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S.Messe (settimana)
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Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore la fede, la vita e la morte.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, troviamo una riflessione sul perchè Dio ci ha creati: per la vita sicuramente, e la morte non può venire da Lui, infatti viene affermato: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo esorta i cristiani di Corinto a dare un significato spirituale cristiano alla generosità materiale della colletta fatta per soccorrere la povertà della chiesa-madre di Gerusalemme.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco descrivendoci i due miracoli intende presentarci diversi livelli della fede: quella imperfetta, come quella della donna che vuole toccare il mantello di Gesù per essere guarita e quella disperata di chi nella disperazione più completa è sicuro che Gesù potrà intervenire a favore della sua figlioletta, ormai moribonda. Di fronte alla sua fede, scatta il miracolo: il Signore Gesù compie ciò che è umanamente impossibile: ridona la vita. I miracoli di Gesù non sono solo segni della Sua potenza, prova della Sua natura divina, sono atti di compassione e d’amore. Lo possiamo notare con quale dolcezza si rivolge all’emorroissa chiamandola: “Figlia…” e all’umanissima premura perchè alla bambina appena risuscitata si dia da mangiare
Gesù è il Signore della vita, che risana dalla malattia fisica e ridà vita ai morti. Ma nulla può dove manchi la fede. Il non aver creduto alla Parola di Dio, per credere a quella del maligno, è il peccato che ha introdotto il dolore e la morte fra gli uomini e solo nella fede, nell’abbandono fiducioso alla Parola di Dio, si può rompere questo ciclo.
Oggi è la giornata per la carità del Papa.

Dal Libro della Sapienza
Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano;
le creature del mondo sono portatrici di salvezza,
in esse non c’è veleno di morte,
né il regno dei morti è sulla terra.
La giustizia infatti è immortale.

Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura.
Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo
e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.
Sa 1,13-15; 2,23-24

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico.
È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) . L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco e si compone di 19 capitoli che si possono ricondurre a tre parti principali:
Nella Prima parte (cap. 1-5), da dove viene tratto il brano che la liturgia ci presenta, viene presentata la possibilità di due diversi atteggiamenti che derivano dal senso che si dà all’esistenza e cioè:
- o siamo nati per caso, per cui dopo questa vita non esiste niente;
- oppure veniamo da Dio e a Lui ritorniamo conducendo una vita santa, restando saldi nel Suo amore.
Al di fuori di tale sapienza vi è la morte, ma Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi, poiché il Signore non vuole la morte ma la vita.
La Seconda parte (cap. 6,1-11,3) ci invita a ricercare la Sapienza di Dio, “amica degli uomini”, così da farne “la compagna della nostra vita”, lasciandoci attirare dalla sua bellezza.
Il re Salomone tesse un elogio alla Sapienza con parole che di fatto non sono sue. L’autore del libro, infatti, per sviluppare il tema, usa la storia del re così come viene riferita nel Primo libro dei Re al cap. 3 e dal secondo libro delle Cronache. In base ai due racconti, Salomone trascorse la notte in preghiera nel santuario in cima al monte Gabon, per chiedere al Signore la saggezza necessaria per governare il suo popolo. In questa seconda parte la Sapienza si rivela come presenza di Dio nel mondo e nell’uomo, per condurre quest’ultimo sulle vie di Dio.
Nella Terza parte (cap. 11,4 - 19,22) la Sapienza sembra quasi scomparire dalla storia del popolo israelita. L’autore allora tenta di dimostrare la grandezza di Dio e la missione del popolo in un momento in cui nuove culture lo stanno seducendo. Secondo l’autore l’uomo saggio è l’uomo giusto chiamato a vivere nell’eternità di Dio. E poiché la Sapienza è una realtà misteriosa nascosta nel cuore del mondo, essa si rivela a chi la ricerca con tutto il cuore ed è concessa proprio come dono di Dio.
Dio partecipa all’uomo la Sapienza con cui ha creato il mondo, ma per riceverla in dono è necessario che l’uomo stia lontano dal male allontanandosi dalle cose terrene effimere, e troppo superficiali.
La Sapienza non è dunque una filosofia che insegna l’arte del vivere, piuttosto indica una scelta di fede che permette di entrare in contatto con Dio e rimanere in relazione con Lui.

Salmo 29 - Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.

Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.

Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza,
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.

L’autore del salmo riconosce di essere stato nel passato ampiamente beneficato da Dio, ma aveva peccato di presunzione dicendo tra sé: “Mai potrò vacillare!”.
Per questo Dio l’aveva abbandonato e gli aveva nascosto per “un istante” il suo volto. Per “un istante” l’aveva esposto ai suoi nemici, i quali giunsero ad un sol passo dal prevalere su di lui, ma Dio gli diede “vita” e così poté sfuggire alla morte. Per questo egli è diventato un testimone della bontà del Signore: “Cantate inni al Signore, o suoi fedeli”.
Permane però nelle insidie ed egli si rivolge a Dio chiedendo di conservarlo in vita, perché non ne trarrebbe nessun vantaggio dalla sua morte: “Quale guadagno dalla mia morte, dalla mia discesa nella fossa? Potrà ringraziarti la polvere e proclamare la tua fedeltà?”. La sua missione, il suo proclamare la fedeltà di Dio, sarebbe interrotta anzitempo. Umile, invoca misericordia, e lascia il lamento sperimentando ancora una volta la fedeltà del Signore. Conclude confermandosi nell’amore per il Signore: “Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
2Cor 8,7,9,13-15

Paolo continuando la sua seconda lettera al Corinzi, dopo aver percorso nei primi 6 capitoli la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto, nel capitolo ottavo esorta gli abitanti di Corinto alla generosità con temi che gli sono cari: la povertà, fonte di arricchimento per gli altri, l’esempio di Cristo, il dono di Dio, che suscita il dono dei cristiani.
Il brano liturgico inizia con l’esortazione:
“Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa”.
Paolo riconosce nella comunità di Corinto una fede viva che travalica i confini della città e si riversa nel mondo circostante perché la comunità ha saputo fondare la propria vita di credenti sulla parola, sulla fede, sulla scienza, sullo zelo, sulla carità. Questa modo di vivere è l’essenza del Vangelo ed è stata insegnata loro da Paolo!
“Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”.
Con questa espressione Paolo passa ad un esame vero e proprio sulla consistenza dell’essere cristiani, perchè tramite l’opera di carità si saprà chi veramente cammina dietro Cristo per imitarlo, e chi invece va dietro di Lui solo per qualche interesse umano. Il cristianesimo è, prima di ogni altra cosa, sequela di Cristo, imitazione di Lui. Chi vuole essere cristiano non solo deve camminare dietro Cristo, deve anche imitarlo, poiché è nell’imitazione di Cristo che si raggiunge la perfezione morale, si raggiunge la pienezza nella fede, nella speranza, nella carità.
Poi nel versetto seguente è più esplicito: “Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza”. La chiesa di Gerusalemme ha dato ai Corinzi i beni spirituali, la verità e la grazia del signore nostro Signore Gesù Cristo, è ben giusto per questo che la comunità dei Corinzi doni alla chiesa di Gerusalemme quanto può perché sopravviva in un momento di così grave carestia.
“Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
L’abbondanza e l’indigenza sono su due piani differenti, si tratta di abbondanza spirituale e di indigenza materiale. La chiesa di Gerusalemme è sempre nell’abbondanza spirituale e questa abbondanza viene riversata sull’indigenza spirituale che accompagna la comunità di Corinto.
Paolo domanda agli abitanti di Corinto in sintesi solo il loro superfluo, mentre i cristiani di Macedonia (citati nei versetti 2-3 non riportati nel brano liturgico) nella loro “estrema povertà” hanno saputo dare “al di là dei loro mezzi” . Ma Paolo, proponendo l’esempio di Cristo, li invita discretamente a imitare la generosità dei loro fratelli macedoni.
Il messaggio che arriva a noi oggi è che solo con la condivisione può esserci la vera comunità che ci salva. Ogni uomo, per piccolo e povero che sia, ha qualcosa da dare agli altri e nessuno è così ricco da non poter più ricevere niente dagli altri

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Mc 5,21-43

L’evangelista Marco in questo brano ci presenta due miracoli di Gesù intrecciati tra loro, quello della donna colpita da emorragia e la resurrezione della figlia di Giàiro, capo della sinagoga di Cafarnao.
Gesù si trova nella cornice vociante e affollata di una località intorno al lago di Tiberiade, punto centrale della prima fase della sua missione. Negli episodi raccontanti precedentemente Marco aveva narrato la tempesta sedata, che aveva lasciato scioccati i discepoli e subito dopo la guarigione dell’indemoniato.
Questo brano dopo aver precisato che “Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, e la molta folla che si era radunata intorno a lui, ci riporta che “venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.”
Ora l’evangelista sposta la nostra attenzione su di un nuovo personaggio emblematico nel quale ognuno di noi si può immedesimare: “una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio“.
Il sangue è la vita, e perdere sangue significa perdere la vita. Una donna in queste condizioni, secondo il Libro del Levitico (15,25), è una donna in perenne condizione di impurità. Se non è sposata non trova nessuno che la sposa, se è sposata non può avere rapporto con il marito, quindi è destinata alla sterilità, anzi il marito la può perfino ripudiare. Quindi è una donna che non ha nessuna speranza; è impura, non può entrare nel tempio, è equiparata a un lebbroso. Allora, per la donna non ci sono speranze; se continua ad osservare la legge va incontro alla morte, ma lei, che “aveva sentito “parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata»”.
Ci prova di nascosto perché una donna che, nelle sue condizioni, pubblicamente e volontariamente, toccava un uomo, era passibile di morte, perché lo rendeva impuro. “E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male”.
Gesù avverte che una “forza era uscita da lui”, una forza di vita e “si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». Gesù però non accetta che tutto si esaurisca in un atto taumaturgico, vuole che da quella fiducia magica fiorisca una fede limpida. I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Il commento che fanno i suoi discepoli è quello di considerare Gesù quasi un insensato. I discepoli sono accanto a Gesù, ma non gli sono vicini, loro lo accompagnano, ma non lo seguono. Non basta stare accanto a Gesù per percepirne e riceverne la forza della vita.
“Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto” impaurita perché sapeva di aver compiuto una trasgressione e quindi si aspettava sicuramente una punizione, “venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità”. Ed è proprio a questo punto che scatta la guarigione completa. A causa della sua fede la donna non è solo guarita ma anche salvata, Gesù, infatti, chiamandola teneramente “Figlia“ le dice «la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. E la donna è subito risucchiata dalla folla e scompare, lasciando viva la sua immagine in questa pagina evangelica.
Ora l’attenzione si sposta di nuovo su Gesù che aveva appena finito di parlare “quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Sicuramente lo sconforto invase l'animo del povero Giàiro e forse anche la sua fede divenne più debole. “Ma Gesù, udito quanto dicevano, gli disse “Non temere, soltanto abbi fede!”. E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo”, ossia i tre discepoli che in seguito saranno presenti alla Sua trasfigurazione e alla Sua angoscia mortale nel Getsemani. Dopo la risurrezione, essi potranno narrare queste cose, e allora anche la risurrezione della figlia di Giàiro apparirà a loro sotto una nuova luce.
L’evangelista: annota: “Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano”.
Gli atti che Gesù compie una volta entrato in quella camera mortuaria, dove giaceva il corpo esamine della bambina, nel silenzio e nella solitudine, dopo aver allontanato il gruppo delle lamentatrici, dei musici, dei parenti afflitti, delle grida tipiche dei funerali orientali, hanno una radice nel divino eterno. Cerchiamo di immaginare la scena: Egli stende la Sua mano, la stessa mano di Dio, e alla mano si aggiunge la parola efficace e creatrice. Bastano solo due parole pronunziate in una lingua umana, quella parlata da Gesù, l’aramaico : "Talità kum", Fanciulla, io ti dico: àlzati!» e la bambina si alzò e si mise a camminare. Davanti alla morte, nemica di Dio e dell’uomo, si è levata la voce di Cristo che ridona la vita. In questa bambina si anticipa simbolicamente il mistero della Pasqua in cui la morte è solo un “sonno”, come l’aveva chiamata Gesù, in attesa dell’incontro con l’eterno di Dio.
Da questi due racconti di miracolo esce un grande richiamo che ci invita ad avere una fede pura e totale, libera da magie e superstizioni, fiduciosa solo nel Dio della vita. Da imperfetta come quella della donna, persino da disperata come quella di Giàiro, la fede può crescere, maturare e diventare totale. E’ questo l’impegno fondamentale del cammino spirituale del cristiano, che non si stanca mai di auspicare Papa Francesco.

 

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Le parole di papa Francesco


Oggi nel Vangelo Gesù si imbatte nelle nostre due situazioni più drammatiche, la morte e la malattia. Da esse libera due persone: una bambina, che muore proprio mentre il padre è andato a chiedere aiuto a Gesù; e una donna, che da molti anni ha perdite di sangue. Gesù si lascia toccare dal nostro dolore e dalla nostra morte, e opera due segni di guarigione per dirci che né il dolore né la morte hanno l’ultima parola. Ci dice che la morte non è la fine. Egli vince questo nemico, dal quale non possiamo liberarci da soli.
Concentriamoci, però, in questo periodo in cui la malattia è ancora al centro delle cronache, sull’altro segno, la guarigione della donna. Più che la sua salute, a essere compromessi erano i suoi affetti. Perché? Aveva perdite di sangue e perciò, secondo la mentalità di allora, era ritenuta impura. Era una donna emarginata, non poteva avere relazioni stabili, non poteva avere uno sposo, non poteva avere una famiglia e non poteva avere rapporti sociali normali perché era “impura”, una malattia che la rendeva “impura”. Viveva sola, con il cuore ferito. La malattia più grande della vita, qual è? Il cancro? La tubercolosi? La pandemia? No. La malattia più grande della vita è la mancanza di amore, è non riuscire ad amare. Questa povera donna era malata sì delle perdite di sangue, ma, per conseguenza, di mancanza di amore, perché non poteva essere socialmente con gli altri. E la guarigione che più conta è quella degli affetti. Ma come trovarla? Noi possiamo pensare ai nostri affetti: sono ammalati o sono in buona salute? Sono malati? Gesù è capace di guarirli.
La storia di questa donna senza nome – la chiamiamo così “la donna senza nome” –, nella quale possiamo vederci tutti, è esemplare. Il testo dice che aveva fatto molte cure, «spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando». Anche noi, quante volte ci buttiamo in rimedi sbagliati per saziare la nostra mancanza di amore? Pensiamo che a renderci felici siano il successo e i soldi, ma l’amore non si compra, è gratuito. Ci rifugiamo nel virtuale, ma l’amore è concreto. Non ci accettiamo così come siamo e ci nascondiamo dietro i trucchi dell’esteriorità, ma l’amore non è apparenza. Cerchiamo soluzioni da maghi, da santoni, per poi trovarci senza soldi e senza pace, come quella donna. Lei, finalmente, sceglie Gesù e si butta tra la folla per toccare il mantello, il mantello di Gesù. Quella donna, cioè, cerca il contatto diretto, il contatto fisico con Gesù. Soprattutto in questo tempo, abbiamo capito quanto siano importanti il contatto, le relazioni. Lo stesso vale con Gesù: a volte ci accontentiamo di osservare qualche precetto e di ripetere preghiere – tante volte come i pappagalli –, ma il Signore attende che lo incontriamo, che gli apriamo il cuore, che, come la donna, tocchiamo il suo mantello per guarire. Perché, entrando in intimità con Gesù, veniamo guariti nei nostri affetti.
Questo vuole Gesù. Leggiamo infatti che, pur stretto dalla folla, si guarda attorno per cercare chi lo ha toccato. I discepoli dicevano: “Ma guarda che la folla ti stringe…”. No: “Chi mi ha toccato?”. È lo sguardo di Gesù: c’è tanta gente, ma Lui va in cerca di un volto e di un cuore pieno di fede. Gesù non guarda all’insieme, come noi, ma guarda alla persona. Non si arresta di fronte alle ferite e agli errori del passato, ma va oltre i peccati e i pregiudizi. Tutti noi abbiamo una storia, e ognuno di noi, nel suo segreto, conosce bene le cose brutte della propria storia. Ma Gesù le guarda per guarirle. Invece a noi ci piace guardare le cose brutte degli altri. Quante volte, quando noi parliamo, cadiamo nel chiacchiericcio, che è sparlare degli altri, “spellare” gli altri. Ma guarda: che orizzonte di vita è questo? Non come Gesù, che sempre guarda il modo di salvarci, guarda l’oggi, la buona volontà e non la storia brutta che noi abbiamo. Gesù va oltre i peccati. Gesù va oltre i pregiudizi, Non si ferma alle apparenze, arriva al cuore Gesù. E guarisce proprio lei, che era scartata da tutti, un’impura. Con tenerezza la chiama «figlia» – lo stile di Gesù era la vicinanza, la compassione e la tenerezza: “Figlia…” – e loda la sua fede, restituendole fiducia in sé stessa.
Sorella, fratello, sei qui, lascia che Gesù guardi e guarisca il tuo cuore. Anch’io devo fare questo: lasciare che Gesù guardi il mio cuore e lo guarisca. E se hai già provato il suo sguardo tenero su di te, imitalo, e fai come Lui. Guardati attorno: vedrai che tante persone che ti vivono accanto si sentono ferite e sole, hanno bisogno di sentirsi amate: fai il passo. Gesù ti chiede uno sguardo che non si fermi all’esteriorità, ma vada al cuore; uno sguardo non giudicante – finiamo di giudicare gli altri – Gesù ci chiede uno sguardo non giudicante, ma accogliente. Apriamo il nostro cuore per accogliere gli altri. Perché solo l’amore risana la vita, solo l’amore risana la vita. La Madonna, Consolatrice degli afflitti, ci aiuti a portare una carezza ai feriti nel cuore che incontriamo sul nostro cammino. E non giudicare, non giudicare la realtà personale, sociale, degli altri. Dio ama tutti! Non giudicare, lasciate vivere gli altri e cercate di avvicinarvi con amore.


Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 27 giugno 2021

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica per parlarci del Regno di Dio prendono spunto dalla parabola del seme: la Parola di Dio si diffonde tra gli uomini non per la capacità o la bravura degli uomini, che restano solo collaboratori per l’avvento del Regno di Dio, ma l’azione dello Spirito Santo che fa germogliare e crescere il seme, che guida e anima la Chiesa.
Nella prima lettura il profeta Ezechiele si rivolge al popolo ebreo sfiduciato e scoraggiato, deportato in esilio a Babilonia e adopera l’immagine della cima del cedro reciso e trapiantato su di un altro terreno. Il popolo ebreo teme di essere stato abbandonato da Dio, teme di essere destinato alla dispersione, di essere votato allo sterminio. Solo pochi rimangono fedeli e radicati nella speranza, fedeli alle promesse.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, ci esorta ad avere fiducia in Dio ed essere sicuri che Dio non dimentica nulla di quanto facciamo di bene nel suo amore.
Nel Vangelo di Marco, Gesù con le parabole del piccolo seme che germoglia e cresce e del granello di senape che si sviluppa fino a diventare un grande arbusto, mette in evidenza la sproporzione tra gli umili inizi e il grandioso risultato del Regno di Dio che Egli annuncia.
Queste letture ci insegnano che i ritmi di Dio non sono quelli frenetici e impazienti di noi umani. Noi spesso vorremmo che Dio si affrettasse a venire a fare giustizia, vorremmo persino dargli suggerimenti. Ci meravigliamo persino di quanta pazienza usi perché Egli attende, spera, ama le cose piccole che col tempo danno frutto. Se siamo veramente credenti dobbiamo fare nostra l’ottica di Dio che è di fede, pazienza e speranza.

Dal libro del profeta Ezechièle
Così dice il Signore Dio:
«Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami lo coglierò
e lo pianterò sopra un monte alto, imponente;
lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti
e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
Sapranno tutti gli alberi della foresta
che io sono il Signore,
che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso,
faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.
Io, il Signore, ho parlato e lo farò».
Ez 17,22-24

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo.
Centro del messaggio di Ezechiele è la trascendenza di Dio, caratteristica condivisa con gli altri grandi profeti. Nella grande teofania iniziale e nella seconda grande teofania, evita accuratamente di dare una rappresentazione della divinità, e descrive in termini fantasticamente antropomorfici 'la corte divina',e non la divinità in sé. Ezechiele aveva fatto proprio anche un messaggio di giudizio. Giuda aveva disobbedito alle leggi di Dio, trascurato il sabato, profanato il Tempio, praticato l'impurità, stretto legami con popoli stranieri e per tutto questo doveva essere punito. Ma Ezechiele si fece portatore anche di un messaggio di speranza, perché Giuda si sarebbe risollevato dalla sua caduta come un morto che risuscita dalla tomba.
Questo brano ci porta all’anno 597 a.C. quando Nabucodonosor deportò in Babilonia il re Ioiachin e mise al suo posto Sedecia, il quale non solo ruppe l’alleanza con il re di Babilonia, ma anche con Dio.
Il Signore allora lo castiga, ma senza però interrompere con il popolo di Israele l’opera di salvezza promessa. Infatti tramite Ezechiele annuncia la restaurazione del regno ricorrendo a delle allegorie, (nei versetti precedenti questo brano c’è l’allegoria dell’Aquila che richiamava Nabucodonosor) ora con l’allegoria dell’agricoltore dichiara:
“Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico”.
Ezechiele paragona la storia del suo popolo a un grande cedro nato e cresciuto per iniziativa di Dio. L'albero è divenuto infruttuoso a causa dell'infedeltà, perciò Dio reciderà un ramoscello dalla sua cima per trapiantarlo in un altro terreno (simbolo della deportazione in Babilonia).
In mezzo all'infedeltà generale, però, un "piccolo resto" è rimasto fedele a Dio e alla Sua alleanza e, grazie ad esso, il piano di Dio giungerà a compimento.
Questo "resto fedele“, simboleggiato nel ramoscello che Dio stesso ha reciso “dalla cima del cedro”, e piantato di nuovo sul monte alto d’Israele, metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico” alla cui ombra ogni volatile riposerà.
E’ l’albero messianico, simbolo di vita, di speranza e di protezione, un segno verso il quale volgeranno lo sguardo gli altri popoli per arrivare al culto del vero Dio.
In questa interpretazione dell'esilio babilonese si sente l'eco dell'esodo dall'Egitto: due esperienze distanti nel tempo, ma che hanno aiutato Israele a crescere nella coscienza di popolo di Dio; un Dio che tra le complesse vicende umane è sempre capace di costruire e tracciare una nuova storia per il Suo popolo. E'Dio il garante del futuro soprattutto per chi è debole, piccolo e senza speranza.
Il versetto finale: “Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco” che possiamo collegare alle parole di Maria nel Magnificat: "Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili..“ ci presentano un Dio che vuole anche oggi un futuro, una dignità, per ogni persona anche piccola, per ogni popolo povero e oppresso. Nessuno nella vita può considerarsi un fallito, perché veglia su di lui il Dio della vita che si fa solidale con l'uomo.


Salmo 91 È bello rendere grazie al Signore.
È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte.
Il giusto fiorirà come palma
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore
fioriranno negli atri del nostro Dio

Nella vecchiaia daranno ancora frutti
saranno verdi e rigogliosi
per annunciare quanto è retto il Signore:
mia roccia, in lui non c’è malvagità.

Il salmo esordisce presentando la bellezza del dar lode a Dio, della preghiera che canta contemplando ciò che Dio è: “Al tuo nome, o Altissimo”.
Il salmo è individuale, ma celebra la preghiera liturgica del tempio, dove erano in uso gli strumenti musicali e dove si lodava Dio anche durante veglie notturne. A questa preghiera nel tempio egli partecipava.
Il salmista, probabilmente un levita, riflette sulla grandezza delle opere di Dio: la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai, la conquista della Terra Promessa, la costruzione del tempio.
Egli osserva che i pensieri di Dio hanno una profondità tale che gli uomini non possono esaurirne la comprensione (Cf. Ps 35,7; 39,6).
Gli uomini insensati non sono umili, per questo non possono intendere le cose di Dio, e scelgono i loro vaneggiamenti che li conducono alla rovina eterna, che come tale è irreversibile. Il loro fiorire e affermarsi “è solo per la loro eterna rovina”.
Il salmista ha molti nemici, che sono anche e principalmente nemici di Dio, ma riceve da Dio la forza per la lotta: “Tu mi doni la forza di un bufalo, mi hai cosparso di olio splendete”.
Noi in Cristo la forza la riceviamo dallo Spirito Santo, e l'olio che abbiamo ricevuto è quello del crisma del sacramento della Confermazione.
La forza e la sicurezza che il salmista sente nella fede lo porta a non temere gli uomini, gli avversari: “I miei occhi disprezzeranno i miei nemici”. Per noi cristiani non c'è il disprezzo dei nemici in quanto persone, ma solo disprezzo delle loro lusinghe per travolgerci, delle loro intimidazioni per fiaccarci.
E' certo che gli empi non potranno prosperare che per un attimo, ma poi cadranno in rovina: “Contro quelli che mi assalgono, i miei orecchi udranno sventure”.
Il contrario avverrà per i giusti, che si radicano nella frequentazione del tempio, e per questo fioriranno “negli atri del nostro Dio”, e nella vecchiaia “daranno ancora frutti”. Esempi perfetti di questo sono Simeone ed Anna (Lc 2,25s.36s).
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla Seconda Lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.
Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi.
Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.
2Cor 5,6-10

Paolo sente la necessità di scrivere una seconda lettera ai Corinzi perchè aveva saputo che a Corinto erano arrivati in quel periodo degli evangelizzatori che avevano, non soltanto preso le loro distanze dalla persona di Paolo (anziché riconoscerne l'autorità e il suo ruolo di privilegio nei confronti dei Corinzi, essendo egli il fondatore di quella comunità), ma addirittura erano giunti a contestare la sua autorità di apostolo e di padre della comunità. Erano con tutta probabilità giudeo-cristiani venuti da fuori regione, con delle lettere credenziali che avevano lo scopo di "raccomandarli" presso la comunità di Corinto, e presentandosi, si definivano "servitori di Cristo e suoi apostoli“. Con tutta probabilità si facevano mantenere dalle comunità stesse (per questa ragione Paolo, polemicamente, insiste sul suo lavoro con cui ha provveduto personalmente al proprio mantenimento senza pesare sugli altri). Paolo si mostra dunque molto duro e severo anche con la comunità di Corinto che li ha accettati e seguiti, anziché metterli al bando e restare fedele al suo fondatore.
In questo brano l’Apostolo, continua ad approfondire il tema, già iniziato, di tenere sempre lo sguardo rivolto ai beni eterni, e presenta il desiderio di lasciare il corpo per abitare presso il Signore, cioè giungere alla visione beatifica. Queste parole ci dicono come l'anima fedele dopo la morte salirà a Dio vedendolo così come egli è (Fil 1,23; 1Gv 3,2). La visione beatifica non sarà dunque solo alla risurrezione dei corpi, ma dopo la morte per quelli che sono morti in Cristo. Non si dà assolutamente una sospensione dell'attività dell'anima, (come ad esempio si vede nella parabola del ricco epulone), ma anzi essa è superattiva nella carità perché non cammina più nella fede, ma è nella visione di Dio. (Ap 4,4) . Dio inoltre darà all'anima, con una suprema luce, la possibilità di vederlo faccia a faccia (1Cor 13,12). Inoltre, quando l'anima si separerà dal corpo per la morte, c'è subito un giudizio per ciascuno, il giudizio particolare: “Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male”.
Fa un po’ impressione leggere: “comparire davanti al tribunale di Cristo”, ma dobbiamo pensare che la nostra salvezza è sicura. Noi non compariremo in giudizio, ma tutta la nostra vita sarà ripercorsa, come in un film, rivelando tutto ciò che avremo fatto, “di bene o di male”, e riceveremo o un guadagno o una perdita. Ma, nello stesso tempo, il Signore mostrerà come la sua grazia abbia saputo trarre il suo fulgore anche dai nostri peccati.
Ciò che conta è di essere fin da oggi graditi a Dio rendendosi docili alla Sua volontà, svolgendo sempre bene le proprie azioni quotidiane, per essere pronti a sostenere vittoriosi il giudizio davanti al tribunale di Cristo. L’invito è a vivere quaggiù con la speranza fondata su Cristo e non sulle proprie forze.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
Mc 4,26-34

Da questa domenica riprendiamo la lettura del vangelo di Marco che ci accompagnerà fino al prossimo Avvento Su questo brano meditiamo su due parabole: la prima, è quella del “seme” che germoglia e cresce da solo, tipica di Marco, la seconda è quella della senape, narrata anche da Matteo e Luca, ma con minor apporto di particolari.
La prima parabola inizia parlando di un uomo che getta il seme nella terra “dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura”. Con questo paragone Gesù ci vuole far comprendere come l'agricoltore che semina il buon seme deve anche saper attendere pazientemente il raccolto. Nello stesso modo dobbiamo fare anche noi: dobbiamo cioè seminare il bene attorno a noi e, a suo tempo, raccoglieremo questo bene, moltiplicato, anche se, il più delle volte, saranno gli altri, che verranno dopo di noi, a vedere i frutti.
La seconda parabola Gesù la fa iniziare con una domanda: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”.
Nella Terra Santa, ai tempi di Gesù, con il nome di senapa chiamavano, oltre alla pianta che noi conosciamo, anche un albero che raggiunge diversi metri di altezza. Questa parabola ci insegna come il Signore, per diffondere il bene nel mondo, si serve di strumenti umili e semplici. Sono queste le Sue preferenze, e così ha fatto anche quando ha scelto gli Apostoli, umili e semplici pescatori, e li ha fatti diventare evangelizzatori del mondo.
Gesù con le Sue parabole cerca di dare soprattutto una risposta alle idee e alle aspettative messianiche degli Ebrei del Suo tempo. C'erano i Farisei, i quali pensavano che si potesse affrettare l'avvento del Regno di Dio con la penitenza, con i digiuni, con l'osservanza, in genere, della Legge e delle tradizioni. C'erano poi gli Zeloti, che cercavano di impiantare il Regno ricorrendo alla violenza e alla resistenza armata contro i conquistatori romani. C'erano infine gli Apocalittici, che erano convinti di stabilire con precisione, attraverso i loro calcoli complicati, l'ora e il luogo della gloriosa manifestazione del Messia.
Gesù corregge queste varie attese e afferma solennemente che il Regno dei cieli è opera di Dio e non degli uomini. Entrambe le parabole, infatti, mettono in evidenza la inadeguatezza e l' assoluta irrilevanza degli strumenti umani, che Dio usa per realizzare il suo Regno.
La parola di Dio è come il seme, una volta entrata nel cuore non rimane senza effetto, ma germoglia e cresce anche quando tutto sembra spento e morto. Non dobbiamo mai dimenticare che è Dio che lo fa crescere, quando e come vuole.

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“Nell’odierna pagina evangelica (cfr Mc 4,26-34), Gesù parla alle folle del Regno di Dio e dei dinamismi della sua crescita, e lo fa raccontando di due brevi parabole.
Nella prima parabola, il Regno di Dio è paragonato alla crescita misteriosa del seme, che viene gettato sul terreno e poi germoglia, cresce e produce la spiga, indipendentemente dalla cura del contadino, che al termine della maturazione provvede al raccolto. Il messaggio che questa parabola ci consegna è questo: mediante la predicazione e l’azione di Gesù, il Regno di Dio è annunciato, ha fatto irruzione nel campo del mondo e, come il seme, cresce e si sviluppa da sé stesso, per forza propria e secondo criteri umanamente non decifrabili. Esso, nel suo crescere e germogliare dentro la storia, non dipende tanto dall’opera dell’uomo, ma è soprattutto espressione della potenza e della bontà di Dio, della forza dello Spirito Santo che porta avanti la vita cristiana nel Popolo di Dio.
A volte la storia, con le sue vicende e i suoi protagonisti, sembra andare in senso contrario al disegno del Padre celeste, che vuole per tutti i suoi figli la giustizia, la fraternità, la pace. Ma noi siamo chiamati a vivere questi periodi come stagioni di prova, di speranza e di attesa vigile del raccolto. Infatti, ieri come oggi, il Regno di Dio cresce nel mondo in modo misterioso, in modo sorprendente, svelando la potenza nascosta del piccolo seme, la sua vitalità vittoriosa. Dentro le pieghe di vicende personali e sociali che a volte sembrano segnare il naufragio della speranza, occorre rimanere fiduciosi nell’agire sommesso ma potente di Dio. Per questo, nei momenti di buio e di difficoltà noi non dobbiamo abbatterci, ma rimanere ancorati alla fedeltà di Dio, alla sua presenza che sempre salva. Ricordate questo: Dio sempre salva. È il salvatore.
Nella seconda parabola, Gesù paragona il Regno di Dio a un granellino di senape. E’ un seme piccolissimo, eppure si sviluppa così tanto da diventare la più grande di tutte le piante dell’orto: una crescita imprevedibile, sorprendente.
Non è facile per noi entrare in questa logica della imprevedibilità di Dio e accettarla nella nostra vita. Ma oggi il Signore ci esorta a un atteggiamento di fede che supera i nostri progetti, i nostri calcoli, le nostre previsioni. Dio è sempre il Dio delle sorprese. Il Signore sempre ci sorprende. È un invito ad aprirci con più generosità ai piani di Dio, sia sul piano personale che su quello comunitario.
Nelle nostre comunità occorre fare attenzione alle piccole e grandi occasioni di bene che il Signore ci offre, lasciandoci coinvolgere nelle sue dinamiche di amore, di accoglienza e di misericordia verso tutti.
L’autenticità della missione della Chiesa non è data dal successo o dalla gratificazione dei risultati, ma dall’andare avanti con il coraggio della fiducia e l’umiltà dell’abbandono in Dio. Andare avanti nella confessione di Gesù e con la forza dello Spirito Santo. È la consapevolezza di essere piccoli e deboli strumenti, che nelle mani di Dio e con la sua grazia possono compiere opere grandi, facendo progredire il suo Regno che è «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17). La Vergine Maria ci aiuti ad essere semplici, ad essere attenti, per collaborare con la nostra fede e con il nostro lavoro allo sviluppo del Regno di Dio nei cuori e nella storia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 giugno 2018

Pubblicato in Liturgia

In questa domenica, in cui la liturgia ritorna al tempo ordinario, troviamo letture che ci fanno pensare alla lotta drammatica tra il bene e il male. Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta cominciata fin dall'origine del mondo, che durerà, come dice il Signore (vv Mt 24,13; 13,24-30 e 36-43), fino all’ultimo giorno.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Genesi, vediamo come tra Adamo ed Eva c’è sconcerto e contrasto portato dal peccato; non solo tra loro e Dio, ma anche tra loro come coppia, perchè si accusanao a vicenda. Ma Dio, anche se li punisce, non li abbandona, promettendo la redenzione.
Nella seconda lettura, tratta dalla seconda lettera di S.Paolo ai Corinzi, l’Apostolo proclama la grande svolta inaugurata dalla resurrezione di Gesù. Ormai il cristiano è una creatura nuova, radicalmente trasformata rispetto al suo passato di peccatore.
Nel Vangelo di Marco, dopo un piccolo sommario e l’elezione dei dodici, l’evangelista ci racconta come Gesù viene contestato nell’esercizio del suo potere. Gli scribi lo accusano persino di essere un indemoniato! Con la venuta di Gesù il potere del demonio sta per finire anche se in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza sosta per poter restare unito al bene. In questo racconto, quando lo avvertono che Sua madre e i Suoi fratelli erano arrivati, Gesù reagisce in un modo sorprendente, che ci rivela il criterio per capire il Suo messaggio dichiarando “chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
La nuova famiglia di Gesù non nasce quindi da legami di sangue, ma è parentela nella fede. Si creano perciò due gruppi: da una parte coloro che non comprendono Gesù e dall’altra quelli che si stringono attorno a Lui per essere famiglia di Dio.

Dal Libro della Genesi
(Dopo che l’uomo ebbe mangiato del frutto dell’albero), il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
Gen 3,9-15

Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano tratto dal Capitolo 3 descrive la convinzione d’Israele che la condizione umana (quale appariva allora) fosse una partecipazione alla punizione meritata dalla prima trasgressione.
La scena inizia subito dopo che Adamo ebbe mangiato dell’albero, quando Dio scende nel giardino e l'uomo e la donna si nascondono per non farsi vedere. La venuta di Dio evidenzia l'intimità, ormai distrutta, che univa Dio ai nostri progenitori! Dio chiama l'uomo come se non sapesse cosa fosse successo e gli chiede persino «Dove sei?». L'uomo risponde di aver avuto paura e di essersi nascosto perché era nudo.
Più che la paura del castigo, ciò che lo trattiene dal presentarsi a Dio è sicuramente il timore reverenziale, lo stesso che in Israele impediva di esporre il proprio corpo in un luogo sacro (v. Es 20,26).
Dio allora gli chiede: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”. L'uomo però non si assume la responsabilità di ciò che ha fatto e risponde: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”, quasi per evidenziare che il vero colpevole è Dio stesso, che gliel'ha data come compagna.
Il peccato, invece di provocare solidarietà fra coloro che lo commettono, li pone inevitabilmente l'uno contro l'altro. Anche la donna non assume la sua responsabilità quando risponde: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato” gettando la colpa sul serpente.
Dio emettendo la sentenza comincia col condannare il serpente, anche se non era stato neppure interrogato. Questi viene maledetto da Dio con una sentenza irrevocabile: “Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita”.
Poi Dio continua affermando: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”.
Leggendo questo brano nel contesto di tutta la Bibbia, che narra la storia della salvezza, il testo diventa un annunzio di speranza per l'umanità peccatrice. Il racconto della caduta termina con alcuni dettagli non riportati nel brano liturgico. La donna è chiamata Eva (vita), poiché è destinata a diventare la madre di tutti i viventi: nonostante il peccato continua dunque la vita, che è il più grande dono di Dio! L'uomo e la donna sono poi rivestiti da Dio con tuniche di pelle, e ciò vuol significare che l’amore di Dio per loro non è venuto meno. Infine, perché l'uomo non abbia accesso all'albero della vita, Dio lo scaccia dal giardino e lo manda a coltivare la terra “perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto” (3,23)
I cherubini posti a custodia del giardino e dell'albero della vita sono figure mitologiche reminiscenza delle figure babilonesi, mentre la fiamma della spada folgorante rappresenta il fulmine (vv. 22-24). L'allontanamento dal giardino si ispira al tema della rottura dell'alleanza, che comportava per Israele l'abbandono della terra donatagli da Dio (Vv. Dt 11,17; 28,15-68).
L’autore con questo racconto ha voluto dirci qualcosa riguarda l’uomo di tutti i tempi e di tutte le culture, e cioè ha voluto spiegare la sua situazione di sofferenza e di morte. A tale scopo egli ha immaginato che all’inizio della storia l’uomo si trovasse in una situazione ideale, dalla quale è decaduto a causa di un suo peccato. Così facendo egli vuol far vedere che la presenza del male, in tutti i suoi aspetti, non deriva da Dio, ma dall’uomo stesso, il quale si è precluso quella felicità che Dio gli aveva concesso all’inizio. Questo modo di raccontare, tendente a scagionare Dio, ha uno scopo ben preciso: mostrare come Dio, non essendo responsabile del male presente in questo mondo, continua a offrire all’uomo la possibilità di superare i suoi limiti e di raggiungere una condizione di vita adeguata alla sua dignità.
I profeti annunzieranno una salvezza piena che si attuerà in un futuro imprecisato (vv. Is 11,6-9) e quello che per l’autore della Genesi era un paradiso perduto, per i profeti diventa un paradiso che Dio donerà un giorno al Suo popolo e a tutta l’umanità: agli esseri umani non resta che prepararsi a questo evento finale.
Mediante questi due modi simbolici di esprimersi gli autori biblici vogliono semplicemente far comprendere che l’uomo è chiamato alla felicità, ma la raggiunge solo se saprà distaccarsi da tutta una serie di pesanti condizionamenti, che provengono dal suo intimo e dalla società in cui vive.
Il suo rapporto con Dio ha quindi significato e deve essere vissuto in questa prospettiva: il “paradiso terrestre” è sempre disponibile a tutta l’umanità, pur in mezzo a tante difficoltà e sofferenze, a patto però che sia fedele a quei principi di amore e di giustizia che Dio ha scritto nel cuore di ogni uomo.

Salmo 129 - Il Signore è bontà e misericordia.
Dal profondo a te grido, o Signore;
Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.

Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?
Ma con te è il perdono:
così avremo il tuo timore.

Io spero, Signore.
Spera l’anima mia,
attendo la sua parola.
L’anima mia è rivolta al Signore
più che le sentinelle all’aurora.

Israele attenda il Signore,
perché con il Signore è la misericordia
e grande è con lui la redenzione.
Egli redimerà Israele
da tutte le sue colpe.

La composizione di questo salmo penitenziale, detto De profundis e usatissimo come il Miserere , con probabilità è avvenuta durante la devastante campagna di Sennacherib (701 a.C) nella Palestina e l'assedio di Gerusalemme (2Re 18,13; 19,35; 2Cr 32,1.10 Cf. Is 30,8s; Is 36,1; 37,33-36).
L'angoscia, la tribolazione, conducono l'orante a invocare il Signore con insistenza, dal profondo del cuore. Egli, povero peccatore, di ascoltare la sua preghiera. Egli invoca la misericordia di Dio, che va oltre il peccato dell'uomo per salvarlo. Senza la misericordia di Dio l'uomo sarebbe perduto davanti alla giustizia di Dio: “Signore, chi ti può resistere? Ma con te è il perdono”.
Il perdono dei peccati manifesta l'amore di Dio e riconciliando l'uomo a sé lo porta ad avere amore per lui, e quindi a temerlo, cioè a non misconoscerne più la sovranità e la giustizia.
La speranza dell'orante nel perdono di Dio e quindi sul suo soccorso è grande, ed è fondata sulla sua alleanza: “Spera l'anima mia, attendo la sua parola”.
L'attesa del salmista è ben più forte di quella delle sentinelle notturne sulle mura della città, che aspettano l'aurora per andare al riposo.
Il salmista invita tutto Israele, peccatore di molte contaminazione con gli idoli, ad attendere il soccorso del Signore fondandosi sulla verità “perché con il Signore è la misericordia e grande è con lui la redenzione. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe”.
Il perdono dei peccati avverrà per l'espiazione di Cristo e non sarà solo per Israele, ma per tutti gli uomini.
La Chiesa - indefettibile - è sempre bisognosa di purificazione, di perdono, perché se come Ente essa è perfetta e santa, come insieme di uomini è santa e peccatrice.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla seconda lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio.
Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne
Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli.
2Cor 4,13-5,1

Paolo scrisse la seconda lettera al Corinzi, spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo è a Efeso (At 19) e viene a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stanno sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, in cui traspare il suo carattere appassionato. E’ una lettera ardente che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”.
Nei primi 6 capitoli Paolo ripercorre la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto. I contorni veri di questo malinteso non sono chiari , ma questo diventa per Paolo un motivo per ricordare le motivazioni del suo impegno a favore del Vangelo.
In questo brano Paolo, dopo aver prima parlato della grandezza del ministero apostolico come ministro dello Spirito e della giustizia, e approfondito il motivo per cui gli apostoli hanno accettato gioiosamente il paradosso della loro vita: l’assimilazione a Cristo che salva mediante la morte, egli riconosce che tutto ciò ha senso solo se si parte dalla fede.
Inizia affermando: “animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo”, Ogni parola in Paolo è dettata dalla fede, senza la quale per lui non ci sono Parole che possono aiutare l’uomo, senza fede c’è solo una parola umana, ma questa non salva l’uomo.
“convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi”. Paolo poggia la sua fede su colui che ha risuscitato il Signore Gesù e che risusciterà anche noi per portarci accanto a Gesù nella gloria del cielo. Da questa fede egli attinge le parole da portare nel mondo, così per questa fede e in questa fede egli vive.
“Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio.” Tutto è per i discepoli di Gesù, tutto avviene in loro favore, tutto si compie perché loro possono crescere ed abbondare nella verità della salvezza, tutto si verifica perché si manifesti in modo inconfondibile l’amore di Gesù per loro.
“”Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno” . Sapendosi Paolo strumento della grazia di Dio, conoscendo i frutti che una grazia accolta produce in un cuore, non si perde d’animo, non si scoraggia, non si abbatte, non lascia mai il suo ministero di missionario e di araldo di Gesù Cristo. Guai se il missionario di Dio si dovesse scoraggiare anche per un solo istante, la grazia di Dio non si riverserebbe più sull’umanità.
“Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria:”
Paolo vive ogni momento in funzione dell’eternità, del Paradiso, della gloria che il Signore gli darà dopo aver portato a termine la sua corsa. La sua vita è stata tutta una persecuzione, una tribolazione, un martirio, ma tutto questo dolore egli però lo valuta secondo una prospettiva eterna. Da un lato c’è la gloria eterna, che mai finirà, che sarà pienezza di vita e di benedizione, dall’altro c’è una sofferenza che bisogna vivere per entrare nel regno dei cieli. La sofferenza non è eterna, non dura per sempre, non è poi così insopportabile e così dura se la si confronta con la pienezza di gioia e di durata dell’eternità.
“noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne”
Le cose visibili si fissano con l’occhio umano, quelle invisibili invece con l’occhio dello Spirito Santo che abita e dimora dentro di noi. Quelle visibili sono ingannevoli, passeggere, senza valore, quelle invisibili sono vere, eterne, dal valore incalcolabile.
“Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli.”
Il pensiero di Paolo è veramente fisso nel cielo, come se lui già fosse risorto insieme a Cristo. e parla come uno che ha esperienza di queste cose. Egli ha visto il Signore risorto, lo ha visto nel Suo corpo di luce e dallo splendore che emanava egli è stato anche accecato fisicamente. Come lui stesso racconterà, non solo ha visto Cristo Gesù nella Sua gloria sulla via di Damasco, da Dio è stato anche rapito in Paradiso e con occhi non di carne, ma di spirito questa volta, ha visto e contemplato le meraviglie del cielo che nessuna lingua umana è capace di poterle descrivere.
Paolo afferma che ciò che ci attende è inimmaginabile, nessuna mente umana è in grado di concepirlo. Ci sono però delle verità che la fede ci insegna e che Dio stesso ci ha fatto conoscere, anche con concetti umani e con fatti storici.
Da questa rivelazione sappiamo cosa avverrà e per questo dobbiamo prepararci: il nostro corpo verrà disfatto perchè con la morte sarà ridotto in polvere. Questo è il suo disfacimento ,scritto in Genesi “polvere tu sei e in polvere tornerai!” (3,19b). Il corpo è considerato in questo versetto come la nostra abitazione terrena. L’anima che è la parte spirituale dell’uomo è stata posta nel corpo e il corpo è la sua abitazione. L’anima non può stare in eterno senza la sua dimora, perchè essa è stata fatta per abitare in una dimora e questa dimora è il suo corpo. Quando l’anima muore, va nel cielo, se è stata santa e giusta su questa terra, se ha vissuto nella sua dimora terrena secondo la legge del Signore. Nel cielo attende che il Signore gli faccia un’altra dimora, una dimora eterna, una dimora che non è una nuova creazione, altrimenti la morte avrebbe vinto in eterno l’uomo, ma sarà invece una dimora risorta, chiamata a nuova vita.
Sarà la prima dimora, il primo corpo, ma trasformato dalla potenza creatrice del Signore. Dio chiamerà il nostro corpo dalla polvere del suolo e lo consegnerà all’anima, questa lo indosserà nuovamente, ma in una maniera del tutto nuova, perchè indosserà un corpo spirituale, incorruttibile, immortale, glorioso. Indosserà un corpo tutto simile al corpo glorioso di Cristo Gesù!
Questa è la verità della fede ed è verità rivelata, verità che nessuna mente umana avrebbe mai potuto immaginare solamente, anche se il desiderio di immortalità è insito nel cuore di ogni uomo di ogni tempo, di ogni luogo, di ogni religione.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù venne con i suoi discepoli in una casa e si radunò una folla, tanto che non potevano neppure prendere cibo. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo;dicevano infatti: «È fuori di sé».
Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni».
Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa.
In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro».
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».
Mc 3,20-35

Nei versetti precedenti questo brano, tratto dal capitolo 3, Marco aveva riportato l’intensa attività di Gesù: guarigione di un uomo dalla mano inaridita, le folle che lo seguivano e la guarigione di alcuni indemoniati, e infine l’elezione dei dodici discepoli che Gesù aveva scelto affinché “stessero con lui“. In questo brano che si può suddividere in di tre scene, si percepisce sin dall’inizio una certa tensione e violenza.
Nella prima scena vediamo che attorno a Gesù si riunisce tanta gente da non permettere nemmeno a Lui e ai Suoi discepoli di fermarsi per mangiare. Ormai il successo che Gesù riscuote è tale da essere senza precedenti. Inoltre emerge che la dedizione verso la folla trascende anche quelli che sono i propri bisogni di uomo, come il mangiare. Gesù sente in modo impellente la necessità di insegnare, di indicare alla gente la via per il Padre.
La notizia di quanto accade , giunge ai Suoi parenti che “ uscirono per andare a prenderlo;dicevano infatti: «È fuori di sé»”. La loro reazione è quella della cecità e del perbenismo. Questi parenti appaiono gretti e timorosi davanti all’azione libera e provocatoria di Gesù e scelgono il sistema più sbrigativo per soffocare lo scandalo: dichiarare l’infermità mentale del congiunto. Possiamo pensare che questo loro comportamento deve essere stato certamente motivo di molta sofferenza sia per Gesù che per Sua madre.
Nella seconda scena Marco riporta che “Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni»”.
In Marco queste citazioni geografiche hanno un significato preciso. Se la Galilea è il luogo dell’attività di Gesù e quello che in qualche modo accoglie la Sua predicazione, Gerusalemme è il luogo del rifiuto e della condanna a morte.
Gli scribi qui rappresentano il rifiuto totale di Gesù che per loro è un indemoniato. E Gesù , dopo aver evidenziato l’assurdità anche logica di tale definizione attraverso le mini-parabole del regno e della casa divisi e dell’”uomo forte” , denuncia con forza questo peccato imperdonabile come “bestemmia contro lo Spirito Santo”. Esso è il rifiuto ostinato di riconoscere i segni e l’azione di Dio nei segni del Suo santo Spirito!
Nella terza scena Marco racconta come fu l’incontro dei parenti con Gesù. Loro giunsero alla casa dove stava e probabilmente erano venuti da Nazareth. Da lì, fino a Cafarnao, sono circa 40 km e Sua madre era insieme a loro. Non potevano entrare in casa, perché c’era gente perfino davanti alla porta. Per questo gli mandano a dire: “Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”.
La reazione di Gesù è molto decisa: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?».
Lui stesso risponde indicando la moltitudine che stava attorno: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
C’è da tener presente, sempre per una migliore comprensione, che nell’antico Israele, la famiglia-clan, costituiva la base della convivenza sociale. Era il modo concreto che la gente di quell’epoca aveva di incarnare l’amore di Dio nell’amore verso il prossimo. Difendere il clan, la comunità era lo stesso che difendere l’Alleanza.
In Galilea, al tempo di Gesù, a causa del sistema romano, impiantato nei lunghi anni di governo di Erode (37 aC a 4 aC) e di suo figlio Erode Antipa (4 aC a 39 dC), era meno sentito per cui il concetto di clan-comunità si era indebolito. Le imposte da pagare sia al governo che al tempio, l’indebitamento crescente, la mentalità individualista dell’ideologia ellenista, le frequenti minacce di repressione violenta da parte dei romani, l’obbligo di accogliere i soldati e dare loro ospitalità, i problemi sempre maggiori di sopravvivenza, tutto questo portava le famiglie a rinchiudersi in se stesse e nelle proprie necessità. Non si praticava più l’ospitalità, la condivisione, la comunione attorno al tavolo, l’accoglienza agli esclusi. L’osservanza delle norme di purezza era il fattore che causava l’emarginazione di molte persone: donne, bambini, samaritani, stranieri, gente posseduta dal demonio, pubblicani, malati, mutilati, paralitici. Invece di promuovere l’accoglienza e la comunione, queste norme favorivano la separazione e l’esclusione.
Ebbene, affinché il regno di Dio potesse manifestarsi di nuovo nella convivenza comunitaria della gente, le persone dovevano superare i limiti stretti della piccola famiglia ed aprirsi di nuovo alla grande famiglia, alla comunità.
Gesù ci da l’esempio. Quando i Suoi parenti giungono a Cafarnao e cercano di impossessarsi di Lui e di portarlo di nuovo a casa, Egli, invece di rinchiudersi nella Sua piccola famiglia, estende i suoi confini.
Il criterio per capire il messaggio di Gesù è fare la volontà del Padre, e la volontà del Padre è partecipare alla salvezza che Lui offre a tutti gli uomini . Questo concetto lo ritroviamo ancora nel Vangelo di Giovanni: quando Gesù ribadisce: “questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno”.
Gv 6,39 .

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“Il Vangelo di questa domenica ci mostra due tipi di incomprensione che Gesù ha dovuto affrontare: quella degli scribi e quella dei suoi stessi familiari.
La prima incomprensione. Gli scribi erano uomini istruiti nelle Sacre Scritture e incaricati di spiegarle al popolo. Alcuni di loro vengono mandati da Gerusalemme in Galilea, dove la fama di Gesù cominciava a diffondersi, per screditarlo agli occhi della gente: per fare l’ufficio di chiacchieroni, screditare l’altro, togliere l’autorità, questa cosa brutta. E quelli sono stati inviati per fare questo. E questi scribi arrivano con un’accusa precisa e terribile – questi non risparmiano mezzi, vanno al centro e dicono così: «Costui è posseduto da Beelzebul e scaccia i demoni per mezzo del capo dei demoni». Cioè il capo dei demoni è quello che spinge Lui; che equivale a dire più o meno: “Questo è un indemoniato”. Infatti Gesù guariva molti malati, e loro vogliono far credere che lo faccia non con lo Spirito di Dio – come faceva Gesù –, ma con quello del Maligno, con la forza del diavolo. Gesù reagisce con parole forti e chiare, non tollera questo, perché quegli scribi, forse senza accorgersene, stanno cadendo nel peccato più grave: negare e bestemmiare l’Amore di Dio che è presente e opera in Gesù. E la bestemmia, il peccato contro lo Spirito Santo, è l’unico peccato imperdonabile – così dice Gesù –, perché parte da una chiusura del cuore alla misericordia di Dio che agisce in Gesù.
Ma questo episodio contiene un ammonimento che serve a tutti noi. Infatti, può capitare che una forte invidia per la bontà e per le opere buone di una persona possa spingere ad accusarla falsamente. Qui c’è un vero veleno mortale: la malizia con cui in modo premeditato si vuole distruggere la buona fama dell’altro. Dio ci liberi da questa terribile tentazione! E se, esaminando la nostra coscienza, ci accorgiamo che questa erba cattiva sta germogliando dentro di noi, andiamo subito a confessarlo nel sacramento della Penitenza, prima che si sviluppi e produca i suoi effetti malvagi, che sono inguaribili. Siate attenti, perché questo atteggiamento distrugge le famiglie, le amicizie, le comunità e perfino la società.
Il Vangelo di oggi ci parla anche di un’altra incomprensione, molto diversa, nei confronti di Gesù: quella dei suoi familiari. Questi erano preoccupati, perché la sua nuova vita itinerante sembrava loro una pazzia. Infatti, Egli si mostrava così disponibile per la gente, soprattutto per i malati e i peccatori, al punto da non avere più nemmeno il tempo di mangiare. Gesù era così: prima la gente, servire la gente, aiutare la gente, insegnare alla gente, guarire la gente. Era per la gente. Non aveva tempo neppure per mangiare. I suoi familiari, dunque, decidono di riportarlo a Nazareth, a casa. Arrivano nel posto dove Gesù sta predicando e lo mandano a chiamare. Gli viene detto: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano» . Egli risponde: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?», e guardando le persone che stavano intorno a Lui per ascoltarlo aggiunge: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre» . Gesù ha formato una nuova famiglia, non più basata sui legami naturali, ma sulla fede in Lui, sul suo amore che ci accoglie e ci unisce tra noi, nello Spirito Santo. Tutti coloro che accolgono la parola di Gesù sono figli di Dio e fratelli tra di loro. Accogliere la parola di Gesù ci fa fratelli tra noi, ci rende la famiglia di Gesù. Sparlare degli altri, distruggere la fama degli altri, ci rende la famiglia del diavolo.
Quella risposta di Gesù non è una mancanza di rispetto verso sua madre e i suoi familiari. Anzi, per Maria è il più grande riconoscimento, perché proprio lei è la perfetta discepola che ha obbedito in tutto alla volontà di Dio.
Ci aiuti la Vergine Madre a vivere sempre in comunione con Gesù, riconoscendo l’opera dello Spirito Santo che agisce in Lui e nella Chiesa, rigenerando il mondo a vita nuova.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 10 giugno 2018

Pubblicato in Liturgia

La festa del Corpus Domini, più propriamente chiamata solennità del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, è una delle principali solennità dell'anno liturgico e la celebrazione, chiudendo il ciclo delle feste del dopo Pasqua, vuole celebrare il mistero dell'Eucaristia. Questa festa è stata istituita nel lontano 1264 da Papa Urbano IV a ricordo del miracolo eucaristico avvenuto nel 1263 a Bolsena, sebbene di miracoli eucaristici si erano verificati molto tempo prima.
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo, leggiamo che il popolo d’Israele ai piedi del monte Sinai strinse solennemente l’alleanza con Dio, impegnandosi ad osservare con totale fedeltà i comandamenti del Signore. Il sangue sparso sull’altare e sul popolo prefigura il sangue di Cristo nostro Salvatore.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, l’autore afferma che il sangue di Cristo, immolato sulla croce una volta per sempre, elimina l’ostacolo dell’incontro con Dio, cioè il peccato, che l’antico rituale ebraico non era in grado di togliere.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco ci fa rivivere la scena della Cena Pasquale, in cui Gesù istituisce l’Eucaristia nella quale si offre vittima per i peccati del mondo. La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore è una pregustazione di una intimità senza incrinature e senza frontiere con Dio. E’ per questo che l’Eucaristia domenicale è celebrata sempre “nell’attesa della venuta” gloriosa di Cristo. L’eucaristia è espressione della presente vicinanza di Dio con il Suo popolo, che pellegrina in mezzo alle oscurità della storia, ma è anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno eliminati per sempre.

Dal Libro dell’Esodo
In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!».
Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.
Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
Es. 24,3-8

Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nel brano che la Liturgia ci propone, tratto dal 24^ capitolo, troviamo descritte varie operazioni che compie Mosé per celebrare un rito che sancisce un'Alleanza con Dio e il Suo l popolo. Dio accetta questi riti perché sono segni che si praticavano a quei tempi e la gente li capiva. In questo modo il Signore vuole garantire un'alleanza concreta con il Suo popolo attraverso il sacrificio di animali con il mutuo consenso del popolo intero e non solo di Mosè. Così metà del sangue è versato sull'altare (che rappresenta Dio): Dio in tal modo esprime il Suo consenso. Un'altra metà è posta in catini. Poi dopo queste azioni Mosé “prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».” Un'alleanza si compie quando per tutti sono chiare le clausole e si sa quello che si accetta. E qui vengono lette le leggi che il popolo deve mantenere per stare ai patti e quindi meritare la fiducia del Signore e la Sua protezione. Il popolo accetta e formula anche verbalmente la propria adesione. Accettata l'alleanza perché c'è accordo con le regole-leggi di Dio, Mosè versa l'altra metà del sangue contenuta nei catini “dicendo «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!”.
Con tutta probabilità, anche se non viene riportato, si asperge il popolo versando il sangue su dodici stele o colonnine, presumibilmente disposte in cerchio che rappresentano le 12 tribù. La medesima vita, rappresentata dal sangue, lega i due contraenti: Dio e il Suo popolo diventano "consanguinei". Un patto di sangue lega ormai il Signore e Israele in una relazione di intimità e di amore.
E’ proprio a quelle parole che Gesù si ricollega nell’ultima sera della Sua vita terrena, quando nel cenacolo celebra la cena pasquale con i Suoi discepoli.

Salmo 115 - Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore.

Che cosa renderò al Signore,
per tutti i benefici che mi ha fatto?
Alzerò il calice della salvezza
e invocherò il nome del Signore.

Agli occhi del Signore è preziosa
la morte dei suoi fedeli.
Io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.

A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo.

Il salmista ha provato momenti di sgomento di fronte agli inganni degli uomini. Si era trovato imprigionato, ma poi ha visto la libertà: “hai spezzato le mie catene”. Come risposta il salmista offrirà “un sacrificio di ringraziamento".
Una parte delle vittime sacrificate spettava all'offerente, che la consumava in un convito coi famigliari, gli amici, i poveri (Cf. Ps 21,27). Durante il convito l'offerente prendeva una coppa di vino presentandola al Signore e poi ne beveva lui e tutti gli altri: “Alzerò il calice della salvezza”.
Il salmista dice che “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli”, intendendo affermare che l'ora della morte dei fedeli a Dio non è ad arbitrio degli uomini. Lui decide il dove, il come e il quando, e questo per il bene del fedele.
Il salmista offrirà "un sacrificio di ringraziamento" davanti a tutto il popolo, e con piena ortodossia nel tempio del Signore, a Gerusalemme, testimoniando così pubblicamente la sua fede nel Signore.
L'esistenza del tempio porta a pensare ad un personaggio perseguitato per la sua fedeltà a Dio da un qualche re di Gerusalemme rivolto agli dei pagani; come fu il caso di Geremia.
“Il calice della salvezza”, nel sensus plenior è quello eucaristico.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Lettera agli Ebrei
Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.
Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?
Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.
Eb 9,11-15

L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Bibbia, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se rimaste sconosciute. Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica .
Il capitolo 9, da dove è tratto questo brano, mette a confronto il sacrificio di Cristo, sacerdote e vittima con quello offerto nel grande giorno dell’espiazione. Nel rito ebraico il sommo sacerdote una volta all’anno, durante la festa dell’Espiazione (Yom Kippur), entrava con il sangue dell’espiazione nel Santo dei Santi e lì, nascosto alla vista del popolo, rimaneva però al suo servizio in quanto ne espiava le colpe offrendo il sacrificio annuale.
A confronto del sommo Sacerdote, Cristo è entrato una sola volta e per sempre nel santuario celeste e non con il sangue di capri e di tori ha offerto il sacrificio, ma con il proprio sangue proclamando per tutti una redenzione definitiva, eterna, perchè il Suo sacrificio ha valore eterno. Infatti se già purificava il sacrificio di sangue di capri e tori, di gran lunga maggiore sarà la purificazione ottenuta con un sangue senza macchia e per di più del Figlio di Dio. Per questo Gesù è divenuto mediatore di un nuovo patto, una nuova alleanza, assolutamente perfetta, che assicura a quelli che credono in Lui l’eredità promessa.

Il “Santo dei Santi o Sancta sanctorum”, letteralmente “camera posteriore”, era la parte più santa del tempio, era il luogo della presenza di Dio, il luogo in cui si trovava l’arca con le tavole della legge, coperta dal propiziatorio costituito da una lastra d’oro e due angeli che la coprivano con le loro ali.
Il Santo dei Santi era una cella cubica di circa 9 metri di lato e separata dall’altra parte del tempio da una porta, poi sostituita da una tenda: il “Velo del tempio” che si squarciò alla morte di Gesù in croce (Mc 15,38; Mt, 27,51; Lc 23,45

Dal Vangelo secondo Marco
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Mc 14,12-16.22-26

L’evangelista Marco struttura il racconto della cena del Signore su quanto si legge nel Libro dell’Esodo, in cui Mosè prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo, poi prese il sangue e ne asperse il popolo e disse “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole”.
Il brano liturgico inizia in questo modo: Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». 1
I discepoli chiedono a Gesù dove vuole celebrare la Pasqua in modo di avere il tempo per i vari preparativi come la pulizia rituale degli ambienti e l’acquisto dell’agnello e di gli altri cibi necessari prima del calar del sole. Come risposta alla domanda dei discepoli Gesù manda due di loro in città dopo aver programmato tutto nel minimo dettaglio. I discepoli allora vanno e, entrati in città, trovano come aveva detto loro e preparano per la Pasqua. Ancora una volta, come in occasione dell’ingresso in Gerusalemme, Gesù agisce come il regista di un piano preordinato da Dio e da Lui pienamente conosciuto e accettato.
All’inizio della cena Gesù dimostra nuovamente la piena consapevolezza di quanto sta per accadere (anche il tradimento di Giuda) e dei suoi sviluppi futuri. Il brano precisa che mentre mangiavano, Gesù “prese il pane e recitò la benedizione”; questi gesti richiamano il rito con cui aveva inizio non solo la cena pasquale, ma ogni banchetto giudaico.
Per i giudei la benedizione consisteva in un ringraziamento a Dio per i benefici accordati al Suo popolo, dei quali il pane era simbolo; mangiando insieme il pane spezzato i commensali esprimevano da una parte l’accettazione dei doni di Dio e dall’altra il rapporto di comunione tra loro, che ne era la diretta conseguenza. Gesù, pur seguendo il rituale, ne offre all’improvviso un significato sorprendente e inedito perchè afferma rivolto ai commensali “Prendete, questo è il mio corpo!”. Ciò significa, secondo il linguaggio biblico, che il pane rappresenta Lui stesso, la Sua persona. Spezzando quel pane e offrendolo ai commensali, Gesù stabiliva con loro un legame di comunione profonda, facendo si che essi entrassero nella Sua stessa vita, nella Sua morte e nella Sua gloria.
Secondo il costume giudaico, alla consumazione del pane azzimo e dell’agnello pasquale seguiva la benedizione solenne che si pronunziava su una coppa di vino per ringraziare Dio per i benefici concessi al Suo popolo: tutti i commensali poi ne bevevano, per testimoniare così nuovamente la comunione che si era stabilita tra di loro in forza del dono ricevuto da Dio. Anche a questo punto Gesù imprime al rituale una svolta con le parole del Suo “ringraziamento”: “ Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”. E’ qui che riecheggiano le parole di Mosè al Sinai: il vino della Pasqua è ora il sangue di Cristo, che crea l’alleanza piena e perfetta tra Dio e l’uomo. “Il sangue versato per molti”, è un’espressione orientale per indicare che è il sangue di una persona sacrificata per salvare tutti gli uomini.
Gesù poi aggiunge un ultimo messaggio: “io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio” ossia Egli annunzia che dopo la cena eucaristica e la pausa buia della morte, berrà il calice del vino nuovo nel regno di Dio.
E’ il banchetto della perfezione celeste cantato da Isaia, in cui “il Signore Dio eliminerà la morte per sempre; asciugherà le lacrime su ogni volto” Is 25,8
La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore è, quindi una pregustazione di un’intimità senza limiti con Dio.
Dobbiamo sempre avere in mente che l’eucaristia è espressione della presente vicinanza di Dio con il Suo popolo in cammino in mezzo alle oscurità della storia, ma anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno eliminate per sempre.

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Si conoscono tanti Miracoli Eucaristici, il più conosciuto è quello di Bolsena, che ha dato origine alla festa del Corpus Domini, ma il più straordinario è senza dubbio quello di Lanciano che è avvenuto intorno all'anno settecento.. Ciò si desume da circostanze e concomitanze storiche dovute alla persecuzione in Oriente da parte dell'Imperatore Leone III, l'Isaurico, il quale iniziò una feroce persecuzione contro la Chiesa e il culto delle immagini sacre (iconoclastia).
In concomitanza della "lotta iconoclasta" nella Chiesa orientale, molti monaci greci si rifugiarono in Italia, tra essi i monaci basiliani, discepoli di San Basilio (329-379) Vescovo di Cesarea di Cappadocia (nell'attuale Turchia Orientale). Alcune comunità di esse si rifugiarono a Lanciano.
Un giorno un monaco mentre celebrava la Santa Messa fu assalito dal dubbio circa la presenza reale di Gesù nella Santa Eucaristia. Pronunziate le parole della consacrazione sul pane e sul vino, all'improvviso, dinanzi ai suoi occhi vide il pane trasformarsi in Carne, il vino in Sangue…
Alle varie ricognizioni ecclesiastiche, condotte fin dal 1574, seguì, nel 1970-1971 e ripresa in parte nel 1981, quella scientifica, compiuta da illustri scienziati. Le analisi, eseguite con assoluto rigore scientifico e documentate da una serie di fotografie al microscopio, hanno dato questi risultati: La Carne è vera Carne. Il Sangue è vero Sangue. La Carne e il Sangue appartengono alla specie umana. La Carne è un "CUORE" completo nella sua struttura essenziale. Nella Carne sono presenti, in sezione, il miocardio, l'endocardio, il nervo vago e, per il rilevante spessore del miocardio, il ventricolo cardiaco sinistro. La Carne e il Sangue hanno lo stesso gruppo sanguigno: AB, lo stesso del lenzuolo della Sacra sindone di Torino .
La conservazione della Carne e del Sangue miracolosi, lasciati allo stato naturale per dodici secoli ed esposti all'azione di agenti fisici, atmosferici e biologici, rimane un fenomeno straordinario.
A conclusione si può dire che la Scienza, chiamata in causa, ha dato una risposta sicura ed esauriente circa la autenticità del Miracolo Eucaristico di Lanciano.

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Le parole di Papa Francesco

Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra la Solennità del Corpo e Sangue di Cristo. Il Vangelo ci presenta il racconto dell’Ultima Cena (Mc 14,12-16.22-26). Le parole e i gesti del Signore ci toccano il cuore: Egli prende il pane nelle sue mani, pronuncia la benedizione, lo spezza e lo porge ai discepoli, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo».
È così, con semplicità, che Gesù ci dona il sacramento più grande. Il suo è un gesto umile di dono, un gesto di condivisione. Al culmine della sua vita, non distribuisce pane in abbondanza per sfamare le folle, ma spezza sé stesso nella cena pasquale con i discepoli. In questo modo Gesù ci mostra che il traguardo della vita sta nel donarsi, che la cosa più grande è servire. E noi ritroviamo oggi la grandezza di Dio in un pezzetto di Pane, in una fragilità che trabocca amore, trabocca condivisione.
Fragilità è proprio la parola che vorrei sottolineare. Gesù si fa fragile come il pane che si spezza e si sbriciola. Ma proprio lì sta la sua forza, nella sua fragilità. Nell’Eucaristia la fragilità è forza: forza dell’amore che si fa piccolo per poter essere accolto e non temuto; forza dell’amore che si spezza e si divide per nutrire e dare vita; forza dell’amore che si frammenta per riunire tutti noi in unità.
E c’è un’altra forza che risalta nella fragilità dell’Eucaristia: la forza di amare chi sbaglia. È nella notte in cui viene tradito che Gesù ci dà il Pane della vita. Ci regala il dono più grande mentre prova nel cuore l’abisso più profondo: il discepolo che mangia con Lui, che intinge il boccone nello stesso piatto, lo sta tradendo. E il tradimento è il dolore più grande per chi ama. E che cosa fa Gesù? Reagisce al male con un bene più grande. Al no” di Giuda risponde con il “sì” della misericordia. Non punisce il peccatore, ma dà la vita per lui, paga per lui. Quando riceviamo l’Eucaristia, Gesù fa lo stesso con noi: ci conosce, sa che siamo peccatori, sa che sbagliamo tanto, ma non rinuncia a unire la sua vita alla nostra. Sa che ne abbiamo bisogno, perché l’Eucaristia non è il premio dei santi, no, è il Pane dei peccatori. Per questo ci esorta: “Non abbiate paura! Prendete e mangiate”.
Ogni volta che riceviamo il Pane di vita, Gesù viene a dare un senso nuovo alle nostre fragilità. Ci ricorda che ai suoi occhi siamo più preziosi di quanto pensiamo. Ci dice che è contento se condividiamo con Lui le nostre fragilità. Ci ripete che la sua misericordia non ha paura delle nostre miserie. La misericordia di Gesù non ha paura delle nostre miserie. E soprattutto ci guarisce con amore da quelle fragilità che da soli non possiamo risanare. Quali fragilità? Pensiamo. Quella di provare risentimento verso chi ci ha fatto del male – questa da soli non la possiamo guarire –; quella di prendere le distanze dagli altri e isolarci in noi stessi – questa da soli non la possiamo guarire –; quella di piangerci addosso e lamentarci senza trovare pace – anche questa noi soli non la possiamo guarire. È Lui che ci guarisce con la sua presenza, con il suo Pane, con l’Eucaristia. L’Eucaristia è farmaco efficace contro queste chiusure. Il Pane di vita, infatti, risana le rigidità e le trasforma in docilità. L’Eucaristia guarisce perché unisce a Gesù: ci fa assimilare il suo modo di vivere, la sua capacità di spezzarsi e donarsi ai fratelli, di rispondere al male con il bene. Ci dona il coraggio di uscire da noi stessi e di chinarci con amore verso le fragilità altrui. Come fa Dio con noi. Questa è la logica dell’Eucaristia: riceviamo Gesù che ci ama e sana le nostre fragilità per amare gli altri e aiutarli nelle loro fragilità. E questo, durante tutta la vita. Oggi, nella Liturgia delle Ore, abbiamo pregato un inno: quattro versetti che sono il riassunto di tutta la vita di Gesù. Ci dicono così: che Gesù, nascendo, si è fatto compagno di viaggio nella vita; poi, nella cena, si è dato come cibo; poi, nella croce, nella sua morte, si è fatto “prezzo”, ha pagato per noi; e adesso, regnando nei Cieli, è il nostro premio, che noi andiamo a cercare, quello che ci aspetta.
La Vergine Santa, in cui Dio si è fatto carne, ci aiuti ad accogliere con cuore grato il dono dell’Eucaristia e a fare anche della nostra vita un dono. Che l’Eucaristia ci faccia un dono per tutti gli altri.
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 6 giugno 2021

 

1 Il termine Pasqua indica due feste che in origine erano separate, la Pasqua propriamente detta, che consisteva nell’immolazione dell’agnello e nella sua consumazione nell’ambito familiare, e gli Azzimi, che consisteva nel consumare pane azzimo per la durata di una settimana (Es 12,1-20). Nel volgere degli anni le due feste sono state fuse: il giorno di Pasqua in senso proprio è diventato così il primo giorno della settimana degli Azzimi, la quale termina poi con un’altra assemblea festiva. La Pasqua aveva luogo il 15 del mese di Nisan. Siccome il calendario allora in uso era basato sui cicli lunari, la data della pasqua variava ogni anno. La celebrazione della festa iniziava il giorno precedente, dopo il calar del sole. La Pasqua rappresenta per gli ebrei il ricordo annuale dell’uscita degli israeliti dall’Egitto; ad essa era collegato, il ricordo di altri eventi salvifici, quali la creazione, l’alleanza di Dio con Abramo, il sacrificio di Isacco e infine la venuta del Messia.

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica dopo Pentecoste, invitandoci a fissare lo sguardo sul mistero della SS Trinità, ci fanno intravedere il volto di Dio invisibile, misericordioso e pietoso, che si occupa di ognuno di noi, che è Padre, Figlio e Spirito Santo.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, Mosè parla alla sua gente per spiegare loro che mai nessun popolo sulla terra ha avuto l’esperienza di Dio come Israele in Egitto: sentirsi scelti da Dio e soprattutto sul Sinai sentire la voce del proprio Dio e rimanere vivi.
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera ai Romani, approfondisce il tema della figliolanza con Dio, facendo osservare ai destinatari della sua lettera che essi non hanno ricevuto uno spirito da schiavi, che li farebbe ricadere inevitabilmente nella paura, ma uno Spirito che rende figli adottivi. E aggiunge che proprio in forza di questo Spirito noi gridiamo: Abbà! Padre!.
Nel Vangelo, Matteo ci dice che tra i compiti affidati da Gesù ai suoi discepoli prima di ascendere al cielo c’è quello di battezzare “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.
Nel Battesimo il credente è introdotto nella vita di Dio ed è immerso nel Suo amore trinitario, e come figlio può chiamare Dio “Padre”, perché partecipe dello stesso Spirito del Figlio Unigenito. La Trinità non è un mistero da contemplare o da sforzarsi di capire:, è un abbraccio di amore in cui abbandonarsi.

Dal Libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?
O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi?
Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».
Dt 4,32-34,39-40

Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È’ composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali (nella Torah, o “Legge mosaica”, sono enumerati anche un insieme di 613 mitzvòt, o precetti). Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque solo allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
Questo brano, in cui Mosè continua a ricordare alla sua gente la grandezza di Dio e le grandi cose che Lui ha fatto per il Suo popolo, inizia con delle domande che non necessitano di risposta: “vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?”... Mai nessun popolo sulla terra ha avuto l’esperienza di Dio come Israele in Egitto … riuscire a capire che Dio è vicino al Suo popola per essere sorgente di vita!
Poi Mosè invita il popolo a meditare bene nel proprio cuore che: “il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre”.
L'esperienza d'Israele è quella di “un Dio misericordioso; che non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri”. (Dt4,31).
Il senso della fede del popolo di Dio è tutta relazionale; la dimensione spirituale passa attraverso il rapporto amorevole o conflittuale con l'unico Dio che ha scelto per ragioni misteriose proprio quel popolo, lo ha reso Suo “partner” con un Patto che si è mantenuto saldo per Sua misericordiosa volontà.
Tutto quello che siamo anche noi oggi è legato al bene che Dio ci vuole; ogni giorno possiamo essere certi che Lui ci vuole bene perché il bene, che i nostri padri hanno ricevuto al loro tempo, in realtà è fatto anche a noi oggi. Quella che ora meditiamo è una grande dichiarazione d'amore che è scritta nel nostro DNA e che va oltre lo spazio e il tempo.
La felicità per noi oggi, e per i nostri figli domani, sta nella fede che ci fa sentire Dio vicino a noi, come nostro Padre, nella gioia originata dalla comunione col Signore Gesù che ci fa gustare il sapore della vera felicità nel rendere felici gli altri, perché testimoni della Misericordia che lo Spirito Santo continuamente ci annuncia.

Salmo 32 Beato il popolo scelto dal Signore.
Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Dalla parola del Signore furono fatti i cieli,
dal soffio della sua bocca ogni loro schiera.
Perché egli parlò e tutto fu creato,
comandò e tutto fu compiuto.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore,
Signore, come da te noi speriamo.

Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni.
La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.
Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore.
“Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.
Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”.
La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere.
Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi ”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15).
Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.
Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di San Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Rm 8,14-17

Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È’ composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali (nella Torah, o “Legge mosaica”, sono enumerati anche un insieme di 613 mitzvòt, o precetti). Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque solo allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
Questo brano, in cui Mosè continua a ricordare alla sua gente la grandezza di Dio e le grandi cose che Lui ha fatto per il Suo popolo, inizia con delle domande che non necessitano di risposta: “vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?”... Mai nessun popolo sulla terra ha avuto l’esperienza di Dio come Israele in Egitto … riuscire a capire che Dio è vicino al Suo popola per essere sorgente di vita!
Poi Mosè invita il popolo a meditare bene nel proprio cuore che: “il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre”.
L'esperienza d'Israele è quella di “un Dio misericordioso; che non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurata ai tuoi padri”. (Dt4,31).
Il senso della fede del popolo di Dio è tutta relazionale; la dimensione spirituale passa attraverso il rapporto amorevole o conflittuale con l'unico Dio che ha scelto per ragioni misteriose proprio quel popolo, lo ha reso Suo “partner” con un Patto che si è mantenuto saldo per Sua misericordiosa volontà.
Tutto quello che siamo anche noi oggi è legato al bene che Dio ci vuole; ogni giorno possiamo essere certi che Lui ci vuole bene perché il bene, che i nostri padri hanno ricevuto al loro tempo, in realtà è fatto anche a noi oggi. Quella che ora meditiamo è una grande dichiarazione d'amore che è scritta nel nostro DNA e che va oltre lo spazio e il tempo.
La felicità per noi oggi, e per i nostri figli domani, sta nella fede che ci fa sentire Dio vicino a noi, come nostro Padre, nella gioia originata dalla comunione col Signore Gesù che ci fa gustare il sapore della vera felicità nel rendere felici gli altri, perché testimoni della Misericordia che lo Spirito Santo continuamente ci annuncia.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Mt 28, 16-20

L’evangelista Matteo nel capitolo 28 nel suo Vangelo racconta che l’angelo al sepolcro aveva detto alle donne di riferire ai discepoli che Gesù risorto li avrebbe preceduti in Galilea e là lo avrebbero visto. Ora egli precisa che effettivamente i discepoli si sono recati in Galilea e si sono radunati su un monte. Anche questo monte, come quello delle beatitudini, ha un significato teologico perchè proprio nel luogo prescelto essi vedono Gesù e si prostrano davanti a Lui, ma Matteo però precisa che nello stesso tempo essi dubitano.
La loro reazione evidenzia una fede mescolata al dubbio, che nel cammino dei credenti rimane sempre presente, come un’ombra inseparabile. Matteo non descrive i dettagli di questa apparizione, ma riporta che è Gesù che prende l’iniziativa facendosi vedere; e avvicinandosi a loro dichiara: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra.” In forza della Sua morte e risurrezione è stato conferito a Gesù il potere stesso di Dio, che consiste nella capacità di instaurare il Suo regno e di portare la salvezza a tutta l’umanità. La pienezza di questo potere è sottolineata dall’espressione “in cielo e sulla terra”, che indica i due estremi che racchiudono ogni realtà creata.
“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”.
L’autorità del Risorto viene conferita ai discepoli, che in nome del Maestro dovranno andare in tutto il mondo per compiere diverse azioni: fare discepoli, battezzare, insegnare.
L’attività degli Undici consisterà dunque nel “fare discepoli tutti i popoli”… il programma dunque è il discepolato, che ora, dopo la risurrezione di Gesù, deve essere esteso a tutti. Matteo non pensa a una cristianizzazione in massa dei pagani, ma alla formazione di comunità in cui i pagani diventano, allo stesso modo dei giudei, discepoli di Gesù. Questi pagani, come conseguenza del fatto di essere diventati anche loro discepoli, dovranno essere battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: in questa formula si mostra come il battesimo, amministrato originariamente nel nome di Gesù (v. At 8,16; 10,48; 19,5), comporti non solo un coinvolgimento nella persona e nell’insegnamento del Figlio, ma anche un’immersione per mezzo Suo nel Padre e nello Spirito Santo.
Ciò che Gesù comanda ai suoi discepoli non è certo facile da eseguire, il suo sembrerebbe un comandamento alquanto difficile se Lui non avesse aggiunto: “io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Gesù assumendo la nostra natura umana, è divenuto veramente l'"Emmanuele", cioè il "Dio con noi" .In un dialogo incessante d'amore Gesù risorto continua a ripetere ad ognuno di noi, specialmente nei momenti più dolorosi: “non temere Io sono con te!“.

********************

Stavo rimpiangendo il passato
e temendo il futuro.
Improvvisamente il Signore parlò:
Mi chiamo: Io sono.
Tacque
Attesi
Egli continuò:
Quando vivi nel passato,
coi suoi errori e i suoi rimpianti è duro:
io non ci sono.
Il mio nome non è: io ero.
Quando vivi nel futuro,
coi suoi problemi e le sue paure,
è duro. Io non ci sono.
Il mio nome non è: io sarò.
Quando vivi nel momento presente
non è difficile.
Io ci sono,
il mio nome è: IO SONO

*****

“In questa festa nella quale celebriamo Dio: il mistero di un unico Dio. E questo Dio è il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Tre persone, ma Dio è uno! Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito è Dio. Ma non sono tre dei: è un solo Dio in tre Persone. È un mistero che ci ha rivelato Gesù Cristo: la Santa Trinità.
Oggi ci fermiamo a celebrare questo mistero, perché le Persone non sono aggettivazione di Dio, no. Sono Persone reali, diverse, differenti; non sono – come diceva quel filosofo – “emanazioni di Dio”, no, no! Sono Persone. C’è il Padre, che io prego con il Padre Nostro; c’è il Figlio, che mi ha dato la redenzione, la giustificazione; c’è lo Spirito Santo, che abita in noi e abita la Chiesa. E questo parla al nostro cuore, perché lo troviamo racchiuso in quella espressione di San Giovanni che riassume tutta la Rivelazione: «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16). Il Padre è amore, il figlio è amore, lo Spirito Santo è amore. E in quanto è amore, Dio, pur essendo uno e unico, non è solitudine ma comunione, fra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Perché l’amore è essenzialmente dono di sé, e nella sua realtà originaria e infinita è Padre che si dona generando il Figlio, il quale si dona a sua volta al Padre e il loro reciproco amore è lo Spirito Santo, vincolo della loro unità. Non è facile da capire, ma si può vivere questo mistero, tutti noi, si può vivere tanto.
Questo mistero della Trinità ci è stato svelato da Gesù stesso. Egli ci ha fatto conoscere il volto di Dio come Padre misericordioso; ha presentato Sé stesso, vero uomo, come Figlio di Dio e Verbo del Padre, Salvatore che dà la sua vita per noi; e ha parlato dello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio, Spirito di Verità, Spirito Paraclito – ne abbiamo parlato, domenica scorsa, di questa parola “Paraclito” – cioè Consolatore e Avvocato. E quando Gesù è apparso agli Apostoli dopo la risurrezione, Gesù li ha inviati ad evangelizzare «tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19).
La festa odierna, dunque, ci fa contemplare questo meraviglioso mistero di amore e di luce da cui proveniamo e a cui è orientato il nostro cammino terreno.
Nell’annuncio del Vangelo e in ogni forma della missione cristiana, non si può prescindere da questa unità alla quale chiama Gesù, fra noi, seguendo l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: non si può prescindere da questa unità. La bellezza del Vangelo richiede di essere vissuta – l’unità – e testimoniata nella concordia tra noi, che siamo così diversi! E questa unità oso dire che è essenziale al cristiano: non è un atteggiamento, un modo di dire, no, è essenziale, perché è l’unità che nasce dall’amore, dalla misericordia di Dio, dalla giustificazione di Gesù Cristo e dalla presenza dello Spirito Santo nei nostri cuori.
Maria Santissima, nella sua semplicità e umiltà, riflette la Bellezza di Dio Uno e Trino, perché ha accolto pienamente Gesù nella sua vita. Ella sostenga la nostra fede; ci renda adoratori di Dio e servitori dei fratelli.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 30 maggio 2021

Pubblicato in Liturgia

Le letture che la liturgia di questa settima domenica di Pasqua, in cui celebriamo l’Ascensione del Signore, hanno la stessa scenografia che ha come sfondo il cielo.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci racconta che Gesù, dopo aver promesso ai suoi il dono dello Spirito Santo, che darà loro la forza di “testimoniarlo a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra,” sale al cielo, alla destra del Padre,
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera agli efesini, afferma che l’unità della Chiesa si realizza con il concorso attivo di tutti i credenti ognuno con il suo dono di grazia per far crescere il corpo di Cristo nella carità.
Il Vangelo di Marco, si apre con il messaggio solenne indirizzato agli apostoli: esso ha al centro la loro missione, una missione universale di annuncio del vangelo, cioè della persona e della parola del Cristo.
L’Ascensione è una festa d’addio che però non conosce le lacrime e la malinconia. Una partenza che si risolve in una presenza più intensa e in una vicinanza più efficace. Gesù scompare agli occhi dei suoi conoscenti e amici, ma nello stesso tempo si fa riconoscere e amare da una folla immensa di ogni lingua, popolo, razza e nazione, facendosi sentire vivo e operante attraverso la parola e le mani dei suoi discepoli, e della Sua Chiesa, Suo corpo mistico.
L’Ascensione di Gesù segna l’inizio della missione della Chiesa, che non sarà mai sola ma sempre accompagnata dal suo Signore, e lo Spirito Santo che ci ha donato ci sostiene nel cammino verso l’incontro finale con Lui.
Oggi ricorre la 58^ giornata delle comunicazioni sociali ed è anche la festa di tutte le mamme.

Dagli Atti degli Apostoli
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella - disse - che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
At 1,1-11

In questo brano viene riportato il prologo degli Atti degli Apostoli e Luca lo inizia dedicando il suo libro a Teofilo,(la cui identità non è nota), lo stesso a cui aveva dedicato il suo Vangelo. Luca ricorda che nel suo primo racconto aveva già trattato di tutto quello “che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo”. Il gruppo dei Dodici, che dopo il tradimento di Giuda è ridotto a undici, viene così presentato fin dall’inizio come la cerchia degli intimi di Gesù, chiamati esplicitamente con l’appellativo di “apostoli”.
Dopo aver accennato all’ascensione di Gesù, Luca ci riporta al periodo precedente, affermando che Gesù è apparso agli apostoli per quaranta giorni.
Anche qui il numero 40 è un numero simbolico, che spesso è usato per indicare il tempo di preparazione a una particolare rivelazione divina (Mosè trascorre 40 giorni sul Sinai prima di ricevere le tavole dell’alleanza (Es 24,18), il popolo peregrina 40 anni nel deserto prima di giungere alla terra promessa (Nm 14,33), Elia cammina 40 giorni nel deserto verso il monte di Dio (1Re 19,8); nel giudaismo Esdra resta quaranta giorni con Dio quando gli sono consegnati i libri sacri (4Esd 14,23-45) e Baruc istruisce il popolo per quaranta giorni prima della sua assunzione in cielo (2Bar 76,1-4). Anche Gesù aveva trascorso 40 giorni nel deserto, digiunando, prima di iniziare la sua vita pubblica (Lc 4,1-2). Un tempo analogo è necessario agli apostoli per essere adeguatamente istruiti “con molte prove” circa il regno di Dio.
L’annunzio del regno di Dio era stato il programma di Gesù durante la Sua vita terrena ora Egli lo affida agli apostoli e Luca si limita a riferire che egli ordinò loro di non lasciare Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre che essi avevano inteso da lui: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”. Il battesimo mediante lo Spirito santo viene inteso qui non come il rito cristiano che si sostituisce a quello del Battista, ma come il dono dello Spirito fatto alla nascente comunità cristiana nel giorno di Pentecoste. Come Gesù, all’inizio della Sua attività pubblica, ha ricevuto lo Spirito Santo in occasione del battesimo di Giovanni, così anche la Chiesa, all’inizio del suo cammino nel mondo, deve essere contrassegnata dalla presenza dello Spirito.
La domanda dei discepoli a Gesù: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele” dimostra che essi pensavano che fosse ormai imminente il momento in cui i regni di questo mondo sarebbero stati distrutti e di conseguenza instaurata la sovranità di Dio mediante il popolo di Israele, come aveva profetizzato il profeta Daniele (7,27), ma Gesù risponde: “Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra”.
Anche per Gesù solo il Padre conosce i tempi in cui si attua il Suo progetto: ciò significa che l’instaurazione del regno non coincide con la fine del mondo perchè in realtà il regno è già stato inaugurato da Gesù, ma dovrà passare ancora un lungo periodo di tempo prima della Sua venuta piena e definitiva.
Questo nuovo periodo, che inizierà appunto con la venuta dello Spirito Santo, sarà contrassegnato dalla testimonianza degli apostoli che si estenderà da Gerusalemme alla Giudea, alla Samarìa, fino agli estremi confini della terra.
Per Luca, Gerusalemme è il centro della salvezza, mentre gli estremi confini della terra sono il mondo dei pagani e in particolare Roma che, come capitale dell’impero romano, rappresenta, rispetto a Gerusalemme, l’estremo opposto del mondo.
In questo versetto, che delinea il progressivo espandersi del cristianesimo, Luca indica anche il piano della sua opera: egli intende narrare lo sviluppo dell’annunzio evangelico a Gerusalemme poi in Giudea e Samaria e infine, per mezzo di Paolo, in Anatolia e in Grecia.
Nel racconto dell’ascensione Luca si ispira anche a quanto scrive il profeta Daniele, che descrive l’apparizione, sulle nubi del cielo, di uno simile a un figlio di uomo, il quale si presenta davanti al trono di Dio e riceve potere, gloria e regno (Dn 7,13-14). Di questa scena nel racconto degli Atti rimane il particolare della nuvola, simbolo della manifestazione misteriosa di Dio, che sottrae Gesù dallo sguardo degli apostoli.
Come “figlio dell’uomo” Egli si presenta a Dio per ricevere il regno che si è acquistato con la Sua morte. Ma, contrariamente alle aspettative giudaiche, non è ancora venuto il momento della conclusione finale, infatti gli angeli annunziano che Egli dovrà ritornare un giorno “nello stesso modo” in cui i discepoli l’hanno visto andare in cielo. Sarà quello il momento della fine, nel frattempo gli apostoli non devono rimanere a guardare in cielo, come facevano coloro che ricevevano visioni apocalittiche (Dn 10,8), ma devono andare a svolgere la missione che è stata loro affidata, e da loro a tutta la Sua Chiesa, il Suo corpo mistico.
E proprio nell’impegno che noi oggi, Sua Chiesa, abbiamo di testimoniarlo, si sperimenta la Sua presenza, si scopre che Gesù non solo è venuto e verrà, ma che viene, oggi, nell’oggi di ognuno di noi, e lo colma di sé, della Sua gioia. La nostra testimonianza diviene allora indicazione di una presenza esperimentata, amata, e per questa ragione, comunicata.

Salmo 46 Ascende il Signore tra canti di gioia
Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
grande re su tutta la terra.

Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.

Perché Dio è re di tutta la terra,
cantate inni con arte.
Dio regna sulle genti,
Dio siede sul suo trono santo.

Il salmo è un inno festoso a Dio re dell’universo. Il salmo invita tutti i popoli ad applaudire il Signore. Dopo il momento terribile delle vittorie filistee e dei popoli della terra di Canaan, ecco la vittoria per Israele. La terra promessa sta per essere totalmente conquistata e Gerusalemme è stata sottratta ai Gebusei. Un corteo festante porta l’arca dentro la Città di Davide: “Ascende Dio tra le acclamazioni”.
La conquista della terra promessa, la presa di Gerusalemme sono solo una tappa di un disegno più ampio di Dio che riguarda tutti i popoli.
Israele ha visto come Dio ha posto ai suoi piedi le nazioni, e dunque nessuna nazione può resistergli.
Egli è “re di tutta la terra”. Il popolo di Abramo è come un germe chiamato ad attirare a sé i popoli. Il salmista vede profeticamente già attuato questo: “I capi dei popoli si sono raccolti come popolo del Dio di Abramo”. Questo avverrà per mezzo del futuro Messia, che produrrà la nuova ed eterna alleanza. Il segno della sua vittoria sarà la risurrezione, la sua salita al cielo - “ascende Dio tra le acclamazioni” -, il suo stare alla destra del Padre (Cf. Ps 110,1).
Commento tratto da «Perfetta Letizia»

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini».
Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.
Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.
Ef 4,1-13

La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato
Con questo brano ha inizio la seconda parte della lettera quella dedicata all'esortazione.
Paolo inizia prima qualificandosi “prigioniero a motivo del Signore,” e poi continua con le raccomandazioni: “vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto”
Paolo chiede agli Efesini (ed anche a noi oggi) di comportarsi in modo degno della loro nuova dignità. Essi fanno parte di un nuovo corpo, di una nuova realtà che vive di pace e riconciliazione.
“con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore”
Nella comunità cristiana essi devono nutrire la vita comune con alcune virtù fondamentali: l'umiltà, la dolcezza, la grandezza d'animo, che hanno il loro culmine nell'amore fraterno, che si esprime nel perdono e nella solidarietà verso gli altri.
“avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace”.
Questa seconda esortazione è un elemento fondamentale all'interno della comunità: l'impegno a mantenere l'unità, a vivere la pace.
“Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.”
Questi versetti sono una dichiarazione o professione di fede che forse si ripeteva nelle prime assemblee liturgiche. L'accento è posto sull'unità della comunità che si fonda su altre unità: quelle del corpo e dello Spirito che lo mantiene unito, quella della speranza, cioè del futuro a cui tutti tendono, fondata sull'unica chiamata che ha interessato tutti. Questa unità si costruisce soprattutto attorno all'unico Signore, a cui si aderisce con una sola fede e a cui si accede grazie all'unico battesimo e all'unico Dio e Padre, da cui è partito il progetto di salvezza e che continua ad operare in tutti il Suo piano di amore.
“A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo”
Qui Paolo parla ora della costruzione della Chiesa grazie alla varietà dei doni e alla partecipazione di ognuno alla vitalità dell'unico corpo. In questo versetto è sottolineata l'origine unica e generosa del dono fatto a ognuno.
“Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.”
L'affermazione di fede viene confermata con una citazione del Salmo 68,19. La fonte di tutti i doni della Chiesa è il Cristo glorioso, intronizzato al di sopra di tutti i cieli.
“Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri”,
Si precisano ora il ruolo e lo scopo dei doni che si concretizzano nei vari ministeri. Gli apostoli e i profeti sono coloro che hanno avuto un ruolo nella nascita della Chiesa come comunità fondata sull'accoglienza del Vangelo. Si tratta del gruppo tradizionale degli inviati, ai quali appartiene Paolo, e dei predicatori ispirati (i profeti). Sulla stessa linea si pongono gli evangelisti come missionari e coloro che hanno il ruolo di guida pastorale della chiesa locale: i pastori e maestri.
“per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo”
All'interno della Chiesa locale ci sarebbero dunque due gruppi: il gregge di Dio e i maestri che lo guidano nella costruzione del corpo di Cristo.
“finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.”
Solo se i cristiani sono membri di una Chiesa matura, strettamente uniti dalla fede e da una conoscenza piena d’amore, potranno resistere con fermezza in mezzo a un mondo che trascina verso l’errore; solo allora saranno uomini consolidati, “fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” e non esseri deboli, instabili, in balia di ogni nuova corrente di pensiero.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.
Mc 16, 15-20

Questo brano, l’ultimo del vangelo di Marco, è un’appendice aggiunta in seguito, per cui l’autore certamente non è Marco. Il suo vangelo infatti termina bruscamente al cap. 16, con la scoperta del sepolcro vuoto di Gesù da parte delle donne, le quali pur avendo incontrato un angelo che le informava della risurrezione di Gesù, fuggono terrorizzate (16,1-8).
Nella comunità cristiana primitiva questa carenza avrà certamente destato un certo imbarazzo per cui negli anni seguenti venne aggiunta quest’ultima parte, in cui c’è un resoconto degli eventi che sono seguiti alla risurrezione di Gesù. Questo brano è stato chiamato “finale canonica”, in quanto la chiesa ha dichiarato che esso è ispirato e quindi è parte integrale delle Scritture, per cui anche se non è dell’evangelista Marco, resta comunque indubbiamente frutto dell’esperienza della comunità cristiana.
Secondo l’autore di questo brano, Gesù dopo essere apparso a singoli individui, si presenta agli Undici e conferisce loro il mandato missionario. ”Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura…”.
L’evento ha luogo proprio nel momento in cui essi si trovano a mensa, come è scritto nel versetto precedente non riportato dalla liturgia. Questo particolare, citato anche da Luca , ricollega l’apparizione di Gesù con la celebrazione della cena, durante la quale i primi cristiani facevano essi pure l’esperienza del Risorto.
Il messaggio di Gesù agli Undici riguarda anzitutto la missione universale ed inizia in modo simile a quello riportato da Matteo (28,19) ma mentre Matteo riferisce che Gesù comandò loro di “ammaestrare tutte le nazioni”, l’autore di questo brano invece i discepoli “devono andare in tutto il mondo e proclamare il Vangelo a ogni creatura”..
Si evidenziano qui punti importanti di Marco, riguardanti la predicazione di Gesù (1,14) e la missione universale a loro affidata (13,10; 14,9): come Gesù ha predicato il vangelo del Regno in Galilea, così i discepoli devono ora annunziarlo in tutto il mondo, a tutte le creature...
Questa espressione è più ampia di quella utilizzata da Matteo, perché in essa i discepoli sono inviati non solo ai pagani, ma a tutta l’umanità.
In questo brano si afferma altresì “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato”.
La fede e il battesimo sono quindi condizioni indispensabili per la salvezza! Queste condizioni però riguardano chiaramente solo coloro a cui è giunta la predicazione, e non coloro che per qualsiasi ragione non hanno potuto ascoltarla, mentre la fede richiesta ha per oggetto il vangelo (Mc 1,14-15).
È importante che nella seconda metà della frase, la condanna riguarda non chi non si fa battezzare, ma solo chi non crede: resta così aperta una possibilità di salvezza anche per coloro che per un motivo valido non sono stati battezzati, pur avendo ricevuto la predicazione del vangelo e avendo creduto in esso.
Dopo il mandato missionario, l’autore elenca i segni che accompagneranno coloro che credono nel nome di Gesù: ”scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno”.
In questa frase viene ripreso Mc 6,13, con l’aggiunta di alcuni compiti che si richiamano a episodi degli Atti: il parlare nuove lingue, che si riferisce al miracolo di Pentecoste (At 2,1-11) e il prendere in mano i serpenti, allusione questa sicuramente all’episodio di Paolo, morso da una vipera e rimasto miracolosamente illeso (At 28,3-6). Come per Gesù, anche per i discepoli l’intervento a favore dei sofferenti, siano essi indemoniati o malati, è il segno di una salvezza che, partendo dall’intimo della persona, coinvolge anche tutti gli aspetti della sua vita fisica.
L’autore termina il suo racconto descrivendo in breve la conclusione della vicenda di Gesù e il seguito che essa avrà nella vita dei suoi discepoli: “Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio”.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano”
L’accenno all’ascensione lo troviamo anche in Luca (24,51) e negli Atti (1,2.9), con l’aggiunta però che Gesù è andato a sedersi alla destra di Dio (chiaro riferimento al Sal 110,1). Con l’ascensione Gesù completa il Suo cammino terreno ed Egli, a riprova dell’efficacia della Sua opera, viene fatto partecipe della regalità stessa di Dio, attuando così le promesse messianiche.
Per concludere possiamo dire che l’ascensione di Gesù è stata una partenza che non ha provocato lacrime, ma gioia perchè in realtà si è risolta in una presenza più intensa e in una vicinanza più efficace.
Come persona Gesù è scomparso agli occhi dei Suoi conoscenti e amici, ma che si fa riconoscere e amare da una folla immensa di ogni lingua, popolo, razza e nazione, facendosi sentire vivo e operante attraverso la parola e le mani dei Suoi discepoli e della Sua Chiesa.

 

*****

 

“Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra la solennità dell’Ascensione del Signore. La pagina evangelica (Mc 16,15-20) – la conclusione del Vangelo di Marco – ci presenta l’ultimo incontro del Risorto con i discepoli prima di salire alla destra del Padre. Di solito, lo sappiamo, le scene di addio sono tristi, procurano a chi resta un sentimento di smarrimento, di abbandono; invece tutto ciò ai discepoli non accade. Nonostante il distacco dal Signore, essi non si mostrano sconsolati, anzi, sono gioiosi e pronti a partire missionari nel mondo.
Perché i discepoli non sono tristi? Perché anche noi dobbiamo gioire al vedere Gesù che ascende al cielo?
L’ascensione completa la missione di Gesù in mezzo a noi. Infatti, se è per noi che Gesù è disceso dal cielo, è sempre per noi che vi ascende. Dopo essere disceso nella nostra umanità e averla redenta - Dio, il Figlio di Dio, scende e si fa uomo prende la nostra umanità e la redime - ora ascende al cielo portando con sé la nostra carne.
È il primo uomo che entra nel cielo, perché Gesù è uomo, vero uomo, è Dio, vero Dio; la nostra carne è in cielo e questo ci dà gioia. Alla destra del Padre siede ormai un corpo umano, per la prima volta, il corpo di Gesù, e in questo mistero ognuno di noi contempla la propria destinazione futura. Non si tratta affatto di un abbandono, Gesù rimane per sempre con i discepoli, con noi. Rimane nella preghiera, perché Lui, come uomo, prega il Padre, e come Dio, uomo e Dio, Gli fa vedere le piaghe, le piaghe con le quali ci ha redenti. La preghiera di Gesù è lì, con la nostra carne: è uno di noi, Dio uomo, e prega per noi. E questo ci deve dare una sicurezza, anzi una gioia, una grande gioia!
E il secondo motivo di gioia è la promessa di Gesù. Lui ci ha detto: “Vi invierò lo Spirito Santo”. E lì, con lo Spirito Santo, si fa quel comandamento che Lui dà proprio nel congedo: “Andate nel mondo, annunziate il Vangelo”. E sarà la forza dello Spirito Santo che ci porta là nel mondo, a portare il Vangelo. È lo Spirito Santo di quel giorno, che Gesù ha promesso, e poi nove giorni dopo verrà nella festa di Pentecoste. Proprio è lo Spirito Santo che ha reso possibile che tutti noi siamo oggi così. Una gioia grande! Gesù se n’è andato in cielo: il primo uomo davanti al Padre. Se n’è andato con le piaghe, che sono state il prezzo della nostra salvezza, e prega per noi. E poi ci invia lo Spirito Santo, ci promette lo Spirito Santo, per andare a evangelizzare. Per questo la gioia di oggi, per questo la gioia di questo giorno dell’Ascensione.
Fratelli e sorelle, in questa festa dell’Ascensione, mentre contempliamo il Cielo, dove Cristo è asceso e siede alla destra del Padre, chiediamo a Maria, Regina del Cielo, di aiutarci a essere nel mondo testimoni coraggiosi del Risorto nelle situazioni concrete della vita.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 16 maggio 2021

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa domenica, sotto varie forme ci danno il messaggio del risorto che ci invita ad andare oltre ogni incredulità.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Pietro è al suo secondo discorso che tiene nel portico del Tempio, e dopo aver ricordato il mistero pasquale – la vita di Gesù Cristo morto e risorto - invita al pentimento e alla conversione.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, l’apostolo Giovanni, afferma che Gesù Cristo si fa nostro avvocato rivelandoci la forza del Suo perdono che cancella tutti i nostri peccati. E’ Lui che ci protegge dalla collera divina, offrendo al Padre la Sua stessa vita come “vittima di espiazione per i nostri peccati e . per quelli di tutto il mondo”.
Nel Vangelo, Luca ci presenta un’altra apparizione del Risorto che incontra l'incredulità dei discepoli, ma Gesù li invita a toccare il Suo corpo glorificato, e propone anche di mangiare con loro. Su questa esperienza poggia sicura la loro fede e sulla loro prima testimonianza si basa la nostra testimonianza di oggi.
I fratelli ortodossi nel tempo pasquale, si salutano dicendo: “Cristo è risorto” e l’altro risponde “E’ risorto in verità” . E’ una bella abitudine radicata nella gente, e noi cattolici dovremmo farla nostra, non solo a parole, ma anche con la nostra vita. Tutto passa, sia i momenti belli che quelli difficili e dolorosi, ma chi rimane è Lui, che con la Sua morte e resurrezione, è divenuto l’unico sostegno in mezzo a tante difficoltà, incertezze e pericoli.
Oggi ricorre la 100^ giornata per l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Riguardo alla Consacrazione al Sacro Cuore, forse non tutti sanno che la città di Roma è stata consacrata al Sacro Cuore di Gesù dal sindaco di allora On. Salvatore Rebecchini, e Papa Pio XII lo ha ringraziato nel suo discorso del 1 gennaio 1949.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni.
Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».
At 3,13-15.17-19

Il brano che la liturgia ci propone è tratto dal capitolo 3 degli Atti degli Apostoli che inizia riportando la guarigione miracolosa di un uomo storpio fin dalla nascita che veniva portato ogni giorno presso la porta del tempio detta “Bella” a chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Anche a Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, lo storpio domandò l’elemosina. “Pietro gli disse: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!». Lo prese per la mano destra e lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e, balzato in piedi, si mise a camminare; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. At3,2-9
Nell’ introduzione al suo discorso al popolo l’Apostolo fa riferimento a questa guarigione, ma solo per dire che essa non doveva venire attribuita a particolari poteri suoi e del suo compagno Giovanni.
Il brano liturgico ci presenta Pietro che continua il suo discorso cominciando dalla glorificazione di Gesù dopo la Sua morte ed afferma che “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù..” Con queste parole Pietro riassume quanto aveva detto più a lungo nel giorno di Pentecoste (2,22-32). La designazione di JHWH come il Dio dei padri viene spesso riportata negli Atti e contiene in sé una sintesi di tutta la storia passata di Israele: lo stesso Dio che un giorno ha scelto Abramo e la sua discendenza, ha operato meraviglie nella persona di Gesù. Qui Gesù viene definito “servo”, per cui c’è un voluto riferimento al protagonista dei quattro carmi del “Servo di JHWH” contenuti nel Deuteroisaia. Come avviene in questo carme, Pietro anticipa l’annunzio della glorificazione di Gesù per poi accennare alla Sua morte. Egli lo fa rivolgendosi direttamente agli ascoltatori e accusandoli di averlo “consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo”.
Pietro evidenzia il fatto che Pilato aveva tentato di liberare Gesù concedendogli la grazia, che veniva data normalmente a un detenuto in occasione della Pasqua, mentre la folla aveva chiesto la liberazione di Barabba.
Dopo aver messo in luce la responsabilità dei presenti, Pietro sottolinea l’assurdità di quanto essi hanno compiuto: “voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino” e così facendo hanno ucciso “l’autore della vita ”.
L’appellativo di “giusto” attribuito a Gesù si riferisce ancora all’espressione del quarto carme del Servo (Is 53,11: “il giusto mio servo giustificherà molti”), mentre la santità è una prerogativa che compete a Dio stesso.
Con l’espressione “autore” della vita Pietro non vuole mettere qui Gesù sullo stesso piano di Dio, attribuendogli il ruolo di “creatore” della vita, ma semplicemente designarlo come colui che, ad immagine di Mosè, “porta alla vita”.
Per Pietro è importante sottolineare la scandalosa contrapposizione tra la grazia data a chi ha tolto la vita e l’uccisione di Colui che invece porta alla la vita.
Pietro prosegue affermando che Dio non ha abbandonato alla morte il santo e il giusto, l’autore della vita, ma l’ha risuscitato dai morti: riabilitandolo così agli occhi di tutti. Siccome però il fatto non poteva essere conosciuto dai presenti, Pietro aggiunge: “noi ne siamo testimoni”.
Con queste parole è riassunta in breve la testimonianza dei primi discepoli, ai quali Gesù si è fatto vedere dopo la Sua risurrezione.
Poi Pietro cerca di attenuare l’accusa fatta a chi lo ascoltava di aver ucciso l’autore della vita dicendo: “io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi..”. Ma proprio attraverso il loro crimine Dio ha compiuto quanto aveva fatto sapere per bocca di tutti i profeti, i quali avevano preannunziato la morte di Cristo.
In questo modo Pietro trasmette, senza portare alcun riferimento biblico, l’idea che Gesù era il Cristo promesso da Dio e che la Sua morte era stata preannunziata nelle Scritture.
Poi c’è l’esortazione finale: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati”.
Per gli ascoltatori di Pietro questa conversione ha come scopo l’eliminazione dei “peccati”, non solo di quello compiuto uccidendo il santo e il giusto, ma di tutti i peccati che li tengono lontani da Dio.
Luca dà questa lettura della vicenda di Gesù alla luce delle Scritture perché ritiene che sia pienamente comprensibile da parte dei giudei che, dopo essere stato coinvolti nella condanna dell’inviato di Dio, si possano sentire ora invitati a superare la loro ignoranza e ad accoglierlo come Colui da cui dipende la venuta della salvezza finale.

Salmo 4 - Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto.
Quando t’invoco, rispondimi,
Dio della mia giustizia!
Nell’angoscia mi hai dato sollievo;
pietà di me, ascolta la mia preghiera.

Sappiatelo, il Signore fa prodigi per il suo fedele
Il Signore mi ascolta quando lo invoco

Molti dicono: «Chi ci farà vedere il bene,
se da noi, Signore,
è fuggita la luce del tuo volto?».

In pace mi corico e subito di addormento,
perchè tu solo,Signore,
fiducioso mi fai risposare.

Il salmista guarda al triste spettacolo della durezza dei cuori, delle azioni di chi si avventura nelle strade della menzogna, e ne è insidiato. Il Signore gli è venuto in aiuto liberandolo dalle angosce allargandogli il cuore con la speranza, ma rimane ancora nel pericolo di essere travolto dagli ingiusti e chiede a Dio che esaudisca la sua preghiera.
Accerchiato dalle loro astuzie trova la forza di guardarli in faccia e di ammonirli dicendo loro l’inutilità del loro agire, poiché il Signore lo difenderà da loro. Li esorta pure, nella sua carità, a cambiare vita, a riflettere.
Il salmista ha nelle orecchie le parole degli scettici, che nell’incalzare delle azioni degli empi dicono: “Chi ci farà vedere il bene?”. Ma la fede del salmista è salda e invoca su tutti il suo sguardo di benevolenza.Poi il salmista si rivolge a Dio con gratitudine per la gioia, la pace, la protezione, che gli ha comunicato.
Il salmo ha diversi passaggi d’animo. Da una preghiera ricca di supplica, che invoca pietà, il salmista passa ad una sfida-esortazione agli empi nella certezza dell’aiuto di Dio. Poi passa ad esortare gli empi al bene. Quindi rigetta lo scetticismo di tanti confermandosi nella fiducia in Dio: “In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare”.
La recita di questo salmo, che deve essere fatta in Cristo, il perfetto orante dei salmi, deve seguirne docilmente i passaggi
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla prima lettera di S.Giovanni apostolo
Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.
Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.
1 Gv 2,1-5a

Questo brano tratto dalla prima lettera di Giovanni è tratto dal secondo capitolo. Nel primo Giovanni aveva dichiarato che tutto quello che ha visto e udito, cioè il Verbo della vita, lo vuole annunciare anche a noi per farci entrare nella comunione con loro, ossia con la comunità cristiana. E questa comunione si estende anche al Padre e al Figlio Suo Gesù Cristo.
Il brano che la liturgia ci propone è in sintonia con l’annuncio di remissione dei peccati proclamato da Pietro, nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli
“Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”.
Il perdono viene qui rappresentato in una scena magistrale. Sopra di noi c’è la figura di Dio che è giudice giusto delle ingiustizie umane; noi siamo di fronte a Lui, schiacciati dai nostri ripetuti peccati e umiliati dalle nostre infedeltà. Ma accanto a noi si accosta e si erge in nostra difesa un avvocato “Gesù Cristo, il giusto”.
Qui Gesù, è visto come avvocato che ci difende davanti a possibili accuse. Solitamente l'accusatore non è Dio, ma il diavolo, che fa venire scrupoli, dubbi, inutili sensi di colpa. Gesù è il solo giusto davanti a Dio e Lui solo ci difende e ci permette di essere liberi dal nostro peccato. Gesù può fare questo perché è stato la vittima di espiazione per i nostri peccati. E' lui l'Agnello che è stato immolato una volta per tutte per salvare non solo il suo popolo, ma tutto il mondo, prigioniero del male e della morte.
“Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti”.
Si tratta di una conoscenza profonda, una vera esperienza, non una conoscenza superficiale, ma profonda, di cuore, che esige da parte nostra un atteggiamento di conversione fatta di pentimento per le nostre colpe e di impegno per una vera conoscenza di Dio, che si attua nella pratica dei suoi comandamenti, nello sforzo generoso di comportarsi come Gesù si è comportato.
Giovanni prosegue affermando: “Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.”
La Parola di Dio, non è tanto un messaggio culturale, quanto una proposta di vita, e la conoscenza di un dovere che, se non si trasforma in un impegno coerente di vita, ci rende automaticamente colpevoli.
Il comandamento più importante, quello che riassume tutti gli altri, è l’amore, e amare vuol dire donarsi, cercare il bene degli altri, fino a sacrificare il proprio tempo, i propri interessi, i propri gusti, la vita stessa, come Gesù che è morto per la salvezza di tutti. “Chi dice di dimorare in Cristo”, deve comportarsi veramente come Gesù si è comportato.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».
Lc 24, 35-48

L’evangelista Luca presenta la resurrezione del Signore con il racconto del ritrovamento del sepolcro vuoto in linea con Marco e Matteo, poi prosegue riportando l’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus, infine come Matteo, riporta un’apparizione “ufficiale” di Gesù agli Undici e poi la Sua ascensione. (24,50-53)..
L’apparizione ai discepoli fa seguito all’episodio dei discepoli di Emmaus, che appena ritornati a Gerusalemme, vengono a sapere non solo che Gesù è veramente risorto, ma anche che è apparso a Simone (24,33-34). Solo dopo essi possono raccontare la loro esperienza, sottolineando che anche loro lo hanno incontrato e lo hanno riconosciuto allo spezzare del pane
Il brano inizia riportando che: “Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!»”.
E’ una caratteristica di tutti i Vangeli, quando Gesù risuscitato appare, si mette sempre in mezzo e tutto il gruppo è attorno a Lui. Gesù è la fonte dell’amore di Dio che si irradia per tutte le persone che gli sono attorno.
L’espressione “Pace a voi!” tipica del mondo ebraico (šalôm) ha qui un significato teologico in quanto indica il bene escatologico conquistato da Gesù con la Sua morte e resurrezione.
I discepoli sono “sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma”. Gesù non è uno spirito, Gesù è in “carne e ossa”, una persona che ha la condizione divina non annulla la fisicità, ma la dilata e la trasfigura.
Ma Gesù li rimprovera per la loro incredulità e, per dissipare i loro dubbi dice loro “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho”.
Essi però restano increduli, perché da una parte si sentono il cuore pieno di una grande gioia, mentre dall’altra sono pieni di stupore, a loro sembrava troppo bello per essere vero!
Ma Gesù vedendo che la meraviglia di questi pescatori di Galilea era talmente grande, alla fine chiede loro: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Dopo che gli viene offerta una porzione di pesce arrostito, Gesù “lo prese e lo mangiò davanti a loro”. La Sua è una duplice dimostrazione: che è vivo, che è vero e presente in carne ed ossa, non solo ma che può fare tutto: mangiare e non mangiare ed essere presente ovunque contemporaneamente.
Poi, in sintonia con quanto detto sulla strada per Emmaus, Gesù continua: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Poi apre loro la mente all'intelligenza delle Scritture e dice: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni”.
Questa è l’ultima scena raccontata da Luca prima dell’ascensione di Gesù in cielo. Questa testimonianza dei primi discepoli è passata agli altri ed ora anche a noi oggi. Siamo tutti chiamati ad essere testimoni dell'avvenimento più importante, più sublime, più straordinario della storia umana: la Storia di un Dio che si fa uomo per morire con noi, come noi e peggio di noi, per risorgere prima di noi e precederci in una vita nuova, in un Regno che non avrà mai fine.


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"In questa terza domenica di Pasqua, ritorniamo a Gerusalemme, nel Cenacolo, come guidati dai due discepoli di Emmaus, i quali avevano ascoltato con grande emozione le parole di Gesù lungo la via e poi lo avevano riconosciuto «nello spezzare il pane». Ora, nel Cenacolo, Cristo risorto si presenta in mezzo al gruppo dei discepoli e li saluta: «Pace a voi!» . Ma essi sono spaventati e credono «di vedere un fantasma», così dice il Vangelo. Allora Gesù mostra loro le ferite del suo corpo e dice: «Guardate le mie mani e i miei piedi – le piaghe –: sono proprio io! Toccatemi» . E per convincerli, chiede del cibo e lo mangia sotto i loro sguardi sbalorditi.
C’è un particolare qui, in questa descrizione. Dice il Vangelo che gli Apostoli “per la grande gioia ancora non credevano”. Era tale la gioia che avevano che non potevano credere che quella cosa fosse vera. E un secondo particolare: erano stupefatti, stupiti; stupiti perché l’incontro con Dio ti porta sempre allo stupore: va oltre l’entusiasmo, oltre la gioia, è un’altra esperienza. E questi erano gioiosi, ma una gioia che faceva pensare loro: no, questo non può essere vero!… È lo stupore della presenza di Dio. Non dimenticare questo stato d’animo, che è tanto bello.
Questa pagina evangelica è caratterizzata da tre verbi molto concreti, che riflettono in un certo senso la nostra vita personale e comunitaria: guardare, toccare e mangiare. Tre azioni che possono dare la gioia di un vero incontro con Gesù vivo.
Guardare. “Guardate le mie mani e i miei piedi” – dice Gesù. Guardare non è solo vedere, è di più, comporta anche l’intenzione, la volontà. Per questo è uno dei verbi dell’amore. La mamma e il papà guardano il loro bambino, gli innamorati si guardano a vicenda; il bravo medico guarda il paziente con attenzione… Guardare è un primo passo contro l’indifferenza, contro la tentazione di girare la faccia da un’altra parte, davanti alle difficoltà e alle sofferenze degli altri. Guardare. Io vedo o guardo Gesù?
Il secondo verbo è toccare. Invitando i discepoli a toccarlo, per constatare che non è un fantasma – toccatemi! –, Gesù indica a loro e a noi che la relazione con Lui e con i nostri fratelli non può rimanere “a distanza”, non esiste un cristianesimo a distanza, non esiste un cristianesimo soltanto sul piano dello sguardo. L’amore chiede il guardare e chiede anche la vicinanza, chiede il contatto, la condivisione della vita. Il buon samaritano non si è limitato a guardare quell’uomo che ha trovato mezzo morto lungo la strada: si è fermato, si è chinato, gli ha medicato le ferite, lo ha toccato, lo ha caricato sulla sua cavalcatura e l’ha portato alla locanda. E così con Gesù stesso: amarlo significa entrare in una comunione di vita, una comunione con Lui.
E veniamo allora al terzo verbo, mangiare, che esprime bene la nostra umanità nella sua più naturale indigenza, cioè il bisogno di nutrirci per vivere. Ma il mangiare, quando lo facciamo insieme, in famiglia o tra amici, diventa pure espressione di amore, espressione di comunione, di festa... Quante volte i Vangeli ci presentano Gesù che vive questa dimensione conviviale! Anche da Risorto, con i suoi discepoli. Al punto che il Convito eucaristico è diventato il segno emblematico della comunità cristiana. Mangiare insieme il corpo di Cristo: questo è il centro della vita cristiana.
Fratelli e sorelle, questa pagina evangelica ci dice che Gesù non è un “fantasma”, ma una Persona viva; che Gesù quando si avvicina a noi ci riempie di gioia, al punto di non credere, e ci lascia stupefatti, con quello stupore che soltanto la presenza di Dio dà, perché Gesù è una Persona viva. Essere cristiani non è prima di tutto una dottrina o un ideale morale, è la relazione viva con Lui, con il Signore Risorto: lo guardiamo, lo tocchiamo, ci nutriamo di Lui e, trasformati dal suo Amore, guardiamo, tocchiamo e nutriamo gli altri come fratelli e sorelle. La Vergine Maria ci aiuti a vivere questa esperienza di grazia."
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 18 aprile 2021

Pubblicato in Liturgia

La Pasqua, il giorno tanto atteso, è arrivato, anche se ci sentiamo tutti ancora con lo stato d’animo in cui si vive il sabato santo: nel gran silenzio in attesa degli eventi.
Nella celebrazione della Messa di Pasqua del giorno, abbiamo nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Pietro, in casa del centurione Cornelio, il primo pagano entrato nel cristianesimo, annuncia che Dio ha risuscitato Gesù dai morti e loro, i discepoli, ne sono i testimoni.
Nella seconda lettura, Paolo scrivendo ai Colossesi, afferma che il cristiano è già risorto con Cristo quando è uscito dalle acque purificatrici del Battesimo. Questo vuol dire che uniti a Cristo nel sacramento già partecipiamo alla Sua vita.
Nel Vangelo di Giovanni, leggiamo che il primo annuncio della resurrezione ci viene dalle donne, in particolare da Maria Maddalena, poi più concretamente da Pietro e Giovanni che corrono al sepolcro. In questo brano del Vangelo i discepoli non incontrano ancora il Risorto, perchè il vero dono pasquale è la fede che nasce dal loro cuore, come dal nostro: la capacità di vedere e comprendere la storia oltre ciò che appare, con gli occhi del Risorto, per essere sin d’ora partecipi della Sua gloria.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».
At 10,34a.37-43

Il libro degli Atti degli Apostoli, la cui redazione definitiva risale probabilmente attorno al 70-80, è attribuita all’evangelista Luca, che è anche autore del Vangelo che porta il suo nome. Il libro è composto da 28 capitoli e narra la storia della comunità cristiana dall'ascensione di Gesù fino all'arrivo di Paolo a Roma e copre un periodo che spazia pressappoco dal 30 al 63 d.C.. Oltre che su Paolo, l'opera si sofferma diffusamente anche sull'operato dell'apostolo Pietro e descrive il rapido sviluppo, l'espansione e l'organizzazione della testimonianza cristiana prima ai giudei e poi agli uomini di ogni nazione.
Nella seconda parte dell’opera viene delineata l’espandersi dell’annunzio evangelico al di fuori di Gerusalemme. A tal fine Luca presenta l’opera di Filippo in Samaria, la conversione dell’eunuco della regina d’Etiopia, e la straordinaria conversione del persecutore Saulo sulla via di Damasco. Infine egli racconta un viaggio apostolico di Pietro nella zona costiera della Palestina, a conclusione del quale mette la conversione del centurione Cornelio, con tutti i suoi famigliari, facendo di loro i primi pagani che aderiscono al cristianesimo senza passare attraverso la circoncisione.
Per capire meglio cosa sia avvenuto in casa del centurione Cornelio, dobbiamo cercare di capire ciò che passava nella mente di Pietro e gli altri apostoli. Pietro era preoccupato di rimanere fedele a Gesù, ma anche alla tradizione giudaica nella quale era cresciuto. (Avranno probabilmente anche pensato, che Gesù non aveva mai inserito, tra i suoi discepoli, dei pagani, né aveva predicato loro). Pietro faceva perciò fatica ad accettare che anche i non-giudei potessero essere partecipi della buona notizia che Gesù stesso aveva portato.
Nei versetti precedenti questo brano, Pietro ha una visione simbolica di una tovaglia che si abbassa e invita a cibarsi di animali impuri, e mentre si domandava ragione di ciò che aveva visto, arrivarono da lui tre uomini inviati dal centurione Cornelio, noto come uomo pio e timorato di Dio, ad invitarlo ad andare nella sua casa. (At 10,2) .
«Uomo pio e timorato di Dio “ sono espressioni utilizzate per indicare quanti simpatizzavano a quel tempo per il giudaismo, senza però arrivare all’integrazione con il popolo giudaico attraverso la circoncisione.
Questo brano ci riporta parte del discorso che Pietro tenne nella casa del centurione Cornelio. Negli Atti si dice di lui che a seguito di una visione di un angelo, che lo aveva chiamato per nome, invitò Pietro nella sua casa, per appagare questa sua sete di verità. In questo discorso che Pietro fa, sono chiaramente delineati i tratti fondamentali della vita di Gesù, dal battesimo, fino alla Sua morte e resurrezione. Pietro e gli altri discepoli sono dei testimoni e possono perciò affermare la storicità di Gesù che annunzia la buona novella nella Galilea e nella Giudea negli anni 30-36 non solo, ma possono anche affermarne la Sua divinità. Per testimoniare la Sua morte e resurrezione affermano: “noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.”
Pietro continua dicendo che Gesù è giudice dei vivi e dei morti, e questa espressione indica la totalità del potere acquisito da Cristo nella Sua opera di salvezza. A chiunque crede in Lui è offerto il perdono dei peccati.
Ciò che ha affermato Pietro allora, continua ad affermarlo anche a noi oggi per farci entrare in questo cerchio d’amore e renderci partecipi della Gloria del Risorto!

Salmo 117 - Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo

Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».

La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.

La destra del Signore si è innalzata,la destra del Signore ha fatto prodezze.
Non morirò, ma resterò in vita
e annuncerò le opere del Signore.

La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.

Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi.
Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare. Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici. Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
“La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
“Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male. Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”.
Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore. Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossesi
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!
Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
Col 3,1-4
La Lettera ai Colossesi, è stata scritta da Paolo durante la sua prigionia a Roma, attorno al 62; (alcuni esperti sostengono che l’autore della lettera sia un suo discepolo e che l’abbia scritta dopo la morte dell’Apostolo (64-67), verso fine I secolo). Presumibilmente Paolo non si era mai recato a Colossi (l’attuale Turchia), che era allora una piccola città dell’entroterra dell’Asia minore (circa 124 km a nord di Efeso) e il Vangelo era stato portato lì da alcuni missionari da Efeso, fra questi Èpafra, al quale Paolo dà la sua approvazione all’inizio della lettera (1,7).
La lettera è composta da 4 capitoli contenenti meditazioni teologiche su Gesù, la Chiesa, la salvezza per grazia, ed infine alcune esortazioni di condotta morale.
Paolo dopo aver criticato le teorie che mettono a rischio la fedeltà al vangelo, ed esortato ad abbandonare le false dottrine che vengono proposte ai Colossesi, continua:
“Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”
La risurrezione dai morti qui non è più vista come un evento escatologico, collegato con il ritorno di Gesù, ma come una realtà già realizzata. Con Cristo, anche i credenti in Lui sono già risorti, godono la stessa vita nuova di cui Egli è entrato in possesso mediante la Sua risurrezione e ascensione al cielo. È questa una convinzione tipica della seconda generazione cristiana, per la quale la parusia è vista ormai come un evento molto lontano, ma che ha già avuto una realizzazione anticipata mediante l’associazione del credente a Cristo. Proprio per questo motivo i credenti devono considerarsi come già risorti con Cristo e sono invitati a cercare anche loro le cose di lassù, cioè quelle che stanno a cuore a Cristo nella Sua nuova situazione di Messia intronizzato alla destra del Padre. Su di esse essi devono concentrare il loro pensiero, non sulle cose della terra.
La situazione di morte e di vita tipica dei credenti in Cristo viene poi ulteriormente precisata con queste parole: “Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! “
Ciò non significa una fuga dal mondo o dalla storia, ma si concretizza in uno stile di vita e di rapporti sociali. Chi ha abbracciato la sorte di Cristo morto e sepolto attraverso il battesimo è entrato in uno stato di "sottrazione", di non-disponibilità per il mondo. La sua realtà profonda e autentica è come se fosse sepolta, velata.
“Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”.
Paolo ci dice che la risurrezione dei morti non avrà luogo al momento del ritorno di Gesù, ma è già avvenuta. Tuttavia viene sottolineato che solo quando Egli verrà, la loro nuova vita sarà manifestata, in quanto anch’essi parteciperanno alla Sua gloria.
In sintesi l’Apostolo ci vuole far comprendere che se la nostra vita cristiana inizia per noi con il sacrificio di Cristo, tale vita sarebbe imperfetta e del tutto inutile se non ci fosse poi il desiderio e l’impegno costante da parte nostra di guardare verso la meta finale che Gesù ha preparato per noi. Se viviamo in Cristo, al quale siamo stati uniti nel battesimo e mediante il quale abbiamo vinto il male e le forze della malvagità di questo mondo disubbidiente, allora dobbiamo indirizzare le nostre energie verso due impegni primari, ben precisi e tra loro collegati: Cercare le cose di lassù, avere in mente le cose di lassù.

Sequenza
Alla vittima pasquale,
s’innalzi oggi il sacrificio di lode.
L’Agnello ha redento il suo gregge,
l’Innocente ha riconciliato
noi peccatori col Padre.

Morte e Vita si sono affrontate
in un prodigioso duello.
Il Signore della vita era morto;
ma ora, vivo, trionfa.

«Raccontaci, Maria:
che hai visto sulla via?».
«La tomba del Cristo vivente,
la gloria del Cristo risorto,
e gli angeli suoi testimoni,
il sudario e le sue vesti.
Cristo, mia speranza, è risorto:
precede i suoi in Galilea».

Sì, ne siamo certi:
Cristo è davvero risorto.
Tu, Re vittorioso,
abbi pietà di noi.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro.
Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Gv 20,1-9

Il Vangelo di Pasqua, riportato dall’evangelista Giovanni, parte dalla notte buia. Inizia nel raccontare che “Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”. Quel buio fuori è in sintonia con ciò che Maria sentiva dentro. Il suo cuore era infinitamente triste, prigioniero della disperazione e dimentico della fede, forse non le era venuto neppure in mente l’idea della resurrezione di cui sicuramente Gesù le aveva parlato, non riesce a staccarsi da quel Gesù che aveva seguito e amato, sa solo che ora è morto, ma vuole almeno un luogo per piangerlo. Ma, arrivata là, vede la pietra ribaltata! Non ha bisogno neppure di entrare, percepisce già che il corpo non c’è più. Ha visto semplicemente una tomba aperta, ma la sua immaginazione corre più avanti: qualcuno ha rubato il corpo del suo Signore. Corre via, e la sua supposizione diventa il racconto ai discepoli: " Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». C’è subito molto movimento, in questo racconto:
“ Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro”. Essi corrono immediatamente verso il sepolcro vuoto; dopo aver iniziato assieme a seguire il Signore durante la passione, sebbene da lontano, ora si trovano a "correre entrambi" per raggiungerlo.
L’evangelista riporta che “Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro”.
Giunse per primo alla tomba il discepolo che Gesù amava, a cui l’evangelista Giovanni non dà un nome, ma non entra e aspetta Pietro, che Gesù ha scelto come capo. “Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte”.
Pietro osservò un ordine perfetto: le bende stavano al loro posto come svuotate del corpo di Gesù e il sudario "avvolto in un luogo a parte". Non c'era stata né manomissione né trafugamento: Gesù si era come liberato da solo. Non era stato necessario sciogliere le bende come per Lazzaro. Le bende erano lì, come svuotate! Anche l'altro discepolo entrò e "vide" la stessa scena: ma lui “vide e credette” .
Il suo sguardo non si sofferma su un oggetto, o sul luogo, è un vedere che coglie l’insieme, è un vedere la luce, vale a dire è lo sguardo della fede, ecco perché: vide e credette. Vede qualcosa che va al di là, vede l’invisibile.
Prima, sulla soglia il suo sguardo si soffermava su degli oggetti, ma senza comprendere, ora, entrato nel sepolcro, cioè nella realtà della morte, ricordando le parole di Gesù, comprende le Scritture, quelle Scritture che Gesù tante volte aveva spiegato.
L’evangelista commenta: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”.
Questo racconto mette in luce la diversa reazione di Maria, Pietro e Giovanni.
Maria è mossa dall’amore, arriva fino al sepolcro, ma non ha il coraggio di entrare. Occorre entrare nella morte, nel dolore, nei segni di morte che ci sbarrano la via.
Pietro ha un rapporto con Gesù più razionale, più materiale; ha il coraggio di entrare nel sepolcro, nella morte, ma questo non basta.
Giovanni ama con lo stile di Gesù, entra, vede con gli occhi della fede e del cuore! La fede dunque è sì fede nella vita, nella potenza della resurrezione, nell’amore fino all’estremo, ma soprattutto è fede nella Scrittura, in quella Parola del Signore che ci permette di vedere e interpretare la vita dentro i segni di morte, che troviamo sul nostro cammino.

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Le parole di Papa Francesco


La notte sta per finire e si accendono le prime luci dell’alba, quando le donne si mettono in cammino verso la tomba di Gesù. Avanzano incerte, smarrite, con il cuore lacerato dal dolore per quella morte che ha portato via l’Amato. Ma, giungendo presso quel luogo e vedendo la tomba vuota, invertono la rotta, cambiano strada; abbandonano il sepolcro e corrono ad annunciare ai discepoli un percorso nuovo: Gesù è risorto e li attende in Galilea. Nella vita di queste donne è avvenuta la Pasqua, che significa passaggio: esse, infatti, passano dal mesto cammino verso il sepolcro alla gioiosa corsa verso i discepoli, per dire loro non solo che il Signore è risorto, ma che c’è una meta da raggiungere subito, la Galilea. L’appuntamento col Risorto è lì. La rinascita dei discepoli, la risurrezione del loro cuore passa dalla Galilea. Entriamo anche noi in questo cammino dei discepoli che va dalla tomba alla Galilea.
Le donne, dice il Vangelo, «andarono a visitare la tomba» (Mt 28,1). Pensano che Gesù si trovi nel luogo della morte e che tutto sia finito per sempre. A volte succede anche a noi di pensare che la gioia dell’incontro con Gesù appartenga al passato, mentre nel presente conosciamo soprattutto delle tombe sigillate: quelle delle nostre delusioni, delle nostre amarezze, della nostra sfiducia, quelle del “non c’è più niente da fare”, “le cose non cambieranno mai”, “meglio vivere alla giornata” perché “del domani non c’è certezza”. Anche noi, se siamo stati attanagliati dal dolore, oppressi dalla tristezza, umiliati dal peccato, amareggiati per qualche fallimento o assillati da qualche preoccupazione, abbiamo sperimentato il gusto amaro della stanchezza e abbiamo visto spegnersi la gioia nel cuore.
A volte abbiamo semplicemente avvertito la fatica di portare avanti la quotidianità, stanchi di rischiare in prima persona davanti al muro di gomma di un mondo dove sembrano prevalere sempre le leggi del più furbo e del più forte. Altre volte, ci siamo sentiti impotenti e scoraggiati dinanzi al potere del male, ai conflitti che lacerano le relazioni, alle logiche del calcolo e dell’indifferenza che sembrano governare la società, al cancro della corruzione – ce n’è tanta –, al dilagare dell’ingiustizia, ai venti gelidi della guerra. E, ancora, ci siamo forse trovati faccia a faccia con la morte, perché ci ha tolto la dolce presenza dei nostri cari o perché ci ha sfiorato nella malattia o nelle calamità, e facilmente siamo rimasti preda della disillusione e si è disseccata la sorgente della speranza. Così, per queste o altre situazioni – ognuno di noi conosce le proprie –, i nostri cammini si arrestano davanti a delle tombe e noi restiamo immobili a piangere e a rimpiangere, soli e impotenti a ripeterci i nostri “perché”. Quella catena di “perché”…
Invece, le donne a Pasqua non restano paralizzate davanti a una tomba ma, dice il Vangelo, «abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli» (v. 8). Portano la notizia che cambierà per sempre la vita e la storia: Cristo è risorto! (cfr v. 6). E, al tempo stesso, custodiscono e trasmettono la raccomandazione del Signore, il suo invito ai discepoli: che vadano in Galilea, perché là lo vedranno (cfr v. 7).
Ma, fratelli e sorelle, ci domandiamo oggi: che cosa significa andare in Galilea? Due cose: da una parte uscire dalla chiusura del cenacolo per andare nella regione abitata dalle genti (cfr Mt 4,15), uscire dal nascondimento per aprirsi alla missione, evadere dalla paura per camminare verso il futuro. E dall’altra parte – e questo è molto bello –, significa ritornare alle origini, perché proprio in Galilea tutto era iniziato. Lì il Signore aveva incontrato e chiamato per la prima volta i discepoli. Dunque andare in Galilea è tornare alla grazia originaria, è riacquistare la memoria che rigenera la speranza, la “memoria del futuro” con la quale siamo stati segnati dal Risorto.
Ecco allora che cosa fa la Pasqua del Signore: ci spinge ad andare avanti, a uscire dal senso di sconfitta, a rotolare via la pietra dei sepolcri in cui spesso confiniamo la speranza, a guardare con fiducia al futuro, perché Cristo è risorto e ha cambiato la direzione della storia; ma, per fare questo, la Pasqua del Signore ci riporta al nostro passato di grazia, ci fa riandare in Galilea, là dov’è iniziata la nostra storia d’amore con Gesù, dove è stata la prima chiamata. Ci chiede, cioè, di rivivere quel momento, quella situazione, quell’esperienza in cui abbiamo incontrato il Signore, abbiamo sperimentato il suo amore e abbiamo ricevuto uno sguardo nuovo e luminoso su noi stessi, sulla realtà, sul mistero della vita.
Fratelli e sorelle, per risorgere, per ricominciare, per riprendere il cammino, abbiamo sempre bisogno di ritornare in Galilea, cioè di riandare non a un Gesù astratto, ideale, ma alla memoria viva, alla memoria concreta e palpitante del primo incontro con Lui. Sì, per camminare dobbiamo ricordare; per avere speranza dobbiamo nutrire la memoria. E questo è l’invito: ricorda e cammina! Se recuperi il primo amore, lo stupore e la gioia dell’incontro con Dio, andrai avanti. Ricorda e cammina.
Ricorda la tua Galilea e cammina verso la tua Galilea. È il “luogo” nel quale hai conosciuto Gesù di persona, dove per te Egli non è rimasto un personaggio storico come altri, ma è divenuto la persona della vita: non un Dio lontano, ma il Dio vicino, che ti conosce più di ogni altro e ti ama più di chiunque altro.
Fratello, sorella, fai memoria della Galilea, della tua Galilea: della tua chiamata, di quella Parola di Dio che in un preciso momento ha parlato proprio a te; di quell’esperienza forte nello Spirito, della più grande gioia del perdono provata dopo quella Confessione, di quel momento intenso e indimenticabile di preghiera, di quella luce che si è accesa dentro e ha trasformato la tua vita, di quell’incontro, di quel pellegrinaggio… Ognuno sa dov’è la propria Galilea, ciascuno di noi conosce il proprio luogo di risurrezione interiore, quello iniziale, quello fondante, quello che ha cambiato le cose. Non possiamo lasciarlo al passato, il Risorto ci invita ad andare lì per fare la Pasqua.
Ricorda la tua Galilea, fanne memoria, ravvivala oggi. Torna a quel primo incontro. Chiediti come è stato e quando è stato, ricostruiscine il contesto, il tempo e il luogo, riprovane l’emozione e le sensazioni, rivivine i colori e i sapori. Perché tu sai, è quando hai dimenticato quel primo amore, è quando hai scordato quel primo incontro che è cominciata a depositarsi della polvere sul tuo cuore. E hai sperimentato la tristezza e, come per i discepoli, tutto è sembrato senza prospettiva, con un macigno a sigillare la speranza. Ma oggi, fratello, sorella, la forza di Pasqua invita a rotolare via i massi della delusione e della sfiducia; il Signore, esperto nel ribaltare le pietre tombali del peccato e della paura, vuole illuminare la tua memoria santa, il tuo ricordo più bello, rendere attuale quel primo incontro con Lui. Ricorda e cammina: ritorna a Lui, ritrova la grazia della risurrezione di Dio in te! Torna in Galilea, torna nella tua Galilea.
Fratelli, sorelle, seguiamo Gesù in Galilea, incontriamolo e adoriamolo lì dove Egli attende ognuno di noi. Ravviviamo la bellezza di quando, dopo averlo scoperto vivo, lo abbiamo proclamato Signore della nostra vita. Torniamo in Galilea, alla Galilea del primo amore: ognuno torni alla propria Galilea, quella del primo incontro, e risorgiamo a vita nuova!

Omelia di Papa Francesco Basilica di San Pietro -
Sabato Santo, 8 aprile 2023

 

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa ultima domenica di quaresima, conosciuta anche come domenica delle Palme e della Passione del Signore, ci introducono alla Settimana Santa, e ci rendono quanto mai partecipi delle sofferenze di Cristo che affronta la Sua dolorosa passione per la nostra salvezza.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia attraverso il canto del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo la vita e la passione di Gesù. Il suo atteggiamento di fiducia in Dio e di amore per i fratelli lo lascia in una suprema libertà di fronte ad ogni prova. Egli ha la certezza che la sua missione non è vana.
Nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Filippesi, S.Paolo, con l’Inno Cristologico, rivela il mistero dell’abbassamento di Cristo e l’intervento di Dio in Suo favore: il Padre lo esalta, ponendolo al di sopra di tutte le cose e di tutti gli esseri viventi.
Il racconto della passione, tratta dal Vangelo di Marco, va meditato lentamente e in silenzio. Si può percepire così il crescendo di solitudine di Gesù a partire dall’ultima cena: solo nell’orto degli ulivi, solo davanti al Sinedrio, solo di fronte a Pilato, solo sul Golgota. Gesù in croce raccoglie in sé tutto il dolore che, da quando il peccato è entrato nel mondo, ha tormentato l'umanità. Sulla croce c'è il Dolore: ecco perché ogni uomo che soffre richiama quasi naturalmente il Crocifisso. Per Marco qui c'è il culmine del cammino di fede: riconoscere nel fallito, che pende dalla croce, la realtà di Dio che si manifesta come Amore.


Dal Vangelo secondo Marco
Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”».
Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare.
Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano:
«Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Osanna nel più alto dei cieli!».
Mc 11, 1-10

L’evangelista Marco non è certo se conobbe direttamente Gesù, ma se abitava a quel tempo a Gerusalemme deve aver perlomeno sentito parlare di Lui. Di sicuro è noto che, pochi anni dopo la morte del Maestro, gli apostoli e i discepoli si riunivano a casa di sua madre. Il fatto che sia l'unico evangelista a menzionare la fuga di un giovinetto che seguiva da lontano gli avvenimenti della cattura di Cristo nell'orto degli ulivi: (14,51-52) fa supporre che sia egli stesso questo giovinetto.
Marco nel racconto della Passione nel suo stile asciutto ed essenziale ci presenta una sequenza narrativa coinvolgente:
- Dalla congiura degli avversari di Gesù a due giorni dalla Pasqua, si passa all’unzione , che simbolicamente anticipa la sepoltura di Gesù, a Betania nella casa di Simone il lebbroso;
- Giuda offre ai sommi sacerdoti Gesù in cambio di denaro;
- “Il primo giorno degli Azzimi “ Gesù dà ordine per i preparativi della cena pasquale;
- A sera, a mensa, la crisi si impadronisce dei discepoli dopo che Gesù annuncia il tradimento di uno di loro;
- Gesù celebra la cena pasquale, ed eucaristica, inaugurazione della nuova alleanza con Dio nel suo sangue; nelle sue parole però si profila la dispersione e il tradimento dei discepoli e il loro ritorno;
-Al Getsemani, a notte fonda, Gesù prega con l’”anima triste fino alla morte” e i discepoli iniziano il tradimento con il loro sonno indifferente.
- In quella notte Giuda entra in scena con una piccola folla consegnando Gesù ai sommi sacerdoti.
- Il Sinedrio in una sessione straordinaria e un po’ tormentata condanna a morte Gesù per bestemmia.
- In attesa dell’esito del processo Pietro rinnega Gesù davanti ad una serva del sommo sacerdote e ad altri presenti.
- Gesù viene trasferito da Pilato per la convalida della sentenza capitale da parte delle autorità romane: dopo il vano tentativo di sostituzione di Gesù con Barabba, accusato di omicidio, Gesù è condannato alla crocifissione.
- Prima dell’esecuzione Gesù è flagellato e schernito dalla soldataglia romana e coronato di spine
- Passando attraverso la città, Gesù è condotto al Calvario fuori le mura di Gerusalemme: là viene crocifisso e sbeffeggiato , là avviene la sua morte dopo “un forte grido”.
- Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, ottiene da Pilato il permesso di prendere il corpo di Gesù, che avvolge con il lenzuolo e lo mette in un sepolcro scavato nella roccia.
- Poco dopo si compirà ciò che Gesù aveva preannunciato a Betania: alcune donne vorranno ungere il corpo del Signore con olio aromatico, ma il loro non sarà l’incontro con un morto, bensì con una manifestazione gloriosa di Dio.
Davanti a tutte queste sequenze di eventi possiamo lasciarci andare ad ogni possibile e libera considerazione. La più forte e dolorosa per Gesù è stata sicuramente l’abbandono: da Giuda il traditore a Pietro il discepolo definito da lui stesso roccia, fino a tutti gli altri discepoli. Ma il culmine è in quel misterioso silenzio del Padre, sperimentato da tutti i sofferenti della terra, ma unico e sconvolgente in Gesù, il Figlio. L’odio degli uomini si scatena, la paura degli amici prevale, il silenzio di Dio sconcerta. In Gesù si ritrova, quindi, tutta la vicenda del dolore umano.

Dal libro del profeta Isaia
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
Is 50,4-7

In questo carme del Servo sofferente, il profeta (Deuteroisaia) descrive la persecuzione di cui il Servo di JHWH è oggetto; poi passa a descrivere la sua reazione personale:
…Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il Suo progetto nonostante tutte le contestazioni. Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale, ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Fa impressione vedere come la profezia del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo di 550 anni, la vita e la passione di Gesù.

Salmo 21 Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno forato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.

Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe.

Il salmo presenta un giusto sofferente e perseguitato, pieno di speranza in Dio.
L’autore del salmo guarda alla sua esperienza di dolore, ma anche intende proporre un modello di sofferente che sostenga i fedeli nel momento della prova più terribile, cioè quando sono rifiutati, colpiti, dalla loro stessa gente. Il risultato presenta una tale aderenza nella descrizione di molte delle sofferenze di Cristo da dire che l’ispirazione ha modellato il giusto del salmo sul Cristo crocifisso.
Le prime parole del salmo sono un’invocazione sgomenta dinanzi a Dio; sgomenta, ma senza alcun rimprovero E’ un gemito rivelatore del suo grande tormento interiore: essere di fronte all’abbandono di Dio, al silenzio di Dio, che sembra assente, mentre egli è il Dio presente come attesta il tempio.
Il punto che lo sconvolge, è che il suo popolo, quello che vive all’ombra del tempio e che dovrebbe essere laudante attorno al trono di Dio “Tu siedi in trono fra le lodi di Israele” rifiuta la giustizia, e così anche la propria storia di popolo chiamato a proclamare i benefici di Dio. “In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li hai liberasti” dice, alludendo alla liberazione dall’Egitto.
Ma, ecco, egli è diventato “rifiuto degli uomini”, schiacciato a terra come un verme, privato della dignità di uomo. Di fronte a sé ha solo schernitori che si sfoggiano un sentirsi a posto con Dio, visto che Dio è dalla loro parte poiché non porta aiuto a colui che ora è nelle loro mani e che si diceva suo amico: “Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!”.
Ma il giusto perseguitato e colpito continua a confidare in Dio; non raccoglie la velenosa provocazione che lo vorrebbe rendere dubbioso davanti a Dio. Dio lo ha tratto dal grembo di sua madre; cioè il Padre ha dato al Figlio una natura umana, e, una sola persona (Figlio) in due nature, lo ha tratto dal grembo di una donna, e al suo nascere lo ha preso subito sulle sue ginocchia (Cf. Gn 50,23; Is 46,3) in riconoscimento della sua paternità.
L’aggressione che egli subisce è violenta, implacabile: “Mi circondano tori numerosi, mi assediano grossi tori di Basan…" (Basan è una regione ricca di pascoli a sud di Damasco). “Io sono come acqua versata”, buttato via, gettato via, come acqua. Colpito, strattonato, è pieno di dolore: “sono slogate tutte le mie ossa”. Il suo cuore cede per il dolore e lo sforzo d’amare; ed egli avverte che viene meno come colpito da infarto: “Il mio cure è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere”.
E’ disidratato e la sete lo attanaglia; la sua gola è riarsa e non può muovere che a stento la lingua: “La mia lingua si è incollata alla gola”. Egli si trova “su polvere di morte” senza scampo.
Gli avversari si sono ancora di più incattiviti vedendo la sua perseveranza, sono diventati un “branco di cani” che addentano. Premuto, assediato da ogni parte, gli vengono trafitti i piedi e le mani così da impedire che si muovesse o si difendesse dai colpi: l’autore del salmo non pensava alla crocifissione, pena di morte introdotta più tardi dai romani. “Posso contare tutte le mie ossa”, l’espressione rende l’idea complessiva del dolore che gli viene da ogni parte del corpo, ma la traduzione della Volgata di san Gerolamo - “hanno contato tutte le mie ossa” - è sicuramente proveniente da un manoscritto migliore in questo punto perché fa vedere anche la crudeltà degli aggressori, che hanno badato a che nessuna parte del corpo del giusto giustiziato fosse senza ferita e dolore.
Gli aggressori si compiacciono ferocemente dei dolori del giusto giustiziato : “essi stanno a guardare e mi osservano”. E sono tanto noncuranti di lui che giocano a dadi le sue vesti, secondo il diritto che si aveva sui condannati: “sulla mia tunica gettano la sorte”.
Di fronte a questo stato di strazio il giusto giustiziato non cessa di pregare e domanda aiuto a Dio per sfuggire non già alla morte, ma alla morte cui segue la consunzione della tomba, e questo mediante la risurrezione.
“Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”, dice. Risorto darà luce ai suoi fratelli, loderà il Padre nell’assemblea dei credenti (Cf. 1Cor 15,6).
Egli dirà: “Lodate il Signore, voi suoi fedeli, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza di Israele…”. E nella Chiesa, nella grande assemblea, loderà il Padre. Nella Grande Assemblea dove egli sarà presente con la sua Parola, con la sua reale presenza Eucaristica e col dono dello Spirito Santo.
Nel banchetto della carità “i poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano”.
La visione diventa universale, perché la salvezza del Cristo è universale: “Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli”. I popoli all’annunzio del Vangelo ricorderanno ciò che avevano dimenticato, che l’uomo è capace di Dio, che Dio è uno solo e che è bontà. Che il regno del mondo (Ap 11,15) è di Dio, e sue sono tutte le nazioni. E non solo ricorderanno e torneranno, che equivale a convertirsi, ma insieme a ciò crederanno alla lieta notizia evangelica, quella del regno dei cieli presente nella Chiesa per lievitare tutta la terra conquistata dal Cristo.
A Dio solo, liberi in eterno da ogni influsso di idolatria, si prostreranno, nel giorno della risurrezione, quanti ora dormono sotto terra.
Il grande Giusto giustiziato esprime la sua certezza che egli vivrà, risorgerà da morte e celebrerà in eterno il Padre: “Ma io vivrò per lui”.
E la sua discendenza, la Chiesa, servirà in lui, nel dono dello Spirito Santo, il Padre, portando la salvezza da lui ottenuta per tutte le genti. “Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia”, e la sua giustizia del Padre è Cristo, che ha espiato le colpe degli uomini. “Ecco l’opera del Signore”, diranno alle generazioni che si susseguono. E “l’opera del Signore” è Cristo, Cristo vivente nella Chiesa.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S Paolo apostolo ai Filippesi
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,6-11

Questo brano tratto dalla lettera ai Filippesi è il famoso inno Cristologico. Il testo, preesistente e appartenente ai testi utilizzati dai primi cristiani nella liturgia, è stato inserito dall'apostolo Paolo in un brano esortativo, ma di alto valore teologico. La prima cosa che si afferma di Gesù in questo inno è:
«Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio»,
Il termine «condizione di Dio» non riguarda il carattere specifico di Gesù, ma si tratta di un termine che si abbina con quello usato nel versetto seguente: «condizione di servo» che sottolinea così il paradosso del gesto libero e volontario con cui Gesù vi ha rinunciato. La condizione di Dio, comporta dominio, autorità e dignità e Gesù non ha voluto sfruttare a Suo vantaggio queste Sue prerogative..
«ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini».
Svuotando se stesso, Gesù ha rinunciato alle prerogative della condizione di Dio mettendo da parte le qualità divine che non erano compatibili con l'incarnazione. Questo svuotamento è servito dunque per assumere la condizione di servo, l'esatto opposto della condizione di Dio. Durante la Sua vita terrena Egli non volle comportarsi come Dio e Signore degli uomini, ma come servo, privo di ogni dignità, autorità e potere, completamente dedito all'umile servizio degli altri
“Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.” Gesù è divenuto simile agli uomini, ed è stato riconosciuto in tutto e per tutto come un uomo. Non solo ma in mezzo agli uomini Egli si è ulteriormente umiliato, ha portato il Suo svuotamento fino in fondo. In questo versetto, gli esperti dicono, che sembra certa l'aggiunta di Paolo: «fino alla morte e a una morte di croce», che presenta la sua “theologia crucis “e rafforza l'idea dell'umiliazione di Gesù che giunge sino all'esperienza infamante del condannato alla morte di croce.
Nella seconda parte dell'inno ci viene presentata la conseguenza del gesto di Gesù, e l'azione passa di mano ed è Dio Padre che agisce e innalza Gesù. «Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome»
Proprio perché Cristo ha accettato di umiliarsi fino in fondo, il Padre lo ha esaltato. Inoltre Dio Padre gli ha donato, anzi letteralmente lo ha gratificato, con un nome che è al di sopra di tutti gli altri, cioè il Suo stesso nome Kyrios. Il nome di Kyrios comporta la suprema dignità e la sovranità assoluta su tutto quello che esiste in cielo e in terra. Proprio Gesù che non ha voluto avvalersi del vantaggio della Sua condizione divina, riceve in dono da Dio la dignità suprema di Dio stesso..
«perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra»,
Gesù viene esaltato perché davanti al Suo nome ogni creatura si prostri in adorazione. Il nome è quello che gli è stato dato da Dio. Questo versetto attua la profezia di Isaia «Lo giuro su me stesso, dalla mia bocca esce la giustizia, una parola che non torna indietro: ndavanti a me si piegherà ogni ginocchio,per me giurerà ogni lingua».(45,23). Si precisa anche la collocazione di tutte le creature: nei cieli, sulla terra e sotto terra, per evidenziare l'universalità di questa adorazione.
«e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.»
L'inno raggiunge il massimo in questo versetto. Ogni lingua proclamerà che Gesù è Dio, è il Signore, il Kyrios per eccellenza. Gesù che durante la Sua esistenza terrena ha voluto toccare il fondo dello svuotamento e dell'umiliazione, è stato innalzato alla suprema dignità.
Al termine abbiamo poi l'espressione: a gloria di Dio Padre. Con queste parole si vuole affermare che Gesù Cristo Signore non è il sostituto né un concorrente di Dio, in quanto la confessione della signoria di Cristo ritorna alla fine a gloria di Dio Padre.
Paolo ricorda così ai cristiani di Filippi , che essi, come noi cristiani di oggi, siamo inseriti vitalmente nella vicenda di Gesù e dunque nella logica del progetto del Padre, che diventa così anche indicazione per il nostro agire concreto nella storia



PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO SECONDO MARCO

1Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. 2Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».

Ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura
3Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. 4Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? 5Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.
6Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. 7I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. 8Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. 9In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

Promisero a Giuda Iscariota di dargli danaro
10Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. 11Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.

Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?
12Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero:
«Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro:
«Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

Uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà
17Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. 18 Ora, mentre erano a tavola e mangiavano,
Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». 19Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?».
20Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. 21Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».

Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue dell’alleanza
22 E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai
26Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 27Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto:Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse.28Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea».
29Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». 30Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
31Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri

Cominciò a sentire paura ed angoscia
32Giunsero a un podere chiamato Getsèmani ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». 33Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. 34Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». 35 Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. 36 E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu».
37Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? 38Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». 39Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. 40Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. 41Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. 42Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino»

Arrestatelo e conducetolo via sotto buona scorta
43E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani.
44Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta»…45Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò. 46Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono. 47Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio. 48Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni. 49 Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le Scritture!».
50Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. 51 Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. 52Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.

Sei tu il Cristo, il Figlio del Bendetto?
53Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. 54 Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco.
55I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. 56 Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi. 57Alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: 58«Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”». 59Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde. 60 Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». 61 Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?».
62 Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo».
63Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? 64Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte.
65Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli:«Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano.

Non conosco quest’uomo di cui palate
66Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote 67e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». 68Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa dici». Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. 69 E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro». 70 Ma egli di nuovo negava.
Poco dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». 71 Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate».
72 E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto:
«Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
E scoppiò in pianto.

Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?
1E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato.
2 Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici».
3I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. 4Pilato lo interrogò di nuovo dicendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!».
5Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito.
6A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato, a loro richiesta. 7Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. 8La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. 9Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». 10Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia.
11Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. 12 Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?».
13Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». 14 Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?».
Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!».
15 Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso

Intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo
16 Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa.
17 Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo.
18 Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». 19 E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui.20 Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.

Condussero Gesù al luogo del Golgota
21 Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo. 22 Condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», 23e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese.

Con lui crocifissero anche due ladroni
24 Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso.
25 Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. 26La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei». 27 Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e uno alla sua sinistra.

Ha salvato altri e non può salvare se stesso!
29 Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo:
«Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, 30salva te stesso scendendo dalla croce!».
31 Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! 32Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!».
E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.

Gesù, dando un forte grido, spirò
33 Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. 34 Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». 35Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». 36 Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere».
37Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
38Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. 39 Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
40Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, 41 le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
42Venuta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato,
43Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù.
44Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. 45Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. 46 Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro.
47Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto
Mc 14,1-15,47

La narrazione della Passione di Gesù dell’evangelista Marco è quella che porta più testimoni oculari (14,33; 15,21.40,43-44) ed è forse per questo la più vicina ai fatti. Solo Marco presenta la croce come vero scandalo per i discepoli e, parlando della loro totale incomprensione di fronte al destino del Maestro, vuole far rivivere ad ogni cristiano la stessa loro sofferenza.
Gesù in croce raccoglie in sé tutto il dolore che, da quando il peccato è entrato nel mondo, ha tormentato l'umanità. Sulla croce c'è il Dolore: ecco perché ogni uomo che soffre richiama quasi naturalmente il Crocifisso.
Il Padre risponderà al grido del Figlio «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» con la risurrezione, ma l'evangelista però ne scorge già la luce come anticipata in due segni, che sembrano poca cosa, ma hanno un significato profondo: "Il velo del tempio si squarciò in due".
Il vecchio tempio di Gerusalemme cederà il posto a un tempio nuovo, al Gesù risorto, aperto anche ai pagani, la cui fede è anticipata dalla confessione del centurione romano: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”.
P. Cantalamessa nella sua omelia del venerdì Santo del 2015 sottolineò che il centurione romano affermando che Gesù era veramente, il Figlio di Dio lo fece perchè riconobbe nel ”forte grido” che Gesù emise morendo, un grido di vittoria, «lui che era esperto di combattenti e di combattimenti, riconobbe subito che era un grido di vittoria» .
Inoltre prima di quel grido vide Gesù soffrire con tale amore, da indurlo a comprendere che soltanto il Figlio di Dio può soffrire in questo modo, soltanto Dio è capace di un amore così incredibile.
Per Marco qui c'è il culmine del cammino di fede: riconoscere nel fallito, che pende dalla croce, la realtà di Dio che si manifesta come Amore.

 

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““Gesù raggiunge la completa umiliazione con la «morte di croce». Si tratta della morte peggiore, quella che era riservata agli schiavi e ai delinquenti. Guardando Gesù nella sua passione, noi vediamo come in uno specchio le sofferenze dell’umanità e troviamo la risposta divina al mistero del male, del dolore, della morte.
Tante volte avvertiamo orrore per il male e il dolore che ci circonda e ci chiediamo: «Perché Dio lo permette?». Questa settimana farà bene a tutti noi guardare il crocifisso, baciare le piaghe di Gesù, baciarle nel crocifisso.
Lui ha preso su di sé tutta la sofferenza umana, si è rivestito di questa sofferenza“.”

Papa Francesco

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa V domenica di Quaresima ci invitano a meditare per arrivare a conoscere sempre di più il Signore, il mistero della Sua passione e morte per arrivare a contemplarlo nella Sua gloriosa resurrezione.
Nella prima lettura il profeta Geremia annuncia l’alleanza nuova, che Dio vuole fare con il suo popolo imprimendo la Sua legge nel cuore degli uomini e perdonando i loro peccati. L’osservanza di questa nuova alleanza dipenderà dalla qualità del rapporto di amore che ci sarà tra Dio ed ogni singola persona. Si tratterà quindi di una relazione di amore personale, che implica la fedeltà ed il desiderio profondo e sincero di piacere a Dio e di cercare sempre la Sua volontà.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, il suo straordinario autore afferma che Gesù non offrì a Dio doni e sacrifici per i peccati, ma offrì se stesso in un contesto di preghiera. Egli ha attraversato la sofferenza della morte con fedeltà filiale, perciò Dio lo ha reso perfetto, consacrato sacerdote, fonte di salvezza per tutti i credenti.
Nel Vangelo di Giovanni, viene descritta una scena posteriore all’ingresso di Gesù a Gerusalemme e appartiene a quel clima di segni e di presagi che attraversano le ore dell’avvicinamento di Gesù alla Sua morte. Nella preghiera chiediamo anche noi di essere nel mondo, gemme di luce e di amore. Dio Padre che, col dono dello Spirito Santo, ci aiuti a leggere la nostra vita, e tenendo presente l’immagine del chicco di grano, ci aiuti nel saper illuminare, nel dialogo, le persone che ci interrogano, ma soprattutto, quando sarà il momento della nostra morte, ci aiuti a viverla come il momento in cui la vita si trasforma e raggiunge la sua pienezza.

Dal libro del profeta Geremia
Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore.
Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore– porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.
Ger 31,31-34

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.).
Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C). Incompreso, perseguitato, spesso minacciato di morte, Geremia, timido ma amico di Dio, non cessa di lanciare angosciati appelli alla conversione, non esita a mostrare a dito i responsabili che hanno deviato il popolo. Egli se la prende con la falsa coscienza dei benpensanti che si credono nel giusto, solo perchè osservano le pratiche religiose, senza viverle nell’animo.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza.
Egli fu anche l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà. La sua intimità con Dio e la religione del cuore, che egli ha vissuto e predicato, fanno di lui il profeta-maestro della vita interiore dell’uomo di ogni tempo.
Il brano che la liturgia ci presenta, è tratto dal cosiddetto “Libro della consolazione” ed è considerato uno dei vertici spirituali dell’A.T . C’era già una alleanza, quella che sul Sinai Dio consegnò a Mosè e questa alleanza esigeva l’adesione esclusiva al Signore, che si realizzava nel compimento della legge e dei precetti. Per questo la legge era formulata con chiarezza e stilata da una duplice serie di benedizioni e maledizioni, ma l’uomo, nella storia non fu capace di essere fedele a questa legge.
C’è da tenere presente che alla morte del re Salomone, attorno al 933 a.C.: il regno di Israele era diviso in due: il Regno di Israele, chiamato spesso anche Regno del Nord, con capitale Samaria e il Regno di Giuda, che è a Sud, con capitale Gerusalemme. Entrambi affrontarono un pericolo imminente e un'eventuale conquista. Al tempo di Geremia gli Assiri avevano già disperso il regno di Israele mentre i babilonesi minacciavano il regno di Giuda.
Nei versetti di questo brano Geremia tocca una delle vette più alte della testimonianza profetica. «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore.»
Queste parole si propongono come punto di ricapitolazione tra la storia passata e futura e riferendosi al passato, richiama l’alleanza che Dio ha stabilito con l’umanità e che, infranta, deve essere rinnovata. «Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore– porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo»
Riferendosi al futuro, annuncia come avverrà il rinnovamento: per il perdono dei peccati: «Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» È un‘alleanza definitiva, promessa di misericordia e perdono. Geremia preannuncia una conoscenza di Dio non più attraverso la mediazione della Legge, ma attraverso l’esperienza interiore per cui la conoscenza di Dio entra nel cuore dell’uomo.
Tutto ciò anche se non esclude l’importanza di seguire le indicazioni di una dottrina, ci ricorda che prima di tutto c’è il nostro rapporto personale con Dio. Questa è la grande alleanza di Dio: entrare nel cuore dell’uomo, nell’interno della sua vita, di tutto il suo essere, affinché l’uomo non possa più rifiutarlo, respingerlo, abbandonarlo, allontanarlo!
Gesù stesso rievocherà la promessa di Geremia nella sera dell’ultima cena, quando definirà la coppa pasquale del vino “il calice della nuova alleanza”.
Noi come cristiani possiamo rileggere la promessa di Geremia alla luce della croce di Cristo, di quell’istante fondamentale in cui egli “elevato da terra ha attirato tutti a sé" (Gv12,32)

Salmo 51 (50) Crea in me, o Dio, un cuore puro.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Insegnerò ai ribelli le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.

Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10).
Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera agli Ebrei
Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Eb 5,7-9

L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
In questo breve brano, l’autore, dopo aver proclamato nei versetti precedenti Gesù Cristo “figlio di Dio e sacerdote in eterno” fa questa riflessione: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” L’obbedienza che Cristo imparò dalla Sua sofferenza consiste nell’adesione radicale al progetto di Dio, che lo ha guidato nelle scelte decisive della Sua vita. La sottomissione alla volontà del Padre viene presentata spesso nel N.T. come un aspetto specifico del comportamento di Gesù (V. Mc 14,36; Gv 4,34; 10,18) e Paolo in modo speciale sottolinea come l’obbedienza di Cristo si sia manifestata nella sofferenza della morte (V. Fil 2,8; Rm 5,19). Ma ciò che la lettera agli Ebrei evidenzia, in piena sintonia con il racconto evangelico della passione, è il fatto che questa obbedienza ha richiesto una fatica notevole per superare la naturale paura della sofferenza e della morte.
L’aspetto più specifico del sacerdozio di Cristo sta quindi nell’accettazione libera, anche se sofferta, della morte, che certo non è stata voluta dal Padre, ma imposta dalle circostanze concrete della storia. L’obbedienza di Cristo ha anche come risultato la salvezza eterna di tutti coloro che “gli obbediscono”. Obbedire significa qui accettare la totalità del messaggio di Cristo, ma soprattutto seguire l’esempio che Egli ha offerto a tutti nel Suo affidarsi all’amore del Padre, anche quando poteva sembrare che il Padre l’avesse abbandonato (V.Mt 27,46).
Per questa ragione, soltanto Gesù è causa di salvezza eterna, vera e definitiva per coloro che credono in Lui. Il mistero di Cristo non lo si può certo avvicinare con pigrizia, torpore e tantomeno indifferenza!

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Gv 12,20-33

La scena descritta in questo brano del Vangelo di Giovanni viene dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme e appartiene a quel clima di segni e di presagi che attraversano le ore precedenti la Sua passione.
L’evangelista nei versetti precedenti questo brano, aveva annotato un amaro commento dei farisei: “Ecco che il mondo gli è andato dietro!” E a conferma di questo egli ci riporta che in quella occasione alcuni greci avevano espresso il desiderio di vedere Gesù. Non ci dice chi fossero: potevano essere anche giudei della diaspora, che parlavano la lingua greca, ma anche dei pagani che avevano aderito alla religione giudaica, senza però arrivare alla circoncisione e tutto ciò che essa comportava.
Essi si rivolsero, forse per il suo nome greco, a Filippo, il quale con Andrea, il cui nome è anch’esso greco, fece presente a Gesù la loro richiesta. Gesù rispose: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. … poi continuò portando l’esempio del chicco di grano, che se “caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”, e proseguì poi affermando che “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. Infine a tutti coloro che volevano servirlo, rivolse l’invito a seguirlo, perché siano con lui e vengano onorati dal Padre. Il concetto fondamentale espresso in tutti questi detti è quello di una morte che rivela al mondo la gloria di Dio in quanto coinvolge tutti gli uomini in una vita di comunione piena con Lui.
Anche se la risposta di Gesù non sembra in sintonia con la richiesta dei greci, con essa però l’evangelista vuole affermare che anche i non giudei potranno vedere Gesù, accettando la nuova vita da Lui annunziata, ma solo dopo che Egli, con la Sua glorificazione, avrà portato a termine l’opera che il Padre gli ha affidato.
Infine l’evangelista inserisce un brano in cui viene anticipata la preghiera di Gesù nel Getsemani con la quale Gesù svela il suo turbamento: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”.
A questo punto venne una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”.
La voce venne udita dai presenti, alcuni dei quali dissero “che era stato un tuono” mentre “Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato», ma Gesù disse: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. E l’evangelista commenta: Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Le parole con cui Gesù annunzia il suo prossimo innalzamento, provocarono un’ultima obiezione da parte della folla, che nei versetti non riportati nel brano, osservò: “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?”.
Gesù replicò “Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce”. Detto ciò si allontanò rendendosi irreperibile.
Gesù non nega dunque l’eternità del Cristo, ma afferma che laSua permanenza in questo mondo è limitata nel tempo e ha come unico scopo quello di illuminare gli uomini portandoli alla fede.
Possiamo rilevare che Gesù nel Suo discorso sembra che voglia sciogliere uno dei contrasti più tragici dell’esistenza, quello tra morte e vita. Il seme sprofonda nell’oscurità della terra, nel terreno sembra che l’energia del seme sia votata a spegnersi, infatti il seme marcisce e muore … eppure quando in estate biondeggiano le messi, è svelato il segreto fecondo di quella morte.
Si percepisce come Gesù vede incombere su di sé la morte, tuttavia non la presenta come un qualcosa di irreparabile. Anche se essa è tenebra, dolore, lacerazione, e distacco, per Gesù ha la forza segreta di un parto, racchiude in sé un mistero di fecondità e di risurrezione. E’ in questa luce che Gesù formula, allora, la grande legge della croce:
«Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna».
Gesù sente che deve passare attraverso la via oscura della morte di croce per portare l’umanità sulla via luminosa della vita eterna, che è sinonimo di piena e perfetta comunione con Dio.

 

*****

“In questa quinta domenica di Quaresima, la liturgia proclama il Vangelo in cui San Giovanni riferisce un episodio avvenuto negli ultimi giorni della vita di Cristo, poco prima della Passione..
Mentre Gesù si trovava a Gerusalemme per la festa di pasqua, alcuni greci, incuriositi da quanto Egli andava compiendo, esprimono il desiderio di vederlo. Avvicinatisi all’apostolo Filippo, gli dicono: «Vogliamo vedere Gesù». “Vogliamo vedere Gesù”. Ricordiamo questo desiderio: “Vogliamo vedere Gesù”. Filippo ne parla ad Andrea e poi insieme lo riferiscono al Maestro. Nella richiesta di quei greci possiamo scorgere la domanda che tanti uomini e donne, di ogni luogo e di ogni tempo, rivolgono alla Chiesa e anche a ciascuno di noi: “Vogliamo vedere Gesù”.
E come risponde Gesù a quella richiesta? In un modo che fa pensare. Dice così: «è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. […] Se il chicco di grano, caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Queste parole sembra che non rispondano alla domanda posta da quei greci. In realtà, esse vanno oltre. Gesù infatti rivela che Lui, per ogni uomo che lo vuole cercare, è il seme nascosto pronto a morire per dare molto frutto. Come a dire: se volete conoscermi, se volete capirmi, guardate il chicco di grano che muore nel terreno, cioè guardate la croce.
Viene da pensare al segno della croce, che è diventato nei secoli l’emblema per eccellenza dei cristiani. Chi anche oggi vuole “vedere Gesù”, magari provenendo da Paesi e culture dove il cristianesimo è poco conosciuto, che cosa vede prima di tutto? Qual è il segno più comune che incontra? Il crocifisso, la croce. Nelle chiese, nelle case dei cristiani, anche portato sul proprio corpo. L’importante è che il segno sia coerente con il Vangelo: la croce non può che esprimere amore, servizio, dono di sé senza riserve: solo così essa è veramente l’“albero della vita”, della vita sovrabbondante.
Anche oggi tante persone, spesso senza dirlo, in modo implicito, vorrebbero “vedere Gesù”, incontrarlo, conoscerlo. Da qui si comprende la grande responsabilità di noi cristiani e delle nostre comunità. Anche noi dobbiamo rispondere con la testimonianza di una vita che si dona nel servizio, di una vita che prenda su di sé lo stile di Dio – vicinanza, compassione e tenerezza – e si dona nel servizio. Si tratta di seminare semi di amore non con parole che volano via, ma con esempi concreti, semplici e coraggiosi, non con condanne teoriche, ma con gesti di amore. Allora il Signore, con la sua grazia, ci fa portare frutto, anche quando il terreno è arido a causa di incomprensioni, difficoltà o persecuzioni, o pretese di legalismi o moralismi clericali. Questo è terreno arido. Proprio allora, nella prova e nella solitudine, mentre il seme muore, è il momento in cui la vita germoglia, per produrre frutti maturi a suo tempo. è in questo intreccio di morte e di vita che possiamo sperimentare la gioia e la vera fecondità dell’amore, che sempre, ripeto, si dà nello stile di Dio: vicinanza, compassione, tenerezza.
La Vergine Maria ci aiuti a seguire Gesù, a camminare forti e lieti sulla strada del servizio, affinché l’amore di Cristo risplenda in ogni nostro atteggiamento e diventi sempre più lo stile della nostra vita quotidiana.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 21 marzo 2021

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