Dove siamo:
Vedi sulla carta
S.Messe (settimana)
9:00  18:30

KRZYZ

Elena Tasso

Elena Tasso

Nelle letture che la Liturgia di questa IV domenica di Quaresima ci propone, possiamo scorgere numerosi motivi di gioia.
Nella prima lettura nel brano tratto dal secondo libro delle Cronache, leggiamo che Dio, dopo aver punito Israele con l’esilio per le sue numerose infedeltà, dopo 70 anni vuole recuperare il suo popolo e attraverso un re straniero, Ciro re di Persia, farà ritornare i deportati in patria.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Efesini, l’apostolo Paolo, pone in risalto l’immenso amore di Dio che si è manifestato in Cristo, e la nostra partecipazione alla sua vita mediante la fede e il Battesimo.
Nel Vangelo di Giovanni meditiamo sull’incontro di Gesù con Nicodemo, un importante membro del Sinedrio, dottore della Legge, che attratto dalla figura di Gesù, ma per timore dei giudei, si reca da Lui di notte per interrogarlo. Emerge dalla risposta che Gesù gli dà, la frase più importante e consolante di tutta la Bibbia: Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna.

Dal secondo libro delle Cronache
In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio.
Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni».
Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».
2Cr 36,14-16.19-23

I due Libri delle Cronache, (testi anche contenuti nella Bibbia ebraica) la cui redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata attorno al 330-250 a.C. in Giudea, ripropongono molte delle vicende già narrate nei due Libri di Samuele e nei due Libri dei Re. Non si tratta però di una pura e semplice riedizione, come potrebbe apparire a prima vista. Questi libri appartengono infatti alla tradizione deuteronomistica, mentre l'autore di questi due libri, definito il Cronista, appartiene alla cosiddetta Tradizione Sacerdotale, la stessa del primo capitolo della Genesi;il Cronista non si limita ad esporre i fatti, ma seleziona e rielabora i dati allo scopo di esaltare principalmente il Tempio ed il Culto in Gerusalemme, intesa come il cuore stesso della fede e dell'identità di Israele come popolo.
In questo brano, (parallelo a 2Re 25,27-30), ci viene raccontato che tutto il popolo di Israele si era dato ad ogni infedeltà e abominio, tanto che il Signore, nella Sua immensa bontà, mandò i profeti, come Geremia e Baruc, “ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo”, ma “essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine”. I profeti hanno sempre avuto vita difficile per il loro compito scomodo, quello cioè di portare alla luce del sole le cose malvagie, e chi fa il male ama più le tenebre che la luce!
Arrivarono, come predissero i profeti, i nemici “incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.” La rovina fu grande, e gli abitanti che non furono uccisi, furono deportati in Babilonia. Si attuava “così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni»”. Vi rimasero schiavi infatti per 70 anni e solo quando, ispirato dallo Spirito del Signore, venne Ciro re di Persia, poterono essere liberi e tornare alla propria terra.
La situazione descritta è quella della infedeltà del popolo e dei sacerdoti del tempio, e come potremmo dire noi oggi - un dilagare sempre più esteso della secolarizzazione con l'abbandono della pratica religiosa. Il tempio era ormai diventato un container vuoto, con riti sempre più formali e abitudinari. La relazione con Dio era sterile, la Legge, ogni riferimento alla Parola di Dio, ormai dimenticata! La Scrittura, come noi la conosciamo, ancora non c'era ed era affidata alla "tradizione orale" della Parola e la sua memoria si era ormai affievolita. E’ facile fare confronti con i nostri giorni, perchè la storia si ripete e noi dovremmo essere in grado di capire, fare un'analisi del presente per riuscire a comprendere che l'intento di Dio non è mai stato il castigo, ma la conversione e la vita e il bene del suo popolo

Salmo 136 - Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia.
Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo
e piangevamo ricordandoci di Sion.
Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.

Perché là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
allegre canzoni, i nostri oppressori:
«Cantateci canti di Sion!».

Mi si attacchi la lingua al palato
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non innalzo Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.

Questo salmo presenta un Giudeo, che, subito dopo il ritorno dall'esilio di Babilonia, ricorda le sofferenze subite in schiavitù, e si vincola ad una fermissima speranza nella ricostruzione di Gerusalemme, pur in mezzo alle ostilità dei popoli vicini, tra i quali gli Edomiti: (L'elenco dei popoli forniti dal libro di Esdra (9,1) non è quello preciso del tempo, ma è un'inserzione postuma che si rifà a Dt 7,1).
L'orante presenta il pianto degli esiliati, le umiliazioni, la determinazione con la quale appesero le cetre ai salici, vincolandosi di non cantare mai davanti agli oppressori i Canti di Sion. Lo scherno, l'insulto, l'attentato alla fede, sono espressi in maniera estremamente efficace: “Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato...”.
Poi, di fronte alla tentazione di tanti di imparentarsi con popoli stranieri per via di matrimoni (Esd 9,1.12; Nm 9,2), l'orante afferma che, dopo aver provato tanto dolore in terra straniera, non potrebbe pensare di cantare i Canti di Sion fuori della Palestina, e dimenticando Gerusalemme: “Mi si attacchi la lingua al palato (...) se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia”.
L'orante ricorda quanto con vile crudeltà fece Edom, già conquistato da Nabucodonosor, nel pieno della distruzione di Gerusalemme:”<spogliatela, spogliatela="" fino="" alle="" sue="" fondamenta="">”, e invoca su di lui la giustizia divina. La “Figlia di Babilonia” è Bozra, la città principale di Edom (Cf. Is 34,6; 63,1; Ger 48,24; 49,13s; Am 1,12). Su questa città il salmista invoca una distruzione vendicativa: “Beato chi ti renderà quanto ci hai fatto...”.
Commento di P.Paolo Berti
Questo salmo ha ispirato il coro del Nabucco ed è stato anche ripreso dal poeta Salvatore Quasimodo nell’opera poetica “Giorno dopo giorno”.

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.
Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo. Ef 2,4-10

La Lettera agli Efesini, come le lettere ai Filippesi, ai Colossesi e a Filemone, formano il gruppo delle “Lettere della prigionia” poiché Paolo, a cui viene attribuita, afferma d’essere appunto “prigioniero”. L’Apostolo fu una prima volta ad Efeso (Atti degli Apostoli 18, 19-22) e vi soggiornò (At 18,23-20) ancora durante il suo secondo viaggio missionario, allargando in questo modo il suo raggio d’azione pastorale.
Questa lettera che Paolo avrebbe scritto durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62, è centrata sull'ecclesiologia e sul rapporto di riconciliazione in Cristo tra Giudei e pagani.
Nel primo capitolo nell'inno Cristologico, l’Apostolo ha ricordato la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e alla ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. Ora nel capitolo secondo egli scende nei particolari e ricorda la miserevole situazione di quanti erano schiavi del peccato e della morte.
In questo brano l’Apostolo inizia affermando:”Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati”. Dio è ricco di misericordia.! Questo concetto si trova spesso nell'Antico Testamento (Es 34,6). E’ Dio il primo protagonista della nostra rinascita e Cristo è il secondo. Con Lui siamo stati riportati in vita, dopo che il peccato ci aveva portato alla morte. Il movente è sempre la grazia di Dio, il Suo amore gratuito. I terzi protagonisti siamo noi, morti e riportati in vita.
“Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù “
L'accento è posto sulla solidarietà salvifica che ha due aspetti: uno con Cristo, fonte e ragione del nuovo stato di salvati, l'altro con i cristiani provenienti dai gruppi distinti: ebrei e pagani. Cristo dunque non solo ci ha salvato dalla morte e dal peccato, ma ci ha reso partecipi della Sua gloria.
“per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù”. Questa straordinaria verità rifulge per tutti i secoli ed è frutto della bontà di Dio che si è riversata su tutti noi.
“Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio”;
Paolo ribadisce che la vera fonte di tutta questa bellezza è la bontà gratuita di Dio, alla quale possiamo accedere grazie alla fede. Non è un'opera umana, è solo un dono di Dio.
“né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene”. Qui si può osservare un certo tono polemico indirizzato ad alcune teorie filosofiche che gli Efesini ben conoscevano, le quali sostenevano che esercitando delle virtù si poteva arrivare alla pienezza di vita. I cristiani non possono vantarsi delle buone opere che riescono a compiere, perchè non è per merito loro se le possono realizzare. Nell'economia della salvezza del Vangelo non sono le opere buone che portano alla salvezza, ma l'amore gratuito di Dio.
“Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo”.

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Gv 3,14-21

In questo brano del suo Vangelo, Giovanni ci racconta che Gesù dopo essere tornato a Gerusalemme, in occasione della Pasqua, dopo l’episodio della purificazione del tempio, trovandosi ancora a Gerusalemme, riceve la visita notturna di Nicodemo, un fariseo, capo dei giudei e dottore della legge.
Nicodemo è un profondo conoscitore della Sacra Scrittura e della Legge, ha quindi una vasta cultura, ma gli manca qualcosa, per questo sente il bisogno assoluto di andare da Gesù, sente che in quel giovane Rabbi di Nazareth c’è qualcosa di misterioso, percepisce dal profondo del cuore che c’è in Lui qualcosa di più grande, qualcosa che va oltre.
Nei versetti non riportati dal brano liturgico leggiamo che Nicodemo non pone a Gesù una domanda precisa, ma si limita a riconoscere che Egli è un maestro venuto da Dio, in quanto “nessuno può fare i segni che lui fa, se Dio non è con lui” (v. 2,23): indirettamente però egli chiede quale sia la via giusta per arrivare a Dio.
Gesù non risponde alla domanda di Nicodemo, ma imposta lui stesso il discorso e gli dice qualcosa che lui, Nicodemo, non avrebbe mai potuto immaginare: “se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio”. Siccome Nicodemo rimane alquanto perplesso, Gesù gli spiega che questa rinascita avviene mediante l’acqua e lo Spirito (v. 4-5) e soggiunge: “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito”. (v. 6-8). Ad una nuova richiesta di spiegazione da parte di Nicodemo, Gesù risponde osservando che: “noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”.
Questa ultima affermazione ammette l’incapacità da parte dell’uomo di cogliere nella sua interezza il mistero di Dio, perché egli non ha la possibilità di salire al cielo (v Pr 30,4), ma ciò è possibile solo al “Figlio dell’uomo”. Identificandosi con questo personaggio misterioso Gesù mette in luce il Suo rapporto specialissimo con Dio.
Nel brano liturgico, Gesù approfondisce poi il tema della manifestazione di Dio con queste parole: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”
Nel giudaismo il serpente di bronzo (V. Nm 21,4-9), era considerato come simbolo di quel Dio che aveva già dato nella legge un pegno di salvezza. Per Giovanni l’innalzamento di Gesù sulla croce fa di lui, ad analogia del serpente di bronzo, un segno di salvezza, e al tempo stesso manifesta il suo successo come Servo di JHWH e come Figlio dell’uomo. Su questo sfondo la morte di Gesù in croce viene vista come la Sua massima esaltazione, perché nel momento in cui si attua il Suo ritorno al Padre, al tempo stesso si realizza la vittoria sul peccato e la riconciliazione dell’umanità con Dio.
Nel versetto successivo questo concetto viene ripreso con questa espressione: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. All’innalzamento del Figlio dell’uomo, corrisponde l’amore di Dio che offre il Suo Figlio Unigenito. Con la parola “mondo” si vuole indicare l’umanità intera, non in senso negativo, ma in quanto bisognosa di salvezza. Anche qui, come nel versetto precedente, lo scopo è il conferimento della vita eterna.
In questo versetto il titolo “Figlio dell’uomo” viene sostituito con quello più considerevole di “Figlio unigenito”, per mettere in luce il rapporto specialissimo che unisce Gesù a Dio.
Nella parte successiva del discorso, Gesù affronta il tema del giudizio. Egli afferma che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”.
Il giudizio, inteso come condanna, dunque non rientra nei compiti del Figlio il quale è venuto solo per procurare la salvezza di tutti.
Al termine del brano l’evangelista Giovanni, ripete il concetto contenuto nel Prologo: “la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie.” Giovanni nell’antitesi simbolica luce-tenebre riassume tutto il segreto della storia umana: Cristo, luce del mondo, entra nel mondo, ma le tenebre tentano di soffocarlo, di cancellarlo dall’orizzonte. La luce, infatti, svela la vera natura delle cose e delle persone, impedisce che si celino le miserie e le vergogne. E’ l’eterna lotta tra il bene e il male e in questa lotta a noi oggi non viene richiesta un'auto-liberazione dal male, ma di alzare lo sguardo da noi stessi e di guardare un po' più in alto, di non restare nel buio dell'egocentrismo e accogliere quella luce che Dio ha inviato nel mondo, di non bloccarsi nell'amore per sé stessi e accorgersi di quell‘Amore che dall'alto è sceso sulla terra.

*****

“In questa quarta domenica di Quaresima, chiamata domenica “laetare”, cioè “rallegrati”, perché così è l’antifona d’ingresso della liturgia eucaristica che ci invita alla gioia: «Rallegrati, Gerusalemme […]. - così, è una chiamata alla gioia - Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza». Così incomincia la Messa. Quale è il motivo di questa gioia? Il motivo è il grande amore di Dio verso l’umanità, come ci indica il Vangelo di oggi: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Queste parole, pronunciate da Gesù durante il colloquio con Nicodemo, sintetizzano un tema che sta al centro dell’annuncio cristiano: anche quando la situazione sembra disperata, Dio interviene, offrendo all’uomo la salvezza e la gioia. Dio, infatti, non se ne sta in disparte, ma entra nella storia dell’umanità, si “immischia” nella nostra vita, entra, per animarla con la sua grazia e salvarla.
Siamo chiamati a prestare ascolto a questo annuncio, respingendo la tentazione di considerarci sicuri di noi stessi, di voler fare a meno di Dio, rivendicando un’assoluta libertà da Lui e dalla sua Parola. Quando ritroviamo il coraggio di riconoscerci per quello che siamo - ci vuole coraggio per questo! -, ci accorgiamo di essere persone chiamate a fare i conti con la nostra fragilità e i nostri limiti. Allora può capitare di essere presi dall’angoscia, dall’inquietudine per il domani, dalla paura della malattia e della morte. Questo spiega perché tante persone, cercando una via d’uscita, imboccano a volte pericolose scorciatoie come ad esempio il tunnel della droga o quello delle superstizioni o di rovinosi rituali di magia. E’ bene conoscere i propri limiti, le proprie fragilità, dobbiamo conoscerle, ma non per disperarci, ma per offrirle al Signore; e Lui ci aiuta nella via della guarigione, ci prende per mano, e mai ci lascia da soli, mai! Dio è con noi e per questo mi “rallegro”, ci “rallegriamo” oggi: “Rallegrati, Gerusalemme”, dice, perché Dio è con noi.
E noi abbiamo la vera e grande speranza in Dio Padre ricco di misericordia, che ci ha donato il suo Figlio per salvarci, e questa è la nostra gioia. Abbiamo anche tante tristezze, ma, quando siamo veri cristiani, c’è quella speranza che è una piccola gioia che cresce e ti dà sicurezza. Noi non dobbiamo scoraggiarci quando vediamo i nostri limiti, i nostri peccati, le nostre debolezze: Dio è lì vicino, Gesù è in croce per guarirci. Questo è l’amore di Dio. Guardare il Crocifisso e dirci dentro: “Dio mi ama”.
E’ vero, ci sono questi limiti, queste debolezze, questi peccati, ma Lui è più grande dei limiti e delle debolezze e dei peccati. Non dimenticatevi di questo: Dio è più grande delle nostre debolezze, delle nostre infedeltà, dei nostri peccati. E prendiamo il Signore per mano, guardiamo il Crocifisso e andiamo avanti.
Maria, Madre di misericordia, ci metta nel cuore la certezza che siamo amati da Dio. Ci stia vicino nei momenti in cui ci sentiamo soli, quando siamo tentati di arrenderci alle difficoltà della vita. Ci comunichi i sentimenti del suo Figlio Gesù, perché il nostro cammino quaresimale diventi esperienza di perdono, di accoglienza e di carità.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 11 marzo 2018

Domenica, 14 Marzo 2021 16:03

IV Domenica di Quaresima - 14 Marzo 2021

1. Venerdì 19 marzo il si celebra la Solennità di S. Giuseppe sposo di Maria. Per intercessione di S. Giuseppe chiediamo al Signore la grazia della protezione e della custodia per tutte le famiglie.

2. ln questa settimana dal lunedì al venerdì dopo le ss. messe alle ore 9,00 e 18,30 prosegue la benedizione delle famiglie e dell'acqua qui in chiesa.

Carissimi fratelli e sorelle, oggi il gruppo del Rinnovamento nello Spirito che porta il nome della Madonna de La Salette, festeggia i 30 anni di cammino in questa parrocchia e sono qui per ringraziare il Signore di questo meraviglioso dono. Un ricordo particolare va a tutti coloro che nel tempo hanno fatto parte di questo gruppo e di tutti i fratelli e sorelle che ora sono alla presenza del Signore.

Consacrazione a Nostra Signora de La Salette

O Vergine Addolorata, apparsa sui monti de La Salette, a Te leviamo le nostre menti e i nostri cuori, nella certezza della tua singolare manifestazione di un tempo, nella fiducia della tua materna intercessione di sempre.

Animati dal desiderio di dare gloria a Dio e di aiutarti a sostenere il braccio riconciliatore del tuo divin Figlio, solidale con la pena, la fatica e l'angoscia di ogni uomo e di ogni donna oppressi dal male e dalla morte, noi ci consacriamo a Te per essere membra vive della Chiesa: docili come Te all'azione dello Spirito Santo, ottienici la grazia di custodire l'innocenza dei piccoli, di incoraggiare i generosi slanci dei giovani, di far fruttificare i sinceri propositi dei grandi, di consolare evangelicamente la sofferenza degli infermi e di venire incontro, senza alcun disprezzo, a tutti i poveri e ai bisognosi.

Vergine Santa, Serva del Signore, Vergine degli umili e dei diseredati, Donna forte del Magnificat, Regina del Cielo e Madre della Chiesa, illuminaci con la luce della Pasqua, come un giorno illuminasti sulla montagna de La Salette Massimino e Melania, perché il nostro percorso di vita nuova che stiamo per intraprendere, rinnovi la nostra vita al servizio dell'evangelizzazione e all'opera della riconciliazione, rendendo sempre più la nostra comunità parrocchiale popolo radunato nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, in cammino verso i cieli e la terra nuova dove avrà stabile dimora la giustizia, pronta a dare ragione della speranza che è in lui. Amen

Queste sono alcune condivisioni

“Non sono potuta essere con voi a messa ma vi sono stata vicina con la preghiera e con i ricordi . Ringrazio il Signore per questi 30 anni in cui il Signore ha camminato con noi e anche per gli anni che hanno preceduto la nascita di questo gruppo in cui Lui ci guidava verso la Madonna della Salette . Ringrazio il Signore con tutte le mie forze per le persone che ha messo sulla mia strada che con la loro fede mi hanno aiutato a conoscerLo meglio. Ringrazio il Signore per la tenerezza che ha avuto per ognuno di noi. Io ormai sono fuori dai giochi ma ringrazio tutti voi che con coraggio e speranza avete continuato a lavorare per Lui . Con tutti i fratelli e le sorelle che ci hanno preceduto, vi sarò sempre vicino con la preghiera .” (Serena Pepe)

“Benedizioni sul gruppo e su tutti i fratelli e le sorelle, uno sguardo a chi ci ha preceduto e con fede e fiducia ci ha condotto fino a qui, una abbondante effusione dello Spirito scenda oggi si di noi e ci renda capaci di fedeltà e di un amore fecondo che genera vita nuova l'occhio vigile della Vergine ci renda capaci di camminare in fretta verso un servizio aperto all'accoglienza gli uni degli altri e di quanti il Signore nella sua misericordia vorrà permetterci ancora di incontrare e accogliere.” (Evelina Prezzo Rns Diocesano settore Roma Ovest)

Domenica, 07 Marzo 2021 15:44

III Domenica di Quaresima - 7 Marzo 2021

1. Venerdì 12 marzo il Superiore Provinciale P. Gian Matteo Roggio m.s. celebra l'anniversario dell’ordinazione sacerdotale. Tanti auguri da tutta la comunità parrocchiale.

2. Si ringraziano le suore Salesie per la loro presenza a Roma e nella nostra parrocchia. Tanti auguri per la nuova missione da tutta la comunità parrocchiale.

3. Giovedì 11 marzo dalle ore 17,30 alle ore 18,30 ci sarà I'adorazione eucaristica.

4. Venerdì 12 marzo alle ore 17,45 ci sarà il pio esercizio della Via Crucis.

5. In questa settimana da lunedì a venerdì dopo Ie ss.messe alle ore 9,00 e 18,30 prosegue la benedizione dell’acqua qui in chiesa.

Le letture di questa terza domenica di quaresima ci invitano a fare un vero e profondo esame di coscienza per capire fino a che punto siamo veri credenti.
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo, siamo di fronte al Decalogo, le dieci parole, il cuore della legge mosaica e il suggello dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Tre comandamenti garantiscono la fedeltà all’alleanza con Dio e sette regolano la corretta relazione con gli altri.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, a quanti non comprendono il valore della croce l’apostolo Paolo predica Gesù crocifisso, segno rigettato dalla sapienza greca e dalla religione giudaica, ma portatore di salvezza per l’umanità peccatrice.
Nel brano del suo Vangelo, Giovanni ci presenta Gesù in una vesta insolita: una sua reazione violenta, di sdegno, di fronte al degrado in cui gli uomini avevano ridotto il Tempio che, da luogo di preghiera, era divenuto un luogo di mercato. Le parole e i gesti di Gesù sembrano dire che il rapporto con Dio non si mercanteggia e neppure lo si vive mediante il semplice e formale ingresso nel tempio materiale, ma consiste essenzialmente, come ci dice Giovanni in un altro passo del vangelo, nell’adorare Dio “in spirito e verità”.

Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole:
«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile:
Non avrai altri dèi di fronte a me.
Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai adulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Es 20,1-17

Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nella parte precedente questo brano c’è una parte introduttiva nella quale Dio appare a Mosè e per mezzo suo manifesta agli israeliti la decisione di stringere un’alleanza con loro. A questo punto c’è il racconto della manifestazione di Dio e la proclamazione dei comandamenti (il decalogo) che la liturgia oggi ci presenta
Il decalogo si apre con una frase in cui Dio presenta se stesso e al tempo stesso fa un riassunto degli eventi passati:
“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile…”
Egli si presenta non con titoli di potenza ma semplicemente come il Dio di Israele, attribuendosi questo titolo perché ha liberato il popolo dalla schiavitù a cui era stato sottoposto in Egitto. In questa frase sono espressi la motivazione e il significato di tutti i precetti che saranno successivamente elencati: se Dio ordina qualcosa agli israeliti, lo fa solo perché Lui stesso per primo ha dato loro gratuitamente ciò che vi è di più essenziale nella vita; la libertà.
Dopo la frase introduttiva sono elencati i singoli precetti;
Il primo comandamento, che fa seguito immediatamente al prologo, contiene la clausola fondamentale dell’alleanza, che è così espressa: “Non avrai altri dèi di fronte a me.”
Questo precetto non ha lo scopo di inculcare il monoteismo, infatti qui non è negata l’esistenza di altre divinità, ma ne viene vietato il culto e di conseguenza poteri divini. Questo primo comandamento non richiede particolari atti di culto, ma solo una fedeltà totale ed esclusiva nei confronti di Dio.
Il primo comandamento è seguito da un secondo: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo…”. Nell’antico Oriente l’immagine era considerata come oggetto in cui la divinità poteva essere presente e manifestarsi; attraverso di essa si pensava quindi di poter catturare la potenza divina, utilizzandola a proprio uso e consumo. Per l’ebraismo è da tener presente che l’unica immagine di Dio è l’uomo vivente (Gen 1,26-27; Sir 17,3; Sap 2,23). A questo comandamento c’è poi un’altra aggiunta : “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai”
Al primo e secondo comandamento viene dato una motivazione: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”.
DIO è un Dio “geloso” in quanto si comporta con Israele come un marito che ama sua moglie e difende il proprio diritto esclusivo nei suoi confronti (V. Os 3,1). La Sua gelosia ha come effetto la punizione del Suo popolo quando questi si allontana da Lui. La pena colpisce quattro generazioni, cioè tutti coloro che convivono nella famiglia patriarcale (padri, figli, nipoti e pronipoti). La “bontà” divina raggiunge invece migliaia di generazioni. In altre parole, il castigo è nulla in confronto alla fedeltà che rappresenta l’agire costante di DIO nel mondo. Inoltre sia la punizione che la fedeltà riguardano non tutti indiscriminatamente, ma solo rispettivamente coloro che lo “odiano” e coloro che lo “amano”. Appare qui per la prima volta il concetto di “amore”, che non è puro sentimento, ma si manifesta nell’osservanza dei comandamenti.
Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nella parte precedente questo brano c’è una parte introduttiva nella quale Dio appare a Mosè e per mezzo suo manifesta agli israeliti la decisione di stringere un’alleanza con loro. A questo punto c’è il racconto della manifestazione di Dio e la proclamazione dei comandamenti (il decalogo) che la liturgia oggi ci presenta
Il decalogo si apre con una frase in cui Dio presenta se stesso e al tempo stesso fa un riassunto degli eventi passati:
“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile…”
Egli si presenta non con titoli di potenza ma semplicemente come il Dio di Israele, attribuendosi questo titolo perché ha liberato il popolo dalla schiavitù a cui era stato sottoposto in Egitto. In questa frase sono espressi la motivazione e il significato di tutti i precetti che saranno successivamente elencati: se Dio ordina qualcosa agli israeliti, lo fa solo perché Lui stesso per primo ha dato loro gratuitamente ciò che vi è di più essenziale nella vita; la libertà.
Dopo la frase introduttiva sono elencati i singoli precetti;
Il primo comandamento, che fa seguito immediatamente al prologo, contiene la clausola fondamentale dell’alleanza, che è così espressa: “Non avrai altri dèi di fronte a me.”
Questo precetto non ha lo scopo di inculcare il monoteismo, infatti qui non è negata l’esistenza di altre divinità, ma ne viene vietato il culto e di conseguenza poteri divini. Questo primo comandamento non richiede particolari atti di culto, ma solo una fedeltà totale ed esclusiva nei confronti di Dio.
Il primo comandamento è seguito da un secondo: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo…”. Nell’antico Oriente l’immagine era considerata come oggetto in cui la divinità poteva essere presente e manifestarsi; attraverso di essa si pensava quindi di poter catturare la potenza divina, utilizzandola a proprio uso e consumo. Per l’ebraismo è da tener presente che l’unica immagine di Dio è l’uomo vivente (Gen 1,26-27; Sir 17,3; Sap 2,23). A questo comandamento c’è poi un’altra aggiunta : “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai”
Al primo e secondo comandamento viene dato una motivazione: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”.
DIO è un Dio “geloso” in quanto si comporta con Israele come un marito che ama sua moglie e difende il proprio diritto esclusivo nei suoi confronti (V. Os 3,1). La Sua gelosia ha come effetto la punizione del Suo popolo quando questi si allontana da Lui. La pena colpisce quattro generazioni, cioè tutti coloro che convivono nella famiglia patriarcale (padri, figli, nipoti e pronipoti). La “bontà” divina raggiunge invece migliaia di generazioni. In altre parole, il castigo è nulla in confronto alla fedeltà che rappresenta l’agire costante di DIO nel mondo. Inoltre sia la punizione che la fedeltà riguardano non tutti indiscriminatamente, ma solo rispettivamente coloro che lo “odiano” e coloro che lo “amano”. Appare qui per la prima volta il concetto di “amore”, che non è puro sentimento, ma si manifesta nell’osservanza dei comandamenti.
Nono comandamento Non desidererai la casa del tuo prossimo. Originariamente qui veniva considerato il furto vero e proprio. Si è accertato infatti che in ebraico il verbo “desiderare” indica non solo l’atto per se stesso, ma tutto lo svolgimento che va dalla decisione fino all’appropriazione indebita.
Decimo comandamento Non desidererai la moglie del tuo prossimo,… In un primo momento questo precetto era tutt’uno con il precedente, in quanto la casa del prossimo, di cui si proibisce il desiderio, abbracciava tutti i beni in essa contenuti, compresa la moglie, gli schiavi e gli animali. In seguito, quando la proibizione di farsi immagini di DIO è stata inclusa nel primo comandamento e il settimo è passato a significare il furto in generale, il decimo comandamento è stato separato dal nono per indicare non più tutto il processo di appropriazione, ma il semplice atto vero e proprio, che porta di conseguenza all’azione.
Per concludere possiamo dire che questi comandamenti in sintesi richiedono un impegno verticale: amore per Dio, e orizzontale: amore per il prossimo. E’ per questo che il condensato di tutto il Decalogo è nel primo comandamento, nel quale tutti gli altri confluiscono. Non dovremmo mai dimenticare come rispose Gesù quando gli chiesero quale fosse il più grande comandamento della legge : “ Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.”
Basterà osservare bene questi due comandamenti e senza bisogno di pensarci si adempiranno interamente anche gli altri. Possiamo subito renderci conto da noi stessi che non può essere diversamente. Ad esempio: “Non avrai altri dèi di fronte a me”. Se un uomo ama Dio non occorre dirgli una cosa del genere.
“Non pronuncerai invano il nome del Signore”. Chi, amando Dio, sognerebbe di nominarlo invano, mancandogli di rispetto? “Ricordati del giorno di festa per santificarlo”. Non sarebbe egli ben felice di avere un giorno su sette da dedicare più esclusivamente a Chi ama?
Allo stesso modo a chi ama il suo prossimo è superfluo dire di onorare suo padre e sua madre. non potrebbe farne a meno. Sarebbe assurdo anche dirgli di non uccidere e un insulto suggerirgli di non rubare. Come si può derubare colui che si ama?
Superfluo anche pregarlo di non dir falsa testimonianza contro il vicino. Se lo ama è l'ultima cosa che farebbe, come anche di desiderare i suoi beni e il suo coniuge.

Salmo 18 - Signore, tu hai parole di vita eterna.

La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante.

Il salmista si esprime considerando, in stato di riflessione laudante, la grandezza, la potenza, la bellezza dei cieli, della volta stellata. I cieli “narrano la gloria di Dio” in un’incessante continuità: “Il giorno al giorno ne affida il racconto…”. L’uomo percepisce questo racconto - “senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce” - dei cieli, che glorificano il Creatore, e conduce l’uomo a considerare la potenza, la maestà, la sapienza di Dio e a adorarlo.
La potenza del sole, sfera di fuoco radiante ovunque luce e calore, dà all’orante misura della potenza di Dio. Egli si affida alle immagini della poesia per descriverlo, con un risultato altissimo. Il sole esce radioso, vivo, carico d’amore da donare, come uno sposo che esce dalla stanza nuziale ricco delle effusioni della sposa. Il suo sovrano percorrere il cielo viene paragonato all’incedere glorioso di un prode in mezzo alla strada: nessuno può resistergli.
Il Creatore dell’universo ha stretto alleanza con il suo popolo dando una legge che è perfetta, perché non può ricevere appunti, e che rinfranca il cuore liberandolo dalle tenebre dell’ingiustizia. Questa legge d’amore è portata al suo vertice dal Cristo che la stampa nel cuore dei suoi dando loro lo Spirito Santo.
La legge, portata a compimento da Cristo, è la testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini. Tale testimonianza, che è stata sigillata dal sangue di Cristo, non delude. Essa è verace, luminosa, e rende saggio colui che non si presenta a Dio col vizio di pensieri oscuri.
Il salmista ha sperimentato nella sua vita quanto sia giusta la legge del Signore, tanto che fa gioire il cuore.
La legge, i suoi comandi, sono limpidi, perché non oscurano gli occhi portandoli a veder in modo malvagio le cose, ma li liberano dalle oscurità per dare loro la capacità di un luminoso vedere la bellezza delle cose,che inneggiano al Creatore e servono l’uomo.
“Il timore del Signore è puro”, perché non è come quello di chi teme la punizione perché colpevole, ma è il timore puro di chi teme di giungere a rattristare Dio con la disobbedienza alla legge d’amore verso lui e verso gli altri.
Il salmista comincia a focalizzarsi sull’effetto della legge su di lui; di lui che è piccolo, ma che è istruito dai giudizi di Dio, che sono contenuti nella legge, poiché Dio giudica gli uomini con quella legge.
Il salmista è consapevole di avere tante mancanze di cui non si rende pienamente conto: le “inavvertenze”. Di queste chiede a Dio perdono. Egli, infatti, anche se osserva la legge non reputa per niente di osservarla perfettamente e sa che sta nell’orgoglio la ragione di una scarsa osservanza. Orgoglio che se non dominato conduce l’uomo al grande peccato, cioè al peccato di una grande e palese disobbedienza alla legge.
Per ultimo, il salmista, chiede a Dio che ascolti, nella sua bontà misericordiosa, la sua preghiera che sgorga da un cuore retto e non doppio, consapevole di non poter nascondere nulla a Dio: “Davanti a te i pensieri del mio cuore”.
Infine, il salmista, sigilla la sua preghiera dicendo: “Signore, mia roccia e mio redentore”. “Mia rupe”, perché è la sua difesa dai suoi nemici (I nemici sono innanzi tutto i demoni Cf. Ef 6,12); ed è “mio redentore”, perché con la sua legge e la sua grazia lo ha strappato dal buio dell’ignoranza e del peccato.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera dei S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
1Cor 1,22-25

Nel 52-54 San Paolo pose le fondamenta a Corinto di una comunità viva, composta soprattutto di pagani di modesta condizione. Due anni dopo, mentre si trovava ad Efeso, l’Apostolo ha sentore delle divisioni che agitano questa giovane comunità, ed alcuni corinzi lo raggiungono per sottoporgli le loro difficoltà. L’apostolo scrive attorno al 55-56 questa lettera, che noi chiamiamo prima, anche se si suppone che ce ne sia stata un’altra che però è andata perduta.
Questa prima lettera è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale. Vi si trovano infatti informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna“, purezza dei costumi, matrimonio e verginità, svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell’eucaristia, uso dei carismi; sia per i rapporti con il mondo pagano.
Nella prima sezione della lettera, da dove è stato tratto questo brano, Paolo affronta il tema della divisione della comunità in partiti, dopo che i corinzi avevano cercato una sapienza umana, quella rappresentata dagli insegnamenti dei singoli predicatori, che li ha portati alla divisione.
Paolo, nonostante la sua istruzione, non si era fatto notare a Corinto per la sua sapienza, la sua cultura o la sua eloquenza. Avrebbe contraddetto il suo insegnamento, poiché la croce di Cristo, che egli annunciava, significa proprio la fine di tutto ciò di cui l’uomo s’inorgoglisce.
Il brano inizia con parole di sfida: mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani;
In modi diversi sia gli uni che gli altri vogliono acquistare potere e dominio sulla realtà: ma così si precludono la possibilità di scoprire la vera sapienza di Dio.
In contrasto con queste aspettative umane Paolo annuncia Cristo crocifisso, proprio perchè il Crocifisso rappresenta per i giudei, con la sua debolezza, un motivo di “scandalo”, per i greci invece egli è ”stoltezza”, ossia la negazione della sapienza che essi cercano.
Ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. ossia per i “chiamati” che lo hanno accettato con fede, il Cristo annunziato da Paolo è “potenza e sapienza di Dio”.
Dio si è servito di Suo figlio, uomo crocifisso, come strumento per portare a termine la Sua creazione e per chiamare a sé tutta l’umanità.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
Gv 2, 13-25

Il Vangelo di Giovanni inizia dopo il Prologo riportando la testimonianza di Giovanni Battista (1,19-34), poi la chiamata dei primi discepoli (1,35-51) e infine il primo segno compiuto da Gesù a Cana di Galilea, il cambiamento dell’acqua in vino. (2,1-12). Subito dopo viene presentato l’episodio, che troviamo in questo brano liturgico, conosciuto come la “Cacciata dei mercanti dal tempio”,
Mentre per i sinottici questo episodio dà inizio alla settimana conclusiva della vita di Gesù, Giovanni lo pone all’inizio del Suo ministero.
Il brano si apre riportandoci che:” Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme”. Gesù sale a Gerusalemme in quanto si adegua alle feste liturgiche di Israele, ma per dare loro anche un significato nuovo. L’evangelista non precisa in quale momento delle celebrazioni pasquali l’episodio è avvenuto, mentre per i sinottici si tratta del lunedì santo.
Gesù entrato nel tempio: “Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete”. Il termine “tempio” qui non indica il luogo santo, considerato come la dimora di Dio, ma i cortili esterni, accessibili anche ai non giudei, chiamati anche “cortile dei gentili”. Gli animali venivano venduti perché i pellegrini, specialmente quelli venuti da lontano, potessero disporre di vittime per i sacrifici; i cambiavalute invece trasformavano il denaro profano nell’unica moneta ammessa nel tempio. Si trattava quindi di un’attività non solo lecita, ma anche indispensabile per il funzionamento del tempio.
Posto di fronte a questa realtà Gesù reagisce in modo molto duro: fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
Secondo Giovanni, Gesù rimprovera i giudei non perché, pur offrendo sacrifici a Dio, rifiutano il suo inviato, ma perché servendosene per usi commerciali, profanano il tempio, rendendolo inadatto al culto sacrificale. Giovanni aggiunge che i discepoli si ricordarono una frase della Scrittura che dice: Lo zelo per la tua casa mi divorerà”. La frase è del salmo 69, in cui il salmista si lamenta con Dio per la persecuzione che subisce da parte dei suoi avversari, e nel v. 10 egli sottolinea come sia pieno di un amore senza confini per il tempio di Dio, cioè per Dio stesso, e lascia intendere che proprio per questo è stato perseguitato.
In Giovanni invece il verbo “divorare” è al futuro, e sicuramente perchè vuole alludere alla morte a cui Gesù va incontro proprio in forza del rapporto speciale che lo unisce a Dio: è proprio l’amore per la casa di Dio che lo porterà sulla croce.
Finora i giudei sono rimasti in silenzio di fronte a quanto Gesù aveva fatto. Ora essi intervengono chiedendo a Gesù: Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere.
Questa volta il termine “tempio” indica il luogo santo in cui era localizzata la presenza di Dio. La frase pronunziata da Gesù richiama quella che i falsi testimoni gli attribuiranno nel corso del processo davanti al sommo sacerdote.
I giudei ribattono: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Essi si riferiscono ai lavori fatti da Erode per la restaurazione del tempio, per cui si può dedurre che questi sarebbero stati iniziati verso il 20 a.C.
L’evangelista non riporta alcuna risposta di Gesù, limitandosi a dire che egli parlava del tempio del Suo corpo. Non si tratta quindi del tempio materiale, ma della persona di Gesù, intesa come il luogo in cui Dio abita. L’evangelista fa questa riflessione “Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. “
È chiaro quindi che secondo Giovanni, Gesù parlava della Sua risurrezione, lasciando così intendere che in forza di essa il Suo corpo sarebbe diventato il vero tempio in cui Dio abita in mezzo al Suo popolo.
Ma tutto questo neppure i discepoli l’hanno capito durante la Sua vita terrena. È lo Spirito infatti che, dopo la Pasqua, farà comprendere pienamente ai discepoli le parole e i gesti di Gesù, illuminando in profondità il loro significato e permettendo di attualizzarli nel presente.
Al termine del racconto l’evangelista osserva: Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
Gesù ha compiuto numerosi miracoli nel corso della Sua vita e Giovanni definendoli come “segni”, conferisce loro il compito di suscitare la fede in Gesù. A Gerusalemme i segni da Lui operati suscitano l’entusiasmo, ma Gesù conosce l'intimo dell'uomo, le sue fragilità e non si lascia ingannare dall'entusiasmo superficiale che segue i Suoi segni. Il rapporto con Dio non si mercanteggia, sembrano dire le parole e i gesti di Gesù. E neppure lo si vive mediante il semplice e formale ingresso nel tempio materiale. Esso consiste essenzialmente nell’adorare Dio “in spirito e verità” , secondo quanto Gesù ci dice in un altro passo del Vangelo di Giovanni.

***********************

“Il Vangelo di oggi ci presenta l’episodio della cacciata dei venditori dal tempio, Gesù «fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi» , il denaro, tutto. Tale gesto suscitò forte impressione, nella gente e nei discepoli. Chiaramente apparve come un gesto profetico, tanto che alcuni dei presenti domandarono a Gesù: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?», chi sei tu per fare queste cose? Mostraci un segno che tu hai autorità per farle.
Cercavano un segno divino, prodigioso che accreditasse Gesù come inviato da Dio. Ed Egli rispose: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli replicarono: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Non avevano compreso che il Signore si riferiva al tempio vivo del suo corpo, che sarebbe stato distrutto nella morte in croce, ma sarebbe risorto il terzo giorno. Per questo “in tre giorni”. «Quando poi fu risuscitato dai morti – annota l’Evangelista – i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù».
In effetti, questo gesto di Gesù e il suo messaggio profetico si capiscono pienamente alla luce della sua Pasqua. Abbiamo qui, secondo l’evangelista Giovanni, il primo annuncio della morte e risurrezione di Cristo: il suo corpo, distrutto sulla croce dalla violenza del peccato, diventerà nella Risurrezione il luogo dell’appuntamento universale tra Dio e gli uomini. E Cristo Risorto è proprio il luogo dell’appuntamento universale - di tutti! - fra Dio e gli uomini. Per questo la sua umanità è il vero tempio, dove Dio si rivela, parla, si fa incontrare; e i veri adoratori, i veri adoratori di Dio non sono i custodi del tempio materiale, i detentori del potere o del sapere religioso, sono coloro che adorano Dio «in spirito e verità» (Gv 4,23).
In questo tempo di Quaresima ci stiamo preparando alla celebrazione della Pasqua, quando rinnoveremo le promesse del nostro Battesimo. Camminiamo nel mondo come Gesù e facciamo di tutta la nostra esistenza un segno del suo amore per i nostri fratelli, specialmente i più deboli e i più poveri, noi costruiamo a Dio un tempio nella nostra vita. E così lo rendiamo “incontrabile” per tante persone che troviamo sul nostro cammino. Se noi siamo testimoni di questo Cristo vivo, tante gente incontrerà Gesù in noi, nella nostra testimonianza. Ma - ci domandiamo, e ognuno di noi si può domandare –: il Signore si sente veramente a casa nella mia vita? Gli permettiamo di fare “pulizia” nel nostro cuore e di scacciare gli idoli, cioè quegli atteggiamenti di cupidigia, gelosia, mondanità, invidia, odio, quell’abitudine di chiacchierare e “spellare” gli altri? Gli permetto di fare pulizia di tutti i comportamenti contro Dio, contro il prossimo e contro noi stessi, come oggi abbiamo sentito nella prima Lettura? Ognuno può rispondere a sé stesso, in silenzio, nel suo cuore. “Io permetto che Gesù faccia un po’ di pulizia nel mio cuore?”. “Oh, padre, io ho paura che mi bastoni!”. Ma Gesù non bastona mai. Gesù farà pulizia con tenerezza, con misericordia, con amore. La misericordia è il suo modo di fare pulizia. Lasciamo - ognuno di noi - lasciamo che il Signore entri con la sua misericordia - non con la frusta, no, con la sua misericordia - a fare pulizia nei nostri cuori. La frusta di Gesù con noi è la sua misericordia. Apriamogli la porta perché faccia un po’ di pulizia.
Ogni Eucaristia che celebriamo con fede ci fa crescere come tempio vivo del Signore, grazie alla comunione con il suo Corpo crocifisso e risorto. Gesù conosce quello che c’è in ognuno di noi, e conosce pure il nostro più ardente desiderio: quello di essere abitati da Lui, solo da Lui. Lasciamolo entrare nella nostra vita, nella nostra famiglia, nei nostri cuori. Maria Santissima, dimora privilegiata del Figlio di Dio, ci accompagni e ci sostenga nell’itinerario quaresimale, affinché possiamo riscoprire la bellezza dell’incontro con Cristo, che ci libera e ci salva.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’8 marzo 2018

Pagina 66 di 162

Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
e-mail: email
Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice! Accetta i cookie per chiudere avviso. Per saperne di più riguardo ai cookie utilizzati e a come cancellarli, guarda il regolamento Politica sulla Privacy.

Accetto i cookie da questo sito