Lo Spirito però “non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.” L’insegnamento dello Spirito scaturirà dall’ascolto della rivelazione stessa di Gesù, Egli perciò “annuncerà le cose future” cioè farà comprendere nel loro vero significato gli eventi riguardanti la crocifissione e la glorificazione di Gesù alla destra del Padre, e farà comprendere ad ogni generazione futura il significato di ciò che Gesù ha detto e fatto.
Mentre Gesù aveva il compito di condurre gli uomini al Padre, lo Spirito li guiderà a Gesù rendendo attuale per tutti i tempi il Suo insegnamento.
Gesù conclude affermando che lo Spirito “mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”.
Per la Sua intima unione con il Padre, Gesù è stato il principale rivelatore del Padre attuando il Suo progetto di salvezza; di riflesso lo Spirito santo “glorificherà” Gesù manifestando la Sua grandezza alla destra del Padre.

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Lo Spirito di Dio

Tu vieni a turbarci,
vento dello spirito.
Tu sei l'altro che è in noi.
Tu sei il soffio che anima
e sempre scompare.
Tu sei il fuoco
che brucia per illuminare.
Attraverso i secoli e le moltitudini

Tu corri come un sorriso
per far impallidire le pretese
degli uomini.
Poiché tu sei l'invisibile
testimone del domani,
di tutti i domani.
Tu sei povero come l'amore
per questo ami radunare
per creare.
Oh, ebbrezza e tempesta di Dio!
(David Maria Turoldo)

“Nell’odierna festa di Pentecoste culmina il tempo pasquale, centrato sulla morte e risurrezione di Gesù. Questa solennità ci fa ricordare e rivivere l’effusione dello Spirito Santo sugli Apostoli e gli altri discepoli, riuniti in preghiera con la Vergine Maria nel Cenacolo. In quel giorno ha avuto inizio la storia della santità cristiana, perché lo Spirito Santo è la fonte della santità, che non è privilegio di pochi, ma vocazione di tutti.
Per il Battesimo, infatti, siamo tutti chiamati a partecipare alla stessa vita divina di Cristo e, con la Confermazione, a diventare suoi testimoni nel mondo. «Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio» (Esort. ap. Gaudete et exsultatye.6). «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità» (Cost. dogm. Lumen Gentium.9) .
Già per mezzo degli antichi profeti il Signore aveva annunciato al popolo questo suo disegno. Ezechiele: «Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme. […] Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (36,27-28).
Il profeta Gioele: «Effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie. […] Anche sopra gli schiavi e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito. […] Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (3,1-2.5).
E tutte queste profezie si realizzano in Gesù Cristo, «mediatore e garante della perenne effusione dello Spirito» (Messale Romano, Prefazio dopo l’Ascensione). E oggi è la festa dell’effusione dello Spirito.
Da quel giorno di Pentecoste, e sino alla fine dei tempi, questa santità, la cui pienezza è Cristo, viene donata a tutti coloro che si aprono all’azione dello Spirito Santo e si sforzano di esserle docili. E’ lo Spirito che fa sperimentare una gioia piena. Lo Spirito Santo, venendo in noi, sconfigge l’aridità, apre i cuori alla speranza e stimola e favorisce la maturazione interiore nel rapporto con Dio e con il prossimo. È quanto ci dice San Paolo: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). Tutto questo fa lo Spirito in noi. Per questo oggi festeggiamo questa ricchezza che il Padre ci dona.
Chiediamo alla Vergine Maria di ottenere anche oggi alla Chiesa una rinnovata Pentecoste, una rinnovata giovinezza che ci doni la gioia di vivere e testimoniare il Vangelo e «infonda in noi un intenso desiderio di essere santi per la maggior gloria di Dio» (Gaudete et exsultate,77)”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 20 maggio 2018

 

1 L'origine della festa di Pentecoste è ebraica e si riferisce allo Shavuot, celebrata sette settimane dopo la Pasqua ebraica. La festività era legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio sul Monte Sinai, dove Dio ha donato al popolo ebraico la Torah

Pubblicato in Liturgia

Le letture che la liturgia di questa settima domenica di Pasqua, in cui celebriamo l’Ascensione del Signore, hanno la stessa scenografia che ha come sfondo il cielo.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci racconta che Gesù, dopo aver promesso ai suoi il dono dello Spirito Santo, che darà loro la forza di “testimoniarlo a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra,” sale al cielo, alla destra del Padre,
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera agli efesini,
afferma che l’unità della Chiesa si realizza con il concorso attivo di tutti i credenti ognuno con il suo dono di grazia per far crescere il corpo di Cristo nella carità.
Il Vangelo di Marco, si apre con il messaggio solenne indirizzato agli apostoli: esso ha al centro la loro missione, una missione universale di annuncio del vangelo, cioè della persona e della parola del Cristo.
L’Ascensione è una festa d’addio che però non conosce le lacrime e la malinconia. Una partenza che si risolve in una presenza più intensa e in una vicinanza più efficace. Gesù scompare agli occhi dei suoi conoscenti e amici, ma nello stesso tempo si fa riconoscere e amare da una folla immensa di ogni lingua, popolo, razza e nazione, facendosi sentire vivo e operante attraverso la parola e le mani dei suoi discepoli, e della Sua Chiesa, Suo corpo mistico.
L’Ascensione di Gesù segna l’inizio della missione della Chiesa, che non sarà mai sola ma sempre accompagnata dal suo Signore, e lo Spirito Santo che ci ha donato ci sostiene nel cammino verso l’incontro finale con Lui.

Dagli Atti degli Apostoli
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella - disse - che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
At 1,1-11

In questo brano viene riportato il prologo degli Atti degli Apostoli e Luca lo inizia dedicando il suo libro a Teofilo,(la cui identità non è nota), lo stesso a cui aveva dedicato il suo Vangelo. Luca ricorda che nel suo primo racconto aveva già trattato di tutto quello “che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo”. Il gruppo dei Dodici, che dopo il tradimento di Giuda è ridotto a undici, viene così presentato fin dall’inizio come la cerchia degli intimi di Gesù, chiamati esplicitamente con l’appellativo di “apostoli”.
Dopo aver accennato all’ascensione di Gesù, Luca ci riporta al periodo precedente, affermando che Gesù è apparso agli apostoli per quaranta giorni.
Anche qui il numero 40 è un numero simbolico, che spesso è usato per indicare il tempo di preparazione a una particolare rivelazione divina (Mosè trascorre 40 giorni sul Sinai prima di ricevere le tavole dell’alleanza (Es 24,18), il popolo peregrina 40 anni nel deserto prima di giungere alla terra promessa (Nm 14,33), Elia cammina 40 giorni nel deserto verso il monte di Dio (1Re 19,8); nel giudaismo Esdra resta quaranta giorni con Dio quando gli sono consegnati i libri sacri (4Esd 14,23-45) e Baruc istruisce il popolo per quaranta giorni prima della sua assunzione in cielo (2Bar 76,1-4). Anche Gesù aveva trascorso 40 giorni nel deserto, digiunando, prima di iniziare la sua vita pubblica (Lc 4,1-2). Un tempo analogo è necessario agli apostoli per essere adeguatamente istruiti “con molte prove” circa il regno di Dio.
L’annunzio del regno di Dio era stato il programma di Gesù durante la Sua vita terrena ora Egli lo affida agli apostoli e Luca si limita a riferire che egli ordinò loro di non lasciare Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre che essi avevano inteso da lui: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”. Il battesimo mediante lo Spirito santo viene inteso qui non come il rito cristiano che si sostituisce a quello del Battista, ma come il dono dello Spirito fatto alla nascente comunità cristiana nel giorno di Pentecoste. Come Gesù, all’inizio della Sua attività pubblica, ha ricevuto lo Spirito Santo in occasione del battesimo di Giovanni, così anche la Chiesa, all’inizio del suo cammino nel mondo, deve essere contrassegnata dalla presenza dello Spirito.
La domanda dei discepoli a Gesù: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele” dimostra che essi pensavano che fosse ormai imminente il momento in cui i regni di questo mondo sarebbero stati distrutti e di conseguenza instaurata la sovranità di Dio mediante il popolo di Israele, come aveva profetizzato il profeta Daniele (7,27), ma Gesù risponde: “Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra”.
Anche per Gesù solo il Padre conosce i tempi in cui si attua il Suo progetto: ciò significa che l’instaurazione del regno non coincide con la fine del mondo perchè in realtà il regno è già stato inaugurato da Gesù, ma dovrà passare ancora un lungo periodo di tempo prima della Sua venuta piena e definitiva.
Questo nuovo periodo, che inizierà appunto con la venuta dello Spirito Santo, sarà contrassegnato dalla testimonianza degli apostoli che si estenderà da Gerusalemme alla Giudea, alla Samarìa, fino agli estremi confini della terra.
Per Luca, Gerusalemme è il centro della salvezza, mentre gli estremi confini della terra sono il mondo dei pagani e in particolare Roma che, come capitale dell’impero romano, rappresenta, rispetto a Gerusalemme, l’estremo opposto del mondo.
In questo versetto, che delinea il progressivo espandersi del cristianesimo, Luca indica anche il piano della sua opera: egli intende narrare lo sviluppo dell’annunzio evangelico a Gerusalemme poi in Giudea e Samaria e infine, per mezzo di Paolo, in Anatolia e in Grecia.
Nel racconto dell’ascensione Luca si ispira anche a quanto scrive il profeta Daniele, che descrive l’apparizione, sulle nubi del cielo, di uno simile a un figlio di uomo, il quale si presenta davanti al trono di Dio e riceve potere, gloria e regno (Dn 7,13-14). Di questa scena nel racconto degli Atti rimane il particolare della nuvola, simbolo della manifestazione misteriosa di Dio, che sottrae Gesù dallo sguardo degli apostoli.
Come “figlio dell’uomo” Egli si presenta a Dio per ricevere il regno che si è acquistato con la Sua morte. Ma, contrariamente alle aspettative giudaiche, non è ancora venuto il momento della conclusione finale, infatti gli angeli annunziano che Egli dovrà ritornare un giorno “nello stesso modo” in cui i discepoli l’hanno visto andare in cielo. Sarà quello il momento della fine, nel frattempo gli apostoli non devono rimanere a guardare in cielo, come facevano coloro che ricevevano visioni apocalittiche (Dn 10,8), ma devono andare a svolgere la missione che è stata loro affidata, e da loro a tutta la Sua Chiesa, il Suo corpo mistico.
E proprio nell’impegno che noi oggi, Sua Chiesa, abbiamo di testimoniarlo, si sperimenta la Sua presenza, si scopre che Gesù non solo è venuto e verrà, ma che viene, oggi, nell’oggi di ognuno di noi, e lo colma di sé, della Sua gioia. La nostra testimonianza diviene allora indicazione di una presenza esperimentata, amata, e per questa ragione, comunicata.

Salmo 46 Ascende il Signore tra canti di gioia
Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
grande re su tutta la terra.

Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.

Perché Dio è re di tutta la terra,
cantate inni con arte.
Dio regna sulle genti,
Dio siede sul suo trono santo.

Il salmo è un inno festoso a Dio re dell’universo. Il salmo invita tutti i popoli ad applaudire il Signore. Dopo il momento terribile delle vittorie filistee e dei popoli della terra di Canaan, ecco la vittoria per Israele. La terra promessa sta per essere totalmente conquistata e Gerusalemme è stata sottratta ai Gebusei. Un corteo festante porta l’arca dentro la Città di Davide: “Ascende Dio tra le acclamazioni”.
La conquista della terra promessa, la presa di Gerusalemme sono solo una tappa di un disegno più ampio di Dio che riguarda tutti i popoli.
Israele ha visto come Dio ha posto ai suoi piedi le nazioni, e dunque nessuna nazione può resistergli.
Egli è “re di tutta la terra”. Il popolo di Abramo è come un germe chiamato ad attirare a sé i popoli. Il salmista vede profeticamente già attuato questo: “I capi dei popoli si sono raccolti come popolo del Dio di Abramo”. Questo avverrà per mezzo del futuro Messia, che produrrà la nuova ed eterna alleanza. Il segno della sua vittoria sarà la risurrezione, la sua salita al cielo - “ascende Dio tra le acclamazioni” -, il suo stare alla destra del Padre (Cf. Ps 110,1).

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto:
«Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini».
Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.
Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.
Ef 4,1-13

La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato
Con questo brano ha inizio la seconda parte della lettera quella dedicata all'esortazione.
Paolo inizia prima qualificandosi “prigioniero a motivo del Signore,” e poi continua con le raccomandazioni: “vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto”
Paolo chiede agli Efesini (ed anche a noi oggi) di comportarsi in modo degno della loro nuova dignità. Essi fanno parte di un nuovo corpo, di una nuova realtà che vive di pace e riconciliazione.
“con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore”
Nella comunità cristiana essi devono nutrire la vita comune con alcune virtù fondamentali: l'umiltà, la dolcezza, la grandezza d'animo, che hanno il loro culmine nell'amore fraterno, che si esprime nel perdono e nella solidarietà verso gli altri.
“avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace”.
Questa seconda esortazione è un elemento fondamentale all'interno della comunità: l'impegno a mantenere l'unità, a vivere la pace.
“Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.”
Questi versetti sono una dichiarazione o professione di fede che forse si ripeteva nelle prime assemblee liturgiche. L'accento è posto sull'unità della comunità che si fonda su altre unità: quelle del corpo e dello Spirito che lo mantiene unito, quella della speranza, cioè del futuro a cui tutti tendono, fondata sull'unica chiamata che ha interessato tutti. Questa unità si costruisce soprattutto attorno all'unico Signore, a cui si aderisce con una sola fede e a cui si accede grazie all'unico battesimo e all'unico Dio e Padre, da cui è partito il progetto di salvezza e che continua ad operare in tutti il Suo piano di amore.
“A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo”
Qui Paolo parla ora della costruzione della Chiesa grazie alla varietà dei doni e alla partecipazione di ognuno alla vitalità dell'unico corpo. In questo versetto è sottolineata l'origine unica e generosa del dono fatto a ognuno.
“Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.”
L'affermazione di fede viene confermata con una citazione del Salmo 68,19. La fonte di tutti i doni della Chiesa è il Cristo glorioso, intronizzato al di sopra di tutti i cieli.
“Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri”,
Si precisano ora il ruolo e lo scopo dei doni che si concretizzano nei vari ministeri. Gli apostoli e i profeti sono coloro che hanno avuto un ruolo nella nascita della Chiesa come comunità fondata sull'accoglienza del Vangelo. Si tratta del gruppo tradizionale degli inviati, ai quali appartiene Paolo, e dei predicatori ispirati (i profeti). Sulla stessa linea si pongono gli evangelisti come missionari e coloro che hanno il ruolo di guida pastorale della chiesa locale: i pastori e maestri.
“per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo”
All'interno della Chiesa locale ci sarebbero dunque due gruppi: il gregge di Dio e i maestri che lo guidano nella costruzione del corpo di Cristo.
“finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.”
Solo se i cristiani sono membri di una Chiesa matura, strettamente uniti dalla fede e da una conoscenza piena d’amore, potranno resistere con fermezza in mezzo a un mondo che trascina verso l’errore; solo allora saranno uomini consolidati, “fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” e non esseri deboli, instabili, in balia di ogni nuova corrente di pensiero.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.
Mc 16, 15-20

“A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo”
Qui Paolo parla ora della costruzione della Chiesa grazie alla varietà dei doni e alla partecipazione di ognuno alla vitalità dell'unico corpo. In questo versetto è sottolineata l'origine unica e generosa del dono fatto a ognuno.
“Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.”
L'affermazione di fede viene confermata con una citazione del Salmo 68,19. La fonte di tutti i doni della Chiesa è il Cristo glorioso, intronizzato al di sopra di tutti i cieli.
“Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri”,
Si precisano ora il ruolo e lo scopo dei doni che si concretizzano nei vari ministeri. Gli apostoli e i profeti sono coloro che hanno avuto un ruolo nella nascita della Chiesa come comunità fondata sull'accoglienza del Vangelo. Si tratta del gruppo tradizionale degli inviati, ai quali appartiene Paolo, e dei predicatori ispirati (i profeti). Sulla stessa linea si pongono gli evangelisti come missionari e coloro che hanno il ruolo di guida pastorale della chiesa locale: i pastori e maestri.
“per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo”
All'interno della Chiesa locale ci sarebbero dunque due gruppi: il gregge di Dio e i maestri che lo guidano nella costruzione del corpo di Cristo.
“finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.”
Solo se i cristiani sono membri di una Chiesa matura, strettamente uniti dalla fede e da una conoscenza piena d’amore, potranno resistere con fermezza in mezzo a un mondo che trascina verso l’errore; solo allora saranno uomini consolidati, “fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” e non esseri deboli, instabili, in balia di ogni nuova corrente di pensiero.
La fede e il battesimo sono quindi condizioni indispensabili per la salvezza! Queste condizioni però riguardano chiaramente solo coloro a cui è giunta la predicazione, e non coloro che per qualsiasi ragione non hanno potuto ascoltarla, mentre la fede richiesta ha per oggetto il vangelo (Mc 1,14-15).
È importante che nella seconda metà della frase, la condanna riguarda non chi non si fa battezzare, ma solo chi non crede: resta così aperta una possibilità di salvezza anche per coloro che per un motivo valido non sono stati battezzati, pur avendo ricevuto la predicazione del vangelo e avendo creduto in esso.
Dopo il mandato missionario, l’autore elenca i segni che accompagneranno coloro che credono nel nome di Gesù:”scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno”.
In questa frase viene ripreso Mc 6,13, con l’aggiunta di alcuni compiti che si richiamano a episodi degli Atti: il parlare nuove lingue, che si riferisce al miracolo di Pentecoste (At 2,1-11) e il prendere in mano i serpenti, allusione questa sicuramente all’episodio di Paolo, morso da una vipera e rimasto miracolosamente illeso (At 28,3-6). Come per Gesù, anche per i discepoli l’intervento a favore dei sofferenti, siano essi indemoniati o malati, è il segno di una salvezza che, partendo dall’intimo della persona, coinvolge anche tutti gli aspetti della sua vita fisica.
L’autore termina il suo racconto descrivendo in breve la conclusione della vicenda di Gesù e il seguito che essa avrà nella vita dei suoi discepoli: “Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio”.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano”
L’accenno all’ascensione lo troviamo anche in Luca (24,51) e negli Atti (1,2.9), con l’aggiunta però che Gesù è andato a sedersi alla destra di Dio (chiaro riferimento al Sal 110,1). Con l’ascensione Gesù completa il Suo cammino terreno ed Egli, a riprova dell’efficacia della Sua opera, viene fatto partecipe della regalità stessa di Dio, attuando così le promesse messianiche.
Per concludere possiamo dire che l’ascensione di Gesù è stata una partenza che non ha provocato lacrime, ma gioia perchè in realtà si è risolta in una presenza più intensa e in una vicinanza più efficace.
Come persona Gesù è scomparso agli occhi dei Suoi conoscenti e amici, ma che si fa riconoscere e amare da una folla immensa di ogni lingua, popolo, razza e nazione, facendosi sentire vivo e operante attraverso la parola e le mani dei Suoi discepoli e della Sua Chiesa.

 

*****

“Oggi, in Italia e in tanti altri Paesi, si celebra la solennità dell’Ascensione del Signore. Questa festa racchiude due elementi. Da una parte, orienta il nostro sguardo al cielo, dove Gesù glorificato siede alla destra di Dio. Dall’altra parte, ci ricorda l’inizio della missione della Chiesa: perché? Perché Gesù risorto e asceso al cielo manda i suoi discepoli a diffondere il Vangelo in tutto il mondo. Pertanto, l’Ascensione ci esorta ad alzare lo sguardo al cielo, per poi rivolgerlo subito alla terra, attuando i compiti che il Signore risorto ci affida.
È quanto ci invita a fare l’odierna pagina evangelica, nella quale l’evento dell’Ascensione viene subito dopo la missione che Gesù affida ai discepoli. Si tratta di una missione sconfinata – cioè letteralmente senza confini – che supera le forze umane. Gesù infatti dice: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» . Sembra davvero troppo audace l’incarico che Gesù affida a un piccolo gruppo di uomini semplici e senza grandi capacità intellettuali! Eppure questa sparuta compagnia, irrilevante di fronte alle grandi potenze del mondo, è inviata a portare il messaggio d’amore e di misericordia di Gesù in ogni angolo della terra.
Ma questo progetto di Dio può essere realizzato solo con la forza che Dio stesso concede agli Apostoli. In tal senso, Gesù li assicura che la loro missione sarà sostenuta dallo Spirito Santo. E dice così: «Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» . Così questa missione ha potuto realizzarsi, e gli Apostoli hanno dato inizio a quest’opera, che poi è stata continuata dai loro successori. La missione affidata da Gesù agli Apostoli è proseguita attraverso i secoli, e prosegue ancora oggi: essa richiede la collaborazione di tutti noi. Ciascuno, infatti, in forza del Battesimo che ha ricevuto, è abilitato per parte sua ad annunciare il Vangelo. C’è proprio il Battesimo, quello che ci abilita e anche ci spinge ad essere missionari, ad annunciare il Vangelo.
L’Ascensione del Signore al cielo, mentre inaugura una nuova forma di presenza di Gesù in mezzo a noi, ci chiede di avere occhi e cuore per incontrarlo, per servirlo e per testimoniarlo agli altri. Si tratta di essere uomini e donne dell’Ascensione, cioè cercatori di Cristo lungo i sentieri del nostro tempo, portando la sua parola di salvezza sino ai confini della terra. In questo itinerario noi incontriamo Cristo stesso nei fratelli, soprattutto nei più poveri, in quelli che soffrono nella propria carne la dura e mortificante esperienza di vecchie e nuove povertà. Come all’inizio Cristo Risorto inviò i suoi apostoli con la forza dello Spirito Santo, così oggi Egli invia tutti noi, con la stessa forza, per porre segni concreti e visibili di speranza. Perché Gesù ci dà la speranza, se ne è andato in cielo e ha aperto le porte del cielo e la speranza che noi arriveremo lì.
La Vergine Maria che, quale Madre del Signore morto e risorto, ha animato la fede della prima comunità dei discepoli, aiuti anche noi a tenere «in alto i nostri cuori», come ci esorta a fare la Liturgia. E nello stesso tempo ci aiuti ad avere “i piedi per terra”, e a seminare con coraggio il Vangelo nelle situazioni concrete della vita e della storia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 13 maggio 2018

Pubblicato in Liturgia
Domenica, 09 Maggio 2021 13:16

VI Domenica di Pasqua - Anno B - 9 maggio 2021

Le letture liturgiche di questa sesta domenica di Pasqua ci aiutano a cogliere ancora una volta l’amore di Cristo e hanno come filo conduttore l’amore verso Dio e verso il prossimo
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci riporta l’episodio del battesimo del centurione romano che è il primo frutto della predicazione del vangelo ai pagani. Nel centurione è simboleggiato ogni uomo, senza distinzione di razza, popolo o nazione, chiamato all’amicizia con Dio e alla salvezza.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, Giovanni, sottolinea l’infinito amore di Dio nei confronti dell’umanità, che ferita dal peccato, ha sperimentato la salvezza operata da Cristo. Una redenzione gratuita compiuta da Gesù nel segno del suo amore.
Nel Vangelo di Giovanni, nei discorsi dell’ultima cena Gesù parla con passione e con insistenza dell’amore, che è la grande rivelazione del Vangelo: amore del Padre celeste per il Figlio, del Figlio per il Padre nello Spirito Santo, di Cristo per noi e di noi per Cristo e i nostri fratelli.

Dagli Atti degli Apostoli
Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anche io sono un uomo!».
Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».
Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio.
Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.
At 10,25-26.34-35.44.48

Luca dopo aver riportato negli Atti il martirio di Stefano, la conversione dell’etiope da parte di Filippo e la “folgorazione” di Paolo sulla via di Damasco, in questo brano , ci presenta Pietro che si accinge ad “entrare nella casa di Cornelio” .
Nei primi versetti del capitolo 10, da dove è tratto questo brano, Luca ci descrive cosi questo personaggio “C’era in Cesarèa un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte Italica, uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio”.(At.10.1-2)
Cornelio dunque aveva accettato le credenze e i principi morali del giudaismo, senza però arrivare alla circoncisione con tutti gli obblighi legali che essa comportava. Il racconto prosegue descrivendo Cornelio che durante la preghiera delle tre riceve una visione di un angelo, che lo invita a chiamare Pietro, che si trovava a Giaffa.
Pietro, a sua volta, a Giaffa, riceve una visione che lo invita ad accettare l’invito di un pagano, Cornelio.
Questo brano descrive il momento in cui Pietro sta per entrare “nella casa di Cornelio che gli andò subito incontro si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anche io sono un uomo!»”.
Pietro poi prende coscienza e dice: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”.
Pietro si rende conto cioè che attraverso la parola, che egli ha sentito in prima persona, è invitato a superare le esteriorità e i formalismi, anche quelli della legge ebraica che a lui era stata insegnata, e pervadeva tutta la sua cultura e il suo modo di agire.
“Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola”.
Pietro ora si rende conto che non può rifiutare il Battesimo a chi ha già ricevuto l’effusione dello Spirito Santo. E’ lo Spirito Santo il personaggio principale di questo racconto. E qui Luca vuole sottolineare soprattutto l’iniziativa di Dio per rompere il cerchio che imprigiona il Vangelo entro il mondo giudaico.
Nel corso degli eventi, raccontati negli Atti e nelle Lettere, si capisce come Pietro sia stato il primo ad accogliere i pagani, poi sarà Paolo ad istruirli, come avvocato dei pagani e apostolo delle genti.
Quando parliamo di amore, dobbiamo essere convinti anche noi oggi che Dio non fa discriminazioni o preferenze, ama tutti noi cristiani e non cristiani, e ci ama tutti nel modo a noi più appropriato, non ci ama in serie, conosce ognuno di noi fino in fondo, nulla di noi a Lui è nascosto.
A tutti Dio dà la possibilità di esistere e di salvarsi, a prescindere da quanto ciascuno fa o non fa nella propria vita.
Se qualcuno ritiene di essere più vicino a Dio, ciò non vuol dire che gli sia stato concesso un privilegio speciale, ma che è stato chiamato a svolgere un servizio speciale in favore degli altri. Se Dio facesse preferenza per qualcuno non sarebbe più Dio.

Salmo 97 - Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia.
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19): “I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo. La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento” di P. Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Giovanni apostolo
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui.
In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
1Gv 4,7-10

L’evangelista Giovanni nella sua lettera, dopo aver affrontato temi come: l'essere figli di Dio che nasce dall'amore; Gesù come vittima di espiazione, in questo brano che ha ispirato Benedetto XVI per la sua prima splendida Enciclica “Deus Caritas est”, afferma che Dio è amore e tutto il piano di salvezza, da Lui ideato e realizzato, non ha altro fine che l'amore.
Si può dire che tutta la teologia dell’amore si sviluppa nei pochi versetti di questo brano che riesce a darci la comprensione più profonda del cristianesimo.
“Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio”. Come cristiani dobbiamo saperci amare gli uni gli altri, l'amore è veramente una cosa straordinaria perché viene da Dio, è una particolarità di coloro che provengono da Dio e Lo conoscono.
“Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore”.
Non puoi conoscere Dio e non amare. Dio è l'amore fatto persona, una Sua qualità fondamentale,
“In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui”.
Il nostro Dio anche se vive nella Sua dimensione divina, si è voluto manifestare all'umanità, mandando Suo Figlio per attuare il piano della salvezza che si realizza attraverso l'incarnazione! L'amore di Dio Padre ha come meta il bene della nostra vita, una vita libera dalla morte e dalla sofferenza.
“In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati”.
Il Padre, ci ha amati per primo e ha dato a noi la grazia cioè il dono di poter amare. Egli amandoci per primo, ha stabilito con noi un’alleanza eterna. L’incarnazione infatti è stata il suo legame eterno con l’umanità. Non ci ha amato per primo una sola volta, all’inizio, ma sempre, ogni giorno, ogni momento, ci ama per primo!
Noi possiamo attingere da questo Suo amore la forza per amare a nostra volta Dio, il nostro prossimo, e per ottenere il perdono ogni volta che abbiamo mancato di farlo.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Gv 15, 9-17

Anche questo brano, come quello di domenica scorsa, fa parte dei “discorsi di addio” che Giovanni pone nella cornice dell’ultima cena. Gesù continuando il Suo discorso dopo l’allegoria della vite e dei tralci, mette in luce come tutta la vita dei discepoli dipenda dal rapporto che hanno con Lui, il loro Maestro: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore”
Il Padre ama teneramente il Figlio, tanto da formare con Lui un solo essere, e per questo gli ha dato in mano ogni cosa. Con lo stesso amore con cui è amato dal Padre, Gesù ama i discepoli. Perciò li esorta a rimanere nel Suo amore: “Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore”.
Gesù ha dimostrato il Suo amore verso il Padre osservando i Suoi comandamenti. Anche discepoli potranno essere coinvolti in questo amore che unisce il Padre e il Figlio a patto però che osservino i Suoi “comandamenti”. Non si tratta tuttavia di osservare una serie di prescrizioni, ma di essere partecipi di quell’amore che Dio vuole diffondere nel mondo. Il Padre è la sorgente dell’amore, che si trasmette nel Figlio e dal Figlio nei discepoli, che a loro volta devono comunicarlo ai fratelli.
Dalla loro unione vitale con Gesù scaturisce per i discepoli l’esperienza della gioia: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Accogliendo la Sua rivelazione, i discepoli sono stati purificati dai peccati e resi partecipi della sua comunione di vita con il Padre, che è sorgente della pace e della gioia più piena. Gesù spiega poi che partecipando all’amore del Padre e del Figlio i discepoli imparano ad amarsi tra loro: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”.
L’amore che unisce Gesù al Padre non è solo il modello, ma anche il fondamento dell’amore che unisce i discepoli tra di loro. Amore e obbedienza sono reciprocamente dipendenti perchè l’amore “comandato” da Gesù non è un sentimento generico, ma impegno concreto e radicale.
“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. Gesù ha dimostrato l’amore più grande perché ha donato la propria vita per i Suoi amici e i discepoli devono fare altrettanto per i fratelli. Poi Gesù continua affermando: “Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.”
Il concetto di amicizia viene spesso utilizzato nell’AT per indicare il rapporto con Dio a proposito di Abramo ( Gen 18,17), di Mosè (Es 33,11) e di coloro che abitano con la Sapienza ( Sap 7,27-28).
Qui si evidenzia che l’osservanza del Suo comandamento è una conseguenza dell’amicizia che li lega a Lui. Gesù non può più chiamarli servi perché ha rivelato loro tutto quello che ha udito dal Padre. Solo agli amici vengono confidati i segreti di famiglia, mentre i servi ne sono tenuti all’oscuro.
Ora, Gesù ha svelato ai discepoli, in quanto Suoi amici, i segreti più intimi di Dio, rendendoli partecipi della vita divina.
Gesù approfondisce ulteriormente questo concetto partendo dal tema dell’elezione:
“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri”.
Il rapporto di amicizia che lega i discepoli al Maestro non dipende da una loro scelta spontanea, ma è frutto del dono gratuito e della libera iniziativa di Gesù, che li ha “scelti per sé” e li “ha costituiti” per associarli intimamente alla Sua vita e per farli prosecutori della Sua opera. Inoltre Gesù assicura che il Padre concederà loro quanto essi chiederanno nel Suo nome.
In quanto amici, i discepoli ricevono da Gesù la rivelazione dei segreti di Dio.
Gesù è il massimo rivelatore non solo perché ha manifestato la natura di Dio, ma perché ha dato un volto umano a Dio, nella Sua natura più profonda, che è l’amore.
Per Giovanni il vangelo consiste essenzialmente nella manifestazione dell’Amore di Dio per mezzo della persona di Gesù. In questa rivelazione, colta e ritrasmessa dai discepoli, sta la proposta cristiana di salvezza.
Come i primi discepoli anche noi oggi dobbiamo “andare” uscendo dal Cenacolo dell’ultima Cena, dal circolo, un po’ ristretto, delle nostre chiese, e delle nostre case, per incamminarci lungo le strade del mondo ad annunziare quella Parola e a comunicare quell’amore che Gesù ha acceso e rende sempre vivo nei nostri cuori.

 

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“In questo tempo pasquale la Parola di Dio continua a indicarci stili di vita coerenti per essere la comunità del Risorto. Tra questi, il Vangelo di oggi presenta la consegna di Gesù: «Rimanete nel mio amore» rimanere nell’amore di Gesù. Abitare nella corrente dell’amore di Dio, prendervi stabile dimora, è la condizione per far sì che il nostro amore non perda per strada il suo ardore e la sua audacia. Anche noi, come Gesù e in Lui, dobbiamo accogliere con gratitudine l’amore che viene dal Padre e rimanere in questo amore, cercando di non separarcene con l’egoismo e con il peccato. E’ un programma impegnativo ma non impossibile.
Anzitutto è importante prendere coscienza che l’amore di Cristo non è un sentimento superficiale, no, è un atteggiamento fondamentale del cuore, che si manifesta nel vivere come Lui vuole. Gesù infatti afferma: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore». L’amore si realizza nella vita di ogni giorno, negli atteggiamenti, nelle azioni; altrimenti è soltanto qualcosa di illusorio. Sono parole, parole, parole: quello non è l’amore. L’amore è concreto, ogni giorno. Gesù ci chiede di osservare i suoi comandamenti, che si riassumono in questo: «che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» .
Come fare perché questo amore che il Signore risorto ci dona possa essere condiviso dagli altri? Più volte Gesù ha indicato chi è l’altro da amare, non a parole ma con i fatti. È colui che incontro sulla mia strada e che, con il suo volto e la sua storia, mi interpella; è colui che, con la sua stessa presenza, mi spinge a uscire dai miei interessi e dalle mie sicurezze; è colui che attende la mia disponibilità ad ascoltare e a fare un pezzo di strada insieme. Disponibilità verso ogni fratello e sorella, chiunque sia e in qualunque situazione si trovi, incominciando da chi mi è vicino in famiglia, nella comunità, al lavoro, a scuola… In questo modo, se io rimango unito a Gesù, il suo amore può raggiungere l’altro e attirarlo a sé, alla sua amicizia.
E questo amore per gli altri non può essere riservato a momenti eccezionali, ma deve diventare la costante della nostra esistenza. Ecco perché siamo chiamati, per esempio, a custodire gli anziani come un tesoro prezioso e con amore, anche se creano problemi economici e disagi, ma dobbiamo custodirli. Ecco perché ai malati, anche se nell’ultimo stadio, dobbiamo dare tutta l’assistenza possibile. Ecco perché i nascituri vanno sempre accolti; ecco perché, in definitiva, la vita va sempre tutelata e amata dal concepimento al suo naturale tramonto. E questo è amore.
Noi siamo amati da Dio in Gesù Cristo, che ci chiede di amarci come Lui ci ama. Ma questo non possiamo farlo se non abbiamo in noi il suo stesso Cuore.
L’Eucaristia, alla quale siamo chiamati a partecipare ogni domenica, ha lo scopo di formare in noi il Cuore di Cristo, così che tutta la nostra vita sia guidata dai suoi atteggiamenti generosi. La Vergine Maria ci aiuti a rimanere nell’amore di Gesù e a crescere nell’amore verso tutti, specialmente i più deboli, per corrispondere pienamente alla nostra vocazione cristiana.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 6 maggio 2018

Pubblicato in Liturgia
Venerdì, 30 Aprile 2021 15:40

V Domenica di Pasqua - Anno B - 2 maggio 2021

Le letture liturgiche di questa quinta domenica di Pasqua sottolineano come deve essere l’unione tra Cristo e i suoi discepoli, di ogni tempo e di ogni luogo.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci riporta come la comunità di Gerusalemme è testimone della profonda trasformazione di Paolo che, da persecutore dei cristiani, Gesù risorto ha chiamato a essere annunciatore del Vangelo. Vediamo che grazie a Barnaba, Paolo è accolto dai capi della comunità e riesce a dissipare i timori che vedevano ancora in lui il persecutore, e annuncia il Vangelo ai giudei di lingua greca, suoi precedenti amici, ora divenuti acerrimi nemici, che però tentano di ucciderlo.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, Giovanni, afferma che l’amore fraterno è ciò che conduce alla pace e Dio non è un giudice severo, che applica solo la giustizia, ma un padre pieno di amore, che si prende cura di ciascuno di noi suoi figli. .
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù si presenta come la “vera” vite, forse con un’allusione alla “falsa vite”, cioè all’albero pieno di foglie, ma che produce solo uva selvatica e amara, Gesù si proclama la vera vite perchè il Suo sangue sottoforma di vino, sarà uno dei canali principali di trasmissione della vita a noi Suoi tralci

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo.
Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.
At 9,26-31

Dopo aver narrato l’evangelizzazione della Samaria e la conversione di un eunuco etiope per opera di Filippo, Luca racconta la conversione-vocazione di Saulo di Tarzo (9,1-19), che dopo la folgorazione sulle vie di Damasco, ha dato inizio ad una nuova vita, cambiando anche nome e col nome di Paolo, egli sarà il grande teologo, il principale missionario del Vangelo di Gesù tra i pagani greci e romani e il protagonista del racconto degli Atti a partire dal capitolo 12.
Il brano liturgico, non riporta tutto il racconto della vocazione di Paolo, ma ci narra la sua prima visita alla comunità di Gerusalemme. Nei versetti precedenti il brano, è scritto che subito dopo il suo battesimo Paolo si era fermato per un po’ di tempo con i cristiani di Damasco, presentandosi nelle sinagoghe e annunziando che Gesù è “il Figlio di Dio”. I suoi ascoltatori si erano naturalmente meravigliati e si domandavano: “Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?” (v. 21). E ancora: Paolo “frattanto si rinfrancava sempre più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo (v. 22).
L’oratoria di Paolo sarà stata sicuramente irresistibile fatta “di una sapienza ispirata”, che ricorda quella del primo martire Stefano (v.6,10), e come nel suo caso suscitò una reazione violenta. Infatti dopo in po’ di giorni i Giudei fecero un complotto per ucciderlo. È questa la prima manifestazione di un odio profondo con cui Paolo si scontrerà per tutto il resto della sua vita.
A differenza di Stefano però Paolo non si lascia cogliere di sorpresa, perché “i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo; ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta”.. (vv. 24-25).
Da questo punto inizia il brano liturgico in cui Luca ci racconta che Paolo “venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo”. Paolo si reca a Gerusalemme, il luogo da cui era partito, per cercare di entrare a far parte della comunità dei discepoli, ma essi reagiscono con incredulità e paura “non credendo ancora che fosse un discepolo”.
La questione è più che logica: il ricordo della persecuzione che Paolo aveva effettuata nei loro confronti doveva essere ancora vivo. Barnaba, che godeva la stima e la fiducia della comunità, tanto che gli Apostoli al suo nome originario di Giuseppe, avevamo aggiunto il soprannome di Bàrnaba, che significa “figlio della consolazione o dell’esortazione”, a motivo della sua innata indole di saper dire la parola giusta per consolare e incoraggiare i fratelli a compiere il bene, difende la causa di Saulo davanti agli apostoli raccontando loro che durante il viaggio a Damasco, Paolo aveva visto il Signore che gli aveva parlato e “in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù.”
In seguito all’intervento di Barnaba, Paolo entra a far parte della comunità di Gerusalemme infatti Luca riporta che “andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore” mostrando anche qui lo stesso coraggio che aveva avuto a Damasco nell’annunziare il nome del Signore.
Dopo questa presentazione, Paolo ebbe contatto soprattutto con Pietro (come lo ricorda lui stesso nella lettera ai Galati 3,18), ma non mancò di predicare Gesù agli Ellenisti, quei Giudei della diaspora, con i quali egli aveva congiurato contro Stefano.
Lo scontro fu duro e gli ex amici decisero di farlo fuori, ma i fratelli quando lo vennero a sapere lo condussero a Cesarea, e da lì “lo fecero partire per Tarso”, la sua città natale dove rimase fino all’anno 46.
Del periodo che egli trascorre a Tarso non viene detto nulla né da lui nei suoi scritti, né da Luca che ritornerà a parlare di Paolo in occasione della visita che gli farà Barnaba per condurlo ad Antiochia. (v.11,25). La nota finale di Luca è molto significativa: “La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa…”
“Era in pace! ” Paolo con la passione che lo animava, dava l’impressione di cercare lo scontro; gli Apostoli, pur annunciando la Parola con franchezza e coraggio, hanno sempre evitato lo scontro diretto e cercavano di convivere con gli irriducibili del popolo. È nella pace infatti che la Chiesa “si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.”
Luca, coglie ancora l’occasione per sottolineare che La Chiesa cammina con Cristo nella storia unicamente perché è sostenuta dalla potenza dello Spirito Santo.

Salmo 21 A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea.
Scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
I poveri mangeranno e saranno saziati,
loderanno il Signore quanti lo cercano;
il vostro cuore viva per sempre!

Ricorderanno e torneranno al Signore
tutti i confini della terra;
davanti a te si prostreranno
tutte le famiglie dei popoli.

A lui solo si prostreranno
quanti dormono sotto terra,
davanti a lui si curveranno
quanti discendono nella polvere.

Ma io vivrò per lui,
lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunceranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno:
«Ecco l’opera del Signore!».

Non c'è cristiano che non conosca la forza sconvolgente delle battute iniziali di questa celebre lamentazione, gridate da Gesù agonizzante: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mt 27,46).
Un testo di grande desolazione striato dal sangue e dalle lacrime, segnato da immagini «bestiali» di sapore prettamente orientale (tori, leoni, mastini, bufali), affidato in filigrana alla raffigurazione di un corpo dalle ossa slogate, dal cuore molle come cera, dalla gola simile a creta riarsa, dal respiro affannato, dalle mani e dai piedi feriti... Attorno, il silenzio di Dio e l'ostilità degli uomini che già si spartiscono l'eredità, convinti di essere di fronte a un maledetto (v. 19). Ed invece, all'improvviso, ecco la svolta: «Esaudito, esaudito mi hai!» (v. 22). E il lamento si trasforma in inno di ringraziamento festoso (vv. 23-27) e in cantico al Signore, re dell'universo (vv. 28-29). Dalla disperazione alla speranza, dalla morte alla vita, dal sepolcro alla risurrezione:«Ecco l’opera del Signore!».
commento tratto da “I Salmi” di David Maria Turoldo e Gianfranco Ravasi

Dalla prima lettera di S.Giovanni Apostolo
Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
1Gv 3,18-24

L’Apostolo Giovanni nei capitoli 3 e 4 della sua prima lettera, ci presenta le tre condizioni per vivere da figli di Dio.
La prima è quella di rompere definitivamente con il peccato, la seconda, quella che troveremo nel brano di oggi, di osservare i comandamenti, soprattutto quello della carità. La terza è il guardarsi dagli anticristi e dalla mentalità del mondo.
Il brano inizia con l’esortazione: Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. Tenendo presente il versetto precedente in cui diceva “se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” possiamo comprendere che l'apostolo ci esorta a esprimere un amore attivo, non solo a parole. Sono i fatti che manifestano la verità dell'amore!
Poi continua: “In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri.” Se qualcuno dimostra la sua carità con i gesti concreti di amore e solidarietà è sicuro che la sua fede è solida e non si lascerà confondere da coloro che predicano una fede diversa.
“Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.” Questa osservazione è probabilmente scaturita forse dalla paura di non aver capito bene il messaggio di Dio, ma è consolante sapere che Dio è più grande del nostro cuore e lo possiamo constatare verificando il risultato delle nostre opere di bene.
“Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio” , vale dire il cuore non può rimproverarci nulla se abbiamo amore verso gli altri. E questa sensazione liberandoci dagli scrupoli rafforza la fiducia in Dio e ci fa sentire in comunione con Lui!
“e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito”. Se siamo in comunione con Dio, vivendo della Sua stessa capacità di amore, possiamo chiedere qualsiasi cosa, ed come figli obbedienti Egli ci viene incontro nelle nostre richieste.
“Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato.”
Questi sono i Suoi comandamenti. Il primo e più importante è quello di avere fede, di credere nel nome di Suo Figlio. Nella mentalità semitica il nome è tutta quanta la persona, la sua forza, la sua vera natura e credere nel nome è credere nella persona stessa. L'altro comandamento è quello di amarci gli uni gli altri. Questo è uno dei motivi più importanti e ricorrenti degli scritti di Giovanni.
Nei versetti finali del brano “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato“ si percepisce ancora un significato più profondo, perchè in “dimorare-rimanere” nel significato originale, si trovano più sfumature che fanno pensare all’intimità, alla fedeltà, alla comunione.
Inoltre si comprende in modo più chiaro che questo “dimorare-rimanere” nasce e si alimenta in un dialogo, in una reciprocità. Infatti noi “dimoriamo” in Dio proprio perchè Lui per primo ha scelto di venire a”dimorare” in noi. E il nostro dimorare in Lui significa “osservare il Suo comandamento”, cioè credere nel nome del Figlio Suo Gesù Cristo e amarci gli uni gli altri, come Lui ci ha amato. In questa comunione reciproca c'è anche lo Spirito che ci permette di vivere e operare secondo la volontà di Dio.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.
Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me.
Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Gv 15, 1-8

L’evangelista Giovanni nella seconda parte del suo vangelo, riporta, prima del racconto della passione, tre discorsi di addio che Gesù avrebbe pronunziato in occasione dell’ultima cena.
In essi Gesù presenta il tema del Suo ritorno al Padre e delle conseguenze che esso avrà nella vita dei Suoi discepoli. Nel secondo di questi discorsi sottolinea la necessità dell’unione vitale con Lui, che deve essere rafforzata dai discepoli praticando il comandamento dell’amore vicendevole.
Il brano si apre con la dichiarazione di Gesù: “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore.”
Qui troviamo un’immagine classica della Bibbia, quella della vite, l’albero simbolico della prosperità e della gioia messianica, segno di Israele fedele e infedele.(v.Isaia 5,1-7 cantico della vigna o il salmo 80 o la parabola della vigna di Marco 12,1-11).
In quanto vite, Gesù è dotato di tralci che sono oggetto delle cure del vignaiolo: “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. I tralci rappresentano tutti coloro che, entrando in comunione con Gesù, diventano membri del nuovo popolo di Dio. In quanto vignaiolo, il Padre taglia i rami infruttuosi e pota quelli che danno frutto: i primi sono i credenti che non operano in sintonia con Cristo, e quindi si distaccano da Lui, mentre gli altri sono coloro che gli rimangono fedeli, ma non per questo sono dispensati da prove e sofferenze, perché solo attraverso queste possono progredire nel rapporto con Lui e con il Padre.
L’allegoria della vigna si sviluppa poi mediante una serie di esempi e di esortazioni.
Anzitutto Gesù osserva rivolgendosi ai suoi discepoli: “Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato”. Lo stretto rapporto che fa dei discepoli un’unica cosa con il Maestro scaturisce dalla Sua parola che dimora in essi e li purifica, realizzando così gli oracoli profetici della nuova alleanza (v. Ger 31,33-34). Questi discepoli non devono quindi temere di andare incontro a potature anche dolorose, perchè tutte queste sofferenze renderanno più salda la loro fede.
Gesù perciò rivolge loro questo invito: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”.
Il Signore si attende dalla Sua vigna che produca frutto (v. Is 5,4.7) e questo si può realizzare nell’obbedire alla Sua volontà, vivendo “secondo i suoi statuti “ osservando e “mettendo in pratica le mie leggi.” (v. Ez 36,27).
Separandosi da Gesù il discepolo perde la possibilità stessa di produrre i frutti dell’amore e si dissecca come un ramo staccato dal tronco. La possibilità di fare frutto dipende dunque esclusivamente dal rapporto che i discepoli hanno con il loro Maestro.
Chiaramente non viene escluso l’impegno personale, ma esso è fruttuoso solo se deriva dalla piena comunione con Lui e dall’assimilazione di quei valori che hanno ispirato la Sua esistenza umana.
Gesù afferma ancora : “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano”. Il ramo che non produce frutto non può restare collegato con la vite: perciò il Padre lo taglia e lo getta nel fuoco.
Con questa espressione si attribuisce a Dio, in sintonia con il linguaggio biblico, quella che è semplicemente una conseguenza dell’operare umano.
Alla fine del brano si riprende il tema del collegamento tra vite e tralci in funzione della preghiera: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto.”
La preghiera del discepolo è efficace solo nella misura in cui resta in comunione con Cristo, perché solo così i suoi desideri sono in piena sintonia con quelli del Padre.
Gesù infine conclude “In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”. L’unione dei discepoli con Gesù non è altro che il prolungamento dell’amore che unisce il Padre e il Figlio: da esso derivano quei frutti che “glorificano” il Padre perché testimoniano la Sua opera efficace e continua per la salvezza di tutta l’umanità.
Rimanere uniti a Cristo per portare frutto è dunque la sfida del Vangelo di oggi, e portare frutto è sostanzialmente amare. amare con un amore pieno, perfetto: con lo stesso amore con cui Lui ci ha amato e ci ama.

 

*****

“La Parola di Dio, anche in questa quinta Domenica di Pasqua, continua a indicarci la strada e le condizioni per essere comunità del Signore Risorto. Domenica scorsa era messo in risalto il rapporto tra il credente e Gesù Buon Pastore. Oggi il Vangelo ci propone il momento in cui Gesù si presenta come la vera vite e ci invita a rimanere uniti a Lui per portare molto frutto
La vite è una pianta che forma un tutt’uno con i tralci; e i tralci sono fecondi unicamente in quanto uniti alla vite. Questa relazione è il segreto della vita cristiana e l’evangelista Giovanni la esprime col verbo “rimanere”, che nel brano odierno è ripetuto sette volte. “Rimanere in me”, dice il Signore; rimanere nel Signore.
Si tratta di rimanere con il Signore per trovare il coraggio di uscire da noi stessi, dalle nostre comodità, dai nostri spazi ristretti e protetti, per inoltrarci nel mare aperto delle necessità degli altri e dare ampio respiro alla nostra testimonianza cristiana nel mondo. Questo coraggio di uscire da sé e inoltrarci nelle necessità degli altri nasce dalla fede nel Signore Risorto e dalla certezza che il suo Spirito accompagna la nostra storia. Uno dei frutti più maturi che scaturisce dalla comunione con Cristo è, infatti, l’impegno di carità verso il prossimo, amando i fratelli con abnegazione di sé, fino alle ultime conseguenze, come Gesù ci ha amato. Il dinamismo della carità del credente non è frutto di strategie, non nasce da sollecitazioni esterne, da istanze sociali o ideologiche, ma nasce dall’incontro con Gesù e dal rimanere in Gesù. Egli per noi è la vite dalla quale assorbiamo la linfa, cioè la “vita” per portare nella società un modo diverso di vivere e di spendersi, che mette al primo posto gli ultimi.
Quando si è intimi con il Signore, come sono intimi e uniti tra loro la vite e i tralci, si è capaci di portare frutti di vita nuova, di misericordia, di giustizia e di pace, derivanti dalla Risurrezione del Signore. È quanto hanno fatto i Santi, coloro che hanno vissuto in pienezza la vita cristiana e la testimonianza della carità, perché sono stati veri tralci della vite del Signore. Ma per essere santi «non è necessario essere vescovi, sacerdoti o religiosi. […] Tutti noi, tutti, siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (Esort. ap. Gaudete et exultate .14). Tutti noi siamo chiamati ad essere santi; dobbiamo essere santi con questa ricchezza che noi riceviamo dal Signore risorto. Ogni attività – il lavoro e il riposo, la vita familiare e sociale, l’esercizio delle responsabilità politiche, culturali ed economiche – ogni attività, sia piccola sia grande, se vissuta in unione con Gesù e con atteggiamento di amore e di servizio, è occasione per vivere in pienezza il Battesimo e la santità evangelica.
Ci sia di aiuto Maria, Regina dei Santi e modello di perfetta comunione con il suo Figlio divino. Ci insegni Lei a rimanere in Gesù, come tralci alla vite, e a non separarci mai dal suo amore. Nulla, infatti, possiamo senza di Lui, perché la nostra vita è Cristo vivo, presente nella Chiesa e nel mondo.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 29 aprile 2018

 

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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