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S.Messe (settimana)
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Le letture liturgiche di questa domenica ci portano a domandarci a chi è riservata la salvezza? Nessuno può considerare la sua appartenenza a Cristo come garanzia di una facile salvezza. Questa, infatti, è una grazia che va accolta e condivisa in una vita spesa per Dio e per i fratelli.
Nella prima lettura, presa dall’ultima pagina del libro del profeta Isaia, ci dice che tutti i popoli della terra non devono sentirsi estranei nella Gerusalemme dello spirito perché là c’è un libro su cui anche i loro nomi sono stati scritti personalmente da Dio stesso.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera Ebrei, l’autore ci dice che anche la prova dolorosa, che sul momento provoca tristezza, può essere il segno dell’amore del Padre, che al figlio prepara un premio grande di pace e di giustizia.
Nel Vangelo di Luca, alla domanda sul numero dei salvati, Gesù non dà una risposta diretta, ma espone le condizioni indispensabili per conseguire la salvezza. La “porta stretta” sta a significare la via della rinuncia al proprio egoismo con un impegno serio e costante. Non basta aver “mangiato e bevuto” l’eucaristia, o ascoltato e fatto catechesi o propaganda religiosa, è la scelta di un’intera vita di fede e di amore che fa spalancare le porte della festa. Là entreranno gli ultimi, persino i “lontani” giusti, i veri operatori di pace e di giustizia, i veri fedeli.

Dal libro del profeta Isaìa
Così dice il Signore: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro supèrstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros,Tubal e Iavan, alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle genti.
Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme - dice il Signore -, come i figli d’Israele portano l'offerta in vasi puri nel tempio del Signore. Anche tra loro mi prenderò sacerdoti e levìti, dice il Signore”.
Is 66,18-21

Questo brano appartiene al "Terzo Isaia" (TritoIsaia capitoli 56-66), il profeta della situazione successiva al ritorno dall'esilio. E’ stato composto con ogni probabilità in un periodo che precede le guerre maccabaiche, e dimostra una grande apertura universalistica: JHWH è il Dio di tutte le nazioni e si serve dei giudei sparsi in mezzo alle nazioni per farsi conoscere anche da loro. Il brano inizia con un oracolo in cui Dio stesso dice che cosa sta per fare: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro supèrstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros,Tubal e Iavan, alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle genti.”
Richiamandosi all’annunzio della venuta di DIO per giudicare il mondo, il testo sottolinea che la condanna dei popoli non costituisce l’unico scopo dell’intervento divino. Il Signore viene anzitutto per radunare tutti i popoli e promette anche a loro che vedranno la Sua gloria, cioè avranno anche loro accesso alla salvezza. L’elenco dei popoli, ricavata da Ezechiele, contiene nomi che risvegliano l’immaginazione di terre lontane e lingue diverse. Ciò serve a situare la promessa in un grandioso scenario geografico che rievoca l’universalità delle genti. Vengono nominate Tarsis, (località non ben definita, a volte associata a Tharros in Sardegna o Tertesso nella Spagna meridionale) , Put che è situata in Egitto, Lud in Asia Minore, Mesech, Ros e Tubal vicino al mar Nero e infine la Grecia e in particolare le colonie Ionie sulla costa occidentale dell’Asia Minore e delle isole. Queste nazioni non hanno sentito parlare di JHWH e non sono ancora venute a contatto con Lui.
L’autore spiega poi quale sarà la conseguenza dell’intervento divino: Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme - dice il Signore -, come i figli d’Israele portano l'offerta in vasi puri nel tempio del Signore. In questo versetto si riprende l’immagine del pellegrinaggio escatologico delle nazioni a Gerusalemme e al tempio. È questa una delle idee centrali del Terzo Isaia (60,1-22; 62,1-9), che preannunzia la venuta a Gerusalemme delle nazioni straniere che portano i loro doni all’unico vero Dio.
Qui invece le nazioni non portano doni materiali, ma riconducono alla loro terra tutti i giudei che erano ancora dispersi in tutte le parti del mondo.
Infine Dio indica ciò che intende fare: “Anche tra loro mi prenderò sacerdoti e levìti…”.
Questa conclusione è piuttosto rivoluzionaria in quanto indica il superamento di un sacerdozio che apparteneva unicamente al popolo di Israele ed in particolare della casta sacerdotale. Ormai tutti potranno essere ammessi al servizio del tempio, anche se appartengono a popolazioni straniere che per diritto non potevano entrare neppure nei cortili più interni del tempio.

Salmo 116 - Tutti i popoli vedranno la gloria del Signore

Genti tutte, lodate il Signore,
popoli tutti,cantate la sua lode.

Perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore

E’ impossibile dimenticare il Salmo 117(116), il più breve del Salterio (17 parole nell’originale ebraico, delle quali solo 9 rilevanti), dopo aver ascoltato lo stupendo “Laudate Dominum” in fa minore presente nei “Vespri solenni di un confessore” di Mozart (1780)…
Il mini-inno è una miniatura puntuale del genere letterario innico. Tipico è l’invitatorio alla lode: Genti tutte, lodate il Signore,
popoli tutti,cantate la sua lode. Segue il contenuto dell’inno che è introdotto in ebraico da un “Kî “perchè”, contenuto espresso attraverso i due attributi divini fondamentali, tipici della teologia biblica dell’alleanza, hesed, l’”amore” e ‘emet, la“fedeltà”.
Questi due vocaboli sono in pratica un’endiadi per esaltare l’eterna fedeltà amorosa di Dio, nonostante i tradimenti dell’uomo.

Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi


Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, avete già dimenticato l'esortazione a voi rivolta come a figli: "Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio".
È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli;e qual è il figlio che non è corretto dal padre? Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati. Perciò rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire.
Eb 12,5-7, 11-13

In questo brano l’autore della lettera agli ebrei affronta il tema che la sofferenza ha in un cammino di fede. Prima analizzando la sofferenza come correzione, cita dei versetti tratti dal libro dei proverbi (3,11-12), dice
"Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio".:e commenta “È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre”.
Questo comportamento di Dio con i suoi fedeli è descritto alla luce di quelli che erano i metodi educativi di allora, secondo i quali un padre, proprio perché ama i propri figli, li educa con castighi di vario tipo. Forse l’autore ha in mente il tema di Gesù, il Figlio, che proprio attraverso quello che patì imparò l’obbedienza (Eb 5,8). Dopo aver esposto la sua tesi sull’importanza della correzione, l’autore fa una sua ulteriore riflessione: “Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati.”
La sofferenza, anche vista come una correzione ispirata dall’amore paterno di Dio, non fa certo piacere anche se la sua importanza e il suo significato si capiscono solo dopo, quando se ne vedono i frutti, che consistono nella pace e nella giustizia.
Infine egli conclude: “Perciò rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” L’esortazione contenuta in questi due versetti è ispirata a Isaia (35,3,) quando il profeta si rivolgeva agli ebrei esuli in Babilonia per annunziare loro la prossimità della salvezza e la possibilità di ritornare nella loro terra; e al Libro dei Proverbi (4,26) in cui è riportata una massima sapienziale che invita alla prudenza e all’impegno:
”Bada alla strada dove metti il piede e tutte le tue vie siano ben rassodate”.
Questo brano è faticoso da tradurre nel quotidiano, per cui è opportuno riconoscere che solo in un contesto di fedeltà assoluta, sulla linea di Gesù, le sofferenze che accompagnano l'esistenza dei credenti possono diventare un’occasione per purificare la fede da illusione e interessi superficiali e per scoprire un nuovo rapporto con Dio come Padre. In breve, le prove possono diventare espressione e strumento della “pedagogia” divina solo per chi ha fatto una scelta di fedeltà a Dio che trova in Gesù la sua fonte e il suo modello ideale.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”.
Disse loro: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare ma non ci riusciranno.
Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete: Allontanatevi da me voi tutti operatori di ingiustizia!
Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori.
Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi e vi sono primi che saranno ultimi”.
Lc 13, 22-30

Si può subito notare che questo brano, tratto dal Vangelo di Luca, soprattutto se messo in relazione con lo stesso episodio raccontato da Matteo, risente chiaramente della polemica sul rigetto dei Giudei e l’ammissione dei pagani nella Chiesa.
Il testo racconta che Gesù mentre è in cammino verso la città santa, si dedica all’insegnamento nelle città e nei villaggi in cui passa. Luca riferisce che un tale interpella Gesù facendogli una domanda provocatoria: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Il modo in cui questa domanda è formulata presuppone che Gesù si sia espresso in termini tali da far pensare che effettivamente il numero dei salvati sia esiguo, infatti poco prima egli aveva usato l’immagine del “piccolo gregge” e aveva paragonato il regno a un granello di senapa e a un pugno di lievito. Gesù non risponde direttamente alla domanda sul numero dei salvati, ma rivolge loro un’esortazione: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare ma non ci riusciranno” e poi aggiunge : Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”.
Questa frase costituisce in Matteo la conclusione della parabola delle vergini prudenti e delle vergini stolte mentre in Luca la stessa frase viene fatta dire al padrone che chiude la porta di casa lasciando fuori alcune persone che bussano e insistono per entrarvi. Luca precisa ulteriormente il pensiero di Gesù riportando un’altra frase Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”.
Da queste parole appare che Gesù si identifica con il padrone di casa e coloro che sono rimasti fuori sono persone che pensano di avere il diritto di entrare nella sala. In Matteo questo diritto si fonda sul fatto che nel suo nome hanno profetato, hanno cacciato demoni e hanno fatto miracoli. Secondo Luca la loro comunione con Gesù si riduce al fatto che essi hanno mangiato e bevuto davanti a Lui ed Egli ha predicato nelle piazze dei loro villaggi. Sembra quindi che, mentre per Matteo si tratta di discepoli non coerenti con le esigenze del vangelo, secondo Luca gli esclusi sono i giudei che hanno ascoltato la sua predicazione e non si sono convertiti. È probabile dunque che Luca riporti la frase nel suo significato originario, in funzione cioè dell’ambiente in cui Gesù predicava, mentre Matteo l’avrebbe adattata a una problematica interna alla prima comunità. Luca dunque ha inteso attualizzare l’insegnamento di Gesù per i discepoli del suo tempo.
Coloro che, in qualità di discepoli hanno familiarità con il Signore e ne ascoltano gli insegnamenti si potrebbero porre anche adesso una domanda cruciale: “Noi cristiani ci salveremo?” Le parole di Gesù danno sempre una risposta a chi sa ascoltare: L’essere cristiani non è il mezzo magico di salvezza, perchè la salvezza viene dall’incontro dello sforzo umano con il dono di Dio.

 

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“Il Vangelo di oggi ci presenta Gesù che passa insegnando per città e villaggi, diretto a Gerusalemme, dove sa che deve morire in croce per la salvezza di tutti noi. In questo quadro, si inserisce la domanda di un tale, che si rivolge a Lui dicendo: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» . La questione era dibattuta a quel tempo – quanti si salvano, quanti no… – e c’erano diversi modi di interpretare le Scritture al riguardo, a seconda dei testi che prendevano. Gesù però capovolge la domanda – che punta più sulla quantità, cioè “sono pochi?...” – e invece colloca la risposta sul piano della responsabilità, invitandoci a usare bene il tempo presente. Dice infatti: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» .
Con queste parole, Gesù fa capire che non è questione di numero, non c’è il “numero chiuso” in Paradiso! Ma si tratta di attraversare fin da ora il passaggio giusto, e questo passaggio giusto è per tutti, ma è stretto. Questo è il problema. Gesù non vuole illuderci, dicendo: “Sì, state tranquilli, la cosa è facile, c’è una bella autostrada e in fondo un grande portone…”. Non ci dice questo: ci parla della porta stretta. Ci dice le cose come stanno: il passaggio è stretto. In che senso? Nel senso che per salvarsi bisogna amare Dio e il prossimo, e questo non è comodo! È una “porta stretta” perché è esigente, l’amore è esigente sempre, richiede impegno, anzi, “sforzo”, cioè una volontà decisa e perseverante di vivere secondo il Vangelo. San Paolo lo chiama «il buon combattimento della fede» (1Tm 6,12). Ci vuole lo sforzo di tutti i giorni, di tutto il giorno per amare Dio e il prossimo.
E, per spiegarsi meglio, Gesù racconta una parabola. C’è un padrone di casa, che rappresenta il Signore. La sua casa simboleggia la vita eterna, cioè la salvezza. E qui ritorna l’immagine della porta. Gesù dice: «Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta dicendo: “Signore, aprici”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”» . Queste persone allora cercheranno di farsi riconoscere, ricordando al padrone di casa: “Io ho mangiato con te, ho bevuto con te… ho ascoltato i tuoi consigli, i tuoi insegnamenti in pubblico…”; “Io c’ero quando tu hai dato quella conferenza…”. Ma il Signore ripeterà di non conoscerli, e li chiama «operatori di ingiustizia». Ecco il problema! Il Signore ci riconoscerà non per i nostri titoli – “Ma guarda, Signore, che io appartenevo a quell’associazione, che io ero amico del tal monsignore, del tal cardinale, del tal prete…”. No, i titoli non contano, non contano. Il Signore ci riconoscerà soltanto per una vita umile, una vita buona, una vita di fede che si traduce nelle opere.
E per noi cristiani, questo significa che siamo chiamati a instaurare una vera comunione con Gesù, pregando, andando in chiesa, accostandoci ai Sacramenti e nutrendoci della sua Parola. Questo ci mantiene nella fede, nutre la nostra speranza, ravviva la carità. E così, con la grazia di Dio, possiamo e dobbiamo spendere la nostra vita per il bene dei fratelli, lottare contro ogni forma di male e di ingiustizia.
Ci aiuti in questo la Vergine Maria. Lei è passata attraverso la porta stretta che è Gesù. Lo ha accolto con tutto il cuore e lo ha seguito ogni giorno della sua vita, anche quando non capiva, anche quando una spada trafiggeva la sua anima. Per questo la invochiamo come “Porta del cielo”: Maria, Porta del cielo; una porta che ricalca esattamente la forma di Gesù: la porta del cuore di Dio, cuore esigente, ma aperto a tutti noi“
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 25 agosto 2019

Pubblicato in Liturgia

La solennità dell’assunzione in cielo della Beata Vergine Maria – anima e corpo - è un dogma solennemente proclamato da Pio XII il 1 novembre 1950.
“Per capire l'Assunzione – aveva detto Papa Benedetto XVI “dobbiamo guardare alla Pasqua, il grande Mistero della nostra Salvezza, che segna il passaggio di Gesù alla gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la risurrezione. Maria che ha generato il Figlio di Dio nella carne, è la creatura più inserita in questo mistero, redenta fin dal primo istante della sua vita, e associata in modo del tutto particolare alla passione e alla gloria del suo Figlio. L'Assunzione al Cielo di Maria è pertanto il mistero della Pasqua di Cristo pienamente realizzato in Lei. Ella è intimamente unita al suo Figlio risorto, vincitore del Peccato e della morte, pienamente conformata a Lui”. (Angelus 15 agosto 2012)
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Apocalisse, incontriamo l’immagine simbolica di una donna che partorisce un figlio maschio. E’ facile per noi riconoscere in lei Maria che dà alla vita il Signore Gesù. Tuttavia, anche nell’Apocalisse l’immagine si amplifica, per diventare simbolo della Chiesa, che con il suo impegno testimonia nella storia la presenza del Figlio di Dio. Egli è rapito in cielo per renderci partecipi della sua vittoria sulla morte. La donna continuerà a combattere con noi nel deserto, ma condividendo già la gloria di Dio, ci mostra quale sarà l’esito finale della lotta: tutto, anche la morte, sarà posto sotto i piedi di suo Figlio.
Con la seconda lettura, tratta dalla prima lettera di S.Paolo ai Corinzi, possiamo comprendere di più come l’assunzione al cielo di Maria è il frutto della risurrezione di Cristo, che è la “primizia” dei risorti. Maria anticipa il destino di gloria promesso a “quelli che sono di Cristo”.
Nel Vangelo, Luca ci presenta la visita premurosa di Maria alla cugina Elisabetta. Alla lode della cugina, Maria risponde con un gioioso cantico divenuto la preghiera dei poveri del Signore, la grande lode di ringraziamento per la presenza in mezzo a noi, deboli, poveri, ma credenti, del Signore Salvatore.

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza.
Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito.
Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio.
Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo».
Ap 11,19a – 12,1-6ª.10ab

Il libro dell'Apocalisse, che è stato scritto dall’Apostolo Giovanni o da un suo discepolo nell’Anno 95, quando si trovava in esilio all’isola di Patmos, si compone di 22 capitoli. E’ la rivelazione di Gesù Cristo come Egli è, (da qui il nome Apocalisse=rivelazione) il Signore dei signori, il Re dei re, il quale si riappropria di ciò che gli appartiene: la terra.
Anche nel linguaggio comune si è sentito parlare del "settimo sigillo", questo perché nell'Apocalisse la prima serie di giudizi è dettata dall'apertura di sette sigilli.
In Israele ai tempi dell'Antico Testamento l'atto di proprietà veniva redatto, quindi arrotolato e sigillato, in caso di contestazione l'atto di proprietà veniva aperto.
Ecco, Cristo nell'Apocalisse apre i sigilli perché ha deciso di riprendere possesso della terra.
L'Apocalisse è il libro della Bibbia che completa le informazioni profetiche rispetto al piano di Dio. Descrive in modo molto dettagliato gli eventi futuri dell'umanità. In sostanza l'ultimo libro della Bibbia, forse il più importante per quanto riguarda le profezie e la comprensione del piano di Dio, è diviso in cinque parti:
1. Capitoli da 1 a 3. Lettera alle sette chiese dell'Asia, Dio usa Giovanni, l'autore del libro, per rivelare alla Chiesa le cose che dovranno avvenire.
2. Capitoli 4 e 5. L'affermazione dell'autorità divina di Cristo sulla terra.
3. Capitoli da 6 a 19. Il periodo di sette anni della Tribolazione, descritta attraverso gli eventi ed i giudizi, periodo che inizia con l'apertura del primo sigillo, il cavallo bianco cavalcato dall'Anticristo, con l'arco senza le frecce, prende il potere senza fare la guerra, il cavallo bianco sembra significare che abbia usurpato il ruolo di Cristo. Il periodo termina con Gesù che viene cavalcando un cavallo bianco, seguito dai suoi eserciti, non ci sarà battaglia, viene posta fine alla Tribolazione.
4. Capitolo 20. Il regno dei mille anni governato da Gesù Cristo, al termine dei quali ci sarà l'ultima ribellione dell'umanità, l'apertura dei libri ed il giudizio universale relativo a quelli che non hanno la salvezza di Cristo.
5. Capitoli 21 e 22. La vita eterna con Dio con dei nuovi cieli e la nuova terra, il compimento finale del Piano di Dio.
Questo brano, che la liturgia ci presenta, tratto dal capitolo 12, si può dire è la pagina più bella dell’Apocalisse:
«Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle...».
L’intero capitolo è dominato anche da un altro “segno”, quello «di un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra», ed è tutto intarsiato di allusioni a testi biblici.
E’ grande il contrasto che si scorge in questa visione: da un lato la donna e il figlio, dall’altro il dragone rosso incoronato.
Sono state date nel tempo numerose e valide interpretazioni, la più comune è quella che identifica nella donna, Maria che genera il Cristo. In realtà il pensiero di Giovanni è probabilmente orientato in altra direzione. La donna simboleggia anche il popolo di Dio, prima l’antico Israele, da cui Gesù ha preso carne, l’altro il nuovo Israele, la Chiesa, al cui interno il Cristo è continuamente generalato attraverso l’Eucaristia e la Sua parola.. Maria, la Chiesa, il Cristo sono intimamente connessi e sono segno altissimo del bene e della salvezza
In questo testo sia S.Agostino che S.Bernardo hanno visto nella Donna dell’Apocalisse il simbolo di Maria, come altri testi sacri che richiamano il mistero della Chiesa, possono essere applicati alla Vergine Maria, in quanto il vero mistero che la circonda, s’inserisce nel mistero della Chiesa e insieme lo illumina, come lo ha sottolineato il Concilio Vaticano II.

Salmo 44 - Risplende la Regina, Signore, alla tua destra.
Figlie di re stanno fra le tue predilette;
alla tua destra sta la regina, in ori di Ofir.

Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio,
dimentica il tuo popolo
e la casa di tuo padre.
Il re è invaghito della la tua bellezza.
E’ lui il tuo Signore: rendigli omaggio.

Dietro a lei le vergini sue compagne
Condotte in gioia ed esultanza;
guidate in gioia ed esultanza,
sono presentate nel palazzo del re.

Questo salmo per essere compreso ha bisogno di una precisazione teologica. I re di dinastia davidica erano delle figure del futuro re, il Messia. Così il salmo guarda al futuro Messia mentre celebra le nozze di un re d’Israele. Le lodi che lo scriba presenta al re hanno come ultimo traguardo il Cristo.
Le nozze sono quelle tra Salomone e la figlia del re di Tiro. Non esiste nella storia biblica o extrabiblica una menzione di queste nozze, ma si sa che Davide e poi Salomone ebbero stretti contatti d’amicizia con il re di Tiro circa la costruzione del Tempio, e del resto nel salmo si parla di Tiro, e della “figlia del re”.
Il salmista è uno scriba che ha composto un poema di lode e lo recita davanti al re. Le sue lodi sono splendide, non protocollari, egli celebra nel re il futuro Messia. Tutte le nozze del re Salomone con la figlia del re di Tiro, diventano figura della azioni future del Messia e in questo senso pieno vanno lette.
Lo scriba è pieno di gioia, lodando il re sa di compiere un atto che termina nella lode a Dio.
Il re è detto “il più bello tra i figli dell’uomo”. Bello di una bellezza divina il Cristo. Sulle sue “labbra è diffusa la grazia”, cioè la parola sapiente, la giustizia nel governare, la promozione dell’osservanza alla Legge. “Dio ti ha benedetto per sempre”, perché non ritirerà mai il suo favore alla casa di Davide (2Sam 7,12).
Lo scriba invita il re, chiamato prode, a cingersi la spada al fianco per combattere i suoi nemici, che vogliono ostacolare il suo lottare (“cavalca”) per la causa “della verità, della mitezza e della giustizia”. Così Cristo avanzerà nel mondo per mezzo della verità - lui la Verità -, della mitezza e della giustizia. Egli colpirà alla fine i suoi nemici con la spada della sua condanna (Ps 2,9; Ap 19,15).
Lo scriba afferma che il trono del re dura per sempre, poiché esso è destinato al futuro Messia. Il re è chiamato Dio, perché fa le veci di Dio, ma sarà veramente Dio nel futuro Messia.
“Scettro di rettitudine è il tuo scettro regale”, dice lo scriba. "Di rettitudine" perché fondato sulla Legge, che ha per sostanza l’amore.
Egli, il re, è stato consacrato tale “con olio di letizia”, a preferenza dei suoi uguali, cioè dei suoi fratelli discendenti di Davide. Cristo sarà consacrato re per opera dello Spirito Santo nel Giordano, sarà lui consacrato re tra tutti i discendenti di Davide (Lc 1,32); egli che sarà riconosciuto per la fede nella sua realtà di Figlio di Dio.
Le vesti del re emanano profumi, secondo l’uso orientale. Il profumo indica l’amabilità della persona. C’è festa attorno a lui: “Da palazzi d’avorio ti rallegri il suono di strumenti a corda”. Palazzi d’avorio perché ricchi di mobili intarsiati d’avorio. E’ la festa per lui. E’ la celebrazione della grandezza che ha ricevuto da Dio. Cristo è ben degno che dalle regge dei re si innalzi la celebrazione della sua grandezza, che sorpassa all’infinito ogni grandezza (Cf. Fil 2,9).
Lo scriba fa menzione dell’harem del re, fatto di figlie di re, segno della influenza tra i popoli. I popoli si sono alleati con lui dando a lui le figlie dei re. Ma alla destra del re c’è la regina. Questa regina viene dai pagani. E’ la figlia del re di Tiro, ma è invitata a lasciare ogni ricordo del suo popolo e della sua casa. Così la Chiesa viene anche dai pagani. E i pagani porteranno al Cristo le loro ricchezze: “Gli abitanti di Tiro portano doni”. Mentre “i più ricchi del popolo (Israele)” cercano il favore del re.
Certo Israele si aprirà a Cristo e i più ricchi di dottrina in Israele cercheranno di essere graditi al Re dei re, e ne guarderanno il volto pronti ad obbedire alla sua parola.
La regina è presentata in tutto il suo splendore; è la donna che l’Apocalisse presenta avvolta nel sole (12,1).
Le “vergini, sue compagne”, che facevano corolla alla figlia del re di Tiro, entrano anch’esse nel palazzo regale, diventando partecipi della sua gioia.
Il salmista alla fine della sua composizione guarda decisamente al futuro Messia. Ai suoi padri, cioè ai capi delle dodici tribù d’Israele succederanno “i tuoi figli”, cioè i dodici apostoli, che saranno, nel loro essere a fondamento della Chiesa, capi di tutta la terra.
La grandezza, la gloria del Cristo sarà ricordata da tutte le generazioni; e tutti i popoli lo “loderanno in eterno, per sempre”.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo.Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
E’ necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi
1Cor 15,20-27

Paolo scrisse intorno al 53 a.C., da Efeso, questa 1^ lettera ai Corinzi, che è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale. Vi si trovano infatti informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna": purezza dei costumi, svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell'eucaristia, uso dei carismi, sia per i rapporti con il mondo pagano.
Nell’ultimo capitolo della lettera Paolo, rispondendo a problemi che gli avevano posto, affronta il tema della risurrezione finale dei credenti. Nella prima parte egli dimostra la sua tesi sulla risurrezione finale (vv. 1-34), nella seconda (vv. 35-53) ne illustra invece le modalità; egli conclude la sua esposizione con un inno di lode a Cristo vincitore della morte (vv. 54-58).
Il rifiuto della risurrezione dei credenti porterebbe all’assurdo di negare di conseguenza anche la risurrezione stessa di Cristo. Ma questo metterebbe in crisi la loro fede stessa perciò Paolo riafferma il punto centrale di questa fede:
”Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”
Per Paolo la risurrezione di Cristo è una primizia non solo perché precede la risurrezione di tutti i credenti, ma anche e soprattutto perché ne è il modello e la causa. Il concetto di “primizia” viene ulteriormente elaborato da Paolo alla luce della concezione biblica secondo cui i membri di un gruppo formano una sola cosa con colui che ne è il capo e che li rappresenta. Rifacendosi a questa concezione Paolo afferma in due frasi disposte in modo parallelo che, come la morte è originata da un uomo, altrettanto deve essere per la risurrezione; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.
In quanto solidale con Adamo l’umanità fa fin d’ora l’esperienza della morte mentre la risurrezione dai morti invece per ora si è attuata solo in Cristo. La risurrezione finale dei credenti è dunque una conseguenza della comunione con Cristo, di cui la solidarietà in Adamo appare solo come una realtà negativa ormai passata.
A questo punto l’apostolo sente di dover fare una precisazione circa i tempi della salvezza. Egli afferma: “Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo”
Tra la risurrezione di Cristo, che è un evento già attuato, e quella dei credenti, che avrà luogo alla fine, c’è non solo una diversità di tempo, ma anche di “ordine”. Questa diversità proviene dal fatto che Cristo è la “primizia”: la Sua risurrezione prelude perciò a quella dei credenti, la \quale però avrà luogo solo “alla sua venuta”, cioè al momento del Suo ritorno glorioso.
Nella seconda parte del brano Paolo collega strettamente il regno di Cristo con il regno di Dio, mettendo in luce il loro avvicendarsi nel piano della salvezza. Egli ritiene che con la risurrezione di Cristo abbia avuto inizio il Suo regno messianico, che deve durare fino alla fine, quando egli “consegnerà il regno a Dio Padre” e ciò non avverrà però prima che Egli abbia “ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza”. Paolo sottolinea espressamente che l’ultimo nemico ad essere annientato sarà proprio la morte, la cui sconfitta avrà luogo appunto mediante la risurrezione dei morti. Se Cristo non fosse capace di eliminarla, non sarebbe veramente il Signore nel quale la comunità professa la sua fede.
L’apostolo infine precisa (nel versetto successivo non riportato nel brano): “Quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” ( ) da questo “tutto” è escluso colui che gli ha sottomesso ogni cosa, cioè il Padre.
Nella prospettiva di Paolo l’attesa della risurrezione finale implica quindi la lotta, insieme con Cristo, contro tutte le realtà negative che condizionano la vita umana, quali l’ingiustizia, la violenza, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
È proprio la speranza della risurrezione, in quanto implica una salvezza che abbraccia tutte le cose create, che spinge il credente a non chiudersi nel suo individualismo, ma ad impegnarsi affinché il mondo nuovo promesso da Gesù cominci ad apparire già ora nel corso della storia.

Dal vangelo secondo Luca
In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.
Allora Maria disse:
“L'anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria rimase con lei circa tre mesi,poi tornò a casa sua.
Lc 1, 39-56

In questo brano Luca sembra dipingere a parole l’episodio della Visitazione, che è il mistero della comunicazione muta di due donne diverse per età, ambiente, caratteristiche.
Maria ha saputo dall’angelo che Elisabetta, “che tutti dicevano sterile” aspettava un bambino. A questa notizia ella decide immediatamente di recarsi da lei: “In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda”. La fretta con cui Maria intraprende questo viaggio rispecchia la sua fede e la sua completa disponibilità al piano divino. Per recarsi da Elisabetta Maria attraversa una delle regioni montagnose che circondano Gerusalemme e raggiunge una “città di Giuda” che la tradizione individua con il villaggio di Ein Karim, a 6 Km ad ovest di Gerusalemme.
“Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo”
Con la discesa dello Spirito su Elisabetta si attua la promessa dell’angelo a Zaccaria: sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre (Lc 1,15). Per bocca di sua madre è lo stesso Giovanni che dà inizio al suo compito profetico di annunziare la venuta del Messia, infatti proprio sotto l’azione dello Spirito Elisabetta
esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!”
La frase ispirata di Elisabetta è una duplice benedizione. Anzitutto ella dichiara Maria “benedetta tra le donne”, cioè dotata di una benedizione superiore a quella delle altre donne. E soggiunge: che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.” Per la prima volta Gesù viene designato qui come “Signore” e ciò sotto l’influsso dello Spirito.
Infine Elisabetta conclude: E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Mentre Zaccaria non aveva avuto fede (Lc. 1,20), Maria ha creduto alla parola di Dio, come aveva fatto Abramo (Gen 15,6). La storia, guidata da Dio sotto il segno della Provvidenza, trova in lei il suo compimento. A queste parole il cuore di Maria si apre alla gioia ed ella rende grazie a Dio pronunziando un inno che, dalla parola iniziale nella traduzione latina, viene chiamato «Magnificat».
Nei primi versetti Maria dice:”L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.”Maria si rivolge a Dio come suo “salvatore” e gli esprime la sua esultanza e la sua lode per i benefici di cui l’ha colmata. Il primo motivo di questa esultanza consiste nel fatto che ha guardato l'umiltà della sua serva. cioè ha operato una scelta preferendo proprio colei che, per la sua “umiltà” può essere paragonata a una serva. E come serva si era già dichiarata Maria nella risposta all’angelo nell’evento dell’annunciazione
Maria fa poi una considerazione generale circa il suo futuro destino affermando che,in forza della chiamata divina, d’ora in poi tutte le generazioni la diranno beata: l’esaltazione di Maria si estenderà dunque senza limiti di tempo e di spazio. Da questa constatazione Maria passa poi di nuovo ad esaltare l’iniziativa divina a suo riguardo: il Potente ha fatto per lei grandi cose; con ciò ha dimostrato che il Suo nome è santo e che la Sua misericordia si estende “di generazione e generazione” in favore di quelli che Lo temono. La santità del nome divino si manifesta appunto nelle opere che Egli compie per la liberazione del Suo popolo.
Nei versetti seguenti il canto di lode diventa più ampio : “Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”.
Con queste parole Maria mostra che quanto Dio ha fatto in suo favore non è altro che un esempio di come Egli guida le vicende del mondo. Anzitutto Maria esalta la potenza che ha dimostrato stendendo il suo braccio (Es 6,6) e disperdendo i superbi nei “pensieri del loro cuore”, cioè nei loro progetti di grandezza. Poi prosegue con due parallelismi contrapposti: ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, cioè quelli privi di potere, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi.
Gli ultimi versetti contengono un’esaltazione dell’opera di salvezza che Dio ha attuato in favore del Suo popolo: “Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria ricorda l’aiuto dato da Dio ad Israele Suo servo come manifestazione della Sua misericordia e come adempimento delle promesse fatte ai padri: in questa versetto la mente va ancora una volta al tema del servo, che accomuna Maria e Israele; l’accenno alla “discendenza” di Abramo non poteva non ricordare a noi cristiani la figura di Gesù, in funzione del quale erano state fatte le promesse (il concetto lo riprende Paolo nella lettera ai Galati 3,16).
Al termine del Magnificat, Luca annota: “Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua”.
in questo modo termina il racconto della visita ad Elisabetta.
Per riassumere si può dire che il canto del Magnificat è la celebrazione gioiosa e riassuntiva di tutta la storia della salvezza che da Maria, nella quale trova compimento, viene ripresa e rifatta nelle sue tappe risalendo fine alle origini. Questa storia, che sconvolge le situazioni umane, è condotta da Dio senza interruzioni, con il criterio dell’amore misericordioso che non conosce fine.

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“Oggi, Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria in Cielo, nella liturgia campeggia il Magnificat. Questo cantico di lode è come una “fotografia” della Madre di Dio. Maria “esulta in Dio, perché ha guardato l’umiltà della sua serva”.
È l’umiltà il segreto di Maria. È l’umiltà che ha attirato lo sguardo di Dio su di lei. L’occhio umano ricerca sempre la grandezza e si lascia abbagliare da ciò che è appariscente. Dio, invece, non guarda l’apparenza, Dio guarda il cuore (cfr 1 Sam 16,7) ed è incantato dall’umiltà: l’umiltà del cuore incanta Dio. Oggi, guardando a Maria assunta, possiamo dire che l’umiltà è la via che porta in Cielo. La parola “umiltà” deriva dal termine latino humus, che significa “terra”. È paradossale: per arrivare in alto, in Cielo, bisogna restare bassi, come la terra! Gesù lo insegna: «chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11). Dio non ci esalta per le nostre doti, per le ricchezze, per la bravura, ma per l’umiltà; Dio è innamorato dell’umiltà. Dio innalza chi si abbassa, chi serve. Maria, infatti, a sé stessa non attribuisce altro che il “titolo” di serva: è «la serva del Signore». Non dice altro di sé, non ricerca altro per sé.
Oggi allora possiamo chiederci, ognuno di noi, nel nostro cuore: come sto a umiltà? Cerco di essere riconosciuto dagli altri, di affermarmi ed esser lodato oppure penso a servire? So ascoltare, come Maria, oppure voglio solo parlare e ricevere attenzioni? So fare silenzio, come Maria, oppure chiacchiero sempre? So fare un passo indietro, disinnescare litigi e discussioni oppure cerco sempre solo di primeggiare? Pensiamo a queste domande: come sto a umiltà?
Maria, nella sua piccolezza, conquista i cieli per prima. Il segreto del suo successo sta proprio nel riconoscersi piccola, nel riconoscersi bisognosa. Con Dio, solo chi si riconosce un nulla è in grado di ricevere il tutto. Solo chi si svuota di sé viene riempito da Lui. E Maria è la «piena di grazia» proprio per la sua umiltà. Anche per noi l’umiltà è sempre il punto di partenza, l’inizio del nostro aver fede. È fondamentale essere poveri in spirito, cioè bisognosi di Dio. Chi è pieno di sé non dà spazio a Dio - e tante volte siamo pieni di noi - ma chi si mantiene umile permette al Signore di compiere grandi cose .
Il poeta Dante definisce la Vergine Maria «umile e alta più che creatura» (Paradiso XXXIII, 2). È bello pensare che la creatura più umile e alta della storia, la prima a conquistare i cieli con tutta sé stessa, in anima e corpo, trascorse la vita per lo più tra le mura domestiche, nell’ordinarietà, nell’umiltà. Le giornate della Piena di grazia non ebbero molto di eclatante. Si susseguirono spesso uguali, nel silenzio: all’esterno, nulla di straordinario. Ma lo sguardo di Dio è sempre rimasto su di lei, ammirato della sua umiltà, della sua disponibilità, della bellezza del suo cuore mai sfiorato dal peccato.
È un grande messaggio di speranza per ognuno noi; per te, che vivi giornate uguali, faticose e spesso difficili. Maria ti ricorda oggi che Dio chiama anche te a questo destino di gloria. Non sono belle parole, è la verità. Non è un lieto fine creato ad arte, una pia illusione o una falsa consolazione. No, è la pura realtà, viva e vera come la Madonna assunta in Cielo. Festeggiamola oggi con amore di figli, festeggiamola gioiosi ma umili, animati dalla speranza di essere un giorno con lei, in Cielo!
E preghiamola ora, perché ci accompagni nel cammino che dalla Terra porta al Cielo. Ci ricordi che il segreto del percorso è racchiuso nella parola umiltà, non dimentichiamo questa parola. E che la piccolezza e il servizio sono i segreti per raggiungere la meta, per raggiungere il Cielo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 agosto 2021

 

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa domenica ci propone delle letture non facili da comprendere che ci potrebbero lasciare un po’ sconcertati.
Nella prima lettura, vediamo come il profeta Geremia, anticonformista e paladino della verità, aveva capito che Dio chiedeva al suo popolo di acconsentire ad essere messo a nudo e umiliato, e lo proclamava con forza. Per questo fu accusato di scoraggiare il popolo di Israele e gettato nella cisterna.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera Ebrei, ricorda che Cristo “si sottopose alla croce, disprezzando il disonore” e che “ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori” perché gli uomini non si perdessero d’animo.
Nel Vangelo di Luca, Gesù dà un messaggio radicale ed esigente: i Cristiani, autentici seguaci di Cristo, potranno essere posti di fronte ad una scelta, che data la loro libertà, provocherà non la pace, ma la divisione anche nelle proprie famiglie. Nel mondo, che sempre mal sopporta i veri valori spirituali, chi vuole seguire Gesù diventa necessariamente segno di divisione. Se spesso ci sentiamo, umiliati, rifiutati, derisi, ricordiamo che il primo a pagare, e a caro prezzo, è stato proprio Gesù Cristo.

Dal libro del profeta Geremìa
In quei giorni, i capi dissero al re: «Si metta a morte Geremìa, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo dicendo loro simili parole, poiché quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male». Il re Sedecìa rispose: «Ecco, egli è nelle vostre mani; il re infatti non ha poteri contro di voi».
Essi allora presero Geremìa e lo gettarono nella cisterna di Malchìa, un figlio del re, la quale si trovava nell’atrio della prigione. Calarono Geremìa con corde. Nella cisterna non c’era acqua ma fango, e così Geremìa affondò nel fango.
Ebed-Mèlec uscì dalla reggia e disse al re: «O re, mio signore, quegli uomini hanno agito male facendo quanto hanno fatto al profeta Geremìa, gettandolo nella cisterna. Egli morirà di fame là dentro, perché non c’è più pane nella città». Allora il re diede quest’ordine a Ebed-Mèlec, l’Etiope: «Prendi con te tre uomini di qui e tira su il profeta Geremìa dalla cisterna prima che muoia».
Ger 38,4-6.8-10

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe e senza figli dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Questo brano riporta gli avvenimenti dell’anno 588 in cui i Babilonesi sospesero l’assedio a Gerusalemme per fronteggiare l’Egitto, ma Geremia si rifiuta di dire che "tutto stava andando bene", come avrebbero voluto i consiglieri potenti del re Sedecìa. Essi consideravano Geremia un pericolo per la nazione solo perché non li sosteneva, facendo così traballare il loro potere. Arrivano a chiedere al re di mettere “a morte Geremìa, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo dicendo loro simili parole, poiché quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male”. Di fronte a queste accuse il re risponde: “Ecco, egli è nelle vostre mani; il re infatti non ha poteri contro di voi”. Allora i capi dell’esercito gonfi di presunzione presero Geremìa e lo gettarono nella cisterna in cui non c’era acqua ma fango …” In questa cisterna melmosa, simbolo della morte e del regno dei morti Geremìa affondò nel fango, fisicamente, psicologicamente e simbolicamente.
Ci volle tutta l'onestà e l'intelligenza del consigliere regale Etiope, Ebed-Mèlec per convincere Sedecìa e ordinargli di tirar fuori il “profeta dalla cisterna prima che muoia”.
Geremia mostra in modo concreto quanto soffre chi vuole rimanere fedele a Dio e in questo richiama vivamente la figura di Gesù sofferente e crocifisso. Ma per l'intervento di uno straniero etiope, Geremia è tirato fuori da una cisterna: richiamo velato alla risurrezione vera di Gesù.

Salmo 39 - Signore, vieni presto in mio aiuto
Ho sperato, ho sperato nel Signore
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose,
dal fango della palude;
ha stabilito i miei piedi sulla roccia,
ha reso sicuri i miei passi.
Ma io sono povero e bisognoso:
di me ha cura il Signore.
Tu sei mio aiuto e mio liberatore:
mio Dio, non tardare.

Il salmo inizia con una lode a Dio per la liberazione da grandi difficoltà. E’ una lode piena di giubilo, di forza, di annuncio della bontà del Signore. Il salmista è giunto ad una grande intimità con Dio, e Dio gli ha posto “sulla bocca un canto nuovo”. Egli con uno sguardo lieto verso il futuro afferma che “molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore”. Egli crede che tutta la terra conoscerà il tempo della pace.
Egli presenta la beatitudine dell’uomo che rimane col Signore e “e non si volge verso chi segue gli idoli”, di coloro che si credono autosufficienti e seguono così la menzogna. Il salmista nel suo giubilo ricorda le opere del Signore fatte a favore del suo popolo: “Quante meraviglie hai fatto, tu, Signore, mio Dio, quanti progetti in nostro favore”.
Egli afferma che il culto a Dio non è una semplice ritualità, ma deve scaturire dal cuore, da un vero amore a Dio, che si esprime nell’obbedienza alla sua parola. Egli ha capito - “gli orecchi mi hai aperto” - come il culto al tempio, senza l’obbedienza del cuore, disgusta Dio: “Sacrificio e offerta non gradisci”. “Gli orecchi mi hai aperto”, è traduzione che legge l’ebraico “karatta”, “forato”, come “aperto”. Questa lettura si collega a 1Samuele 9,15 e a Isaia 50,5 ed è stata promossa da autorevoli esegeti (Podechard e Dorme).
Ha capito perché ha ascoltato la Scrittura (Il rotolo del libro), e quindi ha obbedito alla Parola la quale lo ha illuminato sul vero culto da rendere a Dio. L’orecchio è organo dell’ascoltare, ma qui è pure simbolo dell’obbedire.
L’espressione “gli orecchi mi hai aperto”, si trova con versione diversa nella traduzione greca detta dei LXX : “un corpo invece mi hai preparato”. Questa versione è poi entrata nella lettera agli Ebrei (10,5), che dipende quanto a citazioni del Vecchio Testamento dalla traduzione dei LXX. La spiegazione di questa diversità va ricercata in una deficienza introdotta da un copista nel manoscritto, o più manoscritti di derivazione, a disposizione dei LXX, i quali dovettero superare l’incertezza letteraria con un pensiero teologico, affermando che nell’adorazione a Dio, nel vero culto a Dio, tutto l’uomo entra in gioco; il corpo deve essere sottomesso con decisa volontà ai comandamenti di Dio. I sacrifici, gli olocausti del tempio, sono un appello “al sacrificio, all’olocausto”, di dominio del proprio corpo. Sulla base di questo pensiero teologico i LXX fecero la loro traduzione; e questa è entrata nella lettera agli Ebrei riguardo l’Incarnazione.
Il salmista ha letto che nella Legge (Il rotolo del libro) è comandato di fare la volontà di Dio, che è amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; dunque non un culto dove sia assente il cuore, dove il senso non sia dominato, dove non ci sia obbedienza alla Parola, e non amore verso i fratelli. Egli dice: “su di me è scritto”; poiché “Il rotolo del libro” non chiede solo l’adesione della collettività, ma innanzi tutto l’adesione personale.
Fare la volontà di Dio è il desiderio intimo del salmista.
Egli nel giubilo non si dimentica del dovere di annunciare agli altri quanto Dio ha fatto per lui: “Non ho celato il tuo amore e la tua fedeltà alla grande assemblea”.
E il suo giubilo scaturisce dall’umiltà; perciò non è euforia. Egli, umile, si dichiara colpevole davanti a Dio, e chiede a lui sostegno per sostenere e uscire dai mali che lo circondano: “La tua fedeltà e la tua grazia mi proteggano sempre, poiché mi circondano mali senza numero”.
Anche se “povero e bisognoso”, il salmista non dubita affatto che Dio ha cura di lui e perciò termina il salmo con un grande atto di fiducia: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare”
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, anche noi, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento.
Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio.
Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato.
Eb 12,1-4

L’autore della lettera agli Ebrei, dopo aver presentato i testimoni della fede citando i nomi dei primi patriarchi, ora espone l’atteggiamento che deve avere il cristiano.
Il brano sin dai primi versetti ci fa immaginare una scena grandiosa uno stadio gremito di grandi testimoni della fede, dove il cristiano è in procinto di entrare in gara. “ anche noi, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti”,
Il cristiano deve innanzitutto spogliarsi di tutto ciò che può renderlo meno agile nella gara, soprattutto il peccato, poi non deve più accontentarsi di guardare ai santi antichi, ma deve fissare lo sguardo sull’unico e vero modello della corsa e della vita cristiana, Gesù, “colui che dà origine alla fede e la porta a compimento”.
Il tema ricorrente di questo brano è la perseveranza. La fede per essere veramente tale deve dimostrare di poter sfidare il tempo e le difficoltà. Insieme alla perseveranza c'è anche il tema della gara sportiva che è rappresentata da una corsa che noi stiamo disputando e che dobbiamo vincere.
“Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio”.
Nella nostra corsa siamo circondati dall'esempio dei nostri progenitori nella fede, quelli elencati nel capitolo 11, ma soprattutto abbiamo davanti Gesù. Egli si distingue dai testimoni della fede perché ne è l'autore e perfezionatore: il capo a cui tutti sono chiamati a guardare. Egli è capo in quanto origine della fede, modello ideale, guida del cammino salvifico che si attua nella fede, è anche l’attuazione di questa fede, la Sua immagine conclusiva che porta a compimento il Suo processo salvifico attraverso la croce.
Riprendendo il tema della gara l’autore afferma anche che Gesù ha sostenuto una competizione sportiva e in vista della gioia che avrebbe raggiunto, si sottopose liberamente al sacrificio della croce, passando anche attraverso il disonore, pur di conquistare il premio che infatti ha raggiunto.
“Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo”.
I cristiani quando devono sopportare delle difficoltà a causa della fede, devono pensare a Lui, al Suo esempio e questo li sosterrà nel cammino. Gesù per primo ha dovuto sopportare l'ostilità dei peccatori, cioè dei suoi nemici, di quanti non vollero accettare le sue parole..
“Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato.”
Questa frase dà inizio ad un altro tema che l'autore porta avanti, ma si può legare a quanto detto precedentemente.
Per i cristiani, tentati di cedere alla stanchezza o scoraggiamento di fronte alle prove, è importante pensare alle sofferenze che ha sopportato Cristo. La perseveranza di Gesù è stata fortemente messa alla prova dai Suoi persecutori, ma non per questo Egli è venuto meno alla Sua scelta, perciò anche i Suoi seguaci devono imparare a non lasciarsi andare alla stanchezza e allo sconforto. L’impegno nella fede deve dunque consistere non solo nel tirarsi fuori da un mondo dominato dal peccato, ma nel lottare con tutte le proprie forze, anche fino all’effusione del sangue, contro le strutture del male presenti nel mondo, pur sapendo che la liberazione definitiva avverrà solo alla fine dei tempi.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».
Lc 12,49-53

Questo brano fa ancora parte del discorso di Gesù sulla fiducia in Dio. Dopo il discorso sul distacco dai beni terreni, la fiducia nella provvidenza e l’attesa del Signore che viene (12,32-48) il brano che la liturgia ci presenta ha come tema la “sfida del tempo presente” ed inizia con toni molto forti, enigmatici da mettere in crisi :
“Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! “
Gesù ha davanti a sé la Sua missione: gettare fuoco sulla terra ed è nell'attesa che Dio lo accenda.
Il fuoco è chiaramente il simbolo della parola di Dio come lo aveva annunciato il profeta Geremia “Ecco io farò delle mie parole come un fuoco sulla tua bocca (Ger 5,14) e si riferisce anche alla predicazione di Gesù destinata a portare grande frutto. Nel contesto attuale il fuoco può rappresentare la venuta nel giorno di Pentecoste dello Spirito (At 2,3) che, dopo la prova dolorosa della passione-morte di Gesù, spingerà i discepoli ad annunziare il vangelo in tutto il mondo
“Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!”
In questo versetto Gesù parla di un battesimo che deve ricevere e l’immersione di Gesù nel battesimo indica la Sua morte imminente: è l’immersione nel destino di sofferenza e di morte, che lo attende a Gerusalemme, dove è diretto.
Poi Luca attribuisce a Gesù un altro detto il più provocatorio che Gesù abbia mai pronunciato:
“Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione”.
Questa affermazione di Gesù è sconcertante, per uno che era venuto a portare la pace tra gli uomini!
Certamente, Gesù ha aperto alle persone che accoglievano il Suo messaggio, un rapporto nuovo con Dio e con loro stesse, nello stesso tempo però l'annuncio di Gesù avviene in un mondo dove esiste il male, il rifiuto, l'odio.
E proprio l'accoglienza o meno della Sua parola provocherà inevitabili separazioni fra gli uomini.
L'utopia di una pace priva di dolori e di prove non è per questo mondo. La missione del Messia non è di trasformare come per magia il cuore degli uomini. Gesù chiaramente si aggancia a un filone biblico e giudaico di tipo apocalittico: le tribolazioni e i dissensi attesi per gli ultimi tempi, segno della fine prossima. La divisione tra gli uomini che caratterizza gli ultimi tempi era stata preannunciata in particolare dal profeta Michea (7,6)
“D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera”.
Gesù qui dice che questa divisione può passare anche dentro la famiglia … e purtroppo sappiamo che questo è vero, ma sappiamo anche che molto spesso la fede riunisce la famiglia in una unità e concordia più bella e profonda.
Facciamo certo fatica a pensare ad un Gesù angosciato! Gesù è quel fuoco che si è acceso sulla terra. Il fuoco di un amore che arde e non si consuma, ma dobbiamo anche tenere presente che Gesù era Dio ma anche uomo...e la sensazione di angoscia è tipicamente umana e qui la percepiamo molto di più. Gesù è consapevole che dovrà passare attraverso le onde della sofferenza e della morte per la salvezza degli uomini, ma Lui berrà tutto il Suo calice amaro come una resa totale e incondizionata al progetto del Padre.
Dobbiamo ammettere che questo breve brano di Vangelo ci lascia un po’ sconcertati ma il Vangelo è anche questo: non rendere la nostra vita facile, ma suscitarci dei continui interrogativi, delle inquietudini che non ci possono lasciare tranquilli. Gesù come uomo-Dio ha provato anche Lui angoscia e sarà proprio Lui che le ha passate ci aiuterà a superare le nostre!


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“Nell’odierna pagina evangelica Gesù avverte i discepoli che è giunto il momento della decisione. La sua venuta nel mondo, infatti, coincide con il tempo delle scelte decisive: non si può rimandare l’opzione per il Vangelo. E per far comprendere meglio questo suo richiamo, si avvale dell’immagine del fuoco che Lui stesso è venuto a portare sulla terra. Dice così: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!». Queste parole hanno lo scopo di aiutare i discepoli ad abbandonare ogni atteggiamento di pigrizia, di apatia, di indifferenza e di chiusura per accogliere il fuoco dell’amore di Dio; quell’amore che, come ricorda San Paolo, «è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5, 5). Perché è lo Spirito Santo che ci fa amare Dio e ci fa amare il prossimo; è lo Spirito Santo che tutti abbiamo dentro.
Gesù rivela ai suoi amici, e anche a noi, il suo più ardente desiderio: portare sulla terra il fuoco dell’amore del Padre, che accende la vita e mediante il quale l’uomo è salvato. Gesù ci chiama a diffondere nel mondo questo fuoco, grazie al quale saremo riconosciuti come suoi veri discepoli. Il fuoco dell’amore, acceso da Cristo nel mondo per mezzo dello Spirito Santo, è un fuoco senza limiti, è un fuoco universale. Questo si è visto fin dai primi tempi del Cristianesimo: la testimonianza del Vangelo si è propagata come un incendio benefico superando ogni divisione fra individui, categorie sociali, popoli e nazioni. La testimonianza del Vangelo brucia, brucia ogni forma di particolarismo e mantiene la carità aperta a tutti, con la preferenza per i più poveri e gli esclusi.
L’adesione al fuoco dell’amore che Gesù ha portato sulla terra avvolge l’intera nostra esistenza e richiede l’adorazione a Dio e anche una disponibilità a servire il prossimo. Adorazione a Dio e disponibilità a servire il prossimo. La prima, adorare Dio, vuol dire anche imparare la preghiera dell’adorazione, che di solito dimentichiamo. Ecco perché invito tutti a scoprire la bellezza della preghiera dell’adorazione e di esercitarla spesso. E poi la seconda, la disponibilità a servire il prossimo: penso con ammirazione a tante comunità e gruppi di giovani che, anche durante l’estate, si dedicano a questo servizio in favore di ammalati, poveri, persone con disabilità. Per vivere secondo lo spirito del Vangelo occorre che, di fronte ai sempre nuovi bisogni che si profilano nel mondo, ci siano discepoli di Cristo che sappiano rispondere con nuove iniziative di carità. E così, con l’adorazione a Dio e il servizio al prossimo – ambedue insieme, adorare Dio e servire il prossimo – il Vangelo si manifesta davvero come il fuoco che salva, che cambia il mondo a partire dal cambiamento del cuore di ciascuno.
In questa prospettiva, si comprende anche l’altra affermazione di Gesù riportata nel brano di oggi, che di primo acchito può sconcertare: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione». Egli è venuto a “separare col fuoco”. Separare che? Il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. In questo senso è venuto a “dividere”, a mettere in “crisi” – ma in modo salutare – la vita dei suoi discepoli, spezzando le facili illusioni di quanti credono di poter coniugare vita cristiana e mondanità, vita cristiana e compromessi di ogni genere, pratiche religiose e atteggiamenti contro il prossimo. Coniugare, alcuni pensano, la vera religiosità con le pratiche superstiziose: quanti sedicenti cristiani vanno dall’indovino o dall’indovina a farsi leggere la mano! E questa è superstizione, non è di Dio. Si tratta di non vivere in maniera ipocrita, ma di essere disposti a pagare il prezzo di scelte coerenti – questo è l’atteggiamento che ognuno di noi dovrebbe cercare nella vita: coerenza – pagare il prezzo di essere coerenti col Vangelo. Coerenza con il Vangelo. Perché è buono dirsi cristiani, ma occorre soprattutto essere cristiani nelle situazioni concrete, testimoniando il Vangelo che è essenzialmente amore per Dio e per i fratelli.
Maria Santissima ci aiuti a lasciarci purificare il cuore dal fuoco portato da Gesù, per propagarlo con la nostra vita, mediante scelte decise e coraggiose.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 18 agosto 2019

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci invitano a riflettere sulla dimensione dell’attesa che è parte costitutiva ed essenziale della vita cristiana. Nell’attesa del Signore dobbiamo evitare la frenesia del fare e la freddezza dell’attesa. Il Signore ci invita alla vigilanza attiva facendo il bene in ogni luogo ed in ogni occasione che ci si presenta.
La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, fa memoria della liberazione dalla schiavitù in Egitto, e ricorda le promesse fatte da Dio ai Padri. In forza di questa fede nella parola di Dio i figli di Israele vivono nella sicurezza e nella speranza della salvezza
La seconda lettura, tratta dalla lettera Ebrei, presenta la fede modellata dai patriarchi antichi. “La fede” – sottolinea l’autore – “è fondamento delle cose che si sperano e prova delle cose che non si vedono”. La fede dà dunque una grande sicurezza che l’uomo acquisisce attraverso il tentativo di conoscere “le cose che non si vedono” e il tentativo di realizzare “le cose che si sperano” .
Nel Vangelo di Luca, Gesù completa l’insegnamento sulla condotta del cristiano nei confronti dei beni di questo mondo. Le parole di Gesù su questo tema sono in un primo tempo generali e valevoli per tutti i discepoli: ignorando il tempo della venuta del Signore, il discepolo deve tenersi sempre pronto. Ma l’intervento del solerte Pietro, fa si che il Signore applichi i principi enunciati alla condizione di coloro che sono i capi della comunità. A costoro che hanno ricevuto di più Dio richiederà di più nel giorno del giudizio.
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Dal libro della Sapienza
La notte [della liberazione]
fu preannunciata ai nostri padri,
perché avessero coraggio,
sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà.
Il tuo popolo infatti era in attesa
della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici.
Difatti come punisti gli avversari,
così glorificasti noi, chiamandoci a te.
I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto
e si imposero, concordi, questa legge divina:
di condividere allo stesso modo
successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri.
Sap 18, 6-9

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. E’ stato scritto in greco, caso unico in tutto l’Antico Testamento, ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo. Si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) ed è composto da 19 capitoli.
L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele.
L’autore in questa opera si preoccupa di insegnare la vera sapienza, quella necessaria per condurre una vita retta, non quella scienza che si può acquistare vivendo e pensando, ma una sapienza che viene da Dio. Ogni sapienza divina, di fatto, ha rivelato, guidando magistralmente la storia del popolo eletto, che la vera felicità appartiene agli amici di Dio. In altre parole, non scoprono il senso della vita se non coloro cui il Signore lo rivela.
L’Autore stimolato dall’ambiente circostante, ci dona un primo abbozzo di filosofia religiosa che s’unisce a una bella meditazione di fede cui la liturgia si è spesso ispirata. All’incrocio dell’Antica Alleanza e dell’ellenismo si può affermare che il libro della Sapienza prepara Giudei e Greci alla venuta di Gesù Cristo.
In questo brano l’autore richiama il preannunzio della Pasqua fatto ai patriarchi: “Quella notte fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà”.
Con queste parole egli interpreta la notte pasquale come il compimento di una parola già annunciata ai patriarchi (Gn 15,13-14). Alle promesse fatte ai patriarchi fa riscontro l'attesa del popolo: “Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi, chiamandoci a te”.
L’attesa dunque è duplice: della salvezza per i giusti e della rovina per i nemici. Sullo sfondo vi è già l'evento pasquale, che riguarda non più l'epoca patriarcale, bensì l’ultimo tempo del soggiorno in Egitto.
L’autore definisce gli israeliti come “tuo popolo” e “giusti”. Nel linguaggio biblico “popolo” è un appellativo quasi esclusivo di Israele, ma ciò che lo determina è lo stretto rapporto con Dio. È in questa particolare relazione con Dio che Israele in quanto popolo nasce, è qualificato e trova la sua vera identità. L'appellativo “i giusti” a partire da Sap 10,20 fino alla fine si riferisce sempre a Israele, ma si tratta di un Israele ideale, sistematicamente contrapposto agli egiziani e si identifica storicamente con la figura del giusto dei primi capitoli del libro. È questo popolo che, nonostante la persecuzione, Dio glorifica, cioè lo conduce al successo. Infine la chiamata e la glorificazione di Israele sono ulteriormente precisate nella descrizione della celebrazione pasquale: “I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri”.
L’autore rilegge dunque la Pasqua alla luce dell'alleanza, facendola diventare il momento dell'unità, dove attorno all‘alleanza e alla circoncisione il popolo ritrova la sua vera identità.
In questo brano la storia di Israele, da Abramo fino ai tempi dell’autore di questo Libro, viene riletta in chiave di salvezza, cioè come frutto di un intervento costante di Dio che si manifesta soprattutto nella celebrazione pasquale. Questa era stata promessa ai patriarchi, si è realizzata nel contesto dell’esodo e continua ad essere celebrata come espressione di un dono divino. Nella Pasqua Dio si mostra sempre disponibile a intervenire in favore del Suo popolo, glorificandolo e chiamandolo a sé. L’intervento divino comporta la punizione dei suoi avversari, ma questa non rappresenta lo scopo dell’iniziativa divina: essa è semplicemente l’altra faccia della medaglia, cioè la conseguenza non voluta della salvezza donata a Israele. La fede di questo popolo consiste dunque nella certezza che Dio non lo abbandona mai, nonostante le dolorose traversie della storia.

Salmo 32 - Beato il popolo scelto dal Signore.
Esultate, o giusti, nel Signore;
per gli uomini retti è bella la lode.
Beata la nazione che ha il Signore come Dio,
il popolo che egli ha scelto come sua eredità.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni.
La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.
Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore.
“Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.
Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”.
La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere.
Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi ”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15).
Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.
Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio.
Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.
Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso.
Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.
Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città.
Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.
Eb 11,1-2, 8-19

L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perché conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se rimaste sconosciute. Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica .
Nella prima parte della lettera si descrive il ruolo di Cristo nel piano di Dio (1,5 - 2,18) e nella seconda parte si presenta Gesù come sommo sacerdote (3,1 - 5,10). La salvezza da lui portata è delineata nella parte centrale della lettera (5,11 - 10,39) e dopo (11,1 - 12,13), l’autore affronta il tema della risposta che la comunità deve dare a questa salvezza. Questa risposta consiste essenzialmente nella fede perseverante, mediante la quale si ha accesso ai beni che il sacrificio di Cristo ha acquistati.
In questo brano l’autore inizia con un’affermazione solenne:
«La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» Con questa espressione la fede è presentata come la certezza di ottenere un giorno quelle realtà che, proprio perché non si vedono, sono oggetto di speranza. In altre parole l’autore intende affermare che il credente è colui che non si ferma alle realtà visibili e materiali, ma si orienta con piena fiducia verso beni futuri (trascendenti), non ancora visibili ma attestati dalla parola di Dio e quindi sicuramente disponibili.
«Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio» E' questa certezza della fede su cui i nostri antenati si sono basati e, perseverando nella fede, hanno ottenuto l'approvazione da parte di Dio. Il loro atteggiamento nei confronti del Signore è stato trovato giusto ed essi hanno potuto così godere del frutto della loro perseveranza nella fede. L'autore comincia così una breve presentazione di personaggi biblici che più si sono distinti in fatto di fede. Il brano non riporta i versetti 3-7 che parlano di Abele, Enoch e Noè, per venire a personaggi più significativi.
«Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava».
Abramo nella tradizione giudaica è considerato il giusto per eccellenza e nella tradizione cristiana primitiva invece è il padre della fede (Cfr, Rm 4; Gal 3,6-18). Il cammino di fede di Abramo inizia con la “partenza”, l'uscita da una situazione sicura, per andare verso un futuro che egli non conosceva, ma che gli era stato promesso come eredità, cioè un bene da trasmettere alla propria discendenza (che ancora non aveva, e che dovrà attendere ancora a lungo). All'origine di questa partenza c'è la chiamata di Dio alla quale Abramo aderisce prontamente.
«Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa».
Legata all'esperienza di Abramo c'è il tema della terra, caratterizzato dal movimento dal posseduto al non posseduto, da quello che si vede a ciò che è invisibile e sconosciuto. In questa situazione precaria vissero anche i suoi primi discendenti, nonostante una prima realizzazione delle promesse.
«Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso»
Contrapposta alla tenda vi è la città dalle salde fondamenta, salda perché progettata e costruita dallo stesso Signore.
«Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso»
La seconda tappa del cammino di Abramo riguarda l'attesa del compimento delle promesse e si focalizza sul tema della discendenza. In questa tappa è coinvolta anche Sara, poiché il vero erede di Abramo non poteva nascere che da lei. Qui risalta il contrasto tra l'impossibilità di Sara di diventare madre, poiché avanti negli anni, e la sconvolgente realizzazione della promessa. Ciò però passò attraverso la sofferenza e i tentativi di sistemare le cose alla maniera umana: una prima assegnazione dell'eredità al nipote Lot, poi al domestico Eliezer la nascita di Ismaele dalla schiava Agar.
«Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare».
L'autore qui usa le stesse espressioni usate dal Signore nel formulare ad Abramo la sua promessa (cf. Gn 15,5; 22,17).
«Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra».
Qui l'autore fa una pausa di riflessione, sottolineando come l'esperienza di Abramo sia stata un modello per coloro che lo hanno seguito, ma anche per i suoi predecessori: tutti loro avevano ricevuto una promessa, vi credettero fermamente, ma alla loro morte tale promessa non era stata ancora realizzata. Nella fede affermarono la provvisorietà della loro vita terrena, non solo il loro vivere in terra straniera.
«Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città». Tutti loro erano usciti dalla loro terra ed erano pellegrini nel mondo. Il loro sguardo era aperto al futuro, a una patria migliore di quella che avevano lasciato. Questa patria si è incarnata per un po' in una terra promessa, ma poi è diventata la patria celeste, la città che Dio aveva preparato per loro. Ecco dunque che Dio prende nome da questi suoi primi servi fedeli. Egli infatti si manifesterà a Mosè come il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”. La fede dei primi patriarchi ha avuto una ricompensa grandissima, sia celeste che terrestre.
«Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Abramo per fede dovette superare una terza tappa, quella della prova.. Qui raggiungiamo il momento di maggiore tensione perché ad Abramo sembrò che Dio stesso volesse distruggere il pegno del futuro che Egli stesso aveva donato ad Abramo ed annullare così tutte le Sue promesse.
«Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo».
Il superamento della crisi avviene in forza della fede di Abramo che si fida della “potenza” di Dio che risuscita i morti.
È così che Abramo. proprio per aver accettato per fede la morte del figlio, ottiene una specie di risurrezione anticipata, che troverà compimento nella risurrezione di Cristo e di coloro che crederanno in Lui. La fede dei patriarchi è quindi solo una prefigurazione della fede di cui godono i credenti in Cristo.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.
Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?».
Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».
Lc 12, 32-48

Questo brano fa ancora parte dell’ampio discorso di Gesù sulla fiducia in Dio. Dopo la parabola del ricco stolto e l'invito ad arricchire davanti a Dio, il lungo brano di oggi si divide in due parti. La prima prosegue e conclude il discorso sul distacco dai beni terreni, iniziato nel vangelo della scorsa domenica, e ribadisce che per il cristiano Dio deve avere il primato su tutto. La seconda parte verte su un tema tipico della tradizione cristiana e di Luca: la vigilanza.
Luca scrive il suo vangelo in un momento in cui la venuta in gloria del Signore Gesù, ritenuta imminente nei primi tempi della comunità cristiana, risulta sempre più lontana, con il conseguente rischio di un affievolimento dell'attesa o addirittura della dimenticanza. Ebbene – come viene detto attraverso le tre parabole del brano dette appunto "della vigilanza" - occorre essere sempre all'erta, pronti, come se il Signore potesse sopraggiungere da un momento all'altro.
L'introduzione del brano è ricca di tenerezza: Gesù invita a non temere, chiamando i suoi amici "piccolo gregge". Gesù si rivolge ad un gregge piccolo ma illuminato e sostenuto dallo Spirito, e usa immagini un po' distanti, che non indicano un'attesa positiva: il servo che attende il padrone; la casa che attende il ladro. Colpisce subito l’immagine del padrone che parte e affida la sua casa ai servi dimostrando di non avere sospetti e di avere piena fiducia in loro. Dio è come questo padrone che ha un cuore colmo di amore e ci affida la casa, le persone, il mondo. Dio non smetterà mai di avere fede nell'uomo e Gesù commenta: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli….”
Non è certo facile stare svegli, non è un fatto dovuto e tanto meno un obbligo. Quell'attesa fino all'alba però ha il potere di emozionare e sorprendere Dio. Genera infatti in Lui una reazione quasi esagerata, sorprendente, perché accade l'impensabile: Dio da padrone diventa servitore.. è Gesù che lo dice “in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.”
Possiamo perciò con questo dedurre che Dio non è il Padrone dei padroni, bensì è il servitore della vita.
Con una domanda Pietro interrompe la serie delle parabole: “Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?”. Pietro, sembra pensare ancora a qualche privilegio, avendo abbandonato ogni cosa per andare con Gesù (Mt 19,27). Gesù aiuta a maturare la coscienza di Pietro rispondendo indirettamente con la parabola del “buon amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito” e continua affermando “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così” .
Con l’intervento di Pietro, portavoce degli apostoli e rappresentante dell'autorità ecclesiale, Luca vuole chiarire chi siano i destinatari dell'insegnamento della parabola: sono tutti i credenti, ma in modo speciale i responsabili della comunità ai quali Luca dedica la parabola dell’amministratore fedele che rappresenta tutti i capi delle comunità.
A costoro che hanno ricevuto di più, Gesù dice: «A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più». Ossia Dio chiederà molto a colui a cui ha dato molto, perché i carismi ricevuti sono doni da tenere per sé, ma da amministrare a favore degli altri.
“Alla fine della vita”, dice S. Giovanni della Croce, “saremo giudicati sull'amore” . Sono queste parole che ci fanno comprendere meglio il desiderio di Dio: Egli ci dà molto, perché potremo essere in grado di portare molto frutto, un frutto che rimanga.
Il primo frutto che il Signore attende da noi è la conversione, è il compiere opere di giustizia.
Nell’Apocalisse, nelle Lettere alle Chiese, le prime parole che Egli rivolge a ognuna di esse sono: “Conosco le tue opere”. Non dice: “Conosco il tuo cuore”, perché ci sono molti che si professano credenti, ma conducono poi una vita apparentemente onesta, ma falsa, e sono anche in grado di dichiarare: “la mia coscienza è apposto” e chiamano Dio come testimone concludendo: “Dio conosce il mio cuore”.
Ora Dio guarda sì il nostro cuore, le nostre intenzioni, ma guarda anche le nostre opere!

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LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO

“Nell’odierna pagina evangelica , Gesù richiama i suoi discepoli alla continua vigilanza. Perché? Per cogliere il passaggio di Dio nella propria vita, perché Dio continuamente passa nella vita. E indica le modalità per vivere bene questa vigilanza: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese». Questa è la modalità. Anzitutto «le vesti strette ai fianchi», un’immagine che richiama l’atteggiamento del pellegrino, pronto per mettersi in cammino. Si tratta di non mettere radici in comode e rassicuranti dimore, ma di abbandonarsi, di essere aperti con semplicità e fiducia al passaggio di Dio nella nostra vita, alla volontà di Dio, che ci guida verso la meta successiva. Il Signore sempre cammina con noi e tante volte ci accompagna per mano, per guidarci, perché non sbagliamo in questo cammino così difficile. Infatti, chi si fida di Dio sa bene che la vita di fede non è qualcosa di statico, ma è dinamica! La vita di fede è un percorso continuo, per dirigersi verso tappe sempre nuove, che il Signore stesso indica giorno dopo giorno. Perché Lui è il Signore delle sorprese, il Signore delle novità, ma delle vere novità.
E poi – la prima modalità era “le vesti strette ai fianchi” – poi ci è richiesto di mantenere «le lampade accese», per essere in grado di rischiarare il buio della notte. Siamo invitati, cioè, a vivere una fede autentica e matura, capace di illuminare le tante “notti” della vita. Lo sappiamo, tutti abbiamo avuto giorni che erano vere notti spirituali. La lampada della fede richiede di essere alimentata di continuo, con l’incontro cuore a cuore con Gesù nella preghiera e nell’ascolto della sua Parola. Riprendo una cosa che vi ho detto tante volte: portate sempre un piccolo Vangelo in tasca, nella borsa, per leggerlo. È un incontro con Gesù, con la Parola di Gesù. Questa lampada dell’incontro con Gesù nella preghiera e nella sua Parola ci è affidata per il bene di tutti: nessuno, dunque, può ritirarsi intimisticamente nella certezza della propria salvezza, disinteressandosi degli altri. È una fantasia credere che uno possa da solo illuminarsi dentro. No, è una fantasia. La fede vera apre il cuore al prossimo e sprona verso la comunione concreta con i fratelli, soprattutto con coloro che vivono nel bisogno.
E Gesù, per farci capire questo atteggiamento, racconta la parabola dei servitori che attendono il ritorno del padrone quando torna dalle nozze, presentando così un altro aspetto della vigilanza: essere pronti per l’incontro ultimo e definitivo col Signore. Ognuno di noi si incontrerà, si troverà in quel giorno dell’incontro. Ognuno di noi ha la propria data dell’incontro definitivo. Dice il Signore: «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; … E, se giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!». Con queste parole, il Signore ci ricorda che la vita è un cammino verso l’eternità; pertanto, siamo chiamati a far fruttificare tutti i talenti che abbiamo, senza mai dimenticare che «non abbiamo qui la città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Eb 13,14). In questa prospettiva, ogni istante diventa prezioso, per cui bisogna vivere e agire su questa terra avendo la nostalgia del cielo: i piedi sulla terra, camminare sulla terra, lavorare sulla terra, fare il bene sulla terra, e il cuore nostalgico del cielo.
Noi non possiamo capire davvero in cosa consista questa gioia suprema, tuttavia Gesù ce lo fa intuire con la similitudine del padrone che trovando ancora svegli i servi al suo ritorno: «si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli» La gioia eterna del paradiso si manifesta così: la situazione si capovolgerà, e non saranno più i servi, cioè noi, a servire Dio, ma Dio stesso si metterà a nostro servizio. E questo lo fa Gesù fin da adesso: Gesù prega per noi, Gesù ci guarda e prega il Padre per noi, Gesù ci serve adesso, è il nostro servitore. E questa sarà la gioia definitiva. Il pensiero dell’incontro finale con il Padre, ricco di misericordia, ci riempie di speranza, e ci stimola all’impegno costante per la nostra santificazione e per costruire un mondo più giusto e fraterno.
La Vergine Maria, con la sua materna intercessione, sostenga questo nostro impegno.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 11 agosto 2019

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a porre la nostra attenzione sulla sequela di Gesù: seguire il Signore è percorrere la sua stessa strada.
La prima lettura, tratta dal primo dei Re, il profeta Elia gettando il suo mantello sulle spalle del discepolo Eliseo, lo invita a seguirlo e lo riveste del suo stesso ministero profetico. Eliseo accetta e per lui si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Galati, San Paolo afferma che con Cristo siamo stati chiamati a libertà, e la libertà del cristiano dà la capacità di portare a compimento la legge e di mettersi al servizio del prossimo. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Nel Vangelo, San Luca ci fa comprendere che chi intende mettersi alla sequela di Gesù non deve più guardare al passato, ma è chiamato a mettersi al servizio di Dio, in un cammino di libertà perché sotto l’azione dello Spirito si diventa forti e capaci di prendere su di sé ogni giorno la propria croce, come ha fatto Gesù.

Dal primo libro dei Re
In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto».
Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.
1Re19,16b, 19-21

Il primo libro dei re, come il secondo, è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh, dove sono contati come un testo unico) che in quella cristiana. Sono stati scritti entrambi in ebraico e secondo molti esperti, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte, in particolare della cosiddetta fonte deuteronomista del VII secolo a.C., integrata da tradizioni successive. E’ composto da 22 capitoli descriventi la morte di Davide, Salomone, la scissione del Regno di Israele dal Regno di Giuda, il ministero del Profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C..
Il ciclo di Elia (1Re 17,1 - 22,54; 2Re 1) rappresenta, insieme a quello di Eliseo, il nucleo centrale dei due libri dei Re, di cui mette chiaramente in luce il carattere profetico.
Riepilogando l’antefatto del brano che la liturgia ci propone, sappiamo che dopo il sacrificio del Carmelo (1Re 18,16-46), il profeta Elia, perseguitato da Gezabele, moglie di Acab, si reca al monte Oreb. Durante il cammino nel deserto è sostenuto da Dio, come Israele al tempo dell’esodo, con un pane e un’acqua miracolosi (1Re 19,1-8). Dopo aver camminato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, egli giunge al monte della rivelazione, dove Dio gli appare non nell’uragano, nel terremoto o nei lampi, ma “nel mormorio di un vento leggero” e questo significa che anche Elia, come Mosè, riceve la parola di Dio, non però mediante i fenomeni esterni della teofania, bensì nell’intimo del suo cuore, “pieno di zelo per il Signore”.
Sul monte Oreb Dio affida ad Elia tre compiti il cui scopo è quello di preparare le persone che scateneranno il castigo divino sul popolo peccatore (1Re 19,15-16). Per prima cosa dovrà consacrare Cazael come re di Damasco (2Re 8,7-15); in seguito dovrà ungere Ieu come re di Israele (2Re 9,1-13); infine dovrà ungere come suo successore Eliseo figlio di Safat (1Re 19,19-21). Elia non sarà dunque solo nella sua adesione incondizionata a DIO. Di ritorno dall’Oreb, Elia adempie per primo il terzo dei compiti che gli erano stati affidato, la chiamata di Eliseo.
Il testo liturgico si apre con l’ordine dato da DIO sull’Oreb: “Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto”. La scena dell’incontro di Elia con Eliseo si svolge probabilmente nel villaggio stesso in cui viveva Eliseo, Abel-Mecola. Eliseo è intento a un impegnativo lavoro agricolo, infatti: “arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo”. Al vederlo, “Elìa, gli gettò addosso il suo mantello”.
La sacralità del mantello di Elia apparirà in seguito, nella scena del congedo di Elia da Eliseo (2Re 2,8.l3-14), dove sono attribuite a esso proprietà miracolose. Il gesto di Elia però non ha un carattere miracoloso, e neppure indica un passaggio di poteri da Elia al nuovo discepolo. Questi due significati del mantello appariranno in occasione della dipartita di Elia. Qui invece si tratta di un segno di appropriazione, con il quale Dio prende possesso di un uomo per conferirgli una missione. Eliseo comprende immediatamente il significato del gesto di Elia infatti lascia subito i buoi e corre dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa gli risponde: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te».
Da quel momento la vita di Eliseo, contadino di Abel-Mecolà, villaggio della Transgiordania, è stravolta. Gli è stato consentito solo il congedo ufficiale dal suo nucleo familiare attraverso un pasto d’addio cotto proprio con gli attrezzi dell’aratro, che erano il simbolo della sua antica professione. Poi per Eliseo, si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica
La chiamata di Eliseo dà un’idea dell’origine e della radicalità della vocazione profetica. Infatti non è Eliseo che si mette a disposizione di Dio e neppure Elia che decide di chiamarlo al suo servizio, ma è Dio stesso che dà a Elia il compito di andarlo a cercare e di coinvolgerlo nella missione di guida spirituale del popolo.

Salmo 15 - Sei tu, Signore, l’ unico mio bene.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei tu».
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.

Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.

Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.

Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.

L’intimità goduta con Dio dal sacerdote, autore certamente di questo carme, durante il culto del tempio di Gerusalemme, non può spegnersi con la morte. Nonostante le esitazioni della teologia dell’Antico Testamento, qui abbiamo, sia pure attraverso il ricorso a una simbologia spaziale (la via), una professione di fede nel destino glorioso del fedele. Sembra quasi che il salmista anticipi la speranza che pervade il cristiano il quale ha ascoltato le parole di Gesù: “Io vado a prepararvi un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perchè siate anche voi dove sono io” (Gv 14,2-3)
Commento tratto da “Il Salmi” di Gianfranco Ravasi

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.
Gal 5,1. 13-18

Paolo, scrive la lettera ai Galati tra il 50 e il 57 durante il suo terzo viaggio, probabilmente da Efeso o da Macedonia, per controbattere ad una predicazione fatta, dopo che l'apostolo aveva lasciato la comunità, da alcuni ebrei cristiani, che avevano convinto alcuni Galati che l'insegnamento di Paolo era incompleto e che la salvezza richiedeva il rispetto della Legge di Mosè, in particolare della circoncisione. Paolo condanna tale orientamento, proclamando la libertà dei credenti e la salvezza per mezzo della fede.
La lettera è importante anche perché si trovano delle informazioni storiche sulla vita di Paolo prima della conversione, sulla sua conversione, sugli anni successivi, i suoi rapporti con Pietro, con Gerusalemme, con Barnaba.
Nel brano non riportato dalla liturgia (vv. 2-12) Paolo aveva messo in guardia i galati nei confronti della circoncisione e di tutto ciò che essa comporta, cioè la pratica di tutta la legge. Coloro che cercano di imporla vogliono separarli da Cristo, e così facendo li pongono su una strada sbagliata. Essi devono dunque decidere se stare dalla sua parte o da quella dei suoi avversari. Ma devono anche sapere che nel primo caso scelgono la libertà, mentre nel secondo, pur pensando di fare proprie le prerogative del popolo eletto, scelgono in realtà un regime di schiavitù che svuota il vangelo del suo contenuto essenziale: la croce di Cristo. Il punto che l’apostolo vuole fare capire con chiarezza è uno solo: se egli si contrappone ai giudaizzanti, non è per difendere la sua autorità di apostolo, ma per garantire la verità e l’autenticità del vangelo. I galati possono rifiutare le sue direttive, ma così facendo abbandonano Cristo e rinunziano alla sua grazia. Tutta la legge si riassume infatti nel precetto che impone di amare il prossimo come se stessi. Paolo non predica dunque l’abolizione della legge in quanto tale, ma solo la liberazione da una legge concepita come una norma oggettiva da praticare con le proprie forze.
In questo brano Paolo inizia la sua esortazione con una frase che è tutto un programma: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”
Nel brano precedente Paolo aveva parlato dell'adesione alla Legge in termini di schiavitù. Cristo invece con il suo sacrificio sulla croce ha liberato i credenti. Questa liberazione è per la libertà, non perché si torni alla situazione di sottomissione precedente.
«Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri".
Qui si riprende il discorso sulla libertà ottenuta grazie a Cristo. Qui Paolo per libertà intende innanzitutto la libertà dal legalismo giudaico ma si tratta anche della libertà dal peccato, dall'egoismo. Infatti nella seconda parte di questo versetto si parla della carne. Con questo termine si intende la dimensione umana, sempre bisognosa e fragile. La carne per Paolo è anche la dimensione umana più incline a lasciarsi possedere dal peccato, dall'egoismo.
«Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Ecco il vero significato che sta alla base di tutta la legge: l'amore verso il prossimo. La libertà cristiana si esprime dunque in un servizio reciproco reso per amore, non oppressivo. E' una libertà da se stessi, che non ci rende più schiavi del peccato, ma ci mette a servizio gli uni degli altri.
Questo versetto sottolinea il contrasto tra l'amarsi gli uni gli altri e il divorarsi. Se non vi è amore reciproco, se ognuno vive la propria libertà per seguire il proprio interesse è ovvio che poi arriverà a voler distruggere gli altri che vengono visti solo come un ostacolo al soddisfacimento dei propri bisogni.
«Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne.»
Invece la libertà cristiana si lascia guidare dallo Spirito, si prende le sue responsabilità, non si lascia trascinare dal potere assoluto dei propri bisogni e desideri. Paolo mette in antitesi lo Spirito e la carne. Sono due dinamiche che definiscono l'agire della persona e spesso sono in contrasto tra di loro.
“La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. ”.
Con il termine “carne” Paolo questa volta qualifica l’uomo peccatore nel senso che ponendo se stesso egoisticamente al centro di tutte le cose, trasgredisce anche il comandamento del Decalogo “non desiderare” che rappresenta anch’esso, come il comandamento dell’amore, la sintesi di tutti i precetti divini.
Paolo infine conclude: “Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.” Colui che si lascia guidare dallo Spirito non ha più desideri mondani. La vittoria sul desiderio mondano, e quindi la possibilità di amare i fratelli, dipende dunque essenzialmente dal dono dello Spirito.
In questo testo Paolo mette con forza l’accento sulla libertà in quanto dono che viene fatto da Cristo al credente che consiste fondamentalmente nell’eliminazione di un rapporto servile con la legge. Paolo sottolinea però con chiarezza che questa libertà non consiste nel fare i propri comodi, ma nell’osservare il precetto fondamentale dell’amore, in cui tutta la legge è riassunta
La pratica dell’amore però non è una cosa che competa all’uomo se prima non ha accettato in se stesso il dono dello Spirito. Solo lo Spirito infatti è capace di sostituire i desideri del mondo con altri desideri che portano all’amore e al dono di sé (V. Rm 5,5; 8,1-4). Questo dono ha origine soprattutto dall’esempio di Cristo, dalla Sua totale dedizione al Padre e ai fratelli.
Solo chi assume lo Spirito di Gesù, che è anche lo Spirito di Dio, può essere veramente libero nella pratica dell’amore verso i fratelli.

Dal vangelo secondo Luca
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
Lc 9, 51-62

Luca presenta l’inizio del viaggio di Gesù con una frase emblematica: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» e precisa che Gesù “mandò messaggeri davanti a sé”. C’è un riferimento a Malachia (Ml 3,1) dove Dio invia un angelo a preparare la Sua venuta nel tempio di Gerusalemme e Luca interpreta questo incarico come l’invio di messaggeri ufficiali davanti al Messia per preparargli la strada verso Gerusalemme, dove avrebbe portato a termine la Sua missione.
Gli inviati “si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.” I samaritani erano i nemici tradizionali dei giudei e spesso ne ostacolavano il passaggio nella loro regione, per questo di solito i giudei evitavano di passare nel loro territorio. L’atteggiamento dei samaritani suscita la reazione dei discepoli Giacomo e Giovanni che reagiscono dicendo “«Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.” Gesù li rimprovera aspramente, e da questo episodio, che rivela il carattere impulsivo e vendicativo dei figli di Zebedeo, può far comprendere perché Gesù diede loro il soprannome di Boanèrghes, cioè figli del tuono.
Dopo l’episodio dei samaritani Luca inserisce tre scene di vocazione.
Nella prima scena, a un certo punto si presenta a Gesù un tale che gli dichiara la sua ferma decisione di seguirlo dovunque egli vada. La risposta di Gesù è emblematica: ”Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Prima di decidersi a seguire Gesù bisogna riflettere seriamente, perché si tratta di una scelta che implica privazioni, rischi, mancanza di sicurezze terrene. Una vita comoda e tranquilla non si addice a chi intende mettersi al suo seguito.
Nella seconda scena è Gesù che rivolgendosi ad un altro dice : «Seguimi!». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». C’è da tenere presente che nella società ebraica non c’era solo il compito di adempiere a tutti i doveri connessi con la sepoltura del padre, ma anche di assisterlo nell’ultimo periodo della sua vita.
Tutte queste incombenze erano rese obbligatorie dal quarto comandamento, che prescrive di onorare il padre e la madre. A questo riguardo Gesù esprime il suo pensiero con un’affermazione paradossale, formulata in perfetto stile semitico, uno stile che usa colori accesi e dichiarazioni esplosive: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Mettendosi al seguito di Gesù il discepolo ha scelto la “vita” e non deve più immischiarsi in faccende che riguardano coloro che sono ancora spiritualmente “morti”. Gesù considera quindi la sequela come un impegno talmente decisivo e radicale da far passare in secondo ordine persino gli obblighi più importanti e i legami familiari più stretti.
L’ultima scena riguarda un tale che prendendo lui stesso l’iniziativa si rivolge a Gesù dicendogli: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Costui si impegna a seguirlo, ma prima chiede di potersi accomiatare da quelli di casa sua. Ma Gesù risponde: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
L’aratro, simbolo del lavoro abbandonato da Eliseo, diventa segno del nuovo lavoro dell’apostolo “coltivatore” (chiamando i primi discepoli Gesù aveva parlato di pescatori di uomini). Ma c’è un’altra differenza più rilevante, tra queste scene di vocazione: nella chiamata per il Regno proposta da Cristo non c’è spazio per il “congedo da quelli di casa”.
Chi intende mettersi alla sequela di Gesù non guarda più al passato, è chiamato ad occuparsi di nuova vita; taglia i legami con le idee vecchie e con gli interessi individuali; deve essere disposto ad avventurarsi nel territorio del rinnovamento e della perfezione, deve essere disposto ad affrontare il rischio della novità, amare l’azzardo della libertà. Deve tenere in mente le parole di Gesù «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderò la propria vita per me la salverà»

 

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“Il Vangelo di questa domenica mostra un passaggio molto importante nella vita di Cristo: il momento in cui – come scrive san Luca – «Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme». Gerusalemme è la meta finale, dove Gesù, nella sua ultima Pasqua, deve morire e risorgere, e così portare a compimento la sua missione di salvezza.
Da quel momento, dopo quella “ferma decisione”, Gesù punta dritto al traguardo, e anche alle persone che incontra e che gli chiedono di seguirlo, dice chiaramente quali sono le condizioni: non avere una dimora stabile; sapersi distaccare dagli affetti umani; non cedere alla nostalgia del passato.
Ma Gesù dice anche ai suoi discepoli, incaricati di precederlo sulla via verso Gerusalemme per annunciare il suo passaggio, di non imporre nulla: se non troveranno disponibilità ad accoglierlo, si proceda oltre, si vada avanti. Gesù non impone mai, Gesù è umile, Gesù invita. Se tu vuoi, vieni. L’umiltà di Gesù è così: Lui invita sempre, non impone.
Tutto questo ci fa pensare. Ci dice, ad esempio, l’importanza che, anche per Gesù, ha avuto la coscienza: l’ascoltare nel suo cuore la voce del Padre e seguirla. Gesù, nella sua esistenza terrena, non era, per così dire, “telecomandato”: era il Verbo incarnato, il Figlio di Dio fatto uomo, e a un certo punto ha preso la ferma decisione di salire a Gerusalemme per l’ultima volta; una decisione presa nella sua coscienza, ma non da solo: insieme al Padre, in piena unione con Lui! Ha deciso in obbedienza al Padre, in ascolto profondo, intimo della sua volontà. E per questo la decisione era ferma, perché presa insieme con il Padre. E nel Padre Gesù trovava la forza e la luce per il suo cammino. E Gesù era libero, in quella decisione era libero. Gesù vuole noi cristiani liberi come Lui, con quella libertà che viene da questo dialogo con il Padre, da questo dialogo con Dio. Gesù non vuole né cristiani egoisti, che seguono il proprio io, non parlano con Dio; né cristiani deboli, cristiani, che non hanno volontà, cristiani «telecomandati», incapaci di creatività, che cercano sempre di collegarsi con la volontà di un altro e non sono liberi. Gesù ci vuole liberi e questa libertà dove si fa? Si fa nel dialogo con Dio nella propria coscienza. Se un cristiano non sa parlare con Dio, non sa sentire Dio nella propria coscienza, non è libero, non è libero.
Per questo dobbiamo imparare ad ascoltare di più la nostra coscienza. Ma attenzione! Questo non significa seguire il proprio io, fare quello che mi interessa, che mi conviene, che mi piace... Non è questo! La coscienza è lo spazio interiore dell’ascolto della verità, del bene, dell’ascolto di Dio; è il luogo interiore della mia relazione con Lui, che parla al mio cuore e mi aiuta a discernere, a comprendere la strada che devo percorrere, e una volta presa la decisione, ad andare avanti, a rimanere fedele.
Noi abbiamo avuto un esempio meraviglioso di come è questo rapporto con Dio nella propria coscienza, un recente esempio meraviglioso. Il Papa Benedetto XVI ci ha dato questo grande esempio quando il Signore gli ha fatto capire, nella preghiera, quale era il passo che doveva compiere. Ha seguito, con grande senso di discernimento e coraggio, la sua coscienza, cioè la volontà di Dio che parlava al suo cuore. E questo esempio del nostro Padre fa tanto bene a tutti noi, come un esempio da seguire.
La Madonna, con grande semplicità, ascoltava e meditava nell’intimo di se stessa la Parola di Dio e ciò che accadeva a Gesù. Seguì il suo Figlio con intima convinzione, con ferma speranza. Ci aiuti Maria a diventare sempre più uomini e donne di coscienza, liberi nella coscienza, perché è nella coscienza che si dà dialogo con Dio; uomini e donne, capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione capaci di ascoltare la voce di Dio e di seguirla con decisione.”
Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 30 giugno 2013

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La festa del Corpus Dominum, più propriamente chiamata solennità del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, è una delle principali solennità dell'anno liturgico e la celebrazione, chiudendo il ciclo delle feste del dopo Pasqua, vuole celebrare il mistero dell'Eucaristia. Questa festa è stata istituita nel lontano 1264 da Papa Urbano IV a ricordo del miracolo eucaristico avvenuto nel 1263 a Bolsena, anche se non era stato il primo .
La liturgia ci propone per questa celebrazione, nella prima lettura, un brano tratto dal Libro della Genesi, in cui incontriamo la figura di Melchisedek, che molto tempo prima della venuta di Cristo, offrì a Dio del pane e del vino, segno misterioso e anticipatore dell’Eucaristia.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, San Paolo, facendo memoria dell’ultima Cena, presenta il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia.
Nel Vangelo di San Luca troviamo il racconto del famoso miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Anche oggi la Chiesa, come già al tempo degli apostoli, legge il miracolo del pane in chiave eucaristica e fa compiere a Gesù i gesti dell’ultima cena: prende...benedice...spezza...dona . Come nell’ultima Cena, Gesù comanda agli apostoli di preparare da mangiare, ma è Lui in realtà che dona. L’uomo, nel suo cammino terreno, non è mai sazio perché la sua fame non è di solo pane, ma è fame di Dio.

Dal Libro della Genesi
In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici».
E [Abramo] diede a lui la decima di tutto.
Gen 14,18-20

Il Libro della Genesi è il primo libro del Pentateuco (cinque libri; in origine tutti in un unico rotolo: la Torà) e tratta delle origini dell’universo, del genere umano, del peccato originale, della storia dei patriarchi prediluviani, della chiamata di Abramo fino alla morte di Giacobbe. È stato scritto in ebraico e, secondo gli esperti, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11, dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi, Abramo, Isacco,Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente del II millennio a.C. (attorno al 1800-1700 a.C).
Per capire il brano liturgico è importante conoscere l’antefatto.
Dopo il racconto della vocazione di Abram, al quale Dio promette di conferire una speciale benedizione e di far sorgere da lui un grande popolo, segue quello del suo arrivo a Sichem, presso le Querce di Mamre, ma nel paese si trovavano allora i cananei. E’ solo in questo momento che Dio fa ad Abram anche la promessa di dare proprio quella terra alla sua discendenza.
Subito dopo l'arrivo nella terra di Canaan, Abram è costretto da una carestia ad andare in Egitto, in cui vediamo che in certi frangenti Abram manifesta anche la sua mediocrità e la sua poca fede. Ma Dio interviene sempre per riparare gli errori umani e fare in modo che la Sua promessa si attui.
Poi c’è il racconto della separazione di Lot da Abram e la generosità del patriarca di far scegliere a Lot il luogo in cui abitare, per cui ad Abram resta la zona montagnosa della Palestina. E subito Dio gli appare per dirgli che tutta quella regione apparterrà un giorno ai suoi discendenti. Si narra anche un incidente increscioso: in seguito all'incursione di quattro re orientali Lot viene fatto prigioniero. Abram allora raccoglie i suoi uomini, insegue le truppe dei quattro re e libera suo nipote (Gen 14,1-17).
Al suo ritorno da questa spedizione ha luogo nella Valle del re, vicino a Gerusalemme, l'incontro con Melchisedek.
Il brano che la liturgia ci propone è solo la parte iniziale di questo racconto ed ha come protagonisti Abramo e Melchisedek, re di quella Salem che diverrà la futura
Gerusalemme. Il re di Salem, Melchisedek, - due nomi dai significati simbolici di “pace” e di “re di giustizia-salvezza” offre pane e vino ad Abramo reduce dalla spedizione punitiva contro quattro re che avevano catturato suo nipote Lot. Il gesto è un segno di collaborazione perché permette ad Abramo e ai suoi di rifocillarsi. Melchisedek è però anche sacerdote del suo popolo e l’atto assume anche gli aspetti di un rito sacrificale, di ringraziamento e di alleanza con una benedizione solenne espressa con queste parole: “Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici”.
La benedizione è una parola efficace e irrevocabile che, anche pronunziata da un uomo, trasmette l’effetto che vi si esprime, poiché è Dio che benedice, ma anche l’uomo, a sua volta, benedice Dio, loda la sua grandezza e la sua bontà nello stesso tempo in cui augura di vederle affermarsi ed estendersi. Qui le due benedizioni sono associate. Abramo dimostra di gradire questa benedizione di Melchisedek dando “a lui la decima di tutto”
Il Salmo 110(109), che la Liturgia oggi ci propone, vedrà in lui una figura del Messia, re e sacerdote, e l’autore della lettera agli Ebrei, l’applicherà a Cristo. La tradizione patristica arricchirà questa esegesi allegorica vedendo nel pane e nel vino offerti da Melchisedek ad Abramo non solo un tipo di Eucaristia, ma anche un vero sacrificio, tipo del sacrificio eucaristico, fissando questa interpretazione nella preghiera eucaristica della Messa… “oblazione pura e santa di Melchisedeck, tuo sommo sacerdote” .

Salmo 109/110 «Tu sei sacerdote per sempre, Cristo Signore.»

Oràcolo del Signore al mio Signore:
«Siedi alla mia destra,
finché io ponga i tuoi nemici
a sgabello dei tuoi piedi».

Lo scettro del tuo potere
stende il Signore da Sion:
«Domina in mezzo ai tuoi nemici.

A te il principato nel giorno della tua potenza
tra santi splendori;
dal seno dell'aurora,
come rugiada, io ti ho generato».

Il Signore ha giurato
e non si pente:
«Tu sei sacerdote per sempre
al modo di Melchisedek».

Il Vangelo (Mt 22,44) afferma che questo salmo è stato scritto da Davide.
Davide presenta il Messia come il Signore, il che vuol dire che lo riconosce superiore a lui.
“”; Dio presenta al Messia l'evento della sua intronizzazione in cielo. Egli sedendo alla destra del Padre è il suo plenipotenziario (Cf. At 2,33s; Eb 1,13; 10,12; 1Pt 3,22).
Davide dice che il suo potere regale si è affermato a Sion: ”Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion”. La regalità di Cristo si è affermata con la conquista del genere umano operata sulla croce.
“Domina in mezzo ai tuoi nemici”; nessuno, dunque, potrà mai scalzare il suo dominio; ed egli è il giudice di tutti. Il “regno della terra” gli viene dato nel giorno della sua potenza, cioè della manifestazione della sua vittoria, che si avrà con la sua morte e risurrezione e l'ingresso trionfale in cielo. Trionfo avvenuto “tra santi splendori”, cioè nell'osanna delle schiere angeliche.
“Dal seno dell'aurora, come rugiada, io ti ho generato”; la risurrezione è unita alla glorificazione dell'umanità del Cristo. La glorificazione è presentata poeticamente come un nascere “dal seno dell'aurora”. Egli risorto e glorioso non cessa di essere in relazione con la terra, anzi la sua risurrezione lo costituisce come “rugiada” per la terra.
Egli è re per sempre e sacerdote per sempre. Non possiede un sacerdozio per via di nascita dalla tribù di Levi come era quello Aronitico, ma per elezione di Dio, come era quello di Melchisedek (Eb 5,6).
Dio sarà alla sua destra nel senso che la battaglia escatologica (il dies irae) contro i suoi nemici la condurrà su comando del Padre, il quale ne deciderà il momento (At 1,7): “Il Signore è alla tua destra! Egli abbatterà i re nel giorno della sua ira”.
Il Messia si disseterà “al torrente”, cioè vivrà lontano dagli agi di una corte terrena, e solleverà “alta la testa”, perché non avrà cedimenti col mondo.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
1Cor 11,23-26

Paolo scrivendo ai Corinzi, poco più di 20 anni dalla morte e resurrezione di Cristo, ci offre una preziosa descrizione della celebrazione eucaristica. Questo testo, il primo e il più antico sulla celebrazione eucaristica, si inserisce in un contesto di rimprovero per gli abusi contro la carità che venivano fatti nei riguardi dei più piccoli e poveri. Infatti, l’Apostolo (nei versetti precedenti 11,17-22 non riportati dalla liturgia odierna) rimprovera i Corinzi perchè era venuto a sapere che nelle loro assemblee c’erano divisioni.
In una situazione del genere le riunioni dovevano essere piuttosto fredde, ogni gruppo si isolava dall’altro e non vi era quindi condivisione, come dimostra il fatto che alcuni prendevano il pasto portato da casa, prima della cena del Signore, finendo poi per ubriacarsi, mentre altri, non avendo nulla, continuavano a rimanere nella fame.
Paolo propone allora un salutare ritorno alle origini della fede: se i Corinzi si sono dimenticati la ragione del loro riunirsi è bene ricordarglielo, per questo in tono solenne Paolo fa memoria dell’evento della Cena Eucaristica, iniziando dalla notte del tradimento. A consegnare Gesù non è solo "Giuda il traditore" né solo i sommi sacerdoti, gli anziani del popolo e Pilato. In quella notte è Gesù stesso che si consegna alla morte per amore: ed è il Padre che lo consegna "per tutti noi". La Messa dunque fa memoria e attualizza questo evento che è il fulcro della storia. Veste della Messa è il rito, la celebrazione, e indipendentemente dal valore del celebrante e della fede e partecipazione dei fedeli presenti, quel che conta è il significato di quello che avviene sull'altare. Gesù stesso, al momento della Consacrazione, si rende presente, in modo sacramentale, e con il Suo sacrificio d'amore si fa cibo per ognuno di noi.
La Chiesa vive di questo Pane e di questo Vino che sono il Corpo e il Sangue di Cristo immolato. Vive e cresce, purificata, santificata da Gesù che ancora "si dà per la vita di tutti". Paolo lo ribadisce dicendo: Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare».
Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.
Lc 9, 11b-17

Questo brano è tratto dal capitolo 9 che Luca dedica alla missione dei Dodici. Gesù aveva data loro potere e autorità sui demoni e di curare le malattie, e li aveva inviati ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi. E' un'anticipazione di quanto i discepoli compiranno negli Atti degli apostoli. Nel versetto successivo Luca riporta le considerazioni di Erode sulla figura e alle opere di Gesù, poi riporta l’attenzione sugli apostoli che ritornano da Gesù e gli raccontano ciò che hanno compiuto.
Nel brano parallelo l’evangelista Marco ricorda che Gesù invitò gli apostoli a riposare un po' in un luogo solitario, mentre Luca dice solo che li prese con sé e insieme si ritirarono in un luogo vicino alla città di Betsaida. 1* Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono.
“Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.”
Gesù voleva forse far riposare i suoi discepoli dopo averli mandati in missione o approfondire il suo insegnamento, ma è costretto a far fronte a un cambiamento di programma. Le folle lo seguono e Lui le accoglie, parlando loro del regno di Dio e guarendo quanti avevano bisogno di cure. Gesù dunque continua a svolgere il suo mandato di medico nei confronti dei malati, ma anche a salvare i peccatori dalla loro situazione di prigionia e di morte.
“Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».”
Gli apostoli prendono l'iniziativa, ma con un'idea piuttosto irrealizzabile: cinquemila persone non potevano essere rifocillate tanto facilmente nemmeno nei villaggi vicini. Si può notare che tra i quattro evangelisti solo Luca accenna all'alloggio. Egli risente probabilmente della geografia greca in cui non è facile passare la notte all'addiaccio, mentre per il clima palestinese questo non sarebbe stato un problema.
“Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente»”.
Gesù aveva già dato ai Dodici il mandato di predicare il vangelo e di guarire i malati. Ora affida loro anche il compito di dare da mangiare alla gente. Il pane e il pesce in salamoia era il cibo che solitamente si portava quando si era in viaggio e poteva bastare per fare cena. Quello che hanno a disposizione è comunque poca cosa. Certo non può bastare per sfamare tutta quella moltitudine. Ancora i Dodici cercano una soluzione "umana", andare loro ad acquistare i viveri per tutta la folla.
“C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa».”
Luca ci dice che la folla era composta da circa cinquemila uomini, senza contare perciò le donne e i bambini. Gesù ordina che la folla venga fatta “sedere a gruppi di cinquanta circa”. Li fa dunque accomodare e l'indicazione dei gruppi di 50 ricorda le suddivisioni del popolo di Israele nel deserto (V. Es 18,21.25). E' interessante notare che Gesù suddivide la folla in gruppi: non vuole che siano una massa anonima, ma che tra di loro si sentano un'unità dentro una realtà più grande. E' quello che accade a noi, non siamo soli nel rapporto con il Signore, ma siamo chiamati a viverlo all'interno di una comunità, ad avere dei compagni di cammino.
“Fecero così e li fecero sedere tutti quanti”. Anche a Emmaus i commensali erano seduti a tavola, quando Gesù spezzò il pane (Lc 24,30). Tutti siamo chiamati a sederci e a condividere questo pane, come quando condividiamo il cibo a casa nostra con i nostri familiari.
“Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla”.
A questo punto l’evangelista anticipa i gesti di Gesù sul pane e sul vino nell’Eucaristia:“Prese i cinque pani, alzò gli occhi al cielo”, in segno di comunione piena con il Padre, “recitò su di essi la benedizione, li spezzò”, sono le stesse parole dell’Eucaristia, quindi in questo episodio l’evangelista tratteggia il suo significato profondo. E’ interessante anche il particolare della presenza dei pesci, infatti nella parola greca con cui si identifica il pesce “ichtùs”, si leggeva l’ideogramma Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr,: Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore
“Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.”
L'episodio termina con un quadro di abbondanza e di pienezza. Il banchetto e la sazietà è un simbolo dei tempi messianici. Gesù realizza in pienezza le anticipazioni della storia di Israele. Egli è il nuovo Mosè che sfama le folle nel deserto. E' il nuovo Eliseo che con 20 pani di orzo e farro aveva sfamato 100 persone (2Re 4,42-44). Gesù è più importante di tutti loro. La manna scendeva dal cielo per opera di Dio e non di Mosè. Interessante anche sottolineare alcuni nomi utilizzati: gli avanzi vengono indicati con il nome di klasma, che nella comunità primitiva era l'avanzo del pane consacrato, che veniva custodito gelosamente dopo la celebrazione dell'Eucaristia. Il nome delle ceste indica quelle utilizzate per il trasporto del vitto dei soldati, quindi avevano una certa capienza. Le ceste erano dodici come il numero delle tribù d’Israele. Dio continua a provvedere al suo popolo. Il dodici può essere riferito anche ai dodici apostoli: c'è un'abbondanza che essi devono conservare e distribuire alla Chiesa.

*****

“Oggi, in Italia e in altre Nazioni, si celebra la solennità del Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini. Il Vangelo ci presenta l’episodio del miracolo dei pani che si svolge sulla riva del lago di Galilea. Gesù è intento a parlare a migliaia di persone, operando guarigioni. Sul far della sera, i discepoli si avvicinano al Signore e Gli dicono: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo» Anche i discepoli erano stanchi. Infatti erano in un luogo isolato, e la gente per comprare il cibo doveva camminare e andare nei villaggi. E Gesù vede questo e risponde: «Voi stessi date loro da mangiare». Queste parole provocano lo stupore dei discepoli. Non capivano, forse si sono anche arrabbiati, e rispondono: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente».
Invece, Gesù invita i suoi discepoli a compiere una vera conversione dalla logica del “ciascuno per sé” a quella della condivisione, incominciando da quel poco che la Provvidenza ci mette a disposizione. E subito mostra di aver bene chiaro quello che vuole fare. Dice loro: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa» . Poi prende nelle sue mani i cinque pani e i due pesci, si rivolge al Padre celeste e pronuncia la preghiera di benedizione. Quindi, comincia a spezzare i pani, a dividere i pesci, e a darli ai discepoli, i quali li distribuiscono alla folla. E quel cibo non finisce, finché tutti ne hanno ricevuto a sazietà.
Questo miracolo – molto importante, tant’è vero che viene raccontato da tutti gli Evangelisti – manifesta la potenza del Messia e, nello stesso tempo, la sua compassione: Gesù ha compassione della gente. Quel gesto prodigioso non solo rimane come uno dei grandi segni della vita pubblica di Gesù, ma anticipa quello che sarà poi, alla fine, il memoriale del suo sacrificio, cioè l’Eucaristia, sacramento del suo Corpo e del suo Sangue donati per salvezza del mondo.
L’Eucaristia è la sintesi di tutta l’esistenza di Gesù, che è stata un unico atto di amore al Padre e ai fratelli. Anche lì, come nel miracolo della moltiplicazione dei pani, Gesù prese il pane nelle sue mani, elevò al Padre la preghiera benedizione, spezzò il pane e lo diede ai discepoli; e lo stesso fece con il calice del vino. Ma in quel momento, alla vigilia della sua Passione, Egli volle lasciare in quel gesto il Testamento della nuova ed eterna Alleanza, memoriale perpetuo della sua Pasqua di morte e risurrezione.
La festa del Corpus Domini ci invita ogni anno a rinnovare lo stupore e la gioia per questo dono stupendo del Signore, che è l’Eucaristia. Accogliamolo con gratitudine, non in modo passivo, abitudinario. Non dobbiamo abituarci all’Eucaristia e andare a comunicarci come per abitudine: no! Ogni volta che noi ci accostiamo all’altare per ricevere l’Eucaristia, dobbiamo rinnovare davvero il nostro “amen” al Corpo di Cristo. Quando il sacerdote ci dice “il Corpo di Cristo”, noi diciamo “amen”: ma che sia un “amen” che viene dal cuore, convinto. È Gesù, è Gesù che mi ha salvato, è Gesù che viene a darmi la forza per vivere. È Gesù, Gesù vivo. Ma non dobbiamo abituarci: ogni volta come se fosse la prima comunione.
Espressione della fede eucaristica del popolo santo di Dio, sono le processioni con il Santissimo Sacramento, che in questa Solennità si svolgono dappertutto nella Chiesa Cattolica
La Madonna ci aiuti a seguire con fede e amore Gesù che adoriamo nell’Eucaristia.”

Papa Francesco Parte dell’ Angelus del 23 giugno 2019

 

1* L'indicazione geografica non è del tutto plausibile, poiché attorno a Betsaida non vi sono zone deserte, come faranno invece notare gli apostoli al v. 12. Sicuramente Luca non aveva molta conoscenza della geografia della Palestina oppure gli serviva un aggancio per giustificare le invettive che Gesù rivolgerà nel capitolo seguente alle città di Corazin e di Betsaida, appunto (cf. Lc 10,13)

Pubblicato in Liturgia

Con le letture che la liturgia di questa domenica dopo Pentecoste ci presenta, noi cristiani contempliamo Dio nella Sua realtà più profonda e più intima: Dio è Padre creatore, Dio è Figlio redentore e Dio è Spirito Santo amore. Le tre Divine Persone ci permettono di vivere nella fede, nella speranza e nell’amore
Nella prima lettura, tratta dal libro dei Proverbi, possiamo renderci conto che già nell’Antico Testamento viene adombrato il mistero della Trinità santissima, dove la Sapienza di Dio è descritta accanto a Lui, come una persona, nel momento della creazione.
Nella seconda lettura, S.Paolo nella sua lettera ai Romani, ci ricorda che con il battesimo i cristiani fanno esperienza di essere figli adottivi di Dio. Possono conoscere così l’amore del Padre, la grazia del Figlio e la comunione dello Spirito Santo.
Nel Vangelo di Giovanni, troviamo ancora un’altra parte finale del lungo discorso di addio rivolto da Gesù ai Suoi discepoli durante l'ultima cena. Gesù in quella notte pronunzia per cinque volte una promessa dal contenuto costante: il dono dello Spirito Santo. Nella promessa che Gesù fa, emerge ancora una volta la relazione che intercorre tra lo Spirito Santo, il Padre e il Figlio.
La solennità della Santissima Trinità, celebrata già dal VI secolo e diffusasi all’inizio del secondo millennio, traduce in canti e preghiere il Simbolo della fede formulato nei concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381). Essa proclama che il Dio che a noi si è rivelato è uno, ma non è solo. E’ comunità d’amore: Padre, principio di tutte le cose, Figlio, rivelatore del Padre e artefice della redenzione del mondo, Spirito Santo, perfezionatore della Sua opera e santificatore, uniti nello stesso amore e nello stesso progetto di salvezza. Di questo Dio in Tre persone l’uomo porta l’immagine, per questo realizza se stesso nella relazione di amore

Dal libro dei Proverbi
Così parla la Sapienza di Dio
«Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività,
prima di ogni sua opera, all'origine.
Dall'eternità sono stata formata,
fin dal principio, dagli inizi della terra.
Quando non esistevano gli abissi, io fui generata,
quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua;
prima delle colline, io fui generata,
quando ancora non aveva fatto la terra e i campi
né le prime zolle del mondo.
Quando egli fissava i cieli, io ero là;
quando tracciava un cerchio sull'abisso,
quando condensava le nubi in alto,
quando fissava le sorgenti dell'abisso,
quando stabiliva al mare i suoi limiti,
così che le acque non ne oltrepassassero i confini,
quando disponeva le fondamenta della terra,
30 io ero con lui come artefice
ed ero la sua delizia ogni giorno:
giocavo davanti a lui in ogni istante,
giocavo sul globo terrestre,
ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo».
Pr 8,22.31

Il Libro dei Proverbi è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana. È stato scritto in ebraico, e secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la redazione definitiva del libro è avvenuta in Giudea nel V secolo a.C., raccogliendo testi composti da autori ignoti lungo i secoli precedenti fino al periodo monarchico (XI-X secolo a.C.). È composto da 31 capitoli contenenti vari proverbi e detti sapienziali. L'insegnamento contenuto, indica le regole da seguire per attuare un comportamento che non arreca problemi a chi le applica e a lungo andare lo rende felice nella vita.
Il brano che abbiamo fa parte della raccolta iniziale del libro e le massime sono poste sulla bocca del maestro, che si rivolge ai suoi alunni chiamandoli con l'appellativo di figli e dà loro le istruzioni per una vita saggia. La raccolta si divide in quattro parti. Nella prima parte(8,1-11) si presenta la sapienza, che scende in campo invitando tutti i “figli dell’uomo” ad ascoltarla per diventare assennati. Nella seconda (8,12-21) la sapienza pronunzia un ampio elogio delle proprie doti e capacità. Essa possiede prudenza, scienza e riflessione, detesta superbia, arroganza, cattiva condotta e bocca perversa; a lei appartiene il consiglio e il buon senso, l’intelligenza e la potenza.
Nella terza parte, che ci propone la liturgia, la sapienza continua il suo discorso descrivendo la sua origine e i suoi rapporti con Dio. Questo brano è composto di quattro strofe di cui le prime due descrivono l’origine della sapienza, la terza mette in luce la sua partecipazione alla creazione e l’ultima indica i suoi rapporti con l’umanità.
Nella prima strofa la Sapienza afferma: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera”, ed afferma di essere stata “formata, fin dal principio, dagli inizi della terra”.
Nella seconda strofa la Sapienza riafferma la propria anteriorità rispetto alle opere create da Dio, ed elenca cinque realtà che ancora non esistevano quando ha avuto origine: le prime due sono introdotte dalla preposizione “quando non”, le altre due da “prima che” e l’ultima nuovamente da “quando non”. Si tratta degli abissi, delle “sorgenti cariche d’acqua”, delle “basi dei monti,” delle “colline” e infine della “terra e i campi”, e “le prime zolle del mondo”.
Nella terza strofa la sapienza descrive l’opera della creazione in sei interventi: “Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull'abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell'abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno”
Nella Genesi è scritto che Dio ha fissato i cieli e ha tracciato un cerchio sull’abisso, ha condensato le nubi in alto e ha fissato le sorgenti dell’abisso (Gen 1,6-8), ha stabilito al mare i suoi limiti perché le acque non ne oltrepassassero la spiaggia e ha disposto le fondamenta della terra (Gen 1, 9-10). Mentre Dio portava a termine queste Sue opere la Sapienza afferma “io ero là”, era “con Lui come artefice”.
Sebbene il primo significato fa pensare al Libro della Sapienza (Sap 7,21), qui sembra invece che la Sapienza abbia partecipato alla creazione come un bambino che assiste al lavoro del padre: ciò che viene messo in risalto è dunque la presenza costante della sapienza accanto a Dio durante tutte le fasi della creazione. In questo ruolo la sapienza rappresenta per Dio una “delizia”.
Nella quarta strofa la sapienza delinea la sua opera nei confronti di Dio, della terra e dell’umanità. “giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo”. La Sapienza gioca davanti a Dio! Sembra che svolga come un servizio liturgico alla Sua presenza, ma al tempo stesso gioca sul globo terrestre e pone la sua delizia tra i figli dell’uomo, cioè trova gioia nello stare con l’umanità.
Come impressione finale si può dire che la Sapienza di Dio è dipinta con una vera e propria cascata di immagini cosmiche che rappresentano l’armonia del progetto divino. Ma la raffigurazione più originale è quella finale in cui la Sapienza è rappresentata mentre danza con i figli dell’uomo: “giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo.” Possiamo intuire che per Dio creare è una festa, è gioia. E l’uomo che sa scoprire il mistero dell’essere può partecipare a questa armonia e a questa felicità divina.
Questa immagine finale ci dovrebbe spingere a rispettare ed amare di più il creato come un dono ricevuto per essere a nostra volta consegnato ai chi viene dopo di noi.

Salmo 8/9 - O Signore nostro Dio, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!
Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell'uomo, perché te ne curi?

Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell'uomo, perché te ne curi?

Tutte le greggi e gli armenti
e anche le bestie della campagna,
gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
ogni essere che percorre le vie dei mari.

L’orante esprime il suo stupore verso Dio. Ogni cosa sulla terra manifesta la sua potenza e grandezza - “il suo nome” -. Egli è tanto potente che può abbattere i suoi avversari anche solo con la bocca dei bimbi e dei lattanti, proclamanti la sua maestà, che gli empi vorrebbero oscurare.
Lo spettacolo della volta stellata fa sentire l’orante piccolo, poca cosa, e quindi realtà trascurabile da Dio, ma non è affatto così. L’uomo - afferma l’orante – è fatto poco meno degli angeli, capace di dominio sulle cose create da Dio. Gli angeli sono puri spiriti e come tali hanno una natura superiore a quella dell’uomo, che apprende le cose in concomitanza con i sensi, mentre l’angelo è semplice intellezione. Tuttavia gli angeli non procreano, collaboratori di Dio, una carne, che è animata da un’anima creata all’istante da Dio per la formazione di un nuovo uomo o di una nuova donna. Poi nessun angelo ha una carne contro la quale lottare, e con la quale giungere a testimoniare il suo amore a Dio fino a sacrificare la vita.
L’orante termina il salmo con le stesse parole di stupore con il quale l’aveva cominciato.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l'accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.
La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Rm 5,1-5

Questo brano è tratto dalla prima parte della lettera ai Romani, quella che gli esperti definiscono "dogmatica" . Nei capitoli 1-4 Paolo aveva parlato della giustificazione dei peccatori e a partire dal capitolo 5, fino al cap. 11 analizza come il cristiano giustificato trova nell’amore di Dio e nel dono dello Spirito la garanzia della salvezza. Questo brano è stato scelto per la solennità di oggi poiché vi è descritta la vita del cristiano in una prospettiva trinitaria.
“Giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”.
Nei capitoli precedenti Paolo aveva spiegato che la fede rende giusti. Se nell'Antico Testamento la giustizia derivava dall'osservanza della Legge e dalla realizzazione delle opere da essa richieste, ora la vera giustizia dipende dalla fede per cui giusto è colui che si affida al Signore. La prima conseguenza per chi è stato giustificato è vivere in pace. Ciò non significa tranquillità e serenità d'animo, bensì un rapporto positivo con Dio, fonte di salvezza,. E' una situazione di grazia che abbiamo ottenuto grazie all'intervento di Cristo.
“Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l'accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio”.
La pace è dunque uno stato di grazia a cui si può accedere mediante la fede. La seconda caratteristica della vita del giustificato è la speranza, cioè l'apertura a un futuro esaltante di persone trasfigurate dalla gloriosa azione divina. E' solo un piccolo accenno che verrà sviluppato nei capitoli seguenti.
“E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza”.
Paolo sa bene che anche a Roma i cristiani subivano spesso persecuzioni. Però il credente se si vanta della speranza che lo attende, può vantarsi anche nelle tribolazioni che può affrontare solo se resta saldo nella fede. La tribolazione volontariamente accettata produce infatti la “pazienza”, cioè la capacità di resistere coraggiosamente alle prove dolorose della vita; questa pazienza si trasforma in una “virtù provata” e da questa virtù provata, o meglio in sintonia con essa, si sviluppa una “speranza” ancora più forte.
“La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.
Paolo non vuole illudere i suoi interlocutori. Il credente non lotta contro i mulini a vento. Non compie una battaglia inutile, perché la speranza non può deludere perché non si limita a provocare l’attesa delle realtà future, ma ne dà un’esperienza anticipata con la capacità di amare che lo Spirito santo “riversa” nei nostri cuori.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Gv16,12-15


Anche questo brano del Vangelo di Giovanni è tratto dalla seconda parte del discorso di addio che l'evangelista pone sulla bocca di Gesù durante l'ultima cena, poco prima del suo arresto.
Il discorso cerca di dare risposta ad una situazione precaria che la comunità subì per l’espulsione dalla comunità ebraica.1
La comunità giudeo-cristiana frequentava infatti il Tempio e le sinagoghe Gli ebrei non avevano accolto la predicazione dei primi cristiani, che si sentivano perciò discriminati. Pur non perdendo la fede nel messaggio di Gesù e nella risurrezione dei morti, la comunità era rimasta delusa dal loro fragile impatto sul mondo circostante.
L'evangelista Giovanni allo scopo di dare nuova fiducia a questa comunità, evidenzia la nuova situazione di Gesù: Egli è tornato al Padre, è glorificato e ricolma i suoi con il dono dello Spirito santo
“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso”.
Gesù ha fatto conoscere ai discepoli tutto ciò che ha udito dal Padre, ma, perché ne abbiano una comprensione più profonda, deve intervenire lo Spirito.
“Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future”.
Lo Spirito Santo è l'interprete di Gesù, l'era dello Spirito è quella in cui il passato si illumina attraverso il presente.
Non solo ma il Paraclito permetterà di parlare del Figlio glorificato, comunicherà ciò che gli appartiene nella sua perfetta comunione con il Padre. Le tre azioni dello Spirito Santo sono:
- guidare: Egli guiderà i discepoli verso la verità, La verità intera è la pienezza di tale mistero. Non sono molteplici verità. Si tratta della verità una e totale del Cristo glorificato in Dio e che si comunica come tale ai suoi.
- parlare: per guidare alla verità, lo Spirito deve parlare, o meglio esprimere ciò che ha udito dal Figlio Il Figlio continuerà a farsi comprendere grazie allo Spirito Santo. Lo Spirito, proprio come Gesù, non parla di Sua iniziativa perché ascolterà da Gesù come Gesù stesso ascoltava dal Padre. La Sua parola non risuona e si ferma nelle orecchie come faceva la parola di Gesù, ma raggiunge il cuore.

- comunicare: se lo Spirito parla, dice ciò che ascolta dal Figlio per comunicarlo. Annuncia, rivela una cosa sconosciuta, la ripete nuovamente. Lo Spirito sarà dunque l'espressione di Gesù stesso.
“Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”.
Lo Spirito Santo non riceve tanto parole di rivelazione per ripeterle agli altri, ma ciò che prende è qualcosa di prezioso perchè lo attinge da Gesù.
Rivelando questo tesoro inesauribile Egli glorificherà il Figlio, la cui missione aveva come scopo la partecipazione dei discepoli alla vita eterna già da questa terra.
“Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”
Quello che possiede il Figlio però viene dal Padre. L'annuncio dello Spirito Santo porta alla comprensione del mistero, ma anche e soprattutto alla vita che è nel Padre e nel Figlio, verso la gloria donata da tutta l'eternità al Figlio, verso l'amore che è Dio.
In questa pagina evangelica leggiamo la promessa dalla quale emerge ancora una volta la relazione che intercorre tra lo Spirito Santo e il Padre e il Figlio. Il Padre ha comunicato al Figlio tutto quanto possiede, cioè tutta la Sua vita e la Sua verità. Gesù ha comunicato a noi quella vita e quella verità, ma il mistero infinito di Dio esige per le nostre piccole menti una rivelazione che si dilati nel tempo e nello spazio. E questa è la missione dello Spirito donato alla Chiesa da Gesù risorto: “Egli ci guiderà alla verità tutta intera” illuminando in pienezza la ricchezza divina che Gesù ci ha portato.
La solennità di oggi ci offre un’idea del volto irraggiungibile di Dio. Egli non è un imperatore impassibile e solitario, avvolto nelle nubi della Sua trascendenza, ma si è legato a noi come Creatore, Salvatore e Rivelatore. La Sua Parola crea, redime e ci indica la meta ultima, quella dell’abbraccio pieno con Lui perché come afferma S.Paolo “ allora saremo sempre col Signore” (1Ts 4,17)

*****

“Oggi, festa della Santissima Trinità, il Vangelo di san Giovanni ci presenta un brano del lungo discorso di addio, pronunciato da Gesù poco prima della sua passione. In questo discorso Egli spiega ai discepoli le verità più profonde che lo riguardano; e così viene delineato il rapporto tra Gesù, il Padre e lo Spirito.
Gesù sa di essere vicino alla realizzazione del disegno del Padre, che si compirà con la sua morte e risurrezione; per questo vuole assicurare ai suoi che non li abbandonerà, perché la sua missione sarà prolungata dallo Spirito Santo. Ci sarà lo Spirito a prolungare la missione di Gesù, cioè a guidare la Chiesa avanti.
Gesù rivela in che cosa consiste questa missione. Anzitutto lo Spirito ci guida a capire le molte cose che Gesù stesso ha ancora da dire. Non si tratta di dottrine nuove o speciali, ma di una piena comprensione di tutto ciò che il Figlio ha udito dal Padre e che ha fatto conoscere ai discepoli . Lo Spirito ci guida nelle nuove situazioni esistenziali con uno sguardo rivolto a Gesù e, al tempo stesso, aperto agli eventi e al futuro. Egli ci aiuta a camminare nella storia saldamente radicati nel Vangelo e anche con dinamica fedeltà alle nostre tradizioni e consuetudini.
Ma il mistero della Trinità ci parla anche di noi, del nostro rapporto con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Infatti, mediante il Battesimo, lo Spirito Santo ci ha inseriti nel cuore e nella vita stessa di Dio, che è comunione di amore.
Dio è una “famiglia” di tre Persone che si amano così tanto da formare una sola cosa. Questa “famiglia divina” non è chiusa in sé stessa, ma è aperta, si comunica nella creazione e nella storia ed è entrata nel mondo degli uomini per chiamare tutti a farne parte. L’orizzonte trinitario di comunione ci avvolge tutti e ci stimola a vivere nell’amore e nella condivisione fraterna, certi che là dove c’è amore, c’è Dio.
Il nostro essere creati ad immagine e somiglianza di Dio-comunione ci chiama a comprendere noi stessi come esseri-in-relazione e a vivere i rapporti interpersonali nella solidarietà e nell’amore vicendevole.
Tali relazioni si giocano, anzitutto, nell’ambito delle nostre comunità ecclesiali, perché sia sempre più evidente l’immagine della Chiesa icona della Trinità. Ma si giocano in ogni altro rapporto sociale, dalla famiglia alle amicizie all’ambiente di lavoro: sono occasioni concrete che ci vengono offerte per costruire relazioni sempre più umanamente ricche, capaci di rispetto reciproco e di amore disinteressato.
La festa della Santissima Trinità ci invita ad impegnarci negli avvenimenti quotidiani per essere lievito di comunione, di consolazione e di misericordia. In questa missione, siamo sostenuti dalla forza che lo Spirito Santo ci dona: essa cura la carne dell’umanità ferita dall’ingiustizia, dalla sopraffazione, dall’odio e dall’avidità.
La Vergine Maria, nella sua umiltà, ha accolto la volontà del Padre e ha concepito il Figlio per opera dello Spirito Santo. Ci aiuti Lei, specchio della Trinità, a rafforzare la nostra fede nel Mistero trinitario e ad incarnarla con scelte e atteggiamenti di amore e di unità.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 22 maggio 2016

 

1 * Era stata pronunciata su di loro infatti la “Birkat Ha Minim”, che se appare come benedizione nella liturgia sinagogale in realtà aveva un significato diverso espresso in queste parole:: "Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell'orgoglio; e periscano in un istante i nozrim e i minim; siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano iscritti. Benedetto sei tu che pieghi i superbi.” Come si può notare, accanto ai minim (eretici o dissidenti) si impreca contro i nozrim, i nazareni, cioè i seguaci di Gesù di Nazareth, a cui venne appioppata la scomunica poiché, pur pretendendo di rimanere dentro la sinagoga, la dividevano nella fede, proteggevano i "gentili", soprattutto i romani, e distruggevano il principio dogmatico della habdàlàh ossia la separazione tra circoncisi e non.

Pubblicato in Liturgia
Venerdì, 03 Giugno 2022 09:37

Domenica di Pentecoste - Anno C - 5 giugno 2022

La festa della Pentecoste rievoca la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e la loro investitura missionaria, avvenuta cinquanta giorni dopo la Pasqua di resurrezione.
Il mistero di Cristo morto e risorto è sempre vivo e presente perché nella Chiesa l’azione dello Spirito Santo è costante. La Pentecoste, compimento del tempo pasquale, non è solo un episodio della storia della salvezza, è piuttosto il mistero vivo della Chiesa abitata per sempre dallo Spirito Santo.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, viene evidenziato come lo Spirito Santo scendendo sugli apostoli dà loro il potere di esprimersi in tutte le lingue. Da quel momento la Chiesa proclama un unico linguaggio, quello di Cristo e dell’amore. La diversità delle culture, delle razze e dei doni personali non è sorgente di incomprensione e di ostilità, ma diventa una “sinfonia” di voci che secondo i timbri e tonalità differenti annunziano la stessa gioia e la stessa speranza.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, Paolo ci ricorda che lo Spirito Santo nel Battesimo ci fa figli ed eredi in Cristo, coeredi della vita eterna. Lo Spirito diventa la nostra voce e ci permette di rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre”.
Nel Vangelo, Giovanni presenta Gesù che parla ai suoi discepoli di quando verrà il Consolatore, lo Spirito di verità, che gli renderà testimonianza, ricordando e rendendo più comprensivo tutto ciò che prima aveva loro insegnato e li guiderà alla verità tutta intera!
L’azione dello Spirito è rivolta sia al futuro (rivelazione), sia al passato (comprensione). Per il cristiano di ogni tempo e di ogni luogo si tratta di continuare a comprendere la rivelazione di Gesù nelle diverse e molteplici situazioni della propria vita.

Dagli Atti degli Apostoli
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
At 2,1-11

Luca inizia il suo racconto indicando il momento e il luogo in cui si è verificato l’evento: “Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste si trovavano tutti insieme nello stesso luogo.” In realtà stava per compiersi non tanto il giorno di Pentecoste, che era solo iniziato, ma il conto delle sette settimane, a partire dalla Pasqua, al termine delle quali ha luogo la Pentecoste1 .
Anche se non viene precisato chi fosse presente all’avvenimento, si può supporre che insieme ai discepoli fosse presente Maria insieme ad altre donne. Luca dicendo “si trovavano tutti insieme” vuole sottolineare non solo la presenza fisica nello stesso luogo ma anche l’unione che regnava tra coloro che costituivano il primo nucleo della Chiesa.
“Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano.”
I termini che Luca usa si ricollegano alla terminologia usata per descrivere la teofania
(V. 1Re 19,11), e il termine “vento” allude già allo Spirito (pneuma), che ad esso viene spesso assimilato (Ez 37,9; Gv 3,8). Il fragore venuto dal cielo “riempie” tutta la casa, così come lo Spirito “riempirà” tutti i presenti.
“Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.”
Il fuoco, a cui le lingue assomigliavano, è anch’esso un’immagine ricavata dalla rappresentazione biblica della teofania (Es 19,18). È indicativo inoltre che, la parola di Dio ha preso la forma di una torcia di fuoco
Il fatto che i presenti parlino “altre lingue” richiama la leggenda giudaica secondo la quale al Sinai la parola di Dio si divideva in 70 lingue. A prima vista sembra quindi che essi parlassero ognuno una lingua diversa dall’altra, ma dal seguito del racconto appare che si trattava piuttosto di un miracolo di audizione, simile a quello che, secondo le leggende giudaiche, si era verificato al Sinai: in realtà essi parlavano normalmente e i presenti li comprendevano nella propria lingua originaria.
Questo fenomeno non è conosciuto altrove nel N.T. perciò diversi studiosi pensano che originariamente si trattasse non di un ”parlare in altre lingue”, ma del “parlare in lingue”, cioè della “glossolalia”, un carisma che consiste nel lodare Dio in una lingua sconosciuta.
Il fragore della teofania viene udito anche all’esterno della casa in cui si trovavano gli apostoli, e subito si raduna una piccola folla di curiosi, pieni di stupore e di meraviglia, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua… delle grandi opere di Dio».
La gente che si era radunata era composta di giudei della diaspora e di proseliti, cioè pagani convertiti al giudaismo, venuti a stabilirsi a Gerusalemme. I loro paesi di origine sono elencati in modo tale da dare l’impressione che si tratti di tutto il mondo allora conosciuto. Pur essendo giudei di nascita o di religione, i testimoni della Pentecoste cristiana sono presentati come i rappresentanti delle nazioni alle quali sarà rivolto l’annunzio evangelico.
Lo Spirito Santo con la Sua discesa sugli Apostoli e Maria ha completato l’opera dell’Incarnazione di Dio: al momento della Sua prima discesa, lo Spirito Santo aveva compiuto nella santa Vergine l’Incarnazione del Verbo, permettendo che il Verbo divenisse, nel suo corpo, il Dio-Uomo, per esserlo nell’eternità. Al momento della Sua seconda discesa, durante la Pentecoste, lo Spirito Santo discende per dimorare nel Suo corpo che è la Chiesa.
Maria è presente poiché è l’unica che possa confermare la presenza e l’azione dello Spirito, in quanto lei è la sola che ne ha già fatto esperienza, avendo, per opera dello Spirito Santo, generato al mondo il Verbo consustanziale al Padre.
Gli Apostoli sono rivestiti di Spirito Santo e annunciano al mondo quel Verbo eterno, crocifisso e risorto che Maria ha generato nella carne. Essi proclamano, lei conferma! Loro annunciano, a lei è stato annunciato! Essi diffondo la Parola di Vita, lei ha dato vita alla Parola!

Salmo 103 Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra.

Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.

Togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.

Sia per sempre la gloria del Signore;
gioisca il Signore delle sue opere.
A lui sia gradito il mio canto,
io gioirò nel Signore.

Il salmista esordisce con un invito a se stesso a benedire il Signore. Di fronte alla grandezza, alla bellezza, alla potenza della creazione esprime il suo stupore e la sua lode a Dio: “Sei tanto grande, Signore, mio Dio!”.Egli contempla Dio nella sua sovranità universale, tratteggiandolo “avvolto di luce come di un manto”. Una luce gloriosa, non terrena, non degli astri, ma divina, con la quale illumina gli spiriti angelici, nel cielo. …
Il salmo, segue l'ordine della prima narrazione della creazione (Gn 1,1s), continua presentando la primordiale situazione della terra, ora fermamente salda “sulle sue basi”, intendendo per basi niente di formalmente vincolante, ma solo un'immagine tratta dalle congetture dell'uomo.
L'onnipotenza divina viene presentata come dominatrice delle acque che coprivano la terra: “Al tuo rimprovero esse fuggirono, al fragore del tuo tuono rimasero atterrite”. Le acque si divisero in acque sotto il firmamento e in acque sopra il firmamento (le nubi, pensate ferme in alto per la presenza di una invisibile calotta detta firmamento), così cominciò il ciclo delle piogge e le acque “Salirono sui monti, discesero nelle valli, verso il luogo (mare) che avevi loro assegnato”. Dio provvede, nel tempo privo di piogge, al regime delle acque, e fa scaturire nelle alte valli montane acque sorgive che poi scendono lungo i canaloni tra i monti per dissetare gli animali. Gli uccelli trovano dimora nei luoghi alti e cantano tra le fronde degli alberi. Tutto è predisposto perché non manchi il cibo: “Con il frutto delle tue opere si sazia la terra. Tu fai crescere l'erba per il bestiame e le piante che l'uomo coltiva...”.
E anche gli alberi alti sono sazi per la pioggia “sono sazi gli alberi del Signore (cioè gli alberi altissimi: nell'ebraico il superlativo assoluto è reso con un riferimento a Dio), i cedri del Libano da lui piantati”. (I cedri del Libano raggiungono anche i 40 m. di altezza, con un diametro alla base di 2,5 m.)
Dio per segnare le stagioni ha fatto il sole e la luna. Ritirando a sera la luce stende “le tenebre e viene la notte”; e anche nella notte prosegue la vita: “si aggirano tutte le bestie della foresta; ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda”. Con i loro ruggiti “chiedono a Dio il loro cibo”. Il salmo presenta che gli animali carnivori sono stati creati così da Dio. Il libro della Genesi (1,30) presenta un mondo animale che si cibava di erbe nella situazione Edenica; ma è un'immagine rivolta a presentare come all'inizio non ci fosse la ferocia tra gli animali, benché non mancassero animali carnivori, creati da Dio, come il nostro salmo presenta.
L'uomo comincia il suo lavoro col sorgere del sole: “Allora l'uomo esce per il suo lavoro, per la sua fatica fino a sera”.
Il salmista loda ancora il Signore per le sue opere.
Passa quindi a considerare le creature del mare; in particolare il Leviatan, nome col quale l'autore designa la balena.
Il mondo animale è oggetto pure esso dell'assistenza divina: “Nascondi il tuo volto: li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere”. Se Dio ritrae la sua assistenza gli animali periscono, non hanno più l'alito delle narici “togli loro il respiro”.
Ma se manda il suo Spirito creatore sono creati. Lo Spirito di Dio è all'origine della creazione: (Gn 1,2).
Il salmista chiede che sulla terra ci sia la pace tra gli uomini, affinché “gioisca il Signore delle sue opere”. “Scompaiano i peccatori dalla terra e i malvagi non esistano più” dice, augurandosi un tempo dove gli uomini cessino di combattersi. Questo sarà nel tempo di pace che abbraccerà tutta la terra, quando la Chiesa porterà Cristo a tutte le genti; sarà la società della verità e dell'amore. Noi dobbiamo incessantemente impegnarci con la preghiera e la testimonianza per questo tempo che invochiamo nel Padre Nostro dicendo: “Venga il tuo regno”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”
(Per avere un’idea più completa della bellezza di questo salmo è stato riportato il commento nella sua interezza e non solo per i versetti proposti dalla liturgia)

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.
Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.
E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Rm 8,8-17

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59 e lo fa anche per presentare se stesso, in vista di un suo viaggio a Roma. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
Nel c. 8, da dove è tratto questo brano, egli affronta il tema della vita nuova che si apre a colui che è diventato giusto mediante la fede. A tal fine riprende e rielabora alcune delle intuizioni che aveva già anticipato nel capitolo 5, e mostra anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato e prosegue mettendo in luce come lo Spirito stesso trasformi intimamente non solo il credente ma anche tutto l’universo.
Questo brano, inizia con l’affermazione: “quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio”. Poi l’Apostolo invita a considerare fino in fondo la nuova situazione in cui i destinatari delle sue lettere di allora, e noi oggi, si trovano. “Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi”. Ora se Cristo abita in loro, da una parte il loro corpo è morto a causa del peccato,cioè essi, in quanto partecipi di questa umanità dominata dal peccato restano soggetti alla morte; dall’altra però in loro opera lo Spirito che è sorgente di vita a causa della giustizia. In altre parole, essi vanno incontro alla morte fisica, ultimo effetto della loro condizione umana, ma in forza della giustizia, che è stata loro conferita, possiedono già la vita che è dono dello Spirito. Infatti Dio “farà vivere i loro corpi mortali” dando loro quello stesso Spirito mediante il quale ha risuscitato Gesù dai morti.
L’apostolo poi afferma: “noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E aggiunge che proprio in forza di questo Spirito noi gridiamo: «Abbà! Padre!»
Gesù per primo si è rivolto a Dio chiamandolo “Abbà! Padre!” non seguendo l’uso dei giudei di invocarlo come “Avinu malkeinu” Padre di tutto il popolo. Egli è stato costituito Figlio di Dio con potenza in forza della Sua risurrezione (Rm 1,4) ma era stato proclamato come Figlio da Dio stesso (Mc 1,11; 9,7) ed era stato riconosciuto come tale da un centurione al momento della sua morte (Mc 15,39). Comunque Egli era Figlio di Dio fin dalla sua nascita, anzi fin dall’eternità (Gv 1,14.18), e lo stesso Gesù aveva dato ai Suoi discepoli la prerogativa di rivolgersi a Dio con lo stesso appellativo di “Padre”.
Lo Spirito dunque non si limita a rendere possibile ai credenti l’osservanza della legge e a conferire loro la vita, ma, proprio in quanto “Spirito di Cristo”, li coinvolge in quello stesso rapporto filiale che Egli ha con il Padre.
Lo Spirito non solo dà ai credenti la possibilità di chiamare Dio con l’appellativo di “Padre”, ma insieme al loro spirito “attesta che siamo figli di Dio”. La figliolanza divina non è quindi un semplice concetto, ma un’esperienza che ha luogo nell’ambito della preghiera e sicuramente Paolo pensa qui alla preghiera comunitaria, durante la quale i credenti si rivolgono a Dio con l’appellativo di Padre.
”E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria”. Questa figliolanza divina porta con sé anche il privilegio di ottenere un giorno l’eredità promessa, perchè, in quanto figli, i credenti sono diventati eredi di Dio, coeredi di Cristo, cioè hanno ricevuto con Lui l’attuazione delle promesse fatte da Dio ad Abramo (Rm 4,13-17) di conseguenza essi parteciperanno alla stessa gloria che fin d’ora è propria del Figlio.
Ciò si realizza però a patto che sappiano soffrire con Lui, accettando cioè di passare attraverso le stesse sofferenze che hanno caratterizzato la Sua vita terrena.
Pur essendo giustificati, i credenti però non sono ancora arrivati alla meta finale, ma hanno davanti a sé un lungo cammino, che sarà caratterizzato da varie prove ed anche da sofferenze.
In questo brano Paolo cerca di collegare strettamente il ”già” e il “non ancora” della salvezza. I credenti in Cristo hanno già ricevuto il Suo Spirito, sono liberati dalla carne e sono già partecipi della nuova vita che Cristo ha portato con la Sua morte. Proprio in forza della loro unione con Cristo essi sono già diventati a tutti gli effetti figli di Dio. Per loro i tempi ultimi della salvezza sono già iniziati.


Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre.«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà
e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.
Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».
Gv 14, 15-16, 23b-26

Questo brano del Vangelo di Giovanni è ancora un’altra parte del discorso di addio rivolto da Gesù ai suoi discepoli durante l'ultima cena. Egli offre loro nuovi motivi per avere fiducia: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre”.
E’ la prima volta che nel vangelo di Giovanni, appare il termine greco: “Paraclito” che per sé significa “colui che si chiama a fianco (di qualcuno)”. E’ da notare che Gesù dice “un altro Paraclito” e lo dice quando sta per lasciare i Suoi discepoli, che non avranno più la consolazione della Sua presenza, e questo vuol dire che il primo Paraclito, il consolatore, è Gesù stesso e andandosene manderà un altro Paraclito che starà sempre con loro, presso di loro, in loro. In questo modo l'assenza di Gesù si trasforma in una presenza "nello Spirito”.
Gesù continua promettendo ancora "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui." Ossia Egli stesso con il Padre verrà ad abitare con chi lo ama e osserva la Sua parola.
La condizione che tutto questo avvenga è che vi sia la volontà da parte di ciascuno nell'aderire e nel seguire i Suoi insegnamenti. Gesù lo promette e la Sua non è una promessa di uomo, ma di Dio.
Gesù invita noi oggi, come i Suoi discepoli allora, ad osservare la Sua parola come dimostrazione del nostro amore per Lui. Se noi lo amiamo veramente desideriamo conoscerlo di più, e più lo conosciamo e più sentiamo di amarlo, è un cerchio di amore che si alimenta reciprocamente. Non dobbiamo pretendere che eventi straordinari (i miracoli) ci forzino a credere: Gesù stesso infatti disse "beati" quelli che senza aver visto crederanno. Noi non abbiamo visto e incontrato Gesù come i discepoli, ma lo Spirito ci aiuta a credere e a fidarci di Lui. Dobbiamo imparare a leggere gli eventi che accadono a noi e nel mondo con l’ottica di Dio: solo così potremo vedere nella storia la presenza dello Spirito che ha sostenuto e fatto crescere la comunità dei cristiani - la Chiesa - come se Gesù fosse stato presente. Questo dovrebbe alimentare la nostra speranza e la certezza che Dio continua ad agire cambiando anche il corso delle azioni, che se anche erano volte al male, con il tempo si tramutano in bene.

*****

“Oggi celebriamo la grande festa della Pentecoste, che porta a compimento il Tempo Pasquale, cinquanta giorni dopo la Risurrezione di Cristo.
La liturgia ci invita ad aprire la nostra mente e il nostro cuore al dono dello Spirito Santo, che Gesù promise a più riprese ai suoi discepoli, il primo e principale dono che Egli ci ha ottenuto con la sua Risurrezione. Questo dono, Gesù stesso lo ha implorato dal Padre, come attesta il Vangelo di oggi, che è ambientato nell’Ultima Cena. Gesù dice ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre» .
Queste parole ci ricordano anzitutto che l’amore per una persona, e anche per il Signore, si dimostra non con le parole, ma con i fatti; e anche “osservare i comandamenti” va inteso in senso esistenziale, in modo che tutta la vita ne sia coinvolta. Infatti, essere cristiani non significa principalmente appartenere a una certa cultura o aderire a una certa dottrina, ma piuttosto legare la propria vita, in ogni suo aspetto, alla persona di Gesù e, attraverso di Lui, al Padre.
Per questo scopo Gesù promette l’effusione dello Spirito Santo ai suoi discepoli. Proprio grazie allo Spirito Santo, Amore che unisce il Padre e il Figlio e da loro procede, tutti possiamo vivere la stessa vita di Gesù. Lo Spirito, infatti, ci insegna ogni cosa, ossia l’unica cosa indispensabile: amare come ama Dio.
Nel promettere lo Spirito Santo, Gesù lo definisce «un altro Paraclito», che significa Consolatore, Avvocato, Intercessore, cioè Colui che ci assiste, ci difende, sta al nostro fianco nel cammino della vita e nella lotta per il bene e contro il male. Gesù dice «un altro Paraclito» perché il primo è Lui, Lui stesso, che si è fatto carne proprio per assumere su di sé la nostra condizione umana e liberarla dalla schiavitù del peccato.
Inoltre, lo Spirito Santo esercita una funzione di insegnamento e di memoria. Insegnamento e memoria. Ce lo ha detto Gesù: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto». Lo Spirito Santo non porta un insegnamento diverso, ma rende vivo, rende operante l’insegnamento di Gesù, perché il tempo che passa non lo cancelli o non lo affievolisca.
Lo Spirito Santo innesta questo insegnamento dentro al nostro cuore, ci aiuta a interiorizzarlo, facendolo diventare parte di noi, carne della nostra carne. Al tempo stesso, prepara il nostro cuore perché sia capace davvero di ricevere le parole e gli esempi del Signore. Tutte le volte che la parola di Gesù viene accolta con gioia nel nostro cuore, questo è opera dello Spirito Santo.
Preghiamo ora insieme il Regina Caeli – per l’ultima volta quest’anno –, invocando la materna intercessione della Vergine Maria. Ella ci ottenga la grazia di essere fortemente animati dallo Spirito Santo, per testimoniare Cristo con franchezza evangelica e aprirci sempre più alla pienezza del suo amore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 maggio 2016

 

1 L'origine della festa di Pentecoste è ebraica e si riferisce allo Shavuot, celebrata sette settimane dopo la Pasqua ebraica. La festività era legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio sul Monte Sinai, dove Dio ha donato al popolo ebraico la Torah.

 

DavidTuroldo

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In questa domenica ricordiamo l’Ascensione del Signore che se anche è una festa di addio, paradossalmente non conosce lacrime e malinconia, perché Gesù lascia gli apostoli promettendo lo Spirito Santo che rende l’Ascensione, non una sparizione di Gesù in un mondo lontano, irraggiungibile, ma una vicinanza permanente nel cuore dei credenti.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli Gesù salendo al Padre conclude la Sua esistenza terrena. Con l’ascensione di Gesù, la Chiesa inizia la sua vicenda storica proprio con questa grande epifania del Cristo, il Signore e Salvatore risorto. Chi crede in Lui sa di vivere per mezzo di Lui nella Parola e nei sacramenti.
Nella seconda lettura, l’autore della Lettera agli Ebrei, ci dice che Gesù, vero e definitivo sommo sacerdote, è salito al cielo, per comparire davanti a Dio e intercedere in nostro favore. Egli ha realizzato così ciò che i riti del popolo ebreo compivano solo in figura. Il tempio era figura del cielo, il sacrificio con il sangue delle vittime doveva essere ripetuto ogni anno. Il sacerdote ogni anno, nella festa dell'Espiazione (Yom Kippur) offriva il sacrificio prima per i suoi peccati e poi per i peccati commessi dal popolo. Tutto questo viene superato dal sacrificio di Cristo sulla croce, che cancella il peccato e vale per tutti i secoli. Per questo motivo possiamo accostarci con fiducia al suo trono per chiedergli di donarci la sua salvezza.
Nel Vangelo di Luca sono riportati gli ultimi momenti della permanenza di Gesù con i Suoi discepoli. L’ultimo comando di Gesù ai Suoi discepoli, e da loro a noi oggi, è stato di andare in tutto il mondo e predicare il Vangelo a ogni creatura. La vera missione che oggi noi dobbiamo compiere, non è tanto di andare in tutto il mondo (non tutti hanno la capacità e le possibilità di farlo) ma è di annunciare il Vangelo al nostro piccolo mondo, a quello che ci circonda, quello che secondo le fasi della nostra vita, accostiamo. Forse sarà un mondo ancora più difficile di quello che si potrà trovare nella classica terra di missione, ma a quello siamo chiamati a dare la nostra testimonianza di credenti. Il Signore non ci chiede mai di scalare una montagna se prima non siamo in grado neanche di arrivare alla piccola altura del nostro cuore.

 

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Dagli Atti degli Apostoli
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella - disse - che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
At 1,1-11

In questo brano viene riportato il prologo degli Atti degli Apostoli e Luca lo inizia dedicando il suo libro a Teofilo,(la cui identità non è nota), lo stesso a cui aveva dedicato il suo Vangelo. Luca ricorda che nel suo primo racconto aveva già trattato di tutto quello “che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo”. Il gruppo dei Dodici, che dopo il tradimento di Giuda è ridotto a undici, viene così presentato fin dall’inizio come la cerchia degli intimi di Gesù, chiamati esplicitamente con l’appellativo di “apostoli”.
Dopo aver accennato all’ascensione di Gesù, Luca ci riporta al periodo precedente, affermando che Gesù è apparso agli apostoli per quaranta giorni.
Anche qui il numero 40 è un numero simbolico, che spesso è usato per indicare il tempo di preparazione a una particolare rivelazione divina (Mosè trascorre 40 giorni sul Sinai prima di ricevere le tavole dell’alleanza (Es 24,18), il popolo peregrina 40 anni nel deserto prima di giungere alla terra promessa (Nm 14,33), Elia cammina 40 giorni nel deserto verso il monte di Dio (1Re 19,8); nel giudaismo Esdra resta quaranta giorni con Dio quando gli sono consegnati i libri sacri (4Esd 14,23-45) e Baruc istruisce il popolo per quaranta giorni prima della sua assunzione in cielo (2Bar 76,1-4). Anche Gesù aveva trascorso 40 giorni nel deserto, digiunando, prima di iniziare la sua vita pubblica (Lc 4,1-2). Un tempo analogo è necessario agli apostoli per essere adeguatamente istruiti “con molte prove” circa il regno di Dio.
L’annunzio del regno di Dio era stato il programma di Gesù durante la Sua vita terrena, ora Egli lo affida agli apostoli e Luca si limita a riferire che egli ordinò loro di non lasciare Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre che essi avevano inteso da lui: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”. Il battesimo mediante lo Spirito santo viene inteso qui non come il rito cristiano che si sostituisce a quello del Battista, ma come il dono dello Spirito fatto alla nascente comunità cristiana nel giorno di Pentecoste. Come Gesù, all’inizio della Sua attività pubblica, ha ricevuto lo Spirito Santo in occasione del battesimo di Giovanni, così anche la Chiesa, all’inizio del suo cammino nel mondo, deve essere contrassegnata dalla presenza dello Spirito.
La domanda dei discepoli a Gesù: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele” dimostra che ancora non avevano compreso e pensavano che fosse ormai imminente il momento in cui i regni di questo mondo sarebbero stati distrutti e di conseguenza instaurata la sovranità di Dio mediante il popolo di Israele, come aveva profetizzato il profeta Daniele (7,27), ma Gesù risponde: “Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra”.
Anche per Gesù solo il Padre conosce i tempi in cui si attua il Suo progetto: ciò significa che l’instaurazione del regno non coincide con la fine del mondo perché in realtà il regno è già stato inaugurato da Gesù, ma dovrà passare ancora un lungo periodo di tempo prima della Sua venuta piena e definitiva.
Questo nuovo periodo, che inizierà appunto con la venuta dello Spirito Santo, sarà contrassegnato dalla testimonianza degli apostoli che si estenderà da Gerusalemme alla Giudea, alla Samarìa, fino agli estremi confini della terra.
Per Luca, Gerusalemme è il centro della salvezza, mentre gli estremi confini della terra sono il mondo dei pagani e in particolare Roma che, come capitale dell’impero romano, rappresenta, rispetto a Gerusalemme, l’estremo opposto del mondo.
In questo versetto, che delinea il progressivo espandersi del cristianesimo, Luca indica anche il piano della sua opera: egli intende narrare lo sviluppo dell’annunzio evangelico a Gerusalemme poi in Giudea e Samaria e infine, per mezzo di Paolo, in Anatolia e in Grecia.
Nel racconto dell’ascensione Luca si ispira anche a quanto scrive il profeta Daniele, che descrive l’apparizione, sulle nubi del cielo, di uno simile a un figlio di uomo, il quale si presenta davanti al trono di Dio e riceve potere, gloria e regno (Dn 7,13-14). Di questa scena nel racconto degli Atti rimane il particolare della nuvola, simbolo della manifestazione misteriosa di Dio, che sottrae Gesù dallo sguardo degli apostoli.
Come “figlio dell’uomo” Egli si presenta a Dio per ricevere il regno che si è acquistato con la Sua morte. Ma, contrariamente alle aspettative giudaiche, non è ancora venuto il momento della conclusione finale, infatti gli angeli annunziano che Egli dovrà ritornare un giorno “nello stesso modo” in cui i discepoli l’hanno visto andare in cielo. Sarà quello il momento della fine, nel frattempo gli apostoli non devono rimanere a guardare in cielo, come facevano coloro che ricevevano visioni apocalittiche (Dn 10,8), ma devono andare a svolgere la missione che è stata loro affidata, e da loro a tutta la Sua Chiesa, il Suo corpo mistico.
E proprio nell’impegno che noi oggi, Sua Chiesa, abbiamo di testimoniarlo, si sperimenta la Sua presenza, si scopre che Gesù non solo è venuto e verrà, ma che viene, oggi, nell’oggi di ognuno di noi, e lo colma di sé, della Sua gioia. La nostra testimonianza diviene allora indicazione di una presenza esperimentata, amata, e per questa ragione, comunicata.

Salmo 46 - Ascende il Signore tra canti di gioia.

Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
grande re su tutta la terra.
Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.

Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.

Il salmo è un inno festoso a Dio re dell’universo. Il salmo invita tutti i popoli ad applaudire il Signore. Dopo il momento terribile delle vittorie filistee e dei popoli della terra di Canaan, ecco la vittoria per Israele. La terra promessa sta per essere totalmente conquistata e Gerusalemme è stata sottratta ai Gebusei. Un corteo festante porta l’arca dentro la Città di Davide: “Ascende Dio tra le acclamazioni”.
La conquista della terra promessa, la presa di Gerusalemme sono solo una tappa di un disegno più ampio di Dio che riguarda tutti i popoli.
Israele ha visto come Dio ha posto ai suoi piedi le nazioni, e dunque nessuna nazione può resistergli.
Egli è “re di tutta la terra”. Il popolo di Abramo è come un germe chiamato ad attirare a sé i popoli. Il salmista vede profeticamente già attuato questo: “I capi dei popoli si sono raccolti come popolo del Dio di Abramo”. Questo avverrà per mezzo del futuro Messia, che produrrà la nuova ed eterna alleanza. Il segno della sua vittoria sarà la risurrezione, la sua salita al cielo - “ascende Dio tra le acclamazioni” -, il suo stare alla destra del Padre (Cf. Ps 110,1).
Commento tratto da Perfetta Letizia

La liturgia cattolica a causa del versetto “ascende Dio…” ha usato questo salmo per l’Ascensione del Cristo, mentre quella giudaica lo fa recitare sette volte prima che il corno dia il segnale inaugurale del nuovo anno. …
Al centro appare la figura monumentale del Signore re d’Israele, mentre tutt’attorno si odono suoni, voci, applausi: egli è: “altissimo, terribile, grande”. Si tratta di attributi che vogliono esaltare la trascendenza divina, il suo primato sull’essere, la sua onnipotenza.
Per un lettore cristiano il parallelo cristologico potrebbe essere la celebre pagina finale di Matteo in cui il Cristo risorto proclama:
“Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra…” 28,28
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi

Dalla lettera agli Ebrei
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.
Eb 9,24-28; 10,19-23

L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione. L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Bibbia, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se rimaste sconosciute. Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
Questo brano è tratto dalla parte centrale della lettera , in cui si affronta il tema del sacerdozio e del sacrificio di Cristo, in particolare descrive l’efficacia del suo sacerdozio in quanto esso si configura come un ingresso nel santuario celeste. L’autore inizia affermando:
“Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.”
Cristo sommo sacerdote, non è entrato nel tempio fatto dagli uomini, ma in quello vero, cioè al cospetto di Dio. Il tempio di Gerusalemme era solo una figura della corte celeste. Gesù è comparso davanti al Dio dell'universo per intercedere a nostro favore. Dal giorno dell‘ascensione Egli è davanti al trono di Dio, nel Suo corpo glorioso e parla di noi al Padre.
“E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: “
la Sua offerta ha valore perenne, non deve perciò essere ripetuta ogni anno come invece dovevano fare i sacerdoti a Gerusalemme. Inoltre Gesù non ha presentato l'offerta di animali per il sacrificio, ma Lui stesso è stato immolato e offerto, come vero agnello pasquale.
“in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso”.
Qui viene chiarito meglio l’aspetto definitivo del sacrificio di Cristo. Egli non deve offrire più volte se stesso perché il Suo sacrificio non ha semplicemente impetrato il perdono dei peccati, bensì ha annullato del tutto il peccato.
“E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio”
Anche per gli uomini vi è un evento definitivo e irreversibile, quello della morte. Dopo la morte avviene il giudizio, la valutazione di quanto di bene una persona ha fatto durante la sua vita terrena.
“così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l'aspettano per la loro salvezza.”
Gesù tornerà una seconda venuta nel mondo. Egli che si è offerto una sola volta per annullare il peccato, tornerà una seconda volta nella gloria; uscirà di nuovo dal santuario celeste, quando verrà a noi, non per morire, ma per salvare coloro che l’aspettano per essere ammessi nel Suo Regno.
Nei versetti (10,1-18) che il brano non riporta, l'autore riprende il paragone tra i sacrifici del culto ebraico e il sacrificio di Cristo, ricordando soprattutto che Gesù ha offerto il proprio corpo e non quello degli animali sacrificali.
Poi prosegue: “Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù,”
Grazie al sacrificio di Cristo ora abbiamo la possibilità anche noi di entrare nel santuario celeste. Il sangue che ci ha donato questa libertà non è più il sangue degli animali, ma il sangue di Cristo.
“via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne”
Cristo è una via nuova e vivente. Si può trovare riferimento alle parole di Gesù in Gv 14,6: Io sono la via, la verità e la vita, e questa via è stata tracciata attraverso il velo della Sua carne.
Il velo era la tenda che separava il luogo più sacro del tempio, il Santo dei Santi dove era conservata l'arca, dal resto del santuario. Al di là del velo potevano andarci solo i sacerdoti, in occasioni particolari. Con Cristo questa separazione è stata superata e chiunque può accostarsi alla gloria di Dio. Il corpo di carne di Cristo era il velo che non ci permetteva di vedere la Sua divinità. Ora con la morte di Gesù il velo è stato squarciato (Mt 27,51) e il tempio è diventato accessibile a tutti.
“e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio,”
Possiamo entrare nel santuario di Dio, non c'è più il velo che ci impediva l'ingresso. Nel santuario troveremo anche un grande sacerdote che ci aspetta solo per accoglierci, darci grazia e salvezza.
“accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura” .
Per entrare è necessario però avere alcuni requisiti: un cuore sincero, cioè il puro desiderio di accostarsi a Dio.
L'autore poi ricorda i tre elementi classici: fede, speranza e carità (V. 24) La fede è necessaria per fondare su Dio la nostra vita. Ci vuole un cuore purificato e un corpo lavato, elementi caratteristici del Battesimo. Per presentarsi a Dio è necessario credere in Lui e aver cominciato un cammino di conversione e di vita nuova.
“Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso”.
Oltre alla fede, importante per la vita cristiana è la speranza, la fede rivolta al futuro, il sapere che Dio sarà fedele alle Sue promesse.
La comunità, a cui scrive l'autore della Lettera agli Ebrei, era alquanto scoraggiata a causa della persecuzione e del prolungarsi dei tempi di attesa per la venuta del Signore. L'autore riafferma così che il Signore è degno di fede e realizzerà le Sue promesse.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Lc 24: 46-53

Luca chiude il suo Vangelo narrando l’ascensione di Gesù e apre l’altra sua opera, gli Atti degli Apostoli, raccontando ancora per la seconda volta l’ascensione di Gesù. Sembra voler dire che l'Ascensione, se da una parte indica la chiusura della vita pubblica di Gesù, dall'altra vuol evidenziare una Sua presenza più profonda nella vita dei discepoli tanto da essere l'inizio, quasi il fondamento, di tutta la storia seguente della Chiesa.
Il brano inizia riportando le ultime istruzioni di Gesù agli apostoli:
«Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno,
Gesù sa che si sta congedando dai suoi discepoli e ricorda l’annuncio della sua passione, l’annuncio della sua Pasqua: il Gesù che ha patito è il Gesù che è risuscitato. Questo dobbiamo sempre tenerlo in mente: non c’è risurrezione senza passione e non c’è passione senza risurrezione.
“e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati,” cominciando da Gerusalemme”. Nel nome cioè di Colui che ha patito ed è risuscitato dai morti il terzo giorno, proprio in virtù di quel nome saranno predicate a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme, che è il punto centrale e l’annuncio non può che cominciare da Gerusalemme. La permanenza a Gerusalemme, cioè nei luoghi della Pasqua, è garanzia per non fallire.
È da lì che si comincia ed è lì che bisogna ritornare.
“Di questo voi siete testimoni.” Il Signore Gesù impegna i suoi apostoli a proclamare il suo vangelo a tutti i popoli, per invitarli alla conversione e alla fede. Perciò i credenti debbono rendere testimonianza al Cristo risorto non solo con la vita ma anche con la parola, con l’annuncio del vangelo.
“Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».
Le promesse di Gesù non vengono meno. Lui se ne va, ma non lascia orfani i suoi amici. La promessa del Padre e la “potenza dall’alto” indicano la persona dello Spirito Santo.
“Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse”..Il gesto di saluto di Gesù è un dono. Dio non si allontana dai suoi, semplicemente si sottrae ai loro sguardi per apparire in altra veste.
“Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”
La separazione finale di Gesù risorto dai suoi discepoli è avvenuta in un contesto di benedizione. La benedizione dei discepoli richiama il passo del Levitico (9,22) dove è narrato che “Aronne, alzate le mani verso il popolo, lo benedisse”. Probabilmente Luca si è ispirato a questo, per cui Gesù risorto viene presentato come il sommo Sacerdote che benedice il suo popolo, prima di separarsi per colmarlo della Sua grazia divina. Gesù si allontana dai suoi discepoli fisicamente perché sale al cielo, ma la Sua benedizione e la Sua presenza rimangono in mezzo alla Sua comunità.
“Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio”.
Quel giorno i discepoli hanno sperimentato che il Signore era ormai definitivamente accanto a loro, con la Sua Parola e il Suo Spirito; una vicinanza certo più misteriosa ma ancora più reale di prima. Avranno compreso fino in fondo ciò che Gesù aveva detto loro “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.(Mt 18,20)
Da quel momento in poi la presenza di Gesù sarebbe stata ancor più ampia nello spazio e nel tempo; per sempre avrebbe accompagnato i discepoli, dovunque e comunque. Di qui il motivo della grande gioia. Nessuno al mondo avrebbe ormai potuto allontanare Gesù dalla loro vita.
La gioia dei discepoli, ora è anche nostra, perché possiamo vivere quel che loro sperimentarono.
“Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!” asserisce l’autore della Lettera agli Ebrei, (13,8) e niente è più vero di questo! Gesù non tradisce mai, è sempre pronto a sorreggere chi lo invoca, anche l’ultimo degli uomini … non esiste un peccato così grave che la Sua misericordia non possa perdonare. “
L’Ascensione di Gesù in Cielo crea un rapporto diretto tra noi e Dio, perché stabilisce tra Lui e le creature umane un rapporto personale e nello stesso tempo anche un rapporto di fiducia perché affida a ciascuno di noi (come a ciascun apostolo) il compito di annunciare e vivere la salvezza –rinnovamento “fino agli estremi confini della terra”.

 

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“Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra l’Ascensione di Gesù al cielo, avvenuta quaranta giorni dopo la Pasqua. Contempliamo il mistero di Gesù che esce dal nostro spazio terreno per entrare nella pienezza della gloria di Dio, portando con sé la nostra umanità. Cioè noi, la nostra umanità entra per la prima volta nel cielo.
Il Vangelo di Luca ci mostra la reazione dei discepoli davanti al Signore che «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». Non ci furono in essi dolore e smarrimento, ma «si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia». È il ritorno di chi non teme più la città che aveva rifiutato il Maestro, che aveva visto il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro, aveva visto la dispersione dei discepoli e la violenza di un potere che si sentiva minacciato.
Da quel giorno per gli Apostoli e per ogni discepolo di Cristo è stato possibile abitare a Gerusalemme e in tutte le città del mondo, anche in quelle più travagliate dall’ingiustizia e dalla violenza, perché sopra ogni città c’è lo stesso cielo ed ogni abitante può alzare lo sguardo con speranza. Gesù, Dio, è uomo vero, con il suo corpo di uomo è in cielo! E questa è la nostra speranza, è l'ancora nostra, e noi siamo saldi in questa speranza se guardiamo il cielo.
In questo cielo abita quel Dio che si è rivelato così vicino da prendere il volto di un uomo, Gesù di Nazareth. Egli rimane per sempre il Dio-con-noi – ricordiamo questo: Emmanuel, Dio con noi – e non ci lascia soli! Possiamo guardare in alto per riconoscere davanti a noi il nostro futuro. Nell’Ascensione di Gesù, il Crocifisso Risorto, c’è la promessa della nostra partecipazione alla pienezza di vita presso Dio.
Prima di separarsi dai suoi amici, Gesù, riferendosi all’evento della sua morte e risurrezione, aveva detto loro: «Di questo voi siete testimoni» . Cioè i discepoli, gli apostoli sono testimoni della morte e della risurrezione di Cristo, in quel giorno, anche dell’ Ascensione di Cristo. E in effetti, dopo aver visto il loro Signore salire al cielo, i discepoli ritornarono in città come testimoni che con gioia annunciano a tutti la vita nuova che viene dal Crocifisso Risorto, nel cui nome «saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati» .
Questa è la testimonianza – fatta non solo con le parole ma anche con la vita quotidiana – la testimonianza che ogni domenica dovrebbe uscire dalla nostre chiese per entrare durante la settimana nelle case, negli uffici, a scuola, nei luoghi di ritrovo e di divertimento, negli ospedali, nelle carceri, nelle case per gli anziani, nei luoghi affollati degli immigrati, nelle periferie della città… Questa testimonianza noi dobbiamo portare ogni settimana: Cristo è con noi; Gesù è salito al cielo, è con noi; Cristo è vivo!
Gesù ci ha assicurato che in questo annuncio e in questa testimonianza saremo «rivestiti di potenza dall’alto», cioè con la potenza dello Spirito Santo. Qui sta il segreto di questa missione: la presenza tra noi del Signore risorto, che con il dono dello Spirito continua ad aprire la nostra mente e il nostro cuore, per annunciare il suo amore e la sua misericordia anche negli ambienti più refrattari delle nostre città. È lo Spirito Santo il vero artefice della multiforme testimonianza che la Chiesa e ogni battezzato rendono nel mondo. Pertanto, non possiamo mai trascurare il raccoglimento nella preghiera per lodare Dio e invocare il dono dello Spirito. In questa settimana, che ci porta alla festa di Pentecoste, rimaniamo spiritualmente nel Cenacolo, insieme alla Vergine Maria, per accogliere lo Spirito Santo. “
Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’8 maggio 2016

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Mercoledì, 18 Maggio 2022 16:41

VI Domenica di Pasqua - Anno C - 22 maggio 2022

In questa sesta domenica di Pasqua, la liturgia ci propone delle letture che ci presentano tre aspetti diversi della Chiesa
Un aspetto lo troviamo nella prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, che contiene un documento sintetico che raccoglie il dibattito del primo Concilio celebrato a Gerusalemme, (che ebbe luogo intorno al 49) convocato per risolvere la spinosa questione dell’accoglienza diretta dei pagani nella comunità cristiana senza passare attraverso le pratiche giudaiche.
Un altro aspetto è presente nella seconda lettura, tratta dal Libro dell’Apocalisse, in cui la Gerusalemme nuova, immagine della comunità di fede, risplende della luce e della gloria che scaturiscono dalla grazia del Signore risorto.
L’ultimo aspetto lo troviamo nel passo del Vangelo di Giovanni, che come di consueto, in questo periodo pasquale è preso dai discorsi di Gesù nell’ultima cena. Gesù manifesta il Suo amore concreto verso i discepoli, e attraverso di loro, verso tutti coloro che crederanno nel Suo nome, mediante il dono dello Spirito Santo che è la Sua stessa vita. Coloro che credono in Lui, animati da questo Spirito, potranno vivere con amore nel loro quotidiano, le parole e i gesti del Signore e testimoniarlo. Sarà proprio lo Spirito a guidarli verso la nuova Gerusalemme, venuta dal Cielo, da Dio, figura e immagine della Chiesa nel tempo, in cammino verso l’eternità, città che non ha un tempio, perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello, sono il suo tempio.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione.
Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiàchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo.
Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose.
State bene!».
At 15,1-2.22-29

Questo brano, tratto dal capitolo 15 rappresenta il punto di svolta nella narrazione degli Atti e ci dà il resoconto del primo Concilio convocato a Gerusalemme intono all’anno 50 e costituisce la terza parte degli Atti. Dal cap.16 in poi, Luca si concentrerà unicamente sui viaggi missionari di Paolo fino al suo arrivo a Roma.
Nel brano si fa riferimento a una grave crisi che ha scosso la Chiesa primitiva. Da Luca sappiamo infatti che siccome ad Antiochia non tutti erano d’accordo sul fatto che i pagani potevano essere ammessi nella Chiesa senza ricevere la circoncisione, Paolo e Barnaba furono inviati a Gerusalemme per consultare gli apostoli. Anche lì esplode però la polemica; allora tutta la comunità, con gli apostoli e gli anziani si raduna per discutere il problema.
Il modo pacato con cui Luca descrive il conflitto nell’assemblea di Gerusalemme, che ha visto contrapporsi i due gruppi della Chiesa primitiva, separate proprio dal modo di annunziare il messaggio di Gesù in un ambiente diverso da quello giudaico, è comprensibile solo se si tiene conto che, quando egli scrive, questo conflitto si è ormai risolto. A Luca interessa spiegare che il Concilio di Gerusalemme, è stato una grande svolta nella storia della Chiesa, per cui non si ferma alla cronaca pura e semplice degli avvenimenti, ma rilegge le informazioni che gli sono pervenute alla luce della sua visione delle origini cristiane. La sua prospettiva è quella propria delle chiese sorte nel mondo greco, le quali, pur non osservando le prescrizioni della legge mosaica, si ritengono tuttavia le legittime continuatrici della Chiesa madre di Gerusalemme, la prima testimone della morte e risurrezione di Cristo.
Luca vuole così dimostrare che, se è vero che il centro di diffusione di una Chiesa ormai in continua crescita è stata la comunità di Antiochia, tuttavia Gerusalemme rimane sempre la Chiesa madre che, vincendo le proprie resistenze, ha dato il via all’evangelizzazione dei pagani, autorizzandone l’ammissione nella comunità senza l’obbligo della circoncisione.
In questa prospettiva la missione di Paolo, mediante la quale il cristianesimo si è esteso fino a Roma, appare non tanto come l’iniziativa personale del grande apostolo, ma come l’assenso cosciente della Chiesa Madre di Gerusalemme.
Nota: La formula di accordo del Concilio di Gerusalemme riportata dagli Atti dimostra, comunque, che il problema venne superato solo in parte, perché di fatto una divisione perdurò e se ne trova traccia nella maggior parte delle lettere di Paolo, nelle quali risalta la sua continua lotta contro le problematiche create nelle Chiese dai cristiani giudaizzanti.

Salmo 66 - Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti.
Dio abbia pietà di noi e ci benedica,
su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via,
la tua salvezza fra tutte le genti.

Gioiscano le nazioni e si rallegrino,
perché tu giudichi i popoli con rettitudine,
governi le nazioni sulla terra.

Ti lodino i popoli, o Dio,
ti lodino i popoli tutti.
Ci benedica Dio e lo temano
tutti i confini della terra.

Il salmista presenta come Dio abbia benedetto il suo popolo con un raccolto abbondante: “La terra ha dato il suo frutto”. Ma questo non chiude il salmista nell’appagamento dei beni dati dalla terra, poiché egli manifesta, fin dall’inizio del salmo, il desiderio di un ben più alto dono: quello della presenza del Messia. Per tale presenza il popolo sarà rinnovato e si avrà che tutti i popoli giungeranno a conoscere il vero Dio e a lodarlo: “Su di noi faccia splendere il suo volto; perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti ”. Il salmista conclude il salmo ripresentando il suo desiderio dei tempi messianici: “Ci benedica Dio; il nostro Dio, ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra”.
Noi, in Cristo, desideriamo vivamente una terra rinnovata dalla conoscenza di Cristo e dall’azione del suo Spirito, e dobbiamo, nella viva appartenenza alla Chiesa, adoperarci incessantemente per questo.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dal Libro dell’Apocalisse di S. Giovanni Apostolo
L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino.
È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte.
Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.
In essa non vidi alcun tempio:
il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello
sono il suo tempio.
La città non ha bisogno della luce del sole,
né della luce della luna:
la gloria di Dio la illumina
e la sua lampada è l’Agnello.
Ap 21,10-14. 22-23

Questo brano riporta la parte finale dell’Apocalisse che ci descrive in modo particolareggiato la Città Santa, la Gerusalemme nuova, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
La visione di Giovanni inizia così: “L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio.”
Il monte è stato sempre considerato il luogo di maggiore vicinanza a Dio. Ed è da Dio che scende la città.
La città è l'espressione visibile del popolo che vi abita, ma mentre le città della terra sono sempre imperfette, la città di Dio dell'Apocalisse è perfetta, è il luogo dove dimora il popolo di Dio nella sua pienezza. Rispecchia il suo ordine interno, la sua ricchezza, la sua gloria, la sua felicità, la sua relazione con Dio e la sua inesprimibile unione con Cristo. Il modello della città di Dio è Gerusalemme, la città della pace, il centro della storia della salvezza dell'Antico Testamento. Sulla terra ha trovato compimento nella Chiesa, in cui Cristo continua a vivere e ad agire.
“Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino”.
La città è splendente come una gemma preziosa, ma la pietra se non viene illuminata non può mostrare il suo splendore. (E’ strano che come paragone si porti il diaspro che di per sé è una pietra opaca)
“È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.”
La città è cinta da grandi e alte mura con dodici porte che delimitano lo spazio in cui abitano al sicuro i suoi abitanti. Le porte indicano il movimento di entrata e uscita. Gli angeli che erano stati messi a guardia del paradiso perduto, ora stanno alle porte come guardia d'onore di Dio. Il numero dodici esalta le dodici tribù della prima Alleanza e i dodici Apostoli della seconda Alleanza, con i loro nomi scritti su dodici basamenti. Le misure (che non vengono riportate in questo brano) sono enormi e certamente simboliche. I materiali da costruzione, naturalmente anch’essi simbolici parlano di oro (il metallo divino) e di pietre preziose, dodici delle quali sono alle fondamenta della città santa. Tutto il resto della descrizione dalle mura di diaspro, alle porte di perle, ecc., indica uno splendore estremo.
Già il profeta Ezechiele aveva descritto il piano architettonico della città santa. Qui viene completato. Il numero 12 che si ripete significa la misura piena raggiunta dal mondo chiamato alla salvezza.
“In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio.”
La particolarità di questa città è il fatto che non vi è alcun tempio. Ormai la presenza del Signore è ovunque e non c'è più bisogno di cercare di incontrare il Signore in un luogo definito e neanche in un tempo particolare. I beati non sono più legati alle ore di lavoro e di riposo, loro unica occupazione è adorare il Signore e stare con Lui.
“La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello”. L'ordine delle cose è completamente cambiato, non vi è più giorno e notte, il sole e la luna non hanno più motivo di esistere. Tutto viene illuminato dallo splendore che viene da Dio: l'Agnello, cioè Cristo, è la sua lampada. E' attraverso di Lui che si può godere della gloria di Dio.
San Paolo diceva che noi siamo il tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in noi (v.1^Cor 3,16 ) e un altro suo commento che può adattarsi a questa descrizione potrebbe essere: “voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti,” Ef 2.19-20)
.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.
Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».
Gv 14,23-29

Questo brano è la parte finale del discorso di addio rivolto da Gesù ai suoi discepoli durante l'ultima cena il cui inizio l’abbiamo meditato la scorsa domenica. Gesù, annunciando la Sua morte imminente, aveva assicurato che un giorno sarebbe ritornato. Ora invece parla del modo in cui i discepoli potranno continuare a gioire della Sua amicizia e della Sua presenza in questo periodo di separazione. Il discorso quindi non è più diretto ai discepoli presenti nel cenacolo, ma a quelli di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Gesù infatti non usa più il voi, ma parla in modo impersonale: " Se uno mi ama, osserverà la mia parola …chi non mi ama, non osserva le mie parole…” Gesù rivendica per sé, per la prima volta, il sentimento più importante del mondo umano: l'amore, ed entra nella nostra parte più intima e profonda con estrema delicatezza. Tutto poggia su quel “se”.
«Se mi ami osserverai la mia parola…»… Gesù lo dice oggi ad ognuno di noi e non esprime un ordine, ma ci dà la possibilità di scegliere liberamente. E’ il rispetto che ha Dio, che bussa alla porta del nostro cuore e attende pazientemente la nostra risposta.
Poi Gesù continua : “Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.”
I discepoli potranno capire ciò che Gesù dice solo con l'intervento del Paraclito, il Consolatore, cioè lo Spirito Santo. E' grazie al Paraclito mandato dal Padre che i discepoli potranno penetrare in pieno il senso della Parola di Gesù.
Al termine del suo discorso, Gesù ritorna al momento presente, ai suoi discepoli da cui sta per separarsi, dicendo loro:”Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore”.
Lasciando i discepoli, Gesù non augura loro la pace, ma gliela dà in dono, come Sua eredità. La pace che Egli dona è molto diversa da quella che gli uomini si augurano e tentano di realizzare.
Non a caso Giovanni nel suo vangelo parla di pace solo nel contesto della passione e della risurrezione. Il dono della pace viene annunciato all'inizio della passione e si realizza nell'incontro di Gesù risorto con i discepoli nel cenacolo. Si tratta di un vero dono che viene solo da Dio, è solo opera di Dio che dona ai discepoli come segno della Sua presenza.
L’invito dunque rivoltoci da Gesù in questa ultima domenica di Pasqua è di credere alla Sua presenza in mezzo a noi, una presenza silenziosa, discreta, ma anche reale ed efficace. Una presenza capace di consolarci in ogni situazione della nostra vita.

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“Il Vangelo di questa VI domenica di Pasqua ci presenta un brano del discorso che Gesù ha rivolto agli Apostoli nell’Ultima Cena . Egli parla dell’opera dello Spirito Santo e fa una promessa: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» . Mentre si avvicina il momento della croce, Gesù rassicura gli Apostoli che non rimarranno soli: con loro ci sarà sempre lo Spirito Santo, il Paraclito, che li sosterrà nella missione di portare il Vangelo in tutto il mondo. Nella lingua originale greca, il termine “Paraclito” sta a significare colui che si pone accanto, per sostenere e consolare. Gesù ritorna al Padre, ma continua ad istruire e animare i suoi discepoli mediante l’azione dello Spirito Santo.
In che cosa consiste la missione dello Spirito Santo che Gesù promette in dono? Lo dice Lui stesso: «Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». Nel corso della sua vita terrena, Gesù ha già trasmesso tutto quanto voleva affidare agli Apostoli: ha portato a compimento la Rivelazione divina, cioè tutto ciò che il Padre voleva dire all’umanità con l’incarnazione del Figlio. Il compito dello Spirito Santo è quello di far ricordare, cioè far comprendere in pienezza e indurre ad attuare concretamente gli insegnamenti di Gesù. E proprio questa è anche la missione della Chiesa, che la realizza attraverso un preciso stile di vita, caratterizzato da alcune esigenze: la fede nel Signore e l’osservanza della sua Parola; la docilità all’azione dello Spirito, che rende continuamente vivo e presente il Signore Risorto; l’accoglienza della sua pace e la testimonianza resa ad essa con un atteggiamento di apertura e di incontro con l’altro.
Per realizzare tutto ciò la Chiesa non può rimanere statica, ma, con la partecipazione attiva di ciascun battezzato, è chiamata ad agire come una comunità in cammino, animata e sorretta dalla luce e dalla forza dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. Si tratta di liberarsi dai legami mondani rappresentati dalle nostre vedute, dalle nostre strategie, dai nostri obiettivi, che spesso appesantiscono il cammino di fede, e porci in docile ascolto della Parola del Signore. Così è lo Spirito di Dio a guidarci e a guidare la Chiesa, affinché di essa risplenda l’autentico volto, bello e luminoso, voluto da Cristo.
Il Signore oggi ci invita ad aprire il cuore al dono dello Spirito Santo, affinché ci guidi nei sentieri della storia. Egli, giorno per giorno, ci educa alla logica del Vangelo, la logica dell’amore accogliente, “insegnandoci ogni cosa” e “ricordandoci tutto ciò che il Signore ci ha detto”. Maria, che in questo mese di maggio veneriamo e preghiamo con devozione speciale come nostra madre celeste, protegga sempre la Chiesa e l’intera umanità. Lei che, con fede umile e coraggiosa, ha cooperato pienamente con lo Spirito Santo per l’Incarnazione del Figlio di Dio, aiuti anche noi a lasciarci istruire e guidare dal Paraclito, perché possiamo accogliere la Parola di Dio e testimoniarla con la nostra vita.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 26 maggio 2019

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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