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S.Messe (settimana)
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Le letture liturgiche di questa domenica, sotto varie forme ci danno il messaggio del risorto che ci invita ad andare oltre ogni incredulità.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Pietro è al suo secondo discorso che tiene nel portico del Tempio, e dopo aver ricordato il mistero pasquale – la vita di Gesù Cristo morto e risorto - invita al pentimento e alla conversione.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera, l’apostolo Giovanni, afferma che Gesù Cristo si fa nostro avvocato rivelandoci la forza del Suo perdono che cancella tutti i nostri peccati. E’ Lui che ci protegge dalla collera divina, offrendo al Padre la Sua stessa vita come “vittima di espiazione per i nostri peccati e . per quelli di tutto il mondo”.
Nel Vangelo, Luca ci presenta un’altra apparizione del Risorto che incontra l'incredulità dei discepoli, ma Gesù li invita a toccare il Suo corpo glorificato, e propone anche di mangiare con loro. Su questa esperienza poggia sicura la loro fede e sulla loro prima testimonianza si basa la nostra testimonianza di oggi.
I fratelli ortodossi nel tempo pasquale, si salutano dicendo: “Cristo è risorto” e l’altro risponde “E’ risorto in verità” . E’ una bella abitudine radicata nella gente, e noi cattolici dovremmo farla nostra, non solo a parole, ma anche con la nostra vita. Tutto passa, sia i momenti belli che quelli difficili e dolorosi, ma chi rimane è Lui, che con la Sua morte e resurrezione, è divenuto l’unico sostegno in mezzo a tante difficoltà, incertezze e pericoli.
Oggi ricorre la 100^ giornata per l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Riguardo alla Consacrazione al Sacro Cuore, forse non tutti sanno che la città di Roma è stata consacrata al Sacro Cuore di Gesù dal sindaco di allora On. Salvatore Rebecchini, e Papa Pio XII lo ha ringraziato nel suo discorso del 1 gennaio 1949.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni.
Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».
At 3,13-15.17-19

Il brano che la liturgia ci propone è tratto dal capitolo 3 degli Atti degli Apostoli che inizia riportando la guarigione miracolosa di un uomo storpio fin dalla nascita che veniva portato ogni giorno presso la porta del tempio detta “Bella” a chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Anche a Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, lo storpio domandò l’elemosina. “Pietro gli disse: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!». Lo prese per la mano destra e lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e, balzato in piedi, si mise a camminare; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. At3,2-9
Nell’ introduzione al suo discorso al popolo l’Apostolo fa riferimento a questa guarigione, ma solo per dire che essa non doveva venire attribuita a particolari poteri suoi e del suo compagno Giovanni.
Il brano liturgico ci presenta Pietro che continua il suo discorso cominciando dalla glorificazione di Gesù dopo la Sua morte ed afferma che “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù..” Con queste parole Pietro riassume quanto aveva detto più a lungo nel giorno di Pentecoste (2,22-32). La designazione di JHWH come il Dio dei padri viene spesso riportata negli Atti e contiene in sé una sintesi di tutta la storia passata di Israele: lo stesso Dio che un giorno ha scelto Abramo e la sua discendenza, ha operato meraviglie nella persona di Gesù. Qui Gesù viene definito “servo”, per cui c’è un voluto riferimento al protagonista dei quattro carmi del “Servo di JHWH” contenuti nel Deuteroisaia. Come avviene in questo carme, Pietro anticipa l’annunzio della glorificazione di Gesù per poi accennare alla Sua morte. Egli lo fa rivolgendosi direttamente agli ascoltatori e accusandoli di averlo “consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo”.
Pietro evidenzia il fatto che Pilato aveva tentato di liberare Gesù concedendogli la grazia, che veniva data normalmente a un detenuto in occasione della Pasqua, mentre la folla aveva chiesto la liberazione di Barabba.
Dopo aver messo in luce la responsabilità dei presenti, Pietro sottolinea l’assurdità di quanto essi hanno compiuto: “voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino” e così facendo hanno ucciso “l’autore della vita ”.
L’appellativo di “giusto” attribuito a Gesù si riferisce ancora all’espressione del quarto carme del Servo (Is 53,11: “il giusto mio servo giustificherà molti”), mentre la santità è una prerogativa che compete a Dio stesso.
Con l’espressione “autore” della vita Pietro non vuole mettere qui Gesù sullo stesso piano di Dio, attribuendogli il ruolo di “creatore” della vita, ma semplicemente designarlo come colui che, ad immagine di Mosè, “porta alla vita”.
Per Pietro è importante sottolineare la scandalosa contrapposizione tra la grazia data a chi ha tolto la vita e l’uccisione di Colui che invece porta alla la vita.
Pietro prosegue affermando che Dio non ha abbandonato alla morte il santo e il giusto, l’autore della vita, ma l’ha risuscitato dai morti: riabilitandolo così agli occhi di tutti. Siccome però il fatto non poteva essere conosciuto dai presenti, Pietro aggiunge: “noi ne siamo testimoni”.
Con queste parole è riassunta in breve la testimonianza dei primi discepoli, ai quali Gesù si è fatto vedere dopo la Sua risurrezione.
Poi Pietro cerca di attenuare l’accusa fatta a chi lo ascoltava di aver ucciso l’autore della vita dicendo: “io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi..”. Ma proprio attraverso il loro crimine Dio ha compiuto quanto aveva fatto sapere per bocca di tutti i profeti, i quali avevano preannunziato la morte di Cristo.
In questo modo Pietro trasmette, senza portare alcun riferimento biblico, l’idea che Gesù era il Cristo promesso da Dio e che la Sua morte era stata preannunziata nelle Scritture.
Poi c’è l’esortazione finale: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati”.
Per gli ascoltatori di Pietro questa conversione ha come scopo l’eliminazione dei “peccati”, non solo di quello compiuto uccidendo il santo e il giusto, ma di tutti i peccati che li tengono lontani da Dio.
Luca dà questa lettura della vicenda di Gesù alla luce delle Scritture perché ritiene che sia pienamente comprensibile da parte dei giudei che, dopo essere stato coinvolti nella condanna dell’inviato di Dio, si possano sentire ora invitati a superare la loro ignoranza e ad accoglierlo come Colui da cui dipende la venuta della salvezza finale.

Salmo 4 - Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto.
Quando t’invoco, rispondimi,
Dio della mia giustizia!
Nell’angoscia mi hai dato sollievo;
pietà di me, ascolta la mia preghiera.

Sappiatelo, il Signore fa prodigi per il suo fedele
Il Signore mi ascolta quando lo invoco

Molti dicono: «Chi ci farà vedere il bene,
se da noi, Signore,
è fuggita la luce del tuo volto?».

In pace mi corico e subito di addormento,
perchè tu solo,Signore,
fiducioso mi fai risposare.

Il salmista guarda al triste spettacolo della durezza dei cuori, delle azioni di chi si avventura nelle strade della menzogna, e ne è insidiato. Il Signore gli è venuto in aiuto liberandolo dalle angosce allargandogli il cuore con la speranza, ma rimane ancora nel pericolo di essere travolto dagli ingiusti e chiede a Dio che esaudisca la sua preghiera.
Accerchiato dalle loro astuzie trova la forza di guardarli in faccia e di ammonirli dicendo loro l’inutilità del loro agire, poiché il Signore lo difenderà da loro. Li esorta pure, nella sua carità, a cambiare vita, a riflettere.
Il salmista ha nelle orecchie le parole degli scettici, che nell’incalzare delle azioni degli empi dicono: “Chi ci farà vedere il bene?”. Ma la fede del salmista è salda e invoca su tutti il suo sguardo di benevolenza.Poi il salmista si rivolge a Dio con gratitudine per la gioia, la pace, la protezione, che gli ha comunicato.
Il salmo ha diversi passaggi d’animo. Da una preghiera ricca di supplica, che invoca pietà, il salmista passa ad una sfida-esortazione agli empi nella certezza dell’aiuto di Dio. Poi passa ad esortare gli empi al bene. Quindi rigetta lo scetticismo di tanti confermandosi nella fiducia in Dio: “In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare”.
La recita di questo salmo, che deve essere fatta in Cristo, il perfetto orante dei salmi, deve seguirne docilmente i passaggi
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla prima lettera di S.Giovanni apostolo
Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.
Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.
1 Gv 2,1-5a

Questo brano tratto dalla prima lettera di Giovanni è tratto dal secondo capitolo. Nel primo Giovanni aveva dichiarato che tutto quello che ha visto e udito, cioè il Verbo della vita, lo vuole annunciare anche a noi per farci entrare nella comunione con loro, ossia con la comunità cristiana. E questa comunione si estende anche al Padre e al Figlio Suo Gesù Cristo.
Il brano che la liturgia ci propone è in sintonia con l’annuncio di remissione dei peccati proclamato da Pietro, nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli
“Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”.
Il perdono viene qui rappresentato in una scena magistrale. Sopra di noi c’è la figura di Dio che è giudice giusto delle ingiustizie umane; noi siamo di fronte a Lui, schiacciati dai nostri ripetuti peccati e umiliati dalle nostre infedeltà. Ma accanto a noi si accosta e si erge in nostra difesa un avvocato “Gesù Cristo, il giusto”.
Qui Gesù, è visto come avvocato che ci difende davanti a possibili accuse. Solitamente l'accusatore non è Dio, ma il diavolo, che fa venire scrupoli, dubbi, inutili sensi di colpa. Gesù è il solo giusto davanti a Dio e Lui solo ci difende e ci permette di essere liberi dal nostro peccato. Gesù può fare questo perché è stato la vittima di espiazione per i nostri peccati. E' lui l'Agnello che è stato immolato una volta per tutte per salvare non solo il suo popolo, ma tutto il mondo, prigioniero del male e della morte.
“Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti”.
Si tratta di una conoscenza profonda, una vera esperienza, non una conoscenza superficiale, ma profonda, di cuore, che esige da parte nostra un atteggiamento di conversione fatta di pentimento per le nostre colpe e di impegno per una vera conoscenza di Dio, che si attua nella pratica dei suoi comandamenti, nello sforzo generoso di comportarsi come Gesù si è comportato.
Giovanni prosegue affermando: “Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto.”
La Parola di Dio, non è tanto un messaggio culturale, quanto una proposta di vita, e la conoscenza di un dovere che, se non si trasforma in un impegno coerente di vita, ci rende automaticamente colpevoli.
Il comandamento più importante, quello che riassume tutti gli altri, è l’amore, e amare vuol dire donarsi, cercare il bene degli altri, fino a sacrificare il proprio tempo, i propri interessi, i propri gusti, la vita stessa, come Gesù che è morto per la salvezza di tutti. “Chi dice di dimorare in Cristo”, deve comportarsi veramente come Gesù si è comportato.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».
Lc 24, 35-48

L’evangelista Luca presenta la resurrezione del Signore con il racconto del ritrovamento del sepolcro vuoto in linea con Marco e Matteo, poi prosegue riportando l’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus, infine come Matteo, riporta un’apparizione “ufficiale” di Gesù agli Undici e poi la Sua ascensione. (24,50-53)..
L’apparizione ai discepoli fa seguito all’episodio dei discepoli di Emmaus, che appena ritornati a Gerusalemme, vengono a sapere non solo che Gesù è veramente risorto, ma anche che è apparso a Simone (24,33-34). Solo dopo essi possono raccontare la loro esperienza, sottolineando che anche loro lo hanno incontrato e lo hanno riconosciuto allo spezzare del pane
Il brano inizia riportando che: “Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!»”.
E’ una caratteristica di tutti i Vangeli, quando Gesù risuscitato appare, si mette sempre in mezzo e tutto il gruppo è attorno a Lui. Gesù è la fonte dell’amore di Dio che si irradia per tutte le persone che gli sono attorno.
L’espressione “Pace a voi!” tipica del mondo ebraico (šalôm) ha qui un significato teologico in quanto indica il bene escatologico conquistato da Gesù con la Sua morte e resurrezione.
I discepoli sono “sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma”. Gesù non è uno spirito, Gesù è in “carne e ossa”, una persona che ha la condizione divina non annulla la fisicità, ma la dilata e la trasfigura.
Ma Gesù li rimprovera per la loro incredulità e, per dissipare i loro dubbi dice loro “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho”.
Essi però restano increduli, perché da una parte si sentono il cuore pieno di una grande gioia, mentre dall’altra sono pieni di stupore, a loro sembrava troppo bello per essere vero!
Ma Gesù vedendo che la meraviglia di questi pescatori di Galilea era talmente grande, alla fine chiede loro: “Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Dopo che gli viene offerta una porzione di pesce arrostito, Gesù “lo prese e lo mangiò davanti a loro”. La Sua è una duplice dimostrazione: che è vivo, che è vero e presente in carne ed ossa, non solo ma che può fare tutto: mangiare e non mangiare ed essere presente ovunque contemporaneamente.
Poi, in sintonia con quanto detto sulla strada per Emmaus, Gesù continua: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Poi apre loro la mente all'intelligenza delle Scritture e dice: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni”.
Questa è l’ultima scena raccontata da Luca prima dell’ascensione di Gesù in cielo. Questa testimonianza dei primi discepoli è passata agli altri ed ora anche a noi oggi. Siamo tutti chiamati ad essere testimoni dell'avvenimento più importante, più sublime, più straordinario della storia umana: la Storia di un Dio che si fa uomo per morire con noi, come noi e peggio di noi, per risorgere prima di noi e precederci in una vita nuova, in un Regno che non avrà mai fine.


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"In questa terza domenica di Pasqua, ritorniamo a Gerusalemme, nel Cenacolo, come guidati dai due discepoli di Emmaus, i quali avevano ascoltato con grande emozione le parole di Gesù lungo la via e poi lo avevano riconosciuto «nello spezzare il pane». Ora, nel Cenacolo, Cristo risorto si presenta in mezzo al gruppo dei discepoli e li saluta: «Pace a voi!» . Ma essi sono spaventati e credono «di vedere un fantasma», così dice il Vangelo. Allora Gesù mostra loro le ferite del suo corpo e dice: «Guardate le mie mani e i miei piedi – le piaghe –: sono proprio io! Toccatemi» . E per convincerli, chiede del cibo e lo mangia sotto i loro sguardi sbalorditi.
C’è un particolare qui, in questa descrizione. Dice il Vangelo che gli Apostoli “per la grande gioia ancora non credevano”. Era tale la gioia che avevano che non potevano credere che quella cosa fosse vera. E un secondo particolare: erano stupefatti, stupiti; stupiti perché l’incontro con Dio ti porta sempre allo stupore: va oltre l’entusiasmo, oltre la gioia, è un’altra esperienza. E questi erano gioiosi, ma una gioia che faceva pensare loro: no, questo non può essere vero!… È lo stupore della presenza di Dio. Non dimenticare questo stato d’animo, che è tanto bello.
Questa pagina evangelica è caratterizzata da tre verbi molto concreti, che riflettono in un certo senso la nostra vita personale e comunitaria: guardare, toccare e mangiare. Tre azioni che possono dare la gioia di un vero incontro con Gesù vivo.
Guardare. “Guardate le mie mani e i miei piedi” – dice Gesù. Guardare non è solo vedere, è di più, comporta anche l’intenzione, la volontà. Per questo è uno dei verbi dell’amore. La mamma e il papà guardano il loro bambino, gli innamorati si guardano a vicenda; il bravo medico guarda il paziente con attenzione… Guardare è un primo passo contro l’indifferenza, contro la tentazione di girare la faccia da un’altra parte, davanti alle difficoltà e alle sofferenze degli altri. Guardare. Io vedo o guardo Gesù?
Il secondo verbo è toccare. Invitando i discepoli a toccarlo, per constatare che non è un fantasma – toccatemi! –, Gesù indica a loro e a noi che la relazione con Lui e con i nostri fratelli non può rimanere “a distanza”, non esiste un cristianesimo a distanza, non esiste un cristianesimo soltanto sul piano dello sguardo. L’amore chiede il guardare e chiede anche la vicinanza, chiede il contatto, la condivisione della vita. Il buon samaritano non si è limitato a guardare quell’uomo che ha trovato mezzo morto lungo la strada: si è fermato, si è chinato, gli ha medicato le ferite, lo ha toccato, lo ha caricato sulla sua cavalcatura e l’ha portato alla locanda. E così con Gesù stesso: amarlo significa entrare in una comunione di vita, una comunione con Lui.
E veniamo allora al terzo verbo, mangiare, che esprime bene la nostra umanità nella sua più naturale indigenza, cioè il bisogno di nutrirci per vivere. Ma il mangiare, quando lo facciamo insieme, in famiglia o tra amici, diventa pure espressione di amore, espressione di comunione, di festa... Quante volte i Vangeli ci presentano Gesù che vive questa dimensione conviviale! Anche da Risorto, con i suoi discepoli. Al punto che il Convito eucaristico è diventato il segno emblematico della comunità cristiana. Mangiare insieme il corpo di Cristo: questo è il centro della vita cristiana.
Fratelli e sorelle, questa pagina evangelica ci dice che Gesù non è un “fantasma”, ma una Persona viva; che Gesù quando si avvicina a noi ci riempie di gioia, al punto di non credere, e ci lascia stupefatti, con quello stupore che soltanto la presenza di Dio dà, perché Gesù è una Persona viva. Essere cristiani non è prima di tutto una dottrina o un ideale morale, è la relazione viva con Lui, con il Signore Risorto: lo guardiamo, lo tocchiamo, ci nutriamo di Lui e, trasformati dal suo Amore, guardiamo, tocchiamo e nutriamo gli altri come fratelli e sorelle. La Vergine Maria ci aiuti a vivere questa esperienza di grazia."
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 18 aprile 2021

Pubblicato in Liturgia

La Pasqua, il giorno tanto atteso, è arrivato, anche se ci sentiamo tutti ancora con lo stato d’animo in cui si vive il sabato santo: nel gran silenzio in attesa degli eventi.
Nella celebrazione della Messa di Pasqua del giorno, abbiamo nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Pietro, in casa del centurione Cornelio, il primo pagano entrato nel cristianesimo, annuncia che Dio ha risuscitato Gesù dai morti e loro, i discepoli, ne sono i testimoni.
Nella seconda lettura, Paolo scrivendo ai Colossesi, afferma che il cristiano è già risorto con Cristo quando è uscito dalle acque purificatrici del Battesimo. Questo vuol dire che uniti a Cristo nel sacramento già partecipiamo alla Sua vita.
Nel Vangelo di Giovanni, leggiamo che il primo annuncio della resurrezione ci viene dalle donne, in particolare da Maria Maddalena, poi più concretamente da Pietro e Giovanni che corrono al sepolcro. In questo brano del Vangelo i discepoli non incontrano ancora il Risorto, perchè il vero dono pasquale è la fede che nasce dal loro cuore, come dal nostro: la capacità di vedere e comprendere la storia oltre ciò che appare, con gli occhi del Risorto, per essere sin d’ora partecipi della Sua gloria.

Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».
At 10,34a.37-43

Il libro degli Atti degli Apostoli, la cui redazione definitiva risale probabilmente attorno al 70-80, è attribuita all’evangelista Luca, che è anche autore del Vangelo che porta il suo nome. Il libro è composto da 28 capitoli e narra la storia della comunità cristiana dall'ascensione di Gesù fino all'arrivo di Paolo a Roma e copre un periodo che spazia pressappoco dal 30 al 63 d.C.. Oltre che su Paolo, l'opera si sofferma diffusamente anche sull'operato dell'apostolo Pietro e descrive il rapido sviluppo, l'espansione e l'organizzazione della testimonianza cristiana prima ai giudei e poi agli uomini di ogni nazione.
Nella seconda parte dell’opera viene delineata l’espandersi dell’annunzio evangelico al di fuori di Gerusalemme. A tal fine Luca presenta l’opera di Filippo in Samaria, la conversione dell’eunuco della regina d’Etiopia, e la straordinaria conversione del persecutore Saulo sulla via di Damasco. Infine egli racconta un viaggio apostolico di Pietro nella zona costiera della Palestina, a conclusione del quale mette la conversione del centurione Cornelio, con tutti i suoi famigliari, facendo di loro i primi pagani che aderiscono al cristianesimo senza passare attraverso la circoncisione.
Per capire meglio cosa sia avvenuto in casa del centurione Cornelio, dobbiamo cercare di capire ciò che passava nella mente di Pietro e gli altri apostoli. Pietro era preoccupato di rimanere fedele a Gesù, ma anche alla tradizione giudaica nella quale era cresciuto. (Avranno probabilmente anche pensato, che Gesù non aveva mai inserito, tra i suoi discepoli, dei pagani, né aveva predicato loro). Pietro faceva perciò fatica ad accettare che anche i non-giudei potessero essere partecipi della buona notizia che Gesù stesso aveva portato.
Nei versetti precedenti questo brano, Pietro ha una visione simbolica di una tovaglia che si abbassa e invita a cibarsi di animali impuri, e mentre si domandava ragione di ciò che aveva visto, arrivarono da lui tre uomini inviati dal centurione Cornelio, noto come uomo pio e timorato di Dio, ad invitarlo ad andare nella sua casa. (At 10,2) .
«Uomo pio e timorato di Dio “ sono espressioni utilizzate per indicare quanti simpatizzavano a quel tempo per il giudaismo, senza però arrivare all’integrazione con il popolo giudaico attraverso la circoncisione.
Questo brano ci riporta parte del discorso che Pietro tenne nella casa del centurione Cornelio. Negli Atti si dice di lui che a seguito di una visione di un angelo, che lo aveva chiamato per nome, invitò Pietro nella sua casa, per appagare questa sua sete di verità. In questo discorso che Pietro fa, sono chiaramente delineati i tratti fondamentali della vita di Gesù, dal battesimo, fino alla Sua morte e resurrezione. Pietro e gli altri discepoli sono dei testimoni e possono perciò affermare la storicità di Gesù che annunzia la buona novella nella Galilea e nella Giudea negli anni 30-36 non solo, ma possono anche affermarne la Sua divinità. Per testimoniare la Sua morte e resurrezione affermano: “noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.”
Pietro continua dicendo che Gesù è giudice dei vivi e dei morti, e questa espressione indica la totalità del potere acquisito da Cristo nella Sua opera di salvezza. A chiunque crede in Lui è offerto il perdono dei peccati.
Ciò che ha affermato Pietro allora, continua ad affermarlo anche a noi oggi per farci entrare in questo cerchio d’amore e renderci partecipi della Gloria del Risorto!

Salmo 117 - Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo

Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».

La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.

La destra del Signore si è innalzata,la destra del Signore ha fatto prodezze.
Non morirò, ma resterò in vita
e annuncerò le opere del Signore.

La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.

Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi.
Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare. Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici. Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
“La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
“Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male. Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”.
Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore. Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossesi
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!
Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
Col 3,1-4
La Lettera ai Colossesi, è stata scritta da Paolo durante la sua prigionia a Roma, attorno al 62; (alcuni esperti sostengono che l’autore della lettera sia un suo discepolo e che l’abbia scritta dopo la morte dell’Apostolo (64-67), verso fine I secolo). Presumibilmente Paolo non si era mai recato a Colossi (l’attuale Turchia), che era allora una piccola città dell’entroterra dell’Asia minore (circa 124 km a nord di Efeso) e il Vangelo era stato portato lì da alcuni missionari da Efeso, fra questi Èpafra, al quale Paolo dà la sua approvazione all’inizio della lettera (1,7).
La lettera è composta da 4 capitoli contenenti meditazioni teologiche su Gesù, la Chiesa, la salvezza per grazia, ed infine alcune esortazioni di condotta morale.
Paolo dopo aver criticato le teorie che mettono a rischio la fedeltà al vangelo, ed esortato ad abbandonare le false dottrine che vengono proposte ai Colossesi, continua:
“Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”
La risurrezione dai morti qui non è più vista come un evento escatologico, collegato con il ritorno di Gesù, ma come una realtà già realizzata. Con Cristo, anche i credenti in Lui sono già risorti, godono la stessa vita nuova di cui Egli è entrato in possesso mediante la Sua risurrezione e ascensione al cielo. È questa una convinzione tipica della seconda generazione cristiana, per la quale la parusia è vista ormai come un evento molto lontano, ma che ha già avuto una realizzazione anticipata mediante l’associazione del credente a Cristo. Proprio per questo motivo i credenti devono considerarsi come già risorti con Cristo e sono invitati a cercare anche loro le cose di lassù, cioè quelle che stanno a cuore a Cristo nella Sua nuova situazione di Messia intronizzato alla destra del Padre. Su di esse essi devono concentrare il loro pensiero, non sulle cose della terra.
La situazione di morte e di vita tipica dei credenti in Cristo viene poi ulteriormente precisata con queste parole: “Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! “
Ciò non significa una fuga dal mondo o dalla storia, ma si concretizza in uno stile di vita e di rapporti sociali. Chi ha abbracciato la sorte di Cristo morto e sepolto attraverso il battesimo è entrato in uno stato di "sottrazione", di non-disponibilità per il mondo. La sua realtà profonda e autentica è come se fosse sepolta, velata.
“Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”.
Paolo ci dice che la risurrezione dei morti non avrà luogo al momento del ritorno di Gesù, ma è già avvenuta. Tuttavia viene sottolineato che solo quando Egli verrà, la loro nuova vita sarà manifestata, in quanto anch’essi parteciperanno alla Sua gloria.
In sintesi l’Apostolo ci vuole far comprendere che se la nostra vita cristiana inizia per noi con il sacrificio di Cristo, tale vita sarebbe imperfetta e del tutto inutile se non ci fosse poi il desiderio e l’impegno costante da parte nostra di guardare verso la meta finale che Gesù ha preparato per noi. Se viviamo in Cristo, al quale siamo stati uniti nel battesimo e mediante il quale abbiamo vinto il male e le forze della malvagità di questo mondo disubbidiente, allora dobbiamo indirizzare le nostre energie verso due impegni primari, ben precisi e tra loro collegati: Cercare le cose di lassù, avere in mente le cose di lassù.

Sequenza
Alla vittima pasquale,
s’innalzi oggi il sacrificio di lode.
L’Agnello ha redento il suo gregge,
l’Innocente ha riconciliato
noi peccatori col Padre.

Morte e Vita si sono affrontate
in un prodigioso duello.
Il Signore della vita era morto;
ma ora, vivo, trionfa.

«Raccontaci, Maria:
che hai visto sulla via?».
«La tomba del Cristo vivente,
la gloria del Cristo risorto,
e gli angeli suoi testimoni,
il sudario e le sue vesti.
Cristo, mia speranza, è risorto:
precede i suoi in Galilea».

Sì, ne siamo certi:
Cristo è davvero risorto.
Tu, Re vittorioso,
abbi pietà di noi.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro.
Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Gv 20,1-9

Il Vangelo di Pasqua, riportato dall’evangelista Giovanni, parte dalla notte buia. Inizia nel raccontare che “Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”. Quel buio fuori è in sintonia con ciò che Maria sentiva dentro. Il suo cuore era infinitamente triste, prigioniero della disperazione e dimentico della fede, forse non le era venuto neppure in mente l’idea della resurrezione di cui sicuramente Gesù le aveva parlato, non riesce a staccarsi da quel Gesù che aveva seguito e amato, sa solo che ora è morto, ma vuole almeno un luogo per piangerlo. Ma, arrivata là, vede la pietra ribaltata! Non ha bisogno neppure di entrare, percepisce già che il corpo non c’è più. Ha visto semplicemente una tomba aperta, ma la sua immaginazione corre più avanti: qualcuno ha rubato il corpo del suo Signore. Corre via, e la sua supposizione diventa il racconto ai discepoli: " Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». C’è subito molto movimento, in questo racconto:
“ Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro”. Essi corrono immediatamente verso il sepolcro vuoto; dopo aver iniziato assieme a seguire il Signore durante la passione, sebbene da lontano, ora si trovano a "correre entrambi" per raggiungerlo.
L’evangelista riporta che “Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro”.
Giunse per primo alla tomba il discepolo che Gesù amava, a cui l’evangelista Giovanni non dà un nome, ma non entra e aspetta Pietro, che Gesù ha scelto come capo. “Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte”.
Pietro osservò un ordine perfetto: le bende stavano al loro posto come svuotate del corpo di Gesù e il sudario "avvolto in un luogo a parte". Non c'era stata né manomissione né trafugamento: Gesù si era come liberato da solo. Non era stato necessario sciogliere le bende come per Lazzaro. Le bende erano lì, come svuotate! Anche l'altro discepolo entrò e "vide" la stessa scena: ma lui “vide e credette” .
Il suo sguardo non si sofferma su un oggetto, o sul luogo, è un vedere che coglie l’insieme, è un vedere la luce, vale a dire è lo sguardo della fede, ecco perché: vide e credette. Vede qualcosa che va al di là, vede l’invisibile.
Prima, sulla soglia il suo sguardo si soffermava su degli oggetti, ma senza comprendere, ora, entrato nel sepolcro, cioè nella realtà della morte, ricordando le parole di Gesù, comprende le Scritture, quelle Scritture che Gesù tante volte aveva spiegato.
L’evangelista commenta: “Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”.
Questo racconto mette in luce la diversa reazione di Maria, Pietro e Giovanni.
Maria è mossa dall’amore, arriva fino al sepolcro, ma non ha il coraggio di entrare. Occorre entrare nella morte, nel dolore, nei segni di morte che ci sbarrano la via.
Pietro ha un rapporto con Gesù più razionale, più materiale; ha il coraggio di entrare nel sepolcro, nella morte, ma questo non basta.
Giovanni ama con lo stile di Gesù, entra, vede con gli occhi della fede e del cuore! La fede dunque è sì fede nella vita, nella potenza della resurrezione, nell’amore fino all’estremo, ma soprattutto è fede nella Scrittura, in quella Parola del Signore che ci permette di vedere e interpretare la vita dentro i segni di morte, che troviamo sul nostro cammino.

 *****

Le parole di Papa Francesco


La notte sta per finire e si accendono le prime luci dell’alba, quando le donne si mettono in cammino verso la tomba di Gesù. Avanzano incerte, smarrite, con il cuore lacerato dal dolore per quella morte che ha portato via l’Amato. Ma, giungendo presso quel luogo e vedendo la tomba vuota, invertono la rotta, cambiano strada; abbandonano il sepolcro e corrono ad annunciare ai discepoli un percorso nuovo: Gesù è risorto e li attende in Galilea. Nella vita di queste donne è avvenuta la Pasqua, che significa passaggio: esse, infatti, passano dal mesto cammino verso il sepolcro alla gioiosa corsa verso i discepoli, per dire loro non solo che il Signore è risorto, ma che c’è una meta da raggiungere subito, la Galilea. L’appuntamento col Risorto è lì. La rinascita dei discepoli, la risurrezione del loro cuore passa dalla Galilea. Entriamo anche noi in questo cammino dei discepoli che va dalla tomba alla Galilea.
Le donne, dice il Vangelo, «andarono a visitare la tomba» (Mt 28,1). Pensano che Gesù si trovi nel luogo della morte e che tutto sia finito per sempre. A volte succede anche a noi di pensare che la gioia dell’incontro con Gesù appartenga al passato, mentre nel presente conosciamo soprattutto delle tombe sigillate: quelle delle nostre delusioni, delle nostre amarezze, della nostra sfiducia, quelle del “non c’è più niente da fare”, “le cose non cambieranno mai”, “meglio vivere alla giornata” perché “del domani non c’è certezza”. Anche noi, se siamo stati attanagliati dal dolore, oppressi dalla tristezza, umiliati dal peccato, amareggiati per qualche fallimento o assillati da qualche preoccupazione, abbiamo sperimentato il gusto amaro della stanchezza e abbiamo visto spegnersi la gioia nel cuore.
A volte abbiamo semplicemente avvertito la fatica di portare avanti la quotidianità, stanchi di rischiare in prima persona davanti al muro di gomma di un mondo dove sembrano prevalere sempre le leggi del più furbo e del più forte. Altre volte, ci siamo sentiti impotenti e scoraggiati dinanzi al potere del male, ai conflitti che lacerano le relazioni, alle logiche del calcolo e dell’indifferenza che sembrano governare la società, al cancro della corruzione – ce n’è tanta –, al dilagare dell’ingiustizia, ai venti gelidi della guerra. E, ancora, ci siamo forse trovati faccia a faccia con la morte, perché ci ha tolto la dolce presenza dei nostri cari o perché ci ha sfiorato nella malattia o nelle calamità, e facilmente siamo rimasti preda della disillusione e si è disseccata la sorgente della speranza. Così, per queste o altre situazioni – ognuno di noi conosce le proprie –, i nostri cammini si arrestano davanti a delle tombe e noi restiamo immobili a piangere e a rimpiangere, soli e impotenti a ripeterci i nostri “perché”. Quella catena di “perché”…
Invece, le donne a Pasqua non restano paralizzate davanti a una tomba ma, dice il Vangelo, «abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli» (v. 8). Portano la notizia che cambierà per sempre la vita e la storia: Cristo è risorto! (cfr v. 6). E, al tempo stesso, custodiscono e trasmettono la raccomandazione del Signore, il suo invito ai discepoli: che vadano in Galilea, perché là lo vedranno (cfr v. 7).
Ma, fratelli e sorelle, ci domandiamo oggi: che cosa significa andare in Galilea? Due cose: da una parte uscire dalla chiusura del cenacolo per andare nella regione abitata dalle genti (cfr Mt 4,15), uscire dal nascondimento per aprirsi alla missione, evadere dalla paura per camminare verso il futuro. E dall’altra parte – e questo è molto bello –, significa ritornare alle origini, perché proprio in Galilea tutto era iniziato. Lì il Signore aveva incontrato e chiamato per la prima volta i discepoli. Dunque andare in Galilea è tornare alla grazia originaria, è riacquistare la memoria che rigenera la speranza, la “memoria del futuro” con la quale siamo stati segnati dal Risorto.
Ecco allora che cosa fa la Pasqua del Signore: ci spinge ad andare avanti, a uscire dal senso di sconfitta, a rotolare via la pietra dei sepolcri in cui spesso confiniamo la speranza, a guardare con fiducia al futuro, perché Cristo è risorto e ha cambiato la direzione della storia; ma, per fare questo, la Pasqua del Signore ci riporta al nostro passato di grazia, ci fa riandare in Galilea, là dov’è iniziata la nostra storia d’amore con Gesù, dove è stata la prima chiamata. Ci chiede, cioè, di rivivere quel momento, quella situazione, quell’esperienza in cui abbiamo incontrato il Signore, abbiamo sperimentato il suo amore e abbiamo ricevuto uno sguardo nuovo e luminoso su noi stessi, sulla realtà, sul mistero della vita.
Fratelli e sorelle, per risorgere, per ricominciare, per riprendere il cammino, abbiamo sempre bisogno di ritornare in Galilea, cioè di riandare non a un Gesù astratto, ideale, ma alla memoria viva, alla memoria concreta e palpitante del primo incontro con Lui. Sì, per camminare dobbiamo ricordare; per avere speranza dobbiamo nutrire la memoria. E questo è l’invito: ricorda e cammina! Se recuperi il primo amore, lo stupore e la gioia dell’incontro con Dio, andrai avanti. Ricorda e cammina.
Ricorda la tua Galilea e cammina verso la tua Galilea. È il “luogo” nel quale hai conosciuto Gesù di persona, dove per te Egli non è rimasto un personaggio storico come altri, ma è divenuto la persona della vita: non un Dio lontano, ma il Dio vicino, che ti conosce più di ogni altro e ti ama più di chiunque altro.
Fratello, sorella, fai memoria della Galilea, della tua Galilea: della tua chiamata, di quella Parola di Dio che in un preciso momento ha parlato proprio a te; di quell’esperienza forte nello Spirito, della più grande gioia del perdono provata dopo quella Confessione, di quel momento intenso e indimenticabile di preghiera, di quella luce che si è accesa dentro e ha trasformato la tua vita, di quell’incontro, di quel pellegrinaggio… Ognuno sa dov’è la propria Galilea, ciascuno di noi conosce il proprio luogo di risurrezione interiore, quello iniziale, quello fondante, quello che ha cambiato le cose. Non possiamo lasciarlo al passato, il Risorto ci invita ad andare lì per fare la Pasqua.
Ricorda la tua Galilea, fanne memoria, ravvivala oggi. Torna a quel primo incontro. Chiediti come è stato e quando è stato, ricostruiscine il contesto, il tempo e il luogo, riprovane l’emozione e le sensazioni, rivivine i colori e i sapori. Perché tu sai, è quando hai dimenticato quel primo amore, è quando hai scordato quel primo incontro che è cominciata a depositarsi della polvere sul tuo cuore. E hai sperimentato la tristezza e, come per i discepoli, tutto è sembrato senza prospettiva, con un macigno a sigillare la speranza. Ma oggi, fratello, sorella, la forza di Pasqua invita a rotolare via i massi della delusione e della sfiducia; il Signore, esperto nel ribaltare le pietre tombali del peccato e della paura, vuole illuminare la tua memoria santa, il tuo ricordo più bello, rendere attuale quel primo incontro con Lui. Ricorda e cammina: ritorna a Lui, ritrova la grazia della risurrezione di Dio in te! Torna in Galilea, torna nella tua Galilea.
Fratelli, sorelle, seguiamo Gesù in Galilea, incontriamolo e adoriamolo lì dove Egli attende ognuno di noi. Ravviviamo la bellezza di quando, dopo averlo scoperto vivo, lo abbiamo proclamato Signore della nostra vita. Torniamo in Galilea, alla Galilea del primo amore: ognuno torni alla propria Galilea, quella del primo incontro, e risorgiamo a vita nuova!

Omelia di Papa Francesco Basilica di San Pietro -
Sabato Santo, 8 aprile 2023

 

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa ultima domenica di quaresima, conosciuta anche come domenica delle Palme e della Passione del Signore, ci introducono alla Settimana Santa, e ci rendono quanto mai partecipi delle sofferenze di Cristo che affronta la Sua dolorosa passione per la nostra salvezza.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia attraverso il canto del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo la vita e la passione di Gesù. Il suo atteggiamento di fiducia in Dio e di amore per i fratelli lo lascia in una suprema libertà di fronte ad ogni prova. Egli ha la certezza che la sua missione non è vana.
Nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Filippesi, S.Paolo, con l’Inno Cristologico, rivela il mistero dell’abbassamento di Cristo e l’intervento di Dio in Suo favore: il Padre lo esalta, ponendolo al di sopra di tutte le cose e di tutti gli esseri viventi.
Il racconto della passione, tratta dal Vangelo di Marco, va meditato lentamente e in silenzio. Si può percepire così il crescendo di solitudine di Gesù a partire dall’ultima cena: solo nell’orto degli ulivi, solo davanti al Sinedrio, solo di fronte a Pilato, solo sul Golgota. Gesù in croce raccoglie in sé tutto il dolore che, da quando il peccato è entrato nel mondo, ha tormentato l'umanità. Sulla croce c'è il Dolore: ecco perché ogni uomo che soffre richiama quasi naturalmente il Crocifisso. Per Marco qui c'è il culmine del cammino di fede: riconoscere nel fallito, che pende dalla croce, la realtà di Dio che si manifesta come Amore.


Dal Vangelo secondo Marco
Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”».
Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare.
Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano:
«Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Osanna nel più alto dei cieli!».
Mc 11, 1-10

L’evangelista Marco non è certo se conobbe direttamente Gesù, ma se abitava a quel tempo a Gerusalemme deve aver perlomeno sentito parlare di Lui. Di sicuro è noto che, pochi anni dopo la morte del Maestro, gli apostoli e i discepoli si riunivano a casa di sua madre. Il fatto che sia l'unico evangelista a menzionare la fuga di un giovinetto che seguiva da lontano gli avvenimenti della cattura di Cristo nell'orto degli ulivi: (14,51-52) fa supporre che sia egli stesso questo giovinetto.
Marco nel racconto della Passione nel suo stile asciutto ed essenziale ci presenta una sequenza narrativa coinvolgente:
- Dalla congiura degli avversari di Gesù a due giorni dalla Pasqua, si passa all’unzione , che simbolicamente anticipa la sepoltura di Gesù, a Betania nella casa di Simone il lebbroso;
- Giuda offre ai sommi sacerdoti Gesù in cambio di denaro;
- “Il primo giorno degli Azzimi “ Gesù dà ordine per i preparativi della cena pasquale;
- A sera, a mensa, la crisi si impadronisce dei discepoli dopo che Gesù annuncia il tradimento di uno di loro;
- Gesù celebra la cena pasquale, ed eucaristica, inaugurazione della nuova alleanza con Dio nel suo sangue; nelle sue parole però si profila la dispersione e il tradimento dei discepoli e il loro ritorno;
-Al Getsemani, a notte fonda, Gesù prega con l’”anima triste fino alla morte” e i discepoli iniziano il tradimento con il loro sonno indifferente.
- In quella notte Giuda entra in scena con una piccola folla consegnando Gesù ai sommi sacerdoti.
- Il Sinedrio in una sessione straordinaria e un po’ tormentata condanna a morte Gesù per bestemmia.
- In attesa dell’esito del processo Pietro rinnega Gesù davanti ad una serva del sommo sacerdote e ad altri presenti.
- Gesù viene trasferito da Pilato per la convalida della sentenza capitale da parte delle autorità romane: dopo il vano tentativo di sostituzione di Gesù con Barabba, accusato di omicidio, Gesù è condannato alla crocifissione.
- Prima dell’esecuzione Gesù è flagellato e schernito dalla soldataglia romana e coronato di spine
- Passando attraverso la città, Gesù è condotto al Calvario fuori le mura di Gerusalemme: là viene crocifisso e sbeffeggiato , là avviene la sua morte dopo “un forte grido”.
- Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, ottiene da Pilato il permesso di prendere il corpo di Gesù, che avvolge con il lenzuolo e lo mette in un sepolcro scavato nella roccia.
- Poco dopo si compirà ciò che Gesù aveva preannunciato a Betania: alcune donne vorranno ungere il corpo del Signore con olio aromatico, ma il loro non sarà l’incontro con un morto, bensì con una manifestazione gloriosa di Dio.
Davanti a tutte queste sequenze di eventi possiamo lasciarci andare ad ogni possibile e libera considerazione. La più forte e dolorosa per Gesù è stata sicuramente l’abbandono: da Giuda il traditore a Pietro il discepolo definito da lui stesso roccia, fino a tutti gli altri discepoli. Ma il culmine è in quel misterioso silenzio del Padre, sperimentato da tutti i sofferenti della terra, ma unico e sconvolgente in Gesù, il Figlio. L’odio degli uomini si scatena, la paura degli amici prevale, il silenzio di Dio sconcerta. In Gesù si ritrova, quindi, tutta la vicenda del dolore umano.

Dal libro del profeta Isaia
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
Is 50,4-7

In questo carme del Servo sofferente, il profeta (Deuteroisaia) descrive la persecuzione di cui il Servo di JHWH è oggetto; poi passa a descrivere la sua reazione personale:
…Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il Suo progetto nonostante tutte le contestazioni. Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale, ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Fa impressione vedere come la profezia del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo di 550 anni, la vita e la passione di Gesù.

Salmo 21 Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno forato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.

Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe.

Il salmo presenta un giusto sofferente e perseguitato, pieno di speranza in Dio.
L’autore del salmo guarda alla sua esperienza di dolore, ma anche intende proporre un modello di sofferente che sostenga i fedeli nel momento della prova più terribile, cioè quando sono rifiutati, colpiti, dalla loro stessa gente. Il risultato presenta una tale aderenza nella descrizione di molte delle sofferenze di Cristo da dire che l’ispirazione ha modellato il giusto del salmo sul Cristo crocifisso.
Le prime parole del salmo sono un’invocazione sgomenta dinanzi a Dio; sgomenta, ma senza alcun rimprovero E’ un gemito rivelatore del suo grande tormento interiore: essere di fronte all’abbandono di Dio, al silenzio di Dio, che sembra assente, mentre egli è il Dio presente come attesta il tempio.
Il punto che lo sconvolge, è che il suo popolo, quello che vive all’ombra del tempio e che dovrebbe essere laudante attorno al trono di Dio “Tu siedi in trono fra le lodi di Israele” rifiuta la giustizia, e così anche la propria storia di popolo chiamato a proclamare i benefici di Dio. “In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li hai liberasti” dice, alludendo alla liberazione dall’Egitto.
Ma, ecco, egli è diventato “rifiuto degli uomini”, schiacciato a terra come un verme, privato della dignità di uomo. Di fronte a sé ha solo schernitori che si sfoggiano un sentirsi a posto con Dio, visto che Dio è dalla loro parte poiché non porta aiuto a colui che ora è nelle loro mani e che si diceva suo amico: “Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!”.
Ma il giusto perseguitato e colpito continua a confidare in Dio; non raccoglie la velenosa provocazione che lo vorrebbe rendere dubbioso davanti a Dio. Dio lo ha tratto dal grembo di sua madre; cioè il Padre ha dato al Figlio una natura umana, e, una sola persona (Figlio) in due nature, lo ha tratto dal grembo di una donna, e al suo nascere lo ha preso subito sulle sue ginocchia (Cf. Gn 50,23; Is 46,3) in riconoscimento della sua paternità.
L’aggressione che egli subisce è violenta, implacabile: “Mi circondano tori numerosi, mi assediano grossi tori di Basan…" (Basan è una regione ricca di pascoli a sud di Damasco). “Io sono come acqua versata”, buttato via, gettato via, come acqua. Colpito, strattonato, è pieno di dolore: “sono slogate tutte le mie ossa”. Il suo cuore cede per il dolore e lo sforzo d’amare; ed egli avverte che viene meno come colpito da infarto: “Il mio cure è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere”.
E’ disidratato e la sete lo attanaglia; la sua gola è riarsa e non può muovere che a stento la lingua: “La mia lingua si è incollata alla gola”. Egli si trova “su polvere di morte” senza scampo.
Gli avversari si sono ancora di più incattiviti vedendo la sua perseveranza, sono diventati un “branco di cani” che addentano. Premuto, assediato da ogni parte, gli vengono trafitti i piedi e le mani così da impedire che si muovesse o si difendesse dai colpi: l’autore del salmo non pensava alla crocifissione, pena di morte introdotta più tardi dai romani. “Posso contare tutte le mie ossa”, l’espressione rende l’idea complessiva del dolore che gli viene da ogni parte del corpo, ma la traduzione della Volgata di san Gerolamo - “hanno contato tutte le mie ossa” - è sicuramente proveniente da un manoscritto migliore in questo punto perché fa vedere anche la crudeltà degli aggressori, che hanno badato a che nessuna parte del corpo del giusto giustiziato fosse senza ferita e dolore.
Gli aggressori si compiacciono ferocemente dei dolori del giusto giustiziato : “essi stanno a guardare e mi osservano”. E sono tanto noncuranti di lui che giocano a dadi le sue vesti, secondo il diritto che si aveva sui condannati: “sulla mia tunica gettano la sorte”.
Di fronte a questo stato di strazio il giusto giustiziato non cessa di pregare e domanda aiuto a Dio per sfuggire non già alla morte, ma alla morte cui segue la consunzione della tomba, e questo mediante la risurrezione.
“Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”, dice. Risorto darà luce ai suoi fratelli, loderà il Padre nell’assemblea dei credenti (Cf. 1Cor 15,6).
Egli dirà: “Lodate il Signore, voi suoi fedeli, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza di Israele…”. E nella Chiesa, nella grande assemblea, loderà il Padre. Nella Grande Assemblea dove egli sarà presente con la sua Parola, con la sua reale presenza Eucaristica e col dono dello Spirito Santo.
Nel banchetto della carità “i poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano”.
La visione diventa universale, perché la salvezza del Cristo è universale: “Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli”. I popoli all’annunzio del Vangelo ricorderanno ciò che avevano dimenticato, che l’uomo è capace di Dio, che Dio è uno solo e che è bontà. Che il regno del mondo (Ap 11,15) è di Dio, e sue sono tutte le nazioni. E non solo ricorderanno e torneranno, che equivale a convertirsi, ma insieme a ciò crederanno alla lieta notizia evangelica, quella del regno dei cieli presente nella Chiesa per lievitare tutta la terra conquistata dal Cristo.
A Dio solo, liberi in eterno da ogni influsso di idolatria, si prostreranno, nel giorno della risurrezione, quanti ora dormono sotto terra.
Il grande Giusto giustiziato esprime la sua certezza che egli vivrà, risorgerà da morte e celebrerà in eterno il Padre: “Ma io vivrò per lui”.
E la sua discendenza, la Chiesa, servirà in lui, nel dono dello Spirito Santo, il Padre, portando la salvezza da lui ottenuta per tutte le genti. “Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia”, e la sua giustizia del Padre è Cristo, che ha espiato le colpe degli uomini. “Ecco l’opera del Signore”, diranno alle generazioni che si susseguono. E “l’opera del Signore” è Cristo, Cristo vivente nella Chiesa.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S Paolo apostolo ai Filippesi
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,6-11

Questo brano tratto dalla lettera ai Filippesi è il famoso inno Cristologico. Il testo, preesistente e appartenente ai testi utilizzati dai primi cristiani nella liturgia, è stato inserito dall'apostolo Paolo in un brano esortativo, ma di alto valore teologico. La prima cosa che si afferma di Gesù in questo inno è:
«Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio»,
Il termine «condizione di Dio» non riguarda il carattere specifico di Gesù, ma si tratta di un termine che si abbina con quello usato nel versetto seguente: «condizione di servo» che sottolinea così il paradosso del gesto libero e volontario con cui Gesù vi ha rinunciato. La condizione di Dio, comporta dominio, autorità e dignità e Gesù non ha voluto sfruttare a Suo vantaggio queste Sue prerogative..
«ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini».
Svuotando se stesso, Gesù ha rinunciato alle prerogative della condizione di Dio mettendo da parte le qualità divine che non erano compatibili con l'incarnazione. Questo svuotamento è servito dunque per assumere la condizione di servo, l'esatto opposto della condizione di Dio. Durante la Sua vita terrena Egli non volle comportarsi come Dio e Signore degli uomini, ma come servo, privo di ogni dignità, autorità e potere, completamente dedito all'umile servizio degli altri
“Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.” Gesù è divenuto simile agli uomini, ed è stato riconosciuto in tutto e per tutto come un uomo. Non solo ma in mezzo agli uomini Egli si è ulteriormente umiliato, ha portato il Suo svuotamento fino in fondo. In questo versetto, gli esperti dicono, che sembra certa l'aggiunta di Paolo: «fino alla morte e a una morte di croce», che presenta la sua “theologia crucis “e rafforza l'idea dell'umiliazione di Gesù che giunge sino all'esperienza infamante del condannato alla morte di croce.
Nella seconda parte dell'inno ci viene presentata la conseguenza del gesto di Gesù, e l'azione passa di mano ed è Dio Padre che agisce e innalza Gesù. «Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome»
Proprio perché Cristo ha accettato di umiliarsi fino in fondo, il Padre lo ha esaltato. Inoltre Dio Padre gli ha donato, anzi letteralmente lo ha gratificato, con un nome che è al di sopra di tutti gli altri, cioè il Suo stesso nome Kyrios. Il nome di Kyrios comporta la suprema dignità e la sovranità assoluta su tutto quello che esiste in cielo e in terra. Proprio Gesù che non ha voluto avvalersi del vantaggio della Sua condizione divina, riceve in dono da Dio la dignità suprema di Dio stesso..
«perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra»,
Gesù viene esaltato perché davanti al Suo nome ogni creatura si prostri in adorazione. Il nome è quello che gli è stato dato da Dio. Questo versetto attua la profezia di Isaia «Lo giuro su me stesso, dalla mia bocca esce la giustizia, una parola che non torna indietro: ndavanti a me si piegherà ogni ginocchio,per me giurerà ogni lingua».(45,23). Si precisa anche la collocazione di tutte le creature: nei cieli, sulla terra e sotto terra, per evidenziare l'universalità di questa adorazione.
«e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.»
L'inno raggiunge il massimo in questo versetto. Ogni lingua proclamerà che Gesù è Dio, è il Signore, il Kyrios per eccellenza. Gesù che durante la Sua esistenza terrena ha voluto toccare il fondo dello svuotamento e dell'umiliazione, è stato innalzato alla suprema dignità.
Al termine abbiamo poi l'espressione: a gloria di Dio Padre. Con queste parole si vuole affermare che Gesù Cristo Signore non è il sostituto né un concorrente di Dio, in quanto la confessione della signoria di Cristo ritorna alla fine a gloria di Dio Padre.
Paolo ricorda così ai cristiani di Filippi , che essi, come noi cristiani di oggi, siamo inseriti vitalmente nella vicenda di Gesù e dunque nella logica del progetto del Padre, che diventa così anche indicazione per il nostro agire concreto nella storia



PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO SECONDO MARCO

1Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturarlo con un inganno per farlo morire. 2Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».

Ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura
3Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. 4Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? 5Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.
6Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. 7I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. 8Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. 9In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

Promisero a Giuda Iscariota di dargli danaro
10Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. 11Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.

Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?
12Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero:
«Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
13Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro:
«Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. 14Là dove entrerà, dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. 15Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». 16I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

Uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà
17Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. 18 Ora, mentre erano a tavola e mangiavano,
Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». 19Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?».
20Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. 21Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».

Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue dell’alleanza
22 E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». 23Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. 24E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. 25In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai
26Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 27Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto:Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse.28Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea».
29Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». 30Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
31Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri

Cominciò a sentire paura ed angoscia
32Giunsero a un podere chiamato Getsèmani ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». 33Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. 34Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». 35 Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. 36 E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu».
37Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? 38Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». 39Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. 40Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. 41Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. 42Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino»

Arrestatelo e conducetolo via sotto buona scorta
43E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani.
44Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta»…45Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò. 46Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono. 47Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio. 48Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni. 49 Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le Scritture!».
50Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. 51 Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. 52Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.

Sei tu il Cristo, il Figlio del Bendetto?
53Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. 54 Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco.
55I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. 56 Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi. 57Alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: 58«Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”». 59Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde. 60 Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». 61 Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?».
62 Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo».
63Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? 64Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte.
65Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli:«Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano.

Non conosco quest’uomo di cui palate
66Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote 67e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». 68Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa dici». Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. 69 E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro». 70 Ma egli di nuovo negava.
Poco dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». 71 Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate».
72 E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto:
«Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
E scoppiò in pianto.

Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?
1E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato.
2 Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici».
3I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. 4Pilato lo interrogò di nuovo dicendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!».
5Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito.
6A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato, a loro richiesta. 7Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. 8La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. 9Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». 10Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia.
11Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. 12 Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?».
13Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». 14 Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?».
Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!».
15 Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso

Intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo
16 Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa.
17 Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo.
18 Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». 19 E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui.20 Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.

Condussero Gesù al luogo del Golgota
21 Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo. 22 Condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», 23e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese.

Con lui crocifissero anche due ladroni
24 Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso.
25 Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. 26La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei». 27 Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e uno alla sua sinistra.

Ha salvato altri e non può salvare se stesso!
29 Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo:
«Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, 30salva te stesso scendendo dalla croce!».
31 Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! 32Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!».
E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.

Gesù, dando un forte grido, spirò
33 Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. 34 Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». 35Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». 36 Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere».
37Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
38Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. 39 Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
40Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, 41 le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
42Venuta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato,
43Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù.
44Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. 45Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. 46 Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro.
47Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto
Mc 14,1-15,47

La narrazione della Passione di Gesù dell’evangelista Marco è quella che porta più testimoni oculari (14,33; 15,21.40,43-44) ed è forse per questo la più vicina ai fatti. Solo Marco presenta la croce come vero scandalo per i discepoli e, parlando della loro totale incomprensione di fronte al destino del Maestro, vuole far rivivere ad ogni cristiano la stessa loro sofferenza.
Gesù in croce raccoglie in sé tutto il dolore che, da quando il peccato è entrato nel mondo, ha tormentato l'umanità. Sulla croce c'è il Dolore: ecco perché ogni uomo che soffre richiama quasi naturalmente il Crocifisso.
Il Padre risponderà al grido del Figlio «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» con la risurrezione, ma l'evangelista però ne scorge già la luce come anticipata in due segni, che sembrano poca cosa, ma hanno un significato profondo: "Il velo del tempio si squarciò in due".
Il vecchio tempio di Gerusalemme cederà il posto a un tempio nuovo, al Gesù risorto, aperto anche ai pagani, la cui fede è anticipata dalla confessione del centurione romano: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”.
P. Cantalamessa nella sua omelia del venerdì Santo del 2015 sottolineò che il centurione romano affermando che Gesù era veramente, il Figlio di Dio lo fece perchè riconobbe nel ”forte grido” che Gesù emise morendo, un grido di vittoria, «lui che era esperto di combattenti e di combattimenti, riconobbe subito che era un grido di vittoria» .
Inoltre prima di quel grido vide Gesù soffrire con tale amore, da indurlo a comprendere che soltanto il Figlio di Dio può soffrire in questo modo, soltanto Dio è capace di un amore così incredibile.
Per Marco qui c'è il culmine del cammino di fede: riconoscere nel fallito, che pende dalla croce, la realtà di Dio che si manifesta come Amore.

 

*****

““Gesù raggiunge la completa umiliazione con la «morte di croce». Si tratta della morte peggiore, quella che era riservata agli schiavi e ai delinquenti. Guardando Gesù nella sua passione, noi vediamo come in uno specchio le sofferenze dell’umanità e troviamo la risposta divina al mistero del male, del dolore, della morte.
Tante volte avvertiamo orrore per il male e il dolore che ci circonda e ci chiediamo: «Perché Dio lo permette?». Questa settimana farà bene a tutti noi guardare il crocifisso, baciare le piaghe di Gesù, baciarle nel crocifisso.
Lui ha preso su di sé tutta la sofferenza umana, si è rivestito di questa sofferenza“.”

Papa Francesco

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa V domenica di Quaresima ci invitano a meditare per arrivare a conoscere sempre di più il Signore, il mistero della Sua passione e morte per arrivare a contemplarlo nella Sua gloriosa resurrezione.
Nella prima lettura il profeta Geremia annuncia l’alleanza nuova, che Dio vuole fare con il suo popolo imprimendo la Sua legge nel cuore degli uomini e perdonando i loro peccati. L’osservanza di questa nuova alleanza dipenderà dalla qualità del rapporto di amore che ci sarà tra Dio ed ogni singola persona. Si tratterà quindi di una relazione di amore personale, che implica la fedeltà ed il desiderio profondo e sincero di piacere a Dio e di cercare sempre la Sua volontà.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, il suo straordinario autore afferma che Gesù non offrì a Dio doni e sacrifici per i peccati, ma offrì se stesso in un contesto di preghiera. Egli ha attraversato la sofferenza della morte con fedeltà filiale, perciò Dio lo ha reso perfetto, consacrato sacerdote, fonte di salvezza per tutti i credenti.
Nel Vangelo di Giovanni, viene descritta una scena posteriore all’ingresso di Gesù a Gerusalemme e appartiene a quel clima di segni e di presagi che attraversano le ore dell’avvicinamento di Gesù alla Sua morte. Nella preghiera chiediamo anche noi di essere nel mondo, gemme di luce e di amore. Dio Padre che, col dono dello Spirito Santo, ci aiuti a leggere la nostra vita, e tenendo presente l’immagine del chicco di grano, ci aiuti nel saper illuminare, nel dialogo, le persone che ci interrogano, ma soprattutto, quando sarà il momento della nostra morte, ci aiuti a viverla come il momento in cui la vita si trasforma e raggiunge la sua pienezza.

Dal libro del profeta Geremia
Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore.
Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore– porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.
Ger 31,31-34

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.).
Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C). Incompreso, perseguitato, spesso minacciato di morte, Geremia, timido ma amico di Dio, non cessa di lanciare angosciati appelli alla conversione, non esita a mostrare a dito i responsabili che hanno deviato il popolo. Egli se la prende con la falsa coscienza dei benpensanti che si credono nel giusto, solo perchè osservano le pratiche religiose, senza viverle nell’animo.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza.
Egli fu anche l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà. La sua intimità con Dio e la religione del cuore, che egli ha vissuto e predicato, fanno di lui il profeta-maestro della vita interiore dell’uomo di ogni tempo.
Il brano che la liturgia ci presenta, è tratto dal cosiddetto “Libro della consolazione” ed è considerato uno dei vertici spirituali dell’A.T . C’era già una alleanza, quella che sul Sinai Dio consegnò a Mosè e questa alleanza esigeva l’adesione esclusiva al Signore, che si realizzava nel compimento della legge e dei precetti. Per questo la legge era formulata con chiarezza e stilata da una duplice serie di benedizioni e maledizioni, ma l’uomo, nella storia non fu capace di essere fedele a questa legge.
C’è da tenere presente che alla morte del re Salomone, attorno al 933 a.C.: il regno di Israele era diviso in due: il Regno di Israele, chiamato spesso anche Regno del Nord, con capitale Samaria e il Regno di Giuda, che è a Sud, con capitale Gerusalemme. Entrambi affrontarono un pericolo imminente e un'eventuale conquista. Al tempo di Geremia gli Assiri avevano già disperso il regno di Israele mentre i babilonesi minacciavano il regno di Giuda.
Nei versetti di questo brano Geremia tocca una delle vette più alte della testimonianza profetica. «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore.»
Queste parole si propongono come punto di ricapitolazione tra la storia passata e futura e riferendosi al passato, richiama l’alleanza che Dio ha stabilito con l’umanità e che, infranta, deve essere rinnovata. «Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore– porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo»
Riferendosi al futuro, annuncia come avverrà il rinnovamento: per il perdono dei peccati: «Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» È un‘alleanza definitiva, promessa di misericordia e perdono. Geremia preannuncia una conoscenza di Dio non più attraverso la mediazione della Legge, ma attraverso l’esperienza interiore per cui la conoscenza di Dio entra nel cuore dell’uomo.
Tutto ciò anche se non esclude l’importanza di seguire le indicazioni di una dottrina, ci ricorda che prima di tutto c’è il nostro rapporto personale con Dio. Questa è la grande alleanza di Dio: entrare nel cuore dell’uomo, nell’interno della sua vita, di tutto il suo essere, affinché l’uomo non possa più rifiutarlo, respingerlo, abbandonarlo, allontanarlo!
Gesù stesso rievocherà la promessa di Geremia nella sera dell’ultima cena, quando definirà la coppa pasquale del vino “il calice della nuova alleanza”.
Noi come cristiani possiamo rileggere la promessa di Geremia alla luce della croce di Cristo, di quell’istante fondamentale in cui egli “elevato da terra ha attirato tutti a sé" (Gv12,32)

Salmo 51 (50) Crea in me, o Dio, un cuore puro.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Insegnerò ai ribelli le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.

Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10).
Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera agli Ebrei
Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Eb 5,7-9

L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
In questo breve brano, l’autore, dopo aver proclamato nei versetti precedenti Gesù Cristo “figlio di Dio e sacerdote in eterno” fa questa riflessione: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” L’obbedienza che Cristo imparò dalla Sua sofferenza consiste nell’adesione radicale al progetto di Dio, che lo ha guidato nelle scelte decisive della Sua vita. La sottomissione alla volontà del Padre viene presentata spesso nel N.T. come un aspetto specifico del comportamento di Gesù (V. Mc 14,36; Gv 4,34; 10,18) e Paolo in modo speciale sottolinea come l’obbedienza di Cristo si sia manifestata nella sofferenza della morte (V. Fil 2,8; Rm 5,19). Ma ciò che la lettera agli Ebrei evidenzia, in piena sintonia con il racconto evangelico della passione, è il fatto che questa obbedienza ha richiesto una fatica notevole per superare la naturale paura della sofferenza e della morte.
L’aspetto più specifico del sacerdozio di Cristo sta quindi nell’accettazione libera, anche se sofferta, della morte, che certo non è stata voluta dal Padre, ma imposta dalle circostanze concrete della storia. L’obbedienza di Cristo ha anche come risultato la salvezza eterna di tutti coloro che “gli obbediscono”. Obbedire significa qui accettare la totalità del messaggio di Cristo, ma soprattutto seguire l’esempio che Egli ha offerto a tutti nel Suo affidarsi all’amore del Padre, anche quando poteva sembrare che il Padre l’avesse abbandonato (V.Mt 27,46).
Per questa ragione, soltanto Gesù è causa di salvezza eterna, vera e definitiva per coloro che credono in Lui. Il mistero di Cristo non lo si può certo avvicinare con pigrizia, torpore e tantomeno indifferenza!

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Gv 12,20-33

La scena descritta in questo brano del Vangelo di Giovanni viene dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme e appartiene a quel clima di segni e di presagi che attraversano le ore precedenti la Sua passione.
L’evangelista nei versetti precedenti questo brano, aveva annotato un amaro commento dei farisei: “Ecco che il mondo gli è andato dietro!” E a conferma di questo egli ci riporta che in quella occasione alcuni greci avevano espresso il desiderio di vedere Gesù. Non ci dice chi fossero: potevano essere anche giudei della diaspora, che parlavano la lingua greca, ma anche dei pagani che avevano aderito alla religione giudaica, senza però arrivare alla circoncisione e tutto ciò che essa comportava.
Essi si rivolsero, forse per il suo nome greco, a Filippo, il quale con Andrea, il cui nome è anch’esso greco, fece presente a Gesù la loro richiesta. Gesù rispose: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. … poi continuò portando l’esempio del chicco di grano, che se “caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”, e proseguì poi affermando che “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. Infine a tutti coloro che volevano servirlo, rivolse l’invito a seguirlo, perché siano con lui e vengano onorati dal Padre. Il concetto fondamentale espresso in tutti questi detti è quello di una morte che rivela al mondo la gloria di Dio in quanto coinvolge tutti gli uomini in una vita di comunione piena con Lui.
Anche se la risposta di Gesù non sembra in sintonia con la richiesta dei greci, con essa però l’evangelista vuole affermare che anche i non giudei potranno vedere Gesù, accettando la nuova vita da Lui annunziata, ma solo dopo che Egli, con la Sua glorificazione, avrà portato a termine l’opera che il Padre gli ha affidato.
Infine l’evangelista inserisce un brano in cui viene anticipata la preghiera di Gesù nel Getsemani con la quale Gesù svela il suo turbamento: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”.
A questo punto venne una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”.
La voce venne udita dai presenti, alcuni dei quali dissero “che era stato un tuono” mentre “Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato», ma Gesù disse: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. E l’evangelista commenta: Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Le parole con cui Gesù annunzia il suo prossimo innalzamento, provocarono un’ultima obiezione da parte della folla, che nei versetti non riportati nel brano, osservò: “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?”.
Gesù replicò “Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce”. Detto ciò si allontanò rendendosi irreperibile.
Gesù non nega dunque l’eternità del Cristo, ma afferma che laSua permanenza in questo mondo è limitata nel tempo e ha come unico scopo quello di illuminare gli uomini portandoli alla fede.
Possiamo rilevare che Gesù nel Suo discorso sembra che voglia sciogliere uno dei contrasti più tragici dell’esistenza, quello tra morte e vita. Il seme sprofonda nell’oscurità della terra, nel terreno sembra che l’energia del seme sia votata a spegnersi, infatti il seme marcisce e muore … eppure quando in estate biondeggiano le messi, è svelato il segreto fecondo di quella morte.
Si percepisce come Gesù vede incombere su di sé la morte, tuttavia non la presenta come un qualcosa di irreparabile. Anche se essa è tenebra, dolore, lacerazione, e distacco, per Gesù ha la forza segreta di un parto, racchiude in sé un mistero di fecondità e di risurrezione. E’ in questa luce che Gesù formula, allora, la grande legge della croce:
«Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna».
Gesù sente che deve passare attraverso la via oscura della morte di croce per portare l’umanità sulla via luminosa della vita eterna, che è sinonimo di piena e perfetta comunione con Dio.

 

*****

“In questa quinta domenica di Quaresima, la liturgia proclama il Vangelo in cui San Giovanni riferisce un episodio avvenuto negli ultimi giorni della vita di Cristo, poco prima della Passione..
Mentre Gesù si trovava a Gerusalemme per la festa di pasqua, alcuni greci, incuriositi da quanto Egli andava compiendo, esprimono il desiderio di vederlo. Avvicinatisi all’apostolo Filippo, gli dicono: «Vogliamo vedere Gesù». “Vogliamo vedere Gesù”. Ricordiamo questo desiderio: “Vogliamo vedere Gesù”. Filippo ne parla ad Andrea e poi insieme lo riferiscono al Maestro. Nella richiesta di quei greci possiamo scorgere la domanda che tanti uomini e donne, di ogni luogo e di ogni tempo, rivolgono alla Chiesa e anche a ciascuno di noi: “Vogliamo vedere Gesù”.
E come risponde Gesù a quella richiesta? In un modo che fa pensare. Dice così: «è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. […] Se il chicco di grano, caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Queste parole sembra che non rispondano alla domanda posta da quei greci. In realtà, esse vanno oltre. Gesù infatti rivela che Lui, per ogni uomo che lo vuole cercare, è il seme nascosto pronto a morire per dare molto frutto. Come a dire: se volete conoscermi, se volete capirmi, guardate il chicco di grano che muore nel terreno, cioè guardate la croce.
Viene da pensare al segno della croce, che è diventato nei secoli l’emblema per eccellenza dei cristiani. Chi anche oggi vuole “vedere Gesù”, magari provenendo da Paesi e culture dove il cristianesimo è poco conosciuto, che cosa vede prima di tutto? Qual è il segno più comune che incontra? Il crocifisso, la croce. Nelle chiese, nelle case dei cristiani, anche portato sul proprio corpo. L’importante è che il segno sia coerente con il Vangelo: la croce non può che esprimere amore, servizio, dono di sé senza riserve: solo così essa è veramente l’“albero della vita”, della vita sovrabbondante.
Anche oggi tante persone, spesso senza dirlo, in modo implicito, vorrebbero “vedere Gesù”, incontrarlo, conoscerlo. Da qui si comprende la grande responsabilità di noi cristiani e delle nostre comunità. Anche noi dobbiamo rispondere con la testimonianza di una vita che si dona nel servizio, di una vita che prenda su di sé lo stile di Dio – vicinanza, compassione e tenerezza – e si dona nel servizio. Si tratta di seminare semi di amore non con parole che volano via, ma con esempi concreti, semplici e coraggiosi, non con condanne teoriche, ma con gesti di amore. Allora il Signore, con la sua grazia, ci fa portare frutto, anche quando il terreno è arido a causa di incomprensioni, difficoltà o persecuzioni, o pretese di legalismi o moralismi clericali. Questo è terreno arido. Proprio allora, nella prova e nella solitudine, mentre il seme muore, è il momento in cui la vita germoglia, per produrre frutti maturi a suo tempo. è in questo intreccio di morte e di vita che possiamo sperimentare la gioia e la vera fecondità dell’amore, che sempre, ripeto, si dà nello stile di Dio: vicinanza, compassione, tenerezza.
La Vergine Maria ci aiuti a seguire Gesù, a camminare forti e lieti sulla strada del servizio, affinché l’amore di Cristo risplenda in ogni nostro atteggiamento e diventi sempre più lo stile della nostra vita quotidiana.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 21 marzo 2021

Pubblicato in Liturgia
Lunedì, 19 Febbraio 2024 18:20

I Domenica di Quaresima - Anno B - 18 febbraio 2024

Da mercoledì scorso, con la liturgia delle ceneri è iniziata la quaresima, tempo che ci riporta alla sostanza dell’esistenza cristiana, invitandoci a intensificare nella preghiera e nella penitenza il cammino per la preparazione alla Pasqua di risurrezione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, vediamo come una nuova umanità nasce purificata dalle acque del diluvio. L’alleanza di Dio con Noè è il primo annuncio della grande Alleanza che sarà compiuta da Cristo nella Pasqua, con il Suo sangue.
Nella seconda lettura, nella prima lettera di S.Pietro, leggiamo come il diluvio ha fatto nuova la terra, così il battesimo fa nuovo ogni uomo. E’ la novità che nasce dalla risurrezione di Cristo e abbraccia tutta l’umanità e l’intero creato.
Nel brano del suo Vangelo, Marco facendo seguire subito dopo il battesimo di Gesù l’episodio delle tentazioni, vuole indicare che il punto fondamentale della missione del Figlio di Dio è la lotta contro satana, che si può vincere solo se ci rivestiamo delle armi della fede in Colui che ha vinto il mondo. La quaresima perciò inizia con l’appello di Cristo: Convertitevi e credete al Vangelo! Nella loro essenzialità e nella loro forza, queste parole sono come un fulmine che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate della nostra esistenza umana!

Dal libro della Genesi
Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra».
Dio disse:
«Questo è il segno dell’alleanza,
che io pongo tra me
e voi e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future.
Pongo il mio arco sulle nubi,
perché sia il segno dell’alleanza
tra me e la terra.
Quando ammasserò le nubi sulla terra
e apparirà l’arco sulle nubi,
ricorderò la mia alleanza
che è tra me e voi
e ogni essere che vive in ogni carne,
e non ci saranno più le acque per il diluvio,
per distruggere ogni carne».
Gen 9,8-15

Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano lo troviamo alla conclusione del racconto del diluvio, dopo i racconti riguardanti la creazione. Il diluvio è presentato come un evento che ha sconvolto tutto l’universo, come punizione per un’ulteriore diffusione del peccato.
Il racconto, che si trova anche in altre religioni, ha solo valore teologico ed è la risposta che l’uomo si dà al perchè c’è il male nel mondo. Questo brano ci parla dell’alleanza che Dio offre a Noè liberato dalle acque del diluvio. “Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne”.
Più di un’alleanza, si può dire che è una garanzia, un impegno assunto soltanto da parte di Dio perchè non dipende dal futuro comportamento dell’uomo, perché il Signore non chiede a Noè nessun impegno in particolare. E’ perciò un puro atto di misericordia verso tutta l’umanità intera: uomini ed animali.
Come negli accordi terreni, viene stabilito anche un segno esterno che possa ricordare l’impegno assunto e questo segno sarà l’arcobaleno. L’arcobaleno, che sorge dopo ogni temporale, viene scelto perché fa pensare ad un arco da guerra deposto sulle nubi, significando così la fine di un conflitto tra Dio e il cosmo e una garanzia di pace.
Nella prospettiva biblica questa pace non si esaurisce nella stabilità delle leggi della natura, ma è l’espressione della misericordia infinita di Dio per tutta l’umanità. Infine questa alleanza si estende alle “generazioni future”, è cioè un’alleanza perenne, come quella stabilita con Abramo. Viene così confermata la misericordia di Dio che rispetta la vita di ogni vivente, specialmente dell’uomo che rappresenta il vertice di tutto il creato.

Salmo 24: Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza.

Ricordati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
Ricordati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.

Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
1Pt 3,18-22

La Prima lettera di Pietro è un testo scritto alla fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma secondo gli esperti è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire a Pietro o al suo ambiente. Non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale, che si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 - 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 - 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 - 5,11).
Il brano che abbiamo fa parte della parte centrale dello scritto, nella quale si danno direttive per la partecipazione dei cristiani alla vita sociale (2,11-4,11).
Pietro inizia ricordando che “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito”.
Egli non si limita però a richiamare le sofferenze di Cristo, ma ne mette in luce il significato ribadendo che “Cristo è morto una volta per sempre”, cioè con il suo gesto ha raggiunto pienamente, una volta per tutte, il suo scopo. Inoltre egli è morto “per i peccati” cioè per liberare l’uomo dai peccati che lo tengono schiavo.
Proprio Lui, che era giusto, ha dato la vita per uomini ingiusti, attuando così il compito di ricondurli a Dio.
Infine Pietro sottolinea che Cristo è stato “messo a morte nel corpo”, cioè nella sua realtà umana, povera e limitata, che lo accomuna a tutta l’umanità, ma è stato “reso vivo nello Spirito”, cioè in forza della potenza stessa di Dio che Egli possiede nella sua pienezza. In altre parole Pietro vuole dire che, dopo e in forza della morte che lo ha colpito come ogni altro essere umano, lo Spirito di Dio ha attuato in lui una vita nuova, che si manifesta mediante la Sua resurrezione, e da Lui si estende a tutti i credenti (questo concetto lo si può ritrovare anche in Rm 1,4).
Pietro prende lo spunto dalla morte di Cristo per parlare della sua discesa agli inferi che descrive così: “nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua”.
Pietro allude qui sicuramente allo Sheol, che era considerato come il regno dei morti, nel quale vanno a finire le anime dei trapassati, per i sadducei senza alcuna speranza di cambiamento, per i farisei in attesa della risurrezione finale. Secondo la terminologia ebraica “andare agli inferi” era semplicemente una giro di parole per indicare la morte. Pietro invece la interpreta come una visita in quella regione tenebrosa, nella quale secondo lui erano tenuti come prigionieri tutti coloro che erano vissuti al tempo del diluvio universale. Costoro, pur vedendo che Noè costruiva l’arca, invece di approfittare dell’ultima possibilità che veniva loro concessa dalla pazienza di Dio, non avevano creduto ed così salvati. In altre parole si tratterebbe dell’umanità che è stata sterminata per la sua malvagità al tempo di Noè. Ma forse Pietro pensa più in generale a tutta l’umanità vissuta prima di Cristo, che egli vede contrassegnata dallo stesso peccato che ha provocato la distruzione del diluvio.
A questi spiriti racchiusi nello Sheol come in una prigione, Cristo “andò a portare l’annuncio”. Anche se il testo non mette l’oggetto dell’annuncio ossia la “salvezza”, molti padri (tra i quali Agostino) e esegeti moderni sottintendono “annuncio di salvezza”, e una liberazione vera e propria.
Nell’ultima parte del brano si parla dell’acqua del diluvio “Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi”; Pietro intravede qui una specie di analogia tra il diluvio e il battesimo cristiano: l’acqua del diluvio, da cui solo alcuni si salvarono, simboleggia l’economia dell’antica legge, le cui prescrizioni rituali ottenevano molto spesso solo una purificazione esteriore e “carnale”.
È vero che l’acqua del diluvio è stata soprattutto strumento di morte, mentre quella del battesimo porta la salvezza, ma bisogna riconoscere che ambedue hanno in comune l’effetto di purificazione dal contagio del peccato. Il battesimo è presentato anzitutto come un mezzo di salvezza che opera “ora”.
Pietro precisa che il battesimo “non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza”, cioè la richiesta a Dio perché mantenga l’impegno da lui preso in favore di chi lo riceve con retta intenzione.
La preghiera che accompagna il rito battesimale, non può non essere esaudita se chi la pronunzia non ha una “buona coscienza ”, cioè le disposizioni del cuore che sono richieste per ritornare a Dio.
Queste disposizioni non vengono dalla buona volontà dell’uomo, ma sono anch’esse un dono di Dio, che riceviamo “in virtù della risurrezione di Gesù Cristo”.
Il brano termina con una professione di fede cristologica: questo Cristo che è risorto “è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.”
Questa espressione riprende le affermazioni delle lettere paoline circa l’esaltazione di Cristo (v. Ef 1,20-21; Col 2,15), alle quali Luca attinge riportando il racconto dell’ascensione (At 1,9), facendole poi presentare da Pietro nella sua prima predica dopo la Pentecoste.
Nel contesto del mistero pasquale, Cristo ha dunque ricevuto la pienezza dello Spirito per proporre la salvezza a tutti gli uomini, anche a quelli che erano vissuti prima di lui, non esclusi i peccatori più pervertiti, come quelli del tempo di Noè.
Pietro vuole qui affermare che la salvezza portata da Cristo opera in modo misterioso a favore di tutti gli uomini, anche di coloro che sono vissuti prima di Lui. Infatti nella sua esperienza personale si rende visibile, in modo chiaro e urgente, quella spinta che ha portato uomini di ogni razza e religione a dare la vita per i loro fratelli.


Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Mc 1, 12-15


Nella breve introduzione del suo vangelo, Marco, dopo aver parlato di Giovanni il Battista e il battesimo di Gesù, accenna in modo molto conciso al periodo che Gesù trascorre nel deserto. Diversamente dunque da Matteo e Luca, Marco narra la tentazione di Gesù in modo veramente molto conciso: “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano”.
Vediamo che ancora una volta, dopo la sua apparizione al battesimo, interviene nella vita di Gesù lo Spirito di Dio, per indicargli che cosa deve fare per realizzare il suo progetto di salvezza. Sotto l’azione dello Spirito, Gesù dunque si reca nel deserto, cioè nella regione desolata che si estende tra la zona montagnosa della Giudea e il mar Morto (deserto di Giuda), e lì resta quaranta giorni.
I quaranta giorni sono un periodo di tempo simbolico, che richiama i quarant’anni trascorsi dal popolo di Israele nel deserto (Nm 14,34), dove è stato messo alla prova da Dio (Dt 8,2) o i quaranta giorni trascorsi da Mosè sul Sinai (Es 24,18) o quelli impiegati da Elia per raggiungere l’Oreb (1Re 19,8). Il tema della tentazione inoltre rievoca anche la figura di Adamo, il quale era stato tentato dal serpente (Gen 3,1-7).
Sebbene sia stato sospinto nel deserto dallo Spirito, Gesù non è messo alla prova da Dio (come il popolo in Dt 8,2), ma da satana. Questo per non offuscare l’immagine di Dio i giudei del tempo di Gesù si erano abituati ad attribuire la tentazione a un non meglio precisato “avversario” (satana; v.. Gb 1-2), che con il tempo era stato considerato come un’entità diabolica personificata (v. 1Cr 21,1) Questa maggiore sensibilità teologica appare anche nella rilettura sapienziale della vicenda di Adamo, dove il serpente non è più un semplice animale, ma è identificato con il diavolo (v. Sap 2,24).
Anche l’accenno agli animali selvatici viene utilizzato per creare un quadro simbolico, ossia che Gesù vive in mezzo ad essi in piena armonia. Le poche parole dell’evangelista ricordano il celebre passo messianico di Isaia: «La mucca e l'orsa pascoleranno insieme loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. (11,6-8) “…L’ostilità tra animali selvatici e domestici, tra belve, serpenti e uomo si cancellerà e si ricomporrà l’orizzonte paradisiaco celebrato nel II capitolo della Genesi col giardino dell’Eden. Gesù inaugura allora, il mondo sognato da Dio e descritto proprio in quella pagina della Genesi, dove Adamo, l’uomo del progetto creativo divino, viveva in compagnia degli animali, e ad essi imponeva il nome e su di essi dominava non come un tiranno, ma come guida voluta dal Signore.
Gesù è il nuovo e perfetto Adamo che ci ripropone il mondo paradisiaco in cui Dio, uomo, animali e cosmo si intrecciano in uno stupendo arazzo di vita, di pace. di colori e di musica.
Mentre stava con le fiere, “gli angeli lo servivano”: questo è chiaramente un segno inequivocabile della vicinanza di Dio, che si fa rappresentare dai Suoi messaggeri; ma diversamente da Israele, che nel deserto ha mormorato e si è ribellato contro Dio, e da Adamo che ha mangiato il frutto dell’albero proibito, Gesù non ha ceduto alle lusinghe del tentatore.
Marco introduce la predicazione di Gesù in Galilea con due versetti che rappresentano il primo dei sommari di cui è ricco il suo vangelo: “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”.
Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata da giudei, dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, Sua terra d’origine, che a quei tempi veniva chiamata “Galilea delle genti”, appellativo che richiamava il carattere misto della sua popolazione (V. Mt 4,15).
Il termine “proclamare” o predicare, con cui è indicata l’attività di Gesù in Galilea, indica la proclamazione pubblica fatta da un araldo; con esso i cristiani indicavano l’annunzio della salvezza fatto dagli apostoli (v. At 8,5; Rm 10,8; 1Cor 1,23).
Anche l’espressione “vangelo di Dio”, appartiene al linguaggio della prima comunità cristiana (v. Rm 1,1; 15,16; 2Cor 11,7) e indica non tanto la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza.
Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con una frase molto concisa. Anzitutto egli afferma, con un linguaggio che si ispira all’apocalittica giudaica, che “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” Il tempo (kairos), cioè il periodo dell’attesa, che prepara il momento attuale da quello finale e conclusivo della storia, è giunto al termine; di conseguenza il “regno di Dio”, cioè l’esercizio pieno e definitivo della sovranità divina in questo mondo, “è vicino” sta per realizzarsi in questa terra.
“convertitevi e credete nel Vangelo”. Come già aveva fatto Giovanni il Battista, Gesù invita a “convertirsi” (metanoein, cambiare mente) cioè a “ritornare” a Dio, cambiando mentalità e sottomettendosi una volta per tutte alla Sua sovranità; ma per fare ciò è necessario “credere nel vangelo”, cioè aprirsi al lieto annunzio ed essere disposti a basare su di esso tutta la propria vita. Nella loro essenzialità e nella loro forza queste parole sono come una sferzata che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate dell’esistenza umana.

*****

“In Mercoledì scorso, con il rito penitenziale delle ceneri, abbiamo iniziato il cammino della Quaresima. Oggi, prima domenica di questo tempo liturgico, la Parola di Dio ci indica la strada per vivere in maniera fruttuosa i quaranta giorni che conducono alla celebrazione annuale della Pasqua. È la strada percorsa da Gesù, che il Vangelo, con lo stile essenziale di Marco, riassume dicendo che Egli, prima di incominciare la sua predicazione, si ritirò per quaranta giorni nel deserto, dove fu tentato da Satana. L’Evangelista sottolinea che «lo Spirito - lo Spirito Santo - sospinse Gesù nel deserto». Lo Spirito Santo, disceso su di Lui subito dopo il battesimo ricevuto da Giovanni nel fiume Giordano, lo stesso Spirito ora lo spinge ad andare nel deserto, per affrontare il Tentatore per lottare contro il diavolo. L’intera esistenza di Gesù è posta sotto il segno dello Spirito di Dio, che lo anima, lo ispira, lo guida.
Ma pensiamo al deserto. Fermiamoci un momento su questo ambiente, naturale e simbolico, così importante nella Bibbia. Il deserto è il luogo dove Dio parla al cuore dell’uomo, e dove sgorga la risposta della preghiera, cioè il deserto della solitudine, il cuore staccato da altre cose e solo in quella solitudine si apre alla Parola di Dio. Ma è anche il luogo della prova e della tentazione, dove il Tentatore, approfittando della fragilità e dei bisogni umani, insinua la sua voce menzognera, alternativa a quella di Dio, una voce alternativa che ti fa vedere un’altra strada, un’altra strada di inganno. Il Tentatore seduce. Infatti, durante i quaranta giorni vissuti da Gesù nel deserto, inizia il “duello” tra Gesù e il diavolo, che si concluderà con la Passione e la Croce. Tutto il ministero di Cristo è una lotta contro il Maligno nelle sue molteplici manifestazioni: guarigioni dalle malattie, esorcismi sugli indemoniati, perdono dei peccati. È una lotta. Dopo la prima fase in cui Gesù dimostra di parlare e agire con la potenza di Dio, sembra che il diavolo abbia la meglio, quando il Figlio di Dio viene rifiutato, abbandonato e, infine, catturato e condannato a morte. Ha vinto il diavolo, sembra. Sembra che il vincitore è lui. In realtà, proprio la morte era l’ultimo “deserto” da attraversare per sconfiggere definitivamente Satana e liberare tutti noi dal suo potere. E così Gesù ha vinto nel deserto della morte per vincere nella Risurrezione.
Ogni anno, all’inizio della Quaresima, questo Vangelo delle tentazioni di Gesù nel deserto ci ricorda che la vita del cristiano, sulle orme del Signore, è un combattimento contro lo spirito del male. Ci mostra che Gesù ha affrontato volontariamente il Tentatore e lo ha vinto; e al tempo stesso ci rammenta che al diavolo è concessa la possibilità di agire anche su di noi con le tentazioni. Dobbiamo essere consapevoli della presenza di questo nemico astuto, interessato alla nostra condanna eterna, al nostro fallimento, e prepararci a difenderci da lui e a combatterlo. La grazia di Dio ci assicura, con la fede, la preghiera e la penitenza, la vittoria sul nemico. Ma io vorrei sottolineare una cosa: nelle tentazioni Gesù mai dialoga con il diavolo, mai. Nella sua vita Gesù mai ha fatto un dialogo con il diavolo, mai. O lo scaccia via dagli indemoniati o lo condanna o fa vedere la sua malizia ma mai un dialogo. E nel deserto sembra che c’è un dialogo perché il diavolo gli fa tre proposte e Gesù risponde. Ma Gesù non risponde con le sue parole. Risponde con la Parola di Dio, con tre passi della Scrittura. E questo per tutti noi. Quando si avvicina il seduttore, incomincia a sedurci: “Ma pensa questo, fa quello...”, la tentazione è di dialogare con lui, come ha fatto Eva. Eva ha detto: “Ma non si può perché noi...”, ed è entrata in dialogo. E se noi entriamo in dialogo con il diavolo saremo sconfitti. Mettetevi questo nella testa e nel cuore: con il diavolo mai si dialoga, non c’è dialogo possibile. Soltanto la Parola di Dio.
Nel tempo di Quaresima, lo Spirito Santo sospinge anche noi, come Gesù, ad entrare nel deserto. Non si tratta – abbiamo visto – di un luogo fisico, ma di una dimensione esistenziale in cui fare silenzio, metterci in ascolto della parola di Dio, «perché si compia in noi la vera conversione» (Orazione colletta I Dom. di Quaresima B). Non avere paura del deserto, cercare momenti di più preghiera, di silenzio, di entrare dentro di noi. Non avere paura. Siamo chiamati a camminare sui sentieri di Dio, rinnovando le promesse del nostro Battesimo: rinunciare a Satana, a tutte le sue opere e a tutte le sue seduzioni. Il nemico è lì accovacciato, state attenti. Ma mai dialogare con lui. Ci affidiamo alla materna intercessione della Vergine Maria.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 21 febbraio 2021

Pubblicato in Liturgia

Le letture, che la liturgia di questa domenica ci presenta, hanno come filo conduttore la sofferenza, la malattia e la guarigione
Nella prima lettura, tratta dal libro di Giobbe, vediamo il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute. Egli vorrebbe che Dio intervenisse in suo favore, non tanto perché ciò metterebbe fine alle sue sofferenze, ma perché così egli saprebbe che gli è vicino e lo ama. La sua tentazione è quella di imporre a Dio un comportamento conforme alle sue aspettative, giudicando il suo silenzio come un’ingiustizia insopportabile.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi, l’apostolo nel suo desiderio di portare a tutti la salvezza egli afferma che non ha avuto paura di rinunziare a qualsiasi privilegio personale. In altre parole egli ritiene di poter acquistare per se stesso la salvezza contenuta nel vangelo, non semplicemente perché lo annunzia agli altri, ma perché adotta nei loro confronti quegli atteggiamenti di amore e di dedizione che il vangelo gli ispira.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta una giornata tipica di Gesù: guarisce i malati che incontra, annuncia nelle sinagoghe della Galilea la venuta del Regno, ma sa anche riservare un tempo per la preghiera dove incontra il Padre. Questo deve insegnare anche a noi che l'unica vera ricarica, dopo un'intensa giornata di lavoro, è proprio la preghiera che ci aiuta a prendere contatto con il Padre, tutto il resto anche le cose più importanti non ci ricaricano, non ci danno la forza necessaria per proseguire giorno per giorno il nostro cammino. Oggi ricorre la 46^ giornata per la vita

Dal libro di Giobbe
Giobbe parlò e disse: «L’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra
e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario?
Come lo schiavo sospira l’ombra e come il mercenario aspetta il suo salario,
così a me sono toccati mesi d’illusione e notti di affanno mi sono state assegnate.
Se mi corico dico: “Quando mi alzerò?”.
La notte si fa lunga e sono stanco di rigirarmi fino all’alba.
I miei giorni scorrono più veloci d’una spola,
svaniscono senza un filo di speranza.
Ricordati che un soffio è la mia vita:i
il mio occhio non rivedrà più il bene».
Gb 7,1-4, 6-7

Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi di molti studiosi, la prima redazione risale all'XI-X secolo a.C., mentre la redazione definitiva, con le aggiunte in prosa, è stata composta in Giudea verso il 575 a.C.. La storia di Giobbe nasce dagli infiniti interrogativi che il problema del male porta all'umanità. Ci troviamo di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
Ambientata in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente, il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute. Sarà poi afflitto da una piaga maligna, sarà cacciato anche di casa dalla moglie che stanca di quest'uomo per la sua fedeltà incrollabile, urlerà, alla fine: Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!”. Ma egli le rispose: “Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?”.Gb 2,9-10 Non sono pochi coloro che hanno commentato che per rendere peggiore la situazione di Giobbe, Dio gli ha lasciato quel tipo di moglie.
Il brano che la liturgia ci propone fa parte del ciclo dei dibattiti di Giobbe con i suoi amici e più specificamente dalla risposta che Giobbe dà all’intervento di Elifaz, che in base alla teoria della retribuzione, che riteneva che le sofferenze che colpiscono l’uomo non possono che essere la conseguenza dei suoi peccati, aveva sottolineato che nessun mortale può essere giusto davanti a Dio e di conseguenza aveva invitato Giobbe, torturato dalla sofferenza, a pentirsi dei suoi peccati.
Giobbe risponde riaffermando la sua innocenza e descrive la sua situazione come parte del destino che colpisce tutta l’umanità: non solo la sua sofferenza, ma anche quella dei suoi simili, rappresenta una sfida alla giustizia di Dio.
Giobbe si lamenta degli amici e di Dio, ma soprattutto di sé, e descrive la sofferenza dell’uomo sulla terra con tre immagini, quella del militare, del mercenario e dello schiavo.
Nell’antichità il servizio militare era paragonabile al lavoro forzato a causa delle dure punizioni a cui il soldato veniva facilmente sottoposto e dello spietato dispotismo dei comandanti. Il mercenario era l’operaio pagato a giornata, che faticava tutto il giorno per una misera paga, che gli serviva unicamente per sopravvivere, e non diversa, se non peggiore, era la situazione dello schiavo, che non aveva diritto ad alcun compenso per il suo lavoro. La condizione del soldato, del mercenario e dello schiavo erano evidentemente le situazioni più basse della scala sociale. Ma se ognuno di loro aspettava con impazienza la sera, quando la fatica quotidiana terminava e durante il giorno era una consolazione pensare a questa sosta alla loro sofferenza, anche se breve, Giobbe invece non ha neppure questa soddisfazione: gli sono toccati mesi di illusione e notti di dolore.
Come chi soffre d’insonnia e si rigira nel letto, aspettando l’alba che non sembra arrivare mai, così anche lui passa il suo tempo nell’attesa di qualcosa di impossibile.
Poiché il dolore, pur non essendo produttivo, lo affatica più del lavoro, egli passa anche le sue notti nell’angoscia. La sua è una sofferenza senza senso, che gli è ormai diventata insopportabile e i suoi “giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza”. E Giobbe conclude con una preghiera, che sembra un lungo lamento:
“Ricordati che un soffio è la mia vita:il mio occhio non rivedrà più il bene”.
La sensazione della brevità della vita colpisce tutti gli esseri umani, ma diventa più forte per coloro che non trovano in essa un senso, che non sperano di poter vedere a un certo punto un bene veramente sicuro e duraturo.
La sofferenza di Giobbe però è causata non tanto dal dolore fisico e dall’incomprensione dei suoi cari e amici, ma piuttosto dalla sensazione di essere abbandonato da Dio, nonostante che egli gli sia sempre stato fedele. In questa prospettiva egli vede l’esistenza umana come un seguito di avvenimenti senza senso, che gli procurano angoscia, mentre il tempo passa troppo in fretta o troppo lentamente secondo le situazioni. Egli vorrebbe che Dio intervenisse in suo favore, non tanto perché ciò metterebbe fine alle sue sofferenze, ma perché così egli saprebbe che Dio gli è vicino e lo ama ancora. La sua tentazione è quella di imporre a Dio un comportamento conforme alle sue aspettative, giudicando il suo silenzio come un’ingiustizia sempre più insopportabile.
Alla fine Dio si manifesterà a Giobbe, non per giustificare la propria condotta o per rivelargli qualche verità nascosta, ma semplicemente per renderlo consapevole del mistero che lo circonda, davanti al quale Giobbe non può far altro che abbassare la testa e credere che Dio è buono, anche se le Sue scelte restano misteriose. Nel capitolo prima dell’epilogo Giobbe dice: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere.” Gb 42,5-6 Per giungere a questa consapevolezza Giobbe deve abbandonare tante false sicurezze, prima di tutte quella di un Dio che interviene a sistemare le cose secondo un’idea di giustizia retributiva simile a quella su cui si basano i rapporti umani.
La storia di Giobbe comunque ha un lieto fine che l’epilogo del libro riporta:
« Il Signore ristabilì la sorte di Giobbe, dopo che egli ebbe pregato per i suoi amici. Infatti il Signore raddoppiò quanto Giobbe aveva posseduto. …. Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant'anni e vide figli e nipoti per quattro generazioni. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.» Gb 42,19-17

Salmo 146-147 Risanaci, Signore, Dio della vita.
È bello cantare inni al nostro Dio,
è dolce innalzare la lode.
Il Signore ricostruisce Gerusalemme,
raduna i dispersi d’Israele.

Risana i cuori affranti
e fascia le loro ferite.
Egli conta il numero delle stelle
e chiama ciascuna per nome.

Risana i cuori affranti
e fascia le loro ferite.
Egli conta il numero delle stelle
e chiama ciascuna per nome.

Il salmo è stato composto nel postesilio durante la ricostruzione morale ed economica di Gerusalemme, che era di invito ad altri esuli di intraprendere il viaggio di rientro in patria.
Il salmista invita alla lode dicendo che “È bello cantare inni al nostro Dio, è dolce innalzare la lode". A lui conviene la lode, e una lode adeguata, cioè che sgorga da un cuore aperto a lui, senza donazioni parziali di sé. Lodare è celebrare la bontà del Signore manifestata nelle sue opere. Lodare è rivolgersi a lui pieni di fede, compresi della sua misericordia, della sua giustizia, della sua provvidenza, della sua volontà di comunione con l'uomo; anzi è riconoscere che lui è la misericordia, la giustizia, la comunione, la bontà, la bellezza, il perdono, la vita (Vedi le lodi a Dio di san Francesco). Lodare è amare; è il ritorno a lui - mai sufficiente e perciò sempre da far crescere - dell'amore che ci dona incessantemente nel dono dello Spirito Santo (Rm 5,5). Lodare è aver sperimentato la potenza della sua Parola, accolta nella fede e nell'obbedienza. Lodare è desiderare lui; è volere lui, perciò non è sospensione del domandare a lui di crescere nell'amore verso lui. Lodare è aver sperimentato la gioia di amare i fratelli, è pregare per loro. Lodare non è sospensione del ringraziar, poiché il lodare Dio porta con sé il ringraziare di poterlo lodare, perché “è dolce innalzare la lode”. Lodare Dio è umiltà, è riconoscere che si è sue creature, bisognose di salvezza, di aiuto, e che salvezza e aiuto si riversano su ciascuno di noi inesauste e sovrabbondanti (Rm 5,20; 1Tm 1,14).
“Il Signore ricostruisce Gerusalemme”; ciò non riguarda la ricostruzione delle mura, ma l'organizzazione interna della città, la sua solidità economica, la sua capacità difensiva.
“Risana i cuori affranti e fascia le loro ferite”; con l'avvento di una normalità di vita i cuori ritornano a guardare con serenità al futuro.
Il pietoso Dio che fascia le ferite dei cuori affranti è anche colui che è sovrano dell'universo, poiché “Egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome”. Egli conosce il numero sterminato degli astri (in Terra Santa le condizioni atmosferiche permettono di vedere un cielo denso di stelle) e ogni stella è conosciuta da lui nella sua realtà: “chiama ciascuna per nome”.
Dallo sguardo all'immensità del numero delle stelle, il salmista sale a considerare la grandezza, l'onnipotenza e la sapienza di Dio: “Grande è il Signore nostro, grande nella sua potenza; la sua sapienza non si può calcolare”.
Il salmista prosegue considerando come Dio sostiene gli umili, e abbatte gli empi. Perché l'umiltà è il porsi giusto davanti al Creatore, che è pure salvatore; è il vincere il voler essere come Dio; è gioia e gratitudine di essere amati e perdonati. L'umile sa amare, sa lodare, sa riconoscere i benefici ricevuti; così il salmista invita a cantare un “canto di grazie” a Dio perché regola le stagioni a favore dell'uomo: “Egli copre il cielo di nubi, prepara la pioggia per la terra, fa germogliare l'erba sui monti”. Il bestiame tenuto al pascolo ha così cibo, ma anche gli uccelli di cui nessuno se ne cura hanno cibo dalla provvidenza di Dio.
Inutile pensare che Dio deleghi la sua assistenza contro i nemici del suo popolo alla forza dei cavalli e all'agilità dei guerrieri, quasi che non potesse agire in altro modo che per mezzo di un esercito. Questo Dio l'aveva dimostrato molte volte, e di recente sventando la coalizione armata contro Gerusalemme mentre stava ricostruendo le sue mura (Ne 4,9). Dio non si compiace dell'autosufficienza di chi crede di salvarsi per la forza dei cavalli o l'abilità dei guerrieri, ma si compiace di “chi lo teme, chi spera nel suo amore”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!
Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.
1Cor 9,16-19.22-23

Paolo continuando la sua prima lettera ai Corinzi , nei capitoli 8-10 affronta un altro problema, su cui i corinzi avevano chiesto il suo parere, riguardo i rapporti tra i cristiani e la società esterna, permeata com’era di riti religiosi nei quali direttamente o indirettamente era facile venire coinvolti.
Nel brano liturgico che abbiamo riguardo alla sua scelta di non farsi finanziare dalla comunità, Paolo afferma che il semplice fatto di annunziare il vangelo, non è per lui motivo di vanto, ma un obbligo che gli è stato imposto in forza della vocazione ricevuta, per questo dichiara: “guai a me se non annuncio il Vangelo!” e poi afferma: “Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato”, vale a dire se Paolo si fosse messo a servizio del vangelo di sua iniziativa, avrebbe diritto come ogni lavoratore a ricevere una ricompensa da parte di Dio; ma trattandosi di un incarico che gli è stato affidato, egli si sente come lo schiavo che non può pretendere una remunerazione per il lavoro che fa. Quindi se vuole avere una ricompensa deve fare qualcosa di più, che egli identifica precisamente nel predicare il vangelo gratuitamente, senza usare il “diritto conferitogli dal vangelo”, quello cioè di farsi finanziare dalle comunità. Solo facendo qualcosa in più di quanto gli è richiesto, può meritarsi un premio da parte del suo Signore.
A questo punto Paolo osserva che :“pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero”. Paolo perciò se ha rinunciato a questa sua libertà, lo ha fatto per uno scopo ben preciso: “guadagnare” al vangelo il maggior numero di persone. Gli interessi del vangelo sono dunque al di sopra dei suoi interessi personali.
Infine, Paolo menziona il suo atteggiamento nei confronti dei “deboli” per cui afferma: “Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli” Anche con costoro egli ha rinunciato al diritto di comportarsi secondo ciò che gli suggeriva la conoscenza e, per guadagnarli a Cristo, ha rinunziato a esercitare quelli che considerava suoi sacrosanti diritti.
Paolo conclude questi esempi esprimendo un principio generale: “mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io.”
Nel suo desiderio di portare a tutti la salvezza, Paolo non ha avuto paura di rinunziare a qualsiasi privilegio personale. in altre parole egli ritiene di poter acquistare per se stesso la salvezza contenuta nel vangelo, non semplicemente perché lo annunzia agli altri, ma perché adotta nei loro confronti quegli atteggiamenti di amore e di dedizione che il vangelo gli ispira

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!».
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
Mc 1,29-39

Il brano che la liturgia ci propone, come quello della domenica scorsa, fa parte di una serie di racconti di una giornata tipo di Gesù e viene subito dopo l’episodio d ella liberazione dell’indemoniato.
Marco ci riferisce che :“Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei”.
Qui assistiamo ad un altro tipo di potere che Gesù ha, quello sulla malattia: ““Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva.”
Dopo il tramonto del sole, cioè al termine della giornata di sabato,”gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.”
Marco qui ambienta, anche se in un episodio quotidiano e ordinario, il mistero sempre straordinario della sofferenza umana. La prima protagonista vediamo è la suocera di Pietro, inchiodata a letto dalla febbre che i rabbini al tempo di Gesù definivano “il fuoco che beve l’energia delle persone”. Gesù le si avvicina, si china su quel letto, la prende per mano, non pronunzia una sola parola, non dice neppure una preghiera, e la guarisce solo con la Sua azione diretta, con la Sua natura divina non ancora svelata agli occhi dei presenti.
Sull’onda di questa guarigione a sera si presentano una gran fila di malati che sperano in ciò che Lui solo può fare. Nella penombra di quel tramonto sembra quasi che sia stato convocato davanti a Gesù la raffigurazione di tutto il dolore del mondo!
L’evangelista sottolinea anche che Gesù impediva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano. Si può dedurre che i demòni conoscessero la realtà della sua natura, e loro malgrado, siano persino suoi testimoni. Si può inoltre notare che Gesù impone il silenzio, non solo ai demoni , ma anche ai miracolati e perfino agli apostoli, sulla sua identità messianica che sarà tolta solo dopo la Sua morte. Questo perché il popolo si faceva una idea nazionalista e combattente del Messia, molto diversa da quella che Gesù voleva incarnare, era dunque necessario per Gesù usare molta prudenza, almeno per il popolo d’Israele per evitare equivoci sulla Sua missione.
Il “segreto messianico” non è una tesi inventata più tardi da Marco come molti pensano, risponde invece a un atteggiamento storico di Gesù, benché Marco ne abbia fatto un tema su cui preferisce insistere. Poi l’evangelista evidenzia che Gesù “Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”.
Simone e gli altri discepoli “si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!»”. Questo verbo “cercare” di solito in Marco è sempre negativo e qui Gesù risponde: “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!”.
Gesù comincia dunque a predicare, non più a insegnare! Ha insegnato nella sinagoga dove insegnare significa annunciare qualcosa basandosi sui testi della scrittura, quindi l’Antico Testamento. Ma Gesù, dopo la delusione provata nella sinagoga, non insegna, bensì predica! Predicare significa annunziare la novità del regno di Dio senza poggiarsi sulla tradizione del passato.
Il brano conclude con l’annotazione: “E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni”. L’evangelista sembra alludere al fatto che il luogo dove i demòni sono annidati sono proprio le sinagoghe, i luoghi di culto.
Meditando sulla giornata tipica di Gesù che con tutti i suoi impegni la conclude con la preghiera, deve insegnare anche a noi che l'unica vera ricarica, dopo un'intensa giornata di lavoro, è proprio la preghiera che ci aiuta a prendere contatto con il Padre, tutto il resto anche le cose più importanti non ci ricaricano, non ci danno la forza necessaria per proseguire giorno per giorno il nostro cammino.

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“Il Vangelo di oggi presenta la guarigione, da parte di Gesù, della suocera di Pietro e poi di tanti altri malati e sofferenti che si stringono a Lui. Quella della suocera di Pietro è la prima guarigione di ordine fisico raccontata da Marco: la donna si trovava a letto con la febbre; nei suoi confronti, l’atteggiamento e il gesto di Gesù sono emblematici: «Si avvicinò, la fece alzare prendendola per mano» annota l’Evangelista. C’è tanta dolcezza in questo semplice atto, che sembra quasi naturale: «La febbre la lasciò ed ella li serviva» Il potere risanante di Gesù non incontra alcuna resistenza; e la persona guarita riprende la sua vita normale, pensando subito agli altri e non a sé stessa – e questo è significativo, è segno di vera “salute”!
Quel giorno era un sabato. La gente del villaggio aspetta il tramonto e poi, finito l’obbligo del riposo, esce e porta da Gesù tutti i malati e gli indemoniati. E Lui li guarisce, ma vieta ai demoni di rivelare che Lui è il Cristo. Fin dall’inizio, dunque, Gesù mostra la sua predilezione per le persone sofferenti nel corpo e nello spirito: è una predilezione di Gesù avvicinarsi alle persone che soffrono sia nel corpo sia nello spirito. È la predilezione del Padre, che Lui incarna e manifesta con opere e parole. I suoi discepoli ne sono stati testimoni oculari, hanno visto questo e poi lo hanno testimoniato. Ma Gesù non li ha voluti solo spettatori della sua missione: li ha coinvolti, li ha inviati, ha dato anche a loro il potere di guarire i malati e scacciare i demoni. E questo è proseguito senza interruzione nella vita della Chiesa, fino ad oggi. E questo è importante. Prendersi cura dei malati di ogni genere non è per la Chiesa un’“attività opzionale”, no! Non è qualcosa di accessorio, no. Prendersi cura dei malati di ogni genere fa parte integrante della missione della Chiesa, come lo era di quella di Gesù. E questa missione è portare la tenerezza di Dio all’umanità sofferente. Ce lo ricorderà tra pochi giorni, l’11 febbraio, la Giornata Mondiale del Malato.
La realtà che stiamo vivendo in tutto il mondo a causa della pandemia rende particolarmente attuale questo messaggio, questa missione essenziale della Chiesa. La voce di Giobbe, che risuona nella Liturgia odierna, ancora una volta si fa interprete della nostra condizione umana, così alta nella dignità – la nostra condizione umana, altissima nella dignità – e nello stesso tempo così fragile. Di fronte a questa realtà, sempre sorge nel cuore la domanda: “perché?”.
E a questo interrogativo Gesù, Verbo Incarnato, risponde non con una spiegazione – a questo perché siamo così alti nella dignità e così fragili nella condizione, Gesù non risponde a questo perché con una spiegazione –, ma con una presenza d’amore che si china, che prende per mano e fa rialzare, come ha fatto con la suocera di Pietro. Chinarsi per far rialzare l’altro. Non dimentichiamo che l’unico modo lecito di guardare una persona dall’alto in basso è quando tu tendi la mano per aiutarla a sollevarsi. L’unica. E questa è la missione che Gesù ha affidato alla Chiesa. Il Figlio di Dio manifesta la sua Signoria non “dall’alto in basso”, non a distanza, ma chinandosi, tendendo la mano; manifesta la sua Signoria nella vicinanza, nella tenerezza e nella compassione. Vicinanza, tenerezza, compassione sono lo stile di Dio. Dio si fa vicino e si fa vicino con tenerezza e con compassione. Quante volte nel Vangelo leggiamo, davanti a un problema di salute o qualsiasi problema: “ne ebbe compassione”. La compassione di Gesù, la vicinanza di Dio in Gesù è lo stile di Dio. Il Vangelo di oggi ci ricorda anche che questa compassione affonda le radici nell’intima relazione con il Padre. Perché? Prima dell’alba e dopo il tramonto, Gesù si appartava e rimaneva da solo a pregare . Da lì attingeva la forza per compiere il suo ministero, predicando e operando guarigioni.
La Vergine Santa ci aiuti a lasciarci guarire da Gesù – ne abbiamo sempre bisogno, tutti – per poter essere a nostra volta testimoni della tenerezza risanatrice di Dio.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 7 febbraio 2021

Pubblicato in Liturgia

Ogni domenica, la liturgia ci propone determinate letture, che se anche non hanno un filo conduttore tra loro, ci aiutano sempre a conoscere meglio il Signore Gesù. Sono come un mosaico che formano un dipinto, un’opera d’arte che trova il suo compimento solo alla fine.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, il Signore, per bocca di Mosè, promette al popolo di suscitare tra di loro in continuità, un profeta, cioè un uomo non compromesso con centri di potere politico e religioso, che possa essere un porta-parola di Dio. Sulla base di questo testo i Giudei hanno atteso il Messia come un nuovo Mosè.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo continua ad indicare i motivi che gli fanno ritenere la verginità superiore al matrimonio. L’apostolo non pensa certo che il celibato possa eliminare del tutto le preoccupazioni legate alla vita in questo mondo, ma sembra convinto che possa attenuarle, affinché il credente sia unicamente preoccupato per le cose del Signore. Secondo Paolo chi ha rinunziato al matrimonio ha trovato la sua unità profonda nell’appartenere totalmente a Cristo, chi invece è sposato deve tendere anche lui alle realtà ultime del regno, ma servendosi di un mezzo, il proprio coniuge, che facilmente, per la debolezza umana, tende a separarlo da Cristo e a porsi come fine autonomo della sua vita.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta che la gente osserva che Gesù insegna con autorità e che la sua dottrina è nuova, confrontata con quella degli scribi. Quando poi Gesù libera l’uomo posseduto dallo spirito impuro sono presi da timore e si chiedono chi sia mai costui che persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
Oggi ricorre la 71^giornata dei malati di lebbra-

Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto.
Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb , il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.
Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».
Dt 18,15-20

Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È’ composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali (nella Torah, o “Legge mosaica”, sono enumerati anche un insieme di 613 mitzvòt, o precetti). Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
In questo brano, dopo aver messo in guardia il popolo contro coloro che praticano la divinazione e la magia, Mosè indica come alternativa il ruolo dei profeti, presentandoli come i più immediati continuatori della sua opera e indica i criteri da adottare per provare la loro autenticità
Mosè esordisce con una promessa: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto”, vale a dire i profeti suscitati da Dio saranno “simili a Mosè”, cioè avranno le sue stesse prerogative: ciò significa che i veri continuatori dell’opera di Mosè non saranno i re o i sacerdoti, ma uomini scelti di volta in volta da DIO e dotati di un carisma particolare.
L’origine divina del ruolo del profeta fa sì che il popolo sia tenuto ad ascoltare le loro parole per cui obbedire al profeta significa infatti obbedire a Dio.
Alla promessa iniziale Mosè aggiunge una motivazione: “Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.
Quanto descritto si riferisce al racconto della teofania avvenuta ai piedi del Sinai, quando il popolo, spaventato dai lampi e dai tuoni mediante i quali Dio si faceva sentire e dettava personalmente il decalogo, aveva chiesto a Mosè “Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!”.(Es 20,19). Tutto questo Mosè l’aveva fatto durante la sua vita e i profeti faranno dopo la sua morte.
Mosè riprende poi la promessa appena fatta mettendola direttamente sulla bocca di Dio, il quale dice di aver concesso quanto gli israeliti gli avevano chiesto durante la teofania e conferma quanto Mosè ha detto e continua precisando: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò.”
L’immagine è suggestiva: il profeta dovrà parlare, ma le parole che dirà non saranno sue, ma di DIO che parlerà attraverso di lui., per cui le parole umane del profeta saranno a tutti gli effetti parole di Dio. Questo intervento speciale del Signore in favore del profetismo ha importanti conseguenze, sia per il popolo che per lo stesso profeta.
Anzitutto per il popolo: “Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto”.
Poi per il profeta: “Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”.
Non viene richiesta un’obbedienza cieca, ma piuttosto una capacità di discernimento, il cui criterio principale è che il profeta parli a nome di DIO, e non degli idoli.
Il profeta è dunque un uomo che parla in nome di Dio e che agisce solo sotto la Suo azione, ma è anche uno che scopre la parola di Dio attraverso un cammino di riflessione umana alla luce della fede sugli eventi di cui è testimone.
Ciò appare chiaro dal fatto che, secondo il Deuteronomio, anche il profeta può sbagliare: se ciò dovesse accadere, egli dovrà rendere conto del proprio errore; ma anche il popolo, se si lascerà condurre per strade errate, sarà responsabile del proprio comportamento. Questa affermazione dunque rende responsabile anche il popolo che dovrà così essere dotato di un carisma profetico.
La stessa ispirazione che agisce nel profeta dunque deve illuminare chi lo ascolta affinché sappia discernere nelle sue parole la parola di Dio.

Salmo 95 (94) Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.

Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.

Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».

Il salmo è un invito alla preghiera durante una visita al tempio, probabilmente durante la festa delle capanne, che celebrava il cammino nel deserto (Cf. Dt 31,11), visto che il salmo ricorda l'episodio di Massa e Meriba.
Dio è presentato come “roccia della nostra salvezza”, indicando la roccia la sicurezza data da Dio di fronte ai nemici.
Egli è “grande re sopra tutti gli dei”; sono gli dei concepiti dai pagani, dietro i quali striscia l'azione dei demoni
Egli è colui che ha in suo potere ogni cosa: “Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti...”.
Il gruppo orante è invitato ad accostarsi a Dio, cioè ad entrare nell'atrio del tempio. Successivamente il gruppo è invitato a prostrarsi davanti al Signore. Segue l'invito ad ascoltare la voce del Signore. Nel silenzio dell'adorazione davanti al tempio Dio muove il cuore (“la sua voce”) indirizzandolo al bene, all'obbedienza dei comandamenti, al cambiamento della vita.
“Non indurite il cuore”; il cuore indurito non ascolta la voce del Signore e segue i suoi pensieri, ma si troverà a vagare nei deserti di un'esistenza senza Dio, senza alcun riposo.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla prima lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!
Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.
1Cor 7,32-35

Paolo scrivendo ai Corinzi, continua a rispondere ai loro quesiti, riguardante la vita sessuale nel matrimonio e nel celibato. In questo brano in particolare esordisce così:
“io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore;”
Torna il termine preoccupazioni, cioè le realtà alle quali occorre porre grande attenzione. Chi ha abbracciato la fede cristiana deve chiaramente impegnarsi ogni giorno per comprendere cosa è bene e cosa è male, cosa conduce al Signore e ciò che invece ci distoglie da Lui e dal Suo amore. Secondo Paolo chi non è sposato ha maggiori possibilità di dedicarsi alle cose del Signore. L'esempio che Paolo porta è lui stesso che si è dedicato totalmente alla predicazione del Vangelo, per cui ha evidenti pregiudizi riguardo al matrimonio
“chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! “
Paolo sente gli effetti della mentalità dualista della sua epoca, che contrappone il mondo presente e il mondo di Dio. E’ bene ricordare che nel matrimonio i due coniugi assumono dei doveri l'uno verso l'altro e che quindi è una scelta che va presa in modo serio e vissuta fino in fondo. Non si rinuncia al Signore, se si sceglie il matrimonio, anzi si può comprendere ancora di più come Dio è il compendio di ogni amore, e amando Lui per primo si riesce ad amare nel modo giusto gli altri.
“Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.”
Paolo ripete il concetto indirizzandolo al femminile. Egli presenta il coniuge come un immaginabile concorrente di Dio in amore. Se è vero che l’impegno per il coniuge e per la famiglia può ostacolare il completo interesse per Dio e per i fratelli, non si può non ammettere che anche il celibato comporta il rischio di uno spiritualismo che non è il linea con le esigenze reali delle persone. Il matrimonio infatti impone un continuo e diretto confronto con l’altro (il coniuge, i figli e la società), al quale il celibe può facilmente sottrarsi.
“Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni”.
Paolo si rende conto che sostenendo la superiorità del celibato potrebbe urtare la sensibilità di quanti vivono la vita matrimoniale, ma di fatto tutte le realtà di questo mondo, se vissute con troppa apprensione o troppo materialismo possono distoglierci dal servire bene il Signore.
La nostra umana sensibilità ci porta oggi a ritenere che entrambe le scelte (sia quella della castità, come quella matrimoniale) sono vocazioni di vita, che se vissute nel bene, nulla tolgono al regno di Dio, per cui sono sempre efficaci per seguire Gesù. Ciascuno ha il suo proprio dono, come afferma sempre Paolo (1 Cor 7,7) e in quanto reciproco dono, ciascuno, per la sua parte, collabora alla crescita del corpo di Cristo che è la Chiesa.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.
Mc 1,21-28

L’evangelista Marco dopo aver raccontato la chiamata dei quatto pescatori, riporta una serie di brani ambientati a Cafarnao, località che Gesù ha scelto come centro della Sua attività in Galilea. Gli eventi narrati sono distribuiti nell’arco di una giornata-tipo, che Gesù viveva.
Il brano liturgico propone il primo episodio di questa piccola serie, la liberazione di un indemoniato.
L’evangelista presenta Gesù che insegna in un giorno di sabato nella sinagoga di Cafarnao e sottolinea che i presenti “erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi”,quando insegnavano nelle sinagoghe.
Dopo questa introduzione sull’insegnamento di Gesù, l’evangelista racconta il fatto dell’indemoniato che è presentato come un uomo posseduto da uno “spirito impuro”. Impressiona subito il fatto che questo spirito impuro stia in un luogo di culto come una sinagoga, e ci stia tranquillo, senza essere scoperto, fino all’arrivo di Gesù, e solo al Suo arrivo gli si rivolge chiedendogli, con tono ostile : “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!”. L’espressione “che vuoi da noi” oltre ad indicare che non aveva nulla in comune con Gesù, il demonio lo accusa di essere venuto a mettere in pericolo il suo potere, e usando la prima persona plurale, dimostra di rappresentare un numero molto vasto di forze opposte a Dio, ma soprattutto mostra anche di conoscere la vera identità di Gesù.
L’appellativo “santo di Dio” che gli attribuisce, mette in luce il particolare rapporto che Egli ha con Dio: il demonio dunque considera Gesù come colui che, in quanto rappresentante di Dio, possiede un potere opposto al suo. Gesù allora sgrida duramente il demonio e gli “ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!»”.
E’ questa la prima volta in cui l’evangelista introduce, per iniziativa dello stesso Gesù, il velo del segreto messianico. E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.”
Lo “spirito impuro” non può far altro che obbedire, pur provocando urla e contorsioni nel povero posseduto. In tal modo Gesù dimostra di avere un potere superiore a quello dei demoni.
Al termine del racconto viene ripreso il tema iniziale: la gente è meravigliata, rendendosi conto che egli propone una dottrina nuova e la insegna con autorità. La dottrina nuova insegnata da Gesù consiste naturalmente nell’annunzio dell’imminente venuta del regno di Dio e con la liberazione dell’indemoniato la Sua autorità viene qualificata non solo più in rapporto al Suo modo di insegnare, ma anche perchè “comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono”. Il gesto da Lui compiuto fa sì che la Sua fama si diffonda in tutta la regione della Galilea.
L’evangelista sottolinea così per la prima volta che Gesù comincia ad essere conosciuto anche al di fuori della Sua regione, cioè in zone abitate quasi esclusivamente da pagani. Si parlerà in seguito di folle venute appunto dalle regioni confinanti con la Galilea, di pagani che si mescolano ai giudei.
La «dottrina nuova» di Gesù non è una vaga teoria filosofica, ma una forza creatrice e liberatrice. Noi tutti ne abbiamo bisogno per sterminare i demoni segreti che abbiamo dentro di noi e che si chiamano come diceva Gesù: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. (Mc 7,21-22) . In questo ultimo periodo purtroppo siamo diventati spettatori inermi provando orrore per certi fatti che la cronaca quotidianamente ci riporta .

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“L’odierno brano evangelico racconta una giornata-tipo del ministero di Gesù, in particolare si tratta di un sabato, giorno dedicato al riposo e alla preghiera, la gente andava in sinagoga. Nella sinagoga di Cafarnao, Gesù legge e commenta le Scritture. I presenti sono attirati dal suo modo di parlare; la loro meraviglia è grande perché dimostra un’autorità diversa da quella degli scribi. Inoltre, Gesù si rivela potente anche nelle opere. Infatti, un uomo nella sinagoga gli si rivolta contro interpellandolo come l’Inviato di Dio; Lui riconosce lo spirito maligno, gli ordina di uscire da quell’uomo e così lo scaccia .
Si vedono qui i due elementi caratteristici dell’azione di Gesù: la predicazione e l’opera taumaturgica di guarigione: predica e guarisce. Entrambi tali aspetti risaltano nel brano dell’evangelista Marco, ma il più evidenziato è quello della predicazione; l’esorcismo viene presentato a conferma della sua singolare “autorità” e del suo insegnamento. Gesù predica con autorità propria, come chi possiede una dottrina che trae da sé, e non come gli scribi che ripetevano tradizioni precedenti e leggi tramandate. Ripetevano parole, parole, parole, soltanto parole – come cantava la grande Mina –. Erano così: soltanto parole. Invece in Gesù, la parola ha autorità, Gesù è autorevole. E questo tocca il cuore. L’insegnamento di Gesù ha la stessa autorità di Dio che parla; infatti, con un solo comando libera facilmente l’ossesso dal maligno e lo guarisce. Perché? Perché la sua parola opera quello che dice. Perché Egli è il profeta definitivo. Ma perché dico questo, che è il profeta definitivo? Ricordiamo la promessa di Mosè. Mosè dice: “Dopo di me, tempo avanti, verrà un profeta come me – come me! – che vi insegnerà” (cfr Dt 18,15). Mosè annuncia Gesù come il profeta definitivo. Per questo [Gesù] parla non con l’autorità umana, ma con quella divina, perché ha il potere di essere il profeta definitivo, cioè il Figlio di Dio che ci salva, ci guarisce tutti.
Il secondo aspetto, quello delle guarigioni, mostra che la predicazione di Cristo è rivolta a sconfiggere il male presente nell’uomo e nel mondo. La sua parola punta direttamente contro il regno di Satana, lo mette in crisi e lo fa indietreggiare, lo obbliga ad uscire dal mondo. Quell’ossesso – quell’uomo posseduto, ossesso – raggiunto dal comando del Signore, viene liberato e trasformato in una nuova persona. Inoltre, la predicazione di Gesù appartiene a una logica opposta a quella del mondo e del maligno: le sue parole si rivelano come lo sconvolgimento di un ordine sbagliato di cose. Il demonio presente nell’ossesso, infatti, grida all’avvicinarsi di Gesù: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?» . Queste espressioni indicano la totale estraneità tra Gesù e Satana: sono su piani completamente diversi; tra loro non c’è nulla in comune; sono uno opposto all’altro. Gesù, autorevole, che attira con la sua autorevolezza la gente, e anche il profeta che libera, il profeta promesso che è il Figlio di Dio che guarisce. Ascoltiamo, noi, le parole di Gesù che sono autorevoli? Sempre, non dimenticatevi, portate in tasca o nella borsa un piccolo Vangelo, per leggerlo durante la giornata, per ascoltare quella parola autorevole di Gesù. E poi, tutti abbiamo dei problemi, tutti abbiamo peccati, tutti abbiamo delle malattie spirituali. Chiediamo a Gesù: “Gesù, tu sei il profeta, il Figlio di Dio, quello che è stato promesso per guarirci. Guariscimi!”. Chiedere a Gesù la guarigione dei nostri peccati, dei nostri mali.
La Vergine Maria ha custodito sempre nel suo cuore le parole e i gesti di Gesù, e lo ha seguito con totale disponibilità e fedeltà. Aiuti anche noi ad ascoltarlo e seguirlo, per sperimentare nella nostra vita i segni della sua salvezza.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 31 gennaio 2021

Pubblicato in Liturgia

Le letture che la liturgia di questa domenica ci propone hanno come filo conduttore la chiamata, e questa iniziativa è sempre di Dio. Come nella precedente domenica del battesimo del Signore alle rive del Giordano, anche in questa domenica il protagonista è Giovanni il Battista, ma le sue parole profetiche puntano verso un’altra meta: Gesù Cristo, l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo.
Nella prima lettura, tratta dal libro di Samuele, viene raccontata la storia della chiamata di Samuele, quando era ancora un bambino. Samuele all’inizio confonde la
voce di Dio con quella di Eli, che lo aiuta a discernere la parola di Dio e lo educa a coltivare atteggiamenti consoni ad ascoltarla e obbedirle. L’esperienza di Dio è sempre personale, ma abbiamo tutti bisogno di qualcuno che ci accompagni e ci aiuti a comprenderla .
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo invita i cristiani di Corinto, città famosa per i costumi immorali, a riflettere sulla dignità del proprio corpo, destinato alla gloria della risurrezione.
L’evangelista Giovanni, nel brano del suo Vangelo ci parla della chiamata dei primi discepoli, che incontrano Gesù. Andrea e il “suo compagno” vivono un incontro personale con Gesù, espresso con l’immagine stupenda del dimorare con lui nella stessa casa. Anche Pietro vive l’esperienza personale dello sguardo di Gesù che posandosi su di lui lo trasforma fino a capovolgerne la vita. Un semplice incontro, l’autenticità dei gesti e delle parole, lo sguardo di amore del Signore sono sufficienti per trasformare tutta la vita di ogni persona

Dal primo libro di Samuèle
In quei giorni, Samuèle dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio. Allora il Signore chiamò: «Samuèle!» ed egli rispose: «Eccomi», poi corse da Eli e gli disse: «Mi hai chiamato, eccomi!». Egli rispose: «Non ti ho chiamato, torna a dormire!». Tornò e si mise a dormire.
Ma il Signore chiamò di nuovo: «Samuèle!»; Samuèle si alzò e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Ma quello rispose di nuovo: «Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!». In realtà Samuèle fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore.
Il Signore tornò a chiamare: «Samuèle!» per la terza volta; questi si alzò nuovamente e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane. Eli disse a Samuèle: «Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”». Samuèle andò a dormire al suo posto.
Venne il Signore, stette accanto a lui e lo chiamò come le altre volte: «Samuèle, Samuèle!». Samuèle rispose subito: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta».
Samuèle crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole.
1Sam 3,3b-10.19

I due libri di Samuele sono due testi contenuti anche nella Bibbia ebraica dove sono contati come un testo unico e costituiscono, con i successivi due Libri dei Re, un'opera continua. Sono stati scritti in ebraico e secondo molti studiosi, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Sia i libri di Samuele che quelli dei Re hanno come unico progetto, quello di tratteggiare la vicenda storica di Israele dalla fine dell'epoca dei Giudici fino alla fine della monarchia con l'invasione babilonese di Nabucodonosor: un arco di tempo che comprende ben sei secoli.
Il primo libro di Samuele, descrive l'abbandono dell'ordinamento giuridico dei Giudici, con cui spesso le tribù si governavano in modo indipendente l'una dall'altra, e la nascita dell'ordinamento monarchico. Esso abbraccia un periodo di tempo che va dal XII secolo fino al 1010 a.C. circa, anno presunto della morte di Saul.
Questo brano ci riporta la chiamata di Samuele quando era ancora un ragazzo. Egli era nato da Elkana e Anna, una donna che era sterile, ma che aveva ottenuto da Dio un figlio, dopo tante preghiere e suppliche. Anna, fedele alla promessa, aveva consacrato Samuele, il figlio tanto atteso, al Signore e Lui, il Signore, ne fece uno strumento di grande bene.
All’inizio del capitolo 3, da dove è tratto questo brano, viene narrato che il giovane Samuele continuava a servire il Signore sotto la guida del sacerdote Eli, come aveva cominciato a fare fin dalla sua infanzia (V.2,21.26). Poi chi scrive fa notare che la “parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti”. Questa annotazione sta a significare che l’assenza di voci profetiche è segno di sventura, in quanto significa che il popolo si è allontanato dal suo Dio. “In quel tempo Eli stava riposando in casa, perché i suoi occhi cominciavano a indebolirsi e non riusciva più a vedere”.
Da questo momento inizia il brano liturgico:
“Samuèle dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio”. La situazione è quindi in apparenza critica: il sacerdote, a cui spetta la guida del popolo, è vecchio e cadente, Dio non fa sentire la sua voce, mentre l’arca dell’alleanza è affidata a un fanciullo. Unico segno di speranza sta nel fatto che la lampada di Dio continua a brillare.
In una situazione così disperata “il Signore chiamò: «Samuèle!»” Questo fatto avviene precisamente nel tempio, dove si trova l’arca dell’alleanza e la lampada continua a splendere ed ha come destinatario proprio quel giovinetto riposava nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca. Dio si rivolge a lui chiamandolo tre volte. Dopo la prima e la seconda volta Samuele, pensando che fosse Eli a chiamarlo, corre da lui e si mette volenterosamente a sua disposizione, ma Eli lo rimanda a riposare.
A questo punto il narratore spiega che “Samuèle fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore” Questo non vuol dire che Samuele non conoscesse le tradizioni di Israele che parlavano delle azioni potenti compiute dal Signore in favore del suo popolo. Samuele sicuramente le conosceva, ma non aveva avuto un’esperienza personale di Dio. La sua situazione ricorda quella di Giobbe, uomo integro e retto, che temeva Dio (Gb 1,1), ma dopo l’apparizione del Signore riconosce che prima lo conosceva solo per sentito dire (Gb 42,5).
Quando Samuele si precipita per la terza volta da Eli chiedendogli se lo avesse chiamato, Eli si rende conto che è il Signore lo stava chiamando, perciò gli dice di tornare a dormire e gli suggerisce, se dovesse sentire nuovamente la voce, di rispondere: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”»..
Anche se con ritardo, Eli si rende conto che la voce sentita da Samuele è la voce di Dio. Forse Eli nella sua giovinezza, aveva fatto un’esperienza personale di Dio: la vecchiaia e l’infedeltà al suo ruolo di guida nei confronti dei figli e, di riflesso, anche nei confronti di tutto il popolo, non gli impediscono di riconoscere l’intervento divino. Il fatto che Dio si rivolga a Samuele e non a lui non gli suscita gelosia, anzi si rende conto che è naturale ed anche giusto che Dio non si rivolga a lui, che porta su di sé il segno della disapprovazione divina, ma a uno che, proprio perché sta già servendo Dio, sarà capace di ascoltare la Sua voce.
Nei versetti successivi, non riportati nel brano liturgico, si racconta che Samuele fa come gli aveva suggerito Eli, e il Signore gli affida un messaggio per lui e tutta la sua casa. Dio non gli spiega dettagliatamente che cosa capiterà, ma si limita a confermargli che tutto ciò che era stato preannunziato si compirà al più presto, perché Eli ha visto ciò che i suoi figli compivano e non li ha puniti (vv. 12-14) Il riferimento è senza dubbio al brano precedente (2,27-36), in cui vengono preannunziate le sventure che colpiranno la famiglia di Eli. Chi scrive ha preferito anticipare questo messaggio in modo da suggerire che Dio ha lasciato a Eli il tempo di cambiare comportamento e si è mosso solo quando è apparso chiaro che non c’era più nulla da fare. Da ciò si capisce come mai Dio affermi che “non sarà mai espiata l’iniquità della casa di Eli né con i sacrifici né con le offerte! (3,13)
Al mattino Samuele inizia il suo servizio quotidiano al tempio. Ma Eli gli chiede che cosa gli ha detto Dio nella notte, presagendo che si tratta di cose dolorose, Eli lo incoraggia e al tempo stesso lo minaccia: se non parla, potranno capitare a lui cose peggiori di quelle che, probabilmente, riguardano soltanto Eli e la sua casa. A malincuore Samuele gli dice tutto e Eli risponde:”Egli è il Signore! Faccia ciò che a lui pare bene”. Questa risposta ricorda quella di Giobbe dopo essere stato colpito dalla prova: “Il Signore ha dato, il Signore a tolto, sia benedetto il nome del Signore”(Gb 1,21). Con questa frase egli rivela, questa volta senza ambiguità, di essere un vero uomo di Dio, anche se sconvolto dagli eventi negativi.
Il brano liturgico termina con questi versetti : "Samuèle crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole”.
Per la sua chiamata Samuele appare come il vero capo carismatico del popolo e saprà svolgere non solo il ruolo profetico, ma anche quello di sacerdote e di giudice perché il suo cuore e la sua volontà erano una cosa sola con il Signore a cui aveva consacrato tutto se stesso.
Il ruolo di guida di Samuele subirà un cambiamento con la richiesta da parte del popolo di un re. Questo evento implicherà la divisione dei compiti, che però non metterà in crisi il carattere teocratico del governo di Israele; anche il re infatti sarà un rappresentante di Dio e dovrà continuamente interagire con figure profetiche che gli indicheranno la strada da percorrere per essere fedele al Signore.

Salmo 40 (39) Ecco, io vengo, Signore, per fare la tua volontà.

Ho sperato, ho sperato nel Signore,
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo,
una lode al nostro Dio.

Ho sperato, ho sperato nel Signore,
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo,
una lode al nostro Dio.

«Nel rotolo del libro su di me è scritto
di fare la tua volontà:
mio Dio, questo io desidero;
la tua legge è nel mio intimo».

Il salmo inizia con una lode a Dio per la liberazione da grandi difficoltà. E’ una lode piena di giubilo, di forza, di annuncio della bontà del Signore. Il salmista è giunto ad una grande intimità con Dio, e Dio gli ha posto “sulla bocca un canto nuovo”. Egli con uno sguardo lieto verso il futuro afferma che “molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore”. Egli crede che tutta la terra conoscerà il tempo della pace.
Egli presenta la beatitudine dell’uomo che rimane col Signore e “e non si volge verso chi segue gli idoli”, di coloro che si credono autosufficienti e seguono così la menzogna. Il salmista nel suo giubilo ricorda le opere del Signore fatte a favore del suo popolo: “Quante meraviglie hai fatto, tu, Signore, mio Dio, quanti progetti in nostro favore”.
Egli afferma che il culto a Dio non è una semplice ritualità, ma deve scaturire dal cuore, da un vero amore a Dio, che si esprime nell’obbedienza alla sua parola. Egli ha capito - “gli orecchi mi hai aperto” - come il culto al tempio, senza l’obbedienza del cuore, disgusta Dio: “Sacrificio e offerta non gradisci”. “Gli orecchi mi hai aperto”, è traduzione che legge l’ebraico “karatta”, “forato”, come “aperto”. Questa lettura si collega a 1Samuele 9,15 e a Isaia 50,5 ed è stata promossa da autorevoli esegeti (Podechard e Dorme).
Ha capito perché ha ascoltato la Scrittura (Il rotolo del libro), e quindi ha obbedito alla Parola la quale lo ha illuminato sul vero culto da rendere a Dio. L’orecchio è organo dell’ascoltare, ma qui è pure simbolo dell’obbedire.
L’espressione “gli orecchi mi hai aperto”, si trova con versione diversa nella traduzione greca detta dei LXX : “un corpo invece mi hai preparato”. Questa versione è poi entrata nella lettera agli Ebrei (10,5), che dipende quanto a citazioni del Vecchio Testamento dalla traduzione dei LXX. La spiegazione di questa diversità va ricercata in una deficienza introdotta da un copista nel manoscritto, o più manoscritti di derivazione, a disposizione dei LXX, i quali dovettero superare l’incertezza letteraria con un pensiero teologico, affermando che nell’adorazione a Dio, nel vero culto a Dio, tutto l’uomo entra in gioco; il corpo deve essere sottomesso con decisa volontà ai comandamenti di Dio. I sacrifici, gli olocausti del tempio, sono un appello “al sacrificio, all’olocausto”, di dominio del proprio corpo. Sulla base di questo pensiero teologico i LXX fecero la loro traduzione; e questa è entrata nella lettera agli Ebrei riguardo l’Incarnazione.
Il salmista ha letto che nella Legge (Il rotolo del libro) è comandato di fare la volontà di Dio, che è amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; dunque non un culto dove sia assente il cuore, dove il senso non sia dominato, dove non ci sia obbedienza alla Parola, e non amore verso i fratelli. Egli dice: “su di me è scritto”; poiché “Il rotolo del libro” non chiede solo l’adesione della collettività, ma innanzi tutto l’adesione personale.
Fare la volontà di Dio è il desiderio intimo del salmista.
Egli nel giubilo non si dimentica del dovere di annunciare agli altri quanto Dio ha fatto per lui: “Non ho celato il tuo amore e la tua fedeltà alla grande assemblea”.
E il suo giubilo scaturisce dall’umiltà; perciò non è euforia. Egli, umile, si dichiara colpevole davanti a Dio, e chiede a lui sostegno per sostenere e uscire dai mali che lo circondano: “La tua fedeltà e la tua grazia mi proteggano sempre, poiché mi circondano mali senza numero”.
Anche se “povero e bisognoso”, il salmista non dubita affatto che Dio ha cura di lui e perciò termina il salmo con un grande atto di fiducia: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare”
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?
Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!
1Cor 6,13b-15a, 17-20

La Paolo scrisse la prima lettera ai Corinzi durante la sua permanenza ad Efeso negli anni 54-55. E’ una delle più lunghe scritte dall’apostolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli. Paolo si era deciso a scriverla dopo aver ricevuto notizie sulla comunità da parte di conoscenti della famiglia di Cloe e dopo che gli era anche pervenuta una lettera dagli stessi Corinzi. Corinto era un’importante grande città, (famosa per il suo porto), centro di cultura greca, dove si affrontavano correnti di pensiero e di religione molto differenti tra loro. Il contatto della fede cristiana con questa capitale del paganesimo, anche celebre per il rilassamento dei costumi, poneva nei neofiti numerosi e delicati problemi. Pur essendo passati solo pochi anni dalla sua fondazione, la comunità di Corinto si era dimostrata molto vivace e nello stesso tempo anche molto problematica.
Nella lettera, dopo la lunga analisi al problema dei partiti a Corinto (1,10–4,21) Paolo affronta nei cc. 5-6 tre abusi che si erano verificati nella comunità: un caso di incesto (c. 5); l’appello ai tribunali civili (6,1-11); la fornicazione (6,12-20) il cui testo viene ripreso quasi integralmente dal brano liturgico.
Dopo una breve introduzione, non riportata dalla liturgia, Paolo pone le premesse della sua argomentazione che inizia riprendendo e confutando alcune affermazioni, che certamente circolavano a Corinto e venivano utilizzate da alcuni per giustificare il loro permissivismo sessuale. La prima era che :”Tutto mi è lecito”. che forse poteva essere ricavata dalla tesi paolina secondo cui il cristiano è liberato dalla legge (Gal 5,1; Rm 8,2-4), ma in realtà ha le sue radici nella mentalità e nella cultura greca in cui sussisteva l’idea che al saggio è permesso fare tutto ciò che vuole, perché lui solo sa che cosa è giusto, buono e vantaggioso (Dione Crisostomo, Orazioni 64,13-17). Che questo fosse il modo di pensare dei corinzi è confermato dal fatto che lo stesso slogan era utilizzato anche per giustificare la libertà di mangiare carni sacrificate agli idoli (v 10,23). Paolo lo cita qui due volte senza negarne la validità, ma ponendo delle forti riserve.
La prima volta egli osserva che “Tutto mi è lecito!”. Ma non tutto giova. “Tutto mi è lecito!”. Ma io non mi lascerò dominare da nulla. “(6,12) Di questo concetto, Paolo si serve anche altrove per sottolineare che non tutto ciò che in teoria è lecito fare, è utile per il bene della persona e per l’edificazione della comunità (v 7,35; 10,33; 12,7) perchè la libertà non significa rendersi schiavo nei confronti di qualsiasi realtà terrena. In queste brevi risposte c’è in embrione tutta la morale cristiana, la quale da una parte esclude il legalismo e dall’altra si oppone nettamente a ogni forma di libertinismo.
Un altro motto che presenta è: “I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!” (v. 13a). Anche questo motto può essere stato una male interpretazione di ciò che sosteneva Paolo quando diceva che ogni cibo è puro (v. 1Cor 8,8; Rm 14,14). I corinzi invece lo avevano interpretato nel senso che i bisogni naturali del corpo, e tra questi anche quello sessuale, devono essere soddisfatti senza problemi; la sessualità era così ridotta ad una naturale funzione fisiologica, di conseguenza non era considerato biasimevole aver rapporti con qualsiasi persona.
Inizia qui il brano liturgico. Anzitutto l’Apostolo osserva : “il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo” ossia il corpo è stato creato da Dio non per “l’impurità” cioè in funzione di un piacere egoistico, ma “per il Signore”. Il corpo non è uno strumento da usare a proprio piacimento, ma è parte integrante della persona stessa, che le permette di entrare in rapporto con gli altri, e prima di tutto con “il Signore”, poi aggiunge: Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza”.Tutto l’essere umano, e non solo la sua anima, come forse i corinzi erano portati a pensare (v 1Cor 15), parteciperà alla risurrezione di Cristo, ed è in questa prospettiva che la dimensione fisica dell’essere umano viene totalmente valorizzata.
La profonda solidarietà che lega il credente a Cristo l’Apostolo la presentata in questi termini: “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?” L’idea che i corpi dei credenti, cioè tutta la loro personalità da cui non è separabile l’aspetto fisico, siano membra di Cristo è ispirata a Paolo sia dall’esperienza battesimale (v. 12,12-13.27), sia da quella eucaristica (v. 10,17).
Paolo fa poi questa affermazione: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito”.Con queste parole conclude l’argomento e prosegue poi con l’esortazione: “State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo”.
Questa affermazione si basa sul fatto che, mentre negli altri peccati il corpo è usato solo come strumento di azioni illecite, nella fornicazione è il corpo stesso, in quanto simboleggia tutta la persona, che viene direttamente coinvolto in un rapporto immorale.
Due ulteriori domande servono ad approfondire questo argomento: Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Il termine “tempio” indica la parte interna del santuario, dove era localizzata la presenza di Dio. La comunità era già stata presentata come tempio di Dio e dello Spirito santo; in modo analogo anche il singolo cristiano, proprio in forza del suo rapporto con Cristo e con la Chiesa, rappresenta il luogo in cui Dio abita. Lo Spirito è il dono di Dio e in forza dello Spirito che opera in loro, i credenti appartengono a Lui, e non più a se stessi.
L’accenno allo Spirito suscita un’ultima considerazione: siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo! Paolo usa qui il verbo “comprare” sicuramente come sinonimo di un altro verbo, che indica il riscatto (redenzione) e siccome il riscatto avviene mediante la morte di Cristo, si può dire che a Lui la salvezza dell’umanità è costata un “caro prezzo” il prezzo del suo sangue. I credenti di conseguenza devono glorificare Dio ”nei loro corpi”, vivendo cioè in un profondo rapporto con Dio che coinvolge tutta intera la loro persona.
Per concludere si può dire che la risposta di Paolo alle tendenze lassiste dei corinzi mette in luce una concezione della persona umana in forza della quale la dimensione spirituale e quella fisica formano un’unità inseparabile. Per Paolo il corpo del credente non è una realtà separata dal resto della persona perchè anche il corpo un giorno entrerà nel regno di Dio, ma già fin d’ora esso è unito, mediante l’eucaristia, al corpo di Cristo, e quindi porta con sé il germe della risurrezione. Il sesso fa parte delle attività profonde della persona, e deve essere subordinato al rapporto che, mediante il battesimo, si è instaurato con Cristo.
In questo campo Paolo dimostra di essere un uomo del suo tempo, legato a una certa cultura e a una particolare visione dell’uomo e del mondo. Ma al di là di questo bisogna però riconoscere che ha ragione quando indica nella sessualità uno dei campi più importanti in cui si vive la fedeltà al vangelo.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.
Gv 1,35-42

Il Vangelo di Giovanni, ossia il quarto Vangelo, fu scritto in greco, ed è alquanto differente dai tre Vangeli sinottici che riportano racconti, miracoli, parole di Gesù fino a darcene un aspetto familiare che tutti conosciamo. Si presenta come il frutto della testimonianza del "discepolo che Gesù amava”, ma oggi molti studiosi fanno spesso riferimento ad una scuola giovannea nella quale sarebbe maturata la redazione del vangelo tra il 60 ed il 100 e delle lettere attribuite all'apostolo. E’ composto da 21 capitoli e come gli altri vangeli narra il ministero di Gesù. Anche se è notevolmente diverso dagli altri tre vangeli sinottici, sembra presupporre la conoscenza almeno del Vangelo di Marco, di cui riproduce talvolta espressioni particolari. Mentre i Vangeli sinottici sono più orientati sulla predicazione del Regno di Dio da parte di Gesù, il quarto vangelo approfondisce la questione dell'identità del Cristo, inserendo ampie parentesi teologiche.
Sin dal prologo l’Evangelista accenna alla testimonianza di Giovanni il Battista e all’esperienza fatta dai discepoli a contatto con Gesù. Descrive poi la testimonianza di Giovanni nel brano che segue immediatamente il prologo e subito dopo racconta l’esperienza dei primi tre discepoli che hanno incontrato Gesù.
All’inizio di questo brano l’evangelista riporta una nuova testimonianza di Giovanni in favore di Gesù. Questa seconda testimonianza, che ha luogo il giorno dopo, nello stesso posto, si distingue dalla precedente per alcuni dettagli. Mentre si suppone che la prima volta Giovanni parlasse alla folla di coloro che andavano a farsi battezzare, adesso Giovanni è solo con due discepoli. Gesù non va direttamente verso di lui, come era accaduto la volta precedente ma si trova, quasi casualmente, a passare di lì.
Giovanni lo “fissa intensamente” ! Questo sguardo fa pensare ad un sentimento particolarmente intenso nei confronti di Gesù e al tempo stesso è un segnale rivolto ai discepoli.
Il brano inizia riferendo che “Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio”. La testimonianza di Giovanni è veramente di poche parole: “Ecco l’agnello di Dio!”. Questa volta non si tratta più di spiegare chi è Gesù, ma di suggerire ai discepoli le conseguenze che devono trarre dalle indicazioni del maestro. In questa breve introduzione si vuole far comprendere che Giovanni non solo ha indicato Gesù alle folle, ma gli ha messo a disposizione i suoi discepoli.
I due discepoli di Giovanni, “sentendolo parlare così, seguirono Gesù”. Il verbo “seguire” è quello normalmente usato per indicare l’atteggiamento dei discepoli nei confronti del maestro. Il verbo all’aoristo indica una decisione definitiva, che i due non metteranno più in discussione. A prima vista sono loro che, indirizzati da Giovanni, prendono la decisione di mettersi al seguito di Gesù. Invece non è così: è Gesù che, quando si accorge che essi lo seguono, si rivolge a loro chiedendo: “Che cosa cercate?”. Essi sebbene lo seguano , danno l’impressione di essere ancora in cerca di qualcosa che non possiedono. È Gesù per primo che stabilisce con loro un rapporto personale. Alla domanda di Gesù rispondono con un’altra domanda: : “«Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Essi dimostrano così di sapere che Gesù è il vero Maestro (e l’evangelista lo sottolinea dando il termine in ebraico e traducendolo poi in greco) e sanno che quanto cercano può essere dato solo da lui.
La risposta di Gesù è molto significativa: “Venite e vedrete”. E’ Gesù che li invita ad andare da lui affinché possano “vedere”. In queste due parole è contenuto il senso profondo della loro vocazione. L’evangelista conclude bruscamente il dialogo dicendo che i due “Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio”.
È strano che l’evangelista, che sembra conoscere i particolari che possono venire solo da un testimone oculare, non riporti quello che Gesù ha detto a quelli che saranno i suoi primi discepoli. Ciò non deve stupire: quella conversazione conteneva in germe tutto quello che egli riferirà nel seguito del suo vangelo. Ora però l’evangelista non sembra tanto interessato a quello che Gesù ha detto, ma al fatto che i due hanno fatto una profonda esperienza personale di Lui. La sequela sta precisamente nel rapporto che si instaura tra maestro e discepolo, in forza del quale il secondo si unisce al primo e fa proprie la sua mentalità e le sue scelte, fino a formare una cosa sola con lui.
Solo a questo punto l’evangelista rivela l’identità dei primi due discepoli che “lo avevano seguito: Andrea, fratello di Simon Pietro”. Del suo compagno non si dice il nome, ma è corretto pensare che fosse il discepolo a cui è attribuito il quarto vangelo: di lui infatti non si dice mai il nome, ma si sottolinea il rapporto privilegiato che aveva con Gesù (“Il discepolo che Gesù amava”) che la tradizione lo identificherà con l’apostolo Giovanni.
Andrea “incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù”.
La definizione di Gesù come “Messia” contiene già un’esplicita professione di fede. È strano che in così poco tempo il discepolo abbia scoperto l’identità profonda di Gesù. Secondo il vangelo di Marco (il più antico) la dignità messianica di Gesù è stata nascosta durante la Sua vita pubblica ed è stata rivelata solo nel processo davanti al sommo sacerdote (v. Mc 14,61).
Secondo il quarto vangelo invece Gesù la manifesta subito all’inizio e i suoi la riconoscono senza difficoltà.
Andrea conduce poi Simone da Gesù, che “ Fissando lo sguardo su di lui, …disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro”. Sia lo sguardo che il cambiamento di nome indicano dunque la vocazione di Pietro e sottolineano il fatto che, tra i discepoli, egli sarà un punto di riferimento a quella roccia che è Dio, rappresentato ora da Gesù, la sua Parola fatta carne
E’ interessante notare che il gioco degli occhi, particolarmente importante nel Vangelo di Giovanni, percorre tutto il racconto ed è pieno di allusioni interiori e di rimandi spirituali. Il Battista “fissa lo sguardo su Gesù”, “Gesù si volta ed osserva”, i due che lo seguono “sono invitati a venire e vedere” ed essi “videro dove egli dimorava” e da ultimo Gesù “fissa lo sguardo su Pietro”, cambiandogli completamente l’esistenza.
Non si tratta quindi di un semplice intrecciarsi di sguardi, è un dialogo profondo che porta alla pienezza dell’incontro e della vocazione. L’incontro con Dio sconvolge sempre i piani modesti che l’uomo ha progettato, travolge le resistenze e coinvolge la vita in un impegno gioioso e totale.

 

*****

 

“Il Vangelo di questa seconda domenica del Tempo Ordinario presenta l’incontro di Gesù con i suoi primi discepoli. La scena si svolge presso il fiume Giordano, il giorno dopo il battesimo Gesù. È lo stesso Giovanni Battista a indicare a due di loro il Messia con queste parole: «Ecco l’agnello di Dio!» . E quei due, fidandosi della testimonianza del Battista, vanno dietro a Gesù. Lui se ne accorge e chiede: «Che cosa cercate?», e loro gli domandano: «Maestro, dove dimori?» .
Gesù non risponde: “Abito a Cafarnao o a Nazaret”, ma dice: «Venite e vedrete» . Non un biglietto da visita, ma l’invito a un incontro. I due lo seguono e quel pomeriggio rimangono con Lui. Non è difficile immaginarli seduti a farGli domande e soprattutto ad ascoltarLo, sentendo che il loro cuore si riscalda sempre più mentre il Maestro parla. Avvertono la bellezza di parole che rispondono alla loro speranza più grande. E all’improvviso scoprono che, mentre intorno si fa sera, in loro, nel loro cuore, esplode la luce che solo Dio può donare. Una cosa che attira l’attenzione: uno di loro, sessant’anni dopo, o forse di più, scrisse nel Vangelo: «Erano circa le quattro del pomeriggio» , scrisse l’ora. E questa è una cosa che ci fa pensare: ogni autentico incontro con Gesù rimane nella memoria viva, non si dimentica mai. Tanti incontri tu li dimentichi, ma l’incontro vero con Gesù rimane sempre. E questi, tanti anni dopo, si ricordavano anche l’ora, non avevano potuto dimenticare questo incontro così felice, così pieno, che aveva cambiato la loro vita. Poi, quando escono da questo incontro e ritornano dai loro fratelli, questa gioia, questa luce straripa dai loro cuori come un fiume in piena. Uno dei due, Andrea, dice al fratello Simone – che Gesù chiamerà Pietro quando lo incontrerà –: «Abbiamo trovato il Messia». Sono usciti sicuri che Gesù era il Messia, certi.
Fermiamoci un momento su questa esperienza dell’incontro con Cristo che chiama a stare con Lui. Ogni chiamata di Dio è un’iniziativa del Suo amore. Sempre è Lui che prende l’iniziativa, Lui ti chiama. Dio chiama alla vita, chiama alla fede, e chiama a uno stato particolare di vita: “Io voglio te qui”. La prima chiamata di Dio è quella alla vita, con la quale ci costituisce come persone; è una chiamata individuale, perché Dio non fa le cose in serie. Poi Dio chiama alla fede e a far parte della sua famiglia, come figli di Dio. Infine, Dio chiama a uno stato particolare di vita: a donare noi stessi nella via del matrimonio, in quella del sacerdozio o della vita consacrata. Sono modi diversi di realizzare il progetto di Dio, quello che Lui ha su ciascuno di noi, che è sempre un disegno d’amore. Dio chiama sempre. E la gioia più grande per ogni credente è rispondere a questa chiamata, offrire tutto sé stesso al servizio di Dio e dei fratelli.
Fratelli e sorelle, di fronte alla chiamata del Signore, che ci può giungere in mille modi anche attraverso persone, avvenimenti lieti e tristi, a volte il nostro atteggiamento può essere di rifiuto – “No… Ho paura… –, rifiuto perché essa ci sembra in contrasto con le nostre aspirazioni; e anche la paura, perché la riteniamo troppo impegnativa e scomoda: “Oh non ce la farò, meglio di no, meglio una vita più tranquilla… Dio là, io qua”. Ma la chiamata di Dio è amore, dobbiamo cercare di trovare l’amore che è dietro ogni chiamata, e si risponde ad essa solo con l’amore. Questo è il linguaggio: la risposta a una chiamata che viene dall’amore è solo l’amore. All’inizio c’è un incontro, anzi, c’è l’incontro con Gesù, che ci parla del Padre, ci fa conoscere il suo amore. E allora anche in noi sorge spontaneo il desiderio di comunicarlo alle persone che amiamo: “Ho incontrato l’Amore”, “ho incontrato il Messia”, “ho incontrato Dio”, “ho incontrato Gesù”, “ho trovato il senso della mia vita”. In una parola: “Ho trovato Dio”.
La Vergine Maria ci aiuti a fare della nostra vita un canto di lode a Dio, in risposta alla sua chiamata e nell’adempimento umile e gioioso della sua volontà. Ma ricordiamo questo: per ognuno di noi, nella vita, c’è stato un momento nel quale Dio si è fatto presente più fortemente, con una chiamata. Ricordiamola. Andiamo indietro a quel momento, perché la memoria di quel momento ci rinnovi sempre nell’incontro con Gesù.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 gennaio 2021

Pubblicato in Liturgia

Con questa prima Domenica di Avvento si apre il nuovo anno liturgico che nelle sue varie tappe sarà unito dalla lettura del Vangelo di Marco che vuole proporci un viaggio dello spirito nella storia e nel mistero di Gesù, passando dall’oscurità alla luce.
La Liturgia di questa domenica ci presenta: Nella prima lettura, il profeta Isaia, che davanti alla desolazione del peccato, dell’ingiustizia e delle miserie che toccano il popolo, implora l’intervento di Dio chiedendogli di non lasciare andare in rovina la sua opera, ma di liberarla dall’oppressione del male.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, scrivendo ai Corinzi, ringrazia Dio delle grazie ricevute dalla giovane comunità di Corinto, ed è certo che lo stesso Dio, che ha arricchito i corinzi di tanti doni, li aiuterà ad essere saldi e irreprensibili sino alla fine.
Nel Vangelo di Marco, Gesù ci invita a vegliare, ma la nostra attesa non deve divenire un’attesa di paura perchè essa riguarda non tanto l’incontro con il Signore, ma l’eventualità di non trovarsi preparati quando questo incontro si realizzerà. La vigilanza deve avere come base la necessità di vivere quotidianamente secondo i valori del Vangelo, annunziati da Gesù.
L’Avvento è il tempo della vigilanza, Vegliare in obbedienza al pressante invito di Gesù comporta non cedere alla stanchezza e stare all’erta per non lasciarsi ingannare dalle seduzioni del mondo.

Dal libro del profeta Isaia
Tu, Signore, sei nostro padre,
da sempre ti chiami nostro redentore.
Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie
e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?
Ritorna per amore dei tuoi servi,
per amore delle tribù, tua eredità.
Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
Davanti a te sussulterebbero i monti.
Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo,
tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti.
Mai si udì parlare da tempi lontani,
orecchio non ha sentito, occhio non ha visto
che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui.
Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia
e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato
contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli.
Siamo divenuti tutti come una cosa impura,
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia;
tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
Nessuno invocava il tuo nome,
nessuno si risvegliava per stringersi a te;
perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
ci avevi messo in balìa della nostra iniquità.
Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci plasma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.
Is 63,16-17.19; 64,2-7

La terza parte del libro di Isaia (capitoli 56-66) contiene una raccolta di oracoli che, per lo stile e lo sfondo storico, sono attribuiti ad un anonimo profeta del postesilio, al quale perciò è stato dato il nome di Trito (Terzo) Isaia. Alcuni hanno ritenuto che egli fosse un discepolo del Deuteroisaia, mentre altri hanno pensato a un profeta vissuto più di un secolo dopo di lui. Il profeta si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia a Gerusalemme; il suo centro di interesse non è più il nuovo esodo, ma il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da agenti esterni, ma dalla infedeltà del popolo.
Il brano liturgico, che è una commovente e fiduciosa preghiera, una delle più belle dell’Antico Testamento, inizia con un’accorata invocazione:
“Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità”.
Il profeta si rivolge direttamente a Dio con accenti di grande intensità facendo proprio il grido di tutta la comunità. Dio qui viene invocato come “Padre” e “redentore” in ebraico “go’el”. Il termine “go’el” sta ad indicare il parente prossimo che interviene in soccorso di chi si trova in una situazione di grande pericolo o necessità. (Sia nel momento dell’uscita dall’Egitto, sia in quello del ritorno dall’esilio JHWH ha assunto nei confronti di Israele il ruolo del go’el, liberandolo e acquistandolo per sé con le sue azioni prodigiose).
Il profeta nello stesso tempo rivolge a Dio un velato rimprovero: se Dio è padre e redentore, perché lascia che il suo popolo cammini lontano dalle sue vie? Perché lascia che il cuore di tutti si indurisca così da non temere più Lui, che è il padre e il redentore? E’ messa in evidenza con una intensità crescente la disperazione di Israele: non solo è stato distrutto il suo santuario, distrutto dai babilonesi nel 587, ma Israele ha la sensazione di essere stato abbandonato completamente da Dio.
Infine torna la richiesta pressante e accorata affinché Dio intervenga direttamente dall'alto:
“ Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti”.
I cieli chiusi sono un’immagine per indicare la mancanza di comunicazione tra Dio e il Suo popolo. La richiesta di un nuovo intervento di Dio evoca le immagini tipiche della teofania, quando DIO era disceso sul Sinai e il monte era stato scosso dal terremoto (Es 19,18).
“Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo,tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti”. La preghiera prosegue con il ricordo degli interventi prodigiosi di Dio in favore di Israele. Di fronte alla manifestazione di DIO le nazioni hanno tremato perché Egli compiva cose terribili e inaudite, e commenta: “Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui”.
Anche qui si può notare un riferimento alla tradizione del Sinai dove viene affermata l’unicità di DIO: egli è l’unico che ha dimostrato una potenza così grande da liberare Israele (Es 20,3; Dt 6,4).
Da queste esperienze viene ricavato un principio generale circa il comportamento di Dio:
“Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie”
Poi il profeta confessa a nome del popolo: “Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento”.
La preghiera non termina però con espressioni così disperate e alla fine ritorna il sentimento di fiducia: “Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani”.
Come si era aperta, così la preghiera termina con l’attribuzione a DIO della qualifica di “Padre” (Avinu Malkeinu). Questa gli compete perché è stato Lui a plasmare Israele, perciò il popolo è per Lui come l’argilla su cui è intervenuto per dargli la vita. Su questo rapporto originario e indissolubile si basa la fiducia del popolo in un avvenire migliore. Ma ciò che interessa maggiormente il profeta è il ristabilimento della comunione con Dio. Le sventure materiali sono dolorose non in se stesse, ma perché sono viste come il segno della lontananza di Dio. Se Dio dà un segno della Sua presenza in mezzo al popolo, allora anche le prove non saranno più così insostenibili.
Dio in Gesù Cristo ha totalmente infranto il suo splendido isolamento, “è disceso” in mezzo a noi “ è andato incontro a quanti si ricordano delle sue vie”, ha svelato il Suo volto di “Padre” e di “redentore”. La rivelazione e l’incarnazione sono la testimonianza più reale di questo movimento di Dio senza il quale l’uomo resterebbe solitario in questo universo indifferente alle sue speranze, ai dolori, ai suoi misfatti.

Salmo 79 (80) Signore, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi.
Tu, pastore d’Israele, ascolta,
seduto sui cherubini, risplendi.
Risveglia la tua potenza
e vieni a salvarci.

Dio degli eserciti, ritorna!
Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna,
proteggi quello che la tua destra ha piantato,
il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.

Sia la tua mano sull’uomo della tua destra,
sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Da te mai più ci allontaneremo,
facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.

Il salmo venne scritto quando ancora l’arca non era distrutta, il che avvenne con la distruzione di Gerusalemme. Probabilmente è stato scritto dopo la presa di Samaria da parte dell’Assiro Sargon (721), e dopo che Gerusalemme, assediata dall’Assiro Sennacherib dopo la devastazione della Giudea, rimase indenne (701). Questo evento fece risaltare la potenza di Dio nel suo tempio di Gerusalemme, e rese sensibile la Samaria verso Gerusalemme, cosa che permetterà l’azione riformista di Giosia (640-609) anche in territorio Samaritano.
Il salmista è un pio Israelita delle tribù del nord (Samaria) che desidera che le tribù di Efraim, Beniamino e Manasse siano benedette da Dio, la cui gloria sta sui cherubini dell’arca, posta nel tempio di Gerusalemme; desidera la fine dello scisma samaritano: “Seduto sui cherubini, risplendi davanti a Efraim, Beniamino e Manasse. Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci”.
A Dio, che guida Giuseppe “come un gregge”, il salmista chiede di manifestare nuovamente quella potenza che esercitò quando fece uscire “Giuseppe” dall’Egitto; intendendo per Giuseppe tutto Israele, finito in Egitto proprio a partire da lui (Gn 37,38).
Egli attraverso la bella immagine della vigna rievoca la storia di Israele: “Hai sradicato un vite dall’Egitto…”. Questa vite curata da lui ha esteso i suoi rami fino al Mediterraneo e fino al Libano: “La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli”. “Il fiume”, è l’Eufrate. Esso era lontano dalla Terra Promessa, ma indica fin dove giungeva l’influenza di Israele.
Il salmista è stordito di fronte alle sventure che si sono abbattute su Israele: “Signore, Dio degli eserciti, fino a quando fremerai di sdegno contro le preghiere del tuo popolo?”; “Perché hai aperto brecce nella sua città e ne fa vendemmia ogni passante ?”, ma non desiste dalla preghiera e invoca Dio, “Dio degli eserciti”, perché forte in battaglia per difendere i suo popolo: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell'uomo che per te hai reso forte”.
Il salmista riconosce la dinastia di Davide e ha la speranza che il re di Gerusalemme saprà risollevare le sorti di Israele, costui al presente era Ezechia (716-687): “Sia la tua mano sull’uomo della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte”, ma nel futuro sarà il Cristo. Quell’uomo reso forte è ora ogni pontefice, ogni vescovo, ogni sacerdote, ogni diacono, ogni fedele, che tutti sono uno, nell’uno che è la Chiesa, corpo mistico di Cristo, e che si adoperano per portare nel mondo la vera pace, cioè Cristo.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!
Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza.
La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!
1 Cor 1,3-9

Paolo scrisse la prima lettera ai Corinzi durante la sua permanenza ad Efeso negli anni 54-55. E’ una delle più lunghe scritte dall’apostolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli. Paolo si era deciso a scriverla dopo aver ricevuto notizie sulla comunità da parte di conoscenti della famiglia di Cloe e dopo che gli era anche pervenuta una lettera dagli stessi Corinzi. Corinto era un’importante grande città, (famosa per il suo porto), centro di cultura greca, dove si affrontavano correnti di pensiero e di religione molto differenti tra loro. Il contatto della fede cristiana con questa capitale del paganesimo, anche celebre per il rilassamento dei costumi, poneva nei neofiti numerosi e delicati problemi. Pur essendo passati solo pochi anni dalla sua fondazione, la comunità di Corinto si era dimostrata molto vivace e nello stesso tempo anche molto problematica.
In questo brano, in cui viene riportato l’inizio della lettera, Paolo comincia con il saluto: “grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!” in cui sono concentrati due stili, quello tipico del mondo ebraico “shalôm” (pace) e del mondo greco “chaire” (salve) poi continua con il rendimento di grazie:. “Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza.”
In questa frase Paolo, riprendendo uno dei termini dell’augurio appena fatto, ringrazia Dio per aver conferito ai corinzi la sua “grazia” in forza della quale possono entrare in un rapporto personale e vissuto con Lui; Dio l’ha data loro per mezzo del Signore Gesù Cristo, avendoli inseriti in Lui come membra di un corpo. Questa grazia porta con sé non solo la salvezza, ma una ricchezza di doni che riguardano sia la “parola” che la “conoscenza”.
Poi Paolo continua esprimendo l’altro motivo di ringraziamento: “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”.
Tra i cristiani di Corinto si è molto rafforzata la “testimonianza di Cristo” ossia il Vangelo di Cristo, testimoniato dall’apostolo, ha messo radici profonde tra i corinzi. Di conseguenza essi non mancano ”di nessun carisma”, cioè di nessuno dei doni che lo Spirito conferisce a ciascuno per l’utilità comune . Al tema dei carismi l’apostolo dedicherà ben tre capitoli della sua lettera (cc. 12-14).
Ciò che i corinzi hanno già ricevuto lascia ben sperare anche per il futuro: “Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo”. Paolo è dunque certo che lo stesso Dio, che ha arricchito i corinzi di tanti doni, li aiuterà ad essere saldi sino alla fine e irreprensibili “nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo”: con queste parole egli identifica il “giorno del Signore” annunziato dai profeti con quello della manifestazione gloriosa di Gesù Cristo, alla quale i credenti si preparano fin d’ora mediante una vita santa.
In questa prospettiva la fine non suscita più sentimenti di paura, ma di fiducia. Con queste parole Paolo vuole rassicurare i suoi corrispondenti, facendo loro capire che con i forti richiami che farà , non intende certo dubitare dell’autenticità del loro cammino di fede.
L’apostolo conclude il ringraziamento affermando: “Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!”
L’affermazione “degno di fede è Dio”, è uno dei pilastri su cui si poggia la fede biblica! È vero che l’uomo può allontanarsi da Dio, attirando su di sé sofferenze e insuccessi, ma nello stesso tempo Dio non può venire meno alle Sue promesse. Per il fatto che li ha “chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo,” Egli non li potrà mai abbandonare a se stessi, perciò se anche in qualcosa hanno sbagliato, non per questo devono sentirsi abbandonati da Dio.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
Mc 13, 33-37

Il Vangelo di Marco, che ci accompagnerà nella varie tappe di questo nuovo anno liturgico, è il primo dei Vangelo scritti, composto tra il 60 e il 70. E’ il più corto dei vangeli, (ha circa 11.230 parole) e a differenza di Matteo e Luca, non riporta alcuna informazione sulla vita di Gesù prima dell’inizio del Suo ministero; non vi è riportato neanche un accenno alla natività, né si fa menzione della genealogia di Gesù. Marco più che scrivere una biografia di Gesù, ha voluto attirare l’attenzione di chi legge il suo Vangelo sul mistero della persona del Cristo. Non per nulla tutto il Vangelo è sospeso tra due proclamazioni, quella iniziale del battesimo in cui la voce dal cielo presenta Gesù come il Figlio prediletto in cui il Padre di compiace e quella finale in cui il primo convertito pagano, afferma «Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!»
Questo brano, che è parallelo al Vangelo di Matteo, fa parte del così detto discorso escatologico. Gesù aveva fatto accenno prima al fico per indicare la necessità di saper discernere la venuta degli eventi finali, (vv. 28-29) sottolineando che essi sono imminenti, ma si attueranno secondo tempi che non sono noti a nessuno, neppure al Figlio. Gesù aveva concluso, nei versetti precedenti non riportati dal brano liturgico, invitando a stare attenti e vigilare per mantenersi sempre pronti.
Per far comprendere quanto sia importante il messaggio, suggella quanto ha detto con le parole: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. Mc 13,31
Per sottolineare ancora la necessità dell’attesa vigilante, Gesù in questo brano fa ricorso a una similitudine: “È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.”
E una piccola parabola che ricorda la parabola dei talenti di Matteo (Mt 25,14-15) o delle monete d'oro in Luca (Lc 19,12-13), ma con un diverso intento. Poiché il padrone ha dato un compito preciso a ciascun servo per cui ognuno deve stare attento per poter ricevere un giudizio positivo al suo ritorno. L'accenno al portiere ci riporta il verbo vegliare, parola chiave del nostro piccolo brano.
Dopo questa similitudine, Gesù conclude: ”Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Questo versetto riporta le diverse veglie in cui i romani dividevano la notte, corrispondenti ai turni di guardia; il padrone di casa nel contesto di Marco potrebbe identificarsi con il Figlio dell'uomo, e il suo ritorno con il tempo del giudizio finale. Anche l'affermazione finale ”non vi trovi addormentati” ha un significativo rimando al racconto della passione (Mc 14,37.40.41) dove i discepoli si addormentano.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”
Tutto il capitolo, ma in particolare questi versetti finali, hanno l'intento di mantenere viva l'aspettativa del ritorno glorioso di Cristo, ma nello stesso tempo di frenare eccessive fantasie riguardo al come accadrà tale evento e al tempo in cui avverrà.
Gesù ci invita a vegliare, ma la nostra attesa non deve divenire un’attesa di paura perché essa riguarda non tanto l’incontro con il Signore, ma l’eventualità di trovarsi impreparati quando questo incontro si realizzerà. La vigilanza, quindi, ha per oggetto la necessità di vivere quotidianamente secondo i valori del Vangelo, annunziati da Gesù.
Sebbene la piena realizzazione di tutto questo avrà luogo solo alla fine dei tempi, essa è già presente nel cuore di ogni credente la cui vita deve svolgersi nella dimensione del “già” e del “non ancora”: quello che non si è ancora attuato nella sua pienezza, è presente già ora come risultato delle nostre scelte.

*****

“Oggi, prima domenica di Avvento, comincia un nuovo anno liturgico. In esso la Chiesa scandisce il corso del tempo con la celebrazione dei principali eventi della vita di Gesù e della storia della salvezza. Così facendo, come Madre, illumina il cammino della nostra esistenza, ci sostiene nelle occupazioni quotidiane e ci orienta verso l’incontro finale con Cristo. L’odierna liturgia ci invita a vivere il primo “tempo forte” che è questo dell’Avvento, il primo dell’anno liturgico, l’Avvento, che ci prepara al Natale, e per questa preparazione è un tempo di attesa, è un tempo di speranza. Attesa e speranza.
San Paolo indica l’oggetto dell’attesa. Qual è? La «manifestazione del Signore». L’Apostolo invita i cristiani di Corinto, e anche noi, a concentrare l’attenzione sull’incontro con la persona di Gesù. Per un cristiano la cosa più importante è l’incontro continuo con il Signore, stare con il Signore. E così, abituati a stare con il Signore della vita, ci prepariamo all’incontro, a stare con il Signore nell’eternità. E questo incontro definitivo verrà alla fine del mondo. Ma il Signore viene ogni giorno, perché, con la sua grazia, possiamo compiere il bene nella nostra vita e in quella degli altri. Il nostro Dio è un Dio-che-viene - non dimenticatevi questo: Dio è un Dio che viene, continuamente viene - : Egli non delude la nostra attesa! Mai delude il Signore. Ci farà aspettare forse, ci farà aspettare qualche momento nel buio per far maturare la nostra speranza, ma mai delude. Il Signore sempre viene, sempre è accanto a noi. Alle volte non si fa vedere, ma sempre viene. È venuto in un preciso momento storico e si è fatto uomo per prendere su di sé i nostri peccati – la festività del Natale commemora questa prima venuta di Gesù nel momento storico - ; verrà alla fine dei tempi come giudice universale; e viene anche una terza volta, in una terza modalità: viene ogni giorno a visitare il suo popolo, a visitare ogni uomo e donna che lo accoglie nella Parola, nei Sacramenti, nei fratelli e nelle sorelle. Gesù, ci dice la Bibbia, è alla porta e bussa. Ogni giorno. È alla porta del nostro cuore. Bussa. Tu sai ascoltare il Signore che bussa, che è venuto oggi per visitarti, che bussa al tuo cuore con una inquietudine, con un’idea, con un’ispirazione? È venuto a Betlemme, verrà alla fine del mondo, ma ogni giorno viene da noi. State attenti, guardate cosa sentite nel cuore quando il Signore bussa.
Sappiamo bene che la vita è fatta di alti e bassi, di luci e ombre. Ognuno di noi sperimenta momenti di delusione, di insuccesso e di smarrimento. Inoltre, la situazione che stiamo vivendo, segnata dalla pandemia, genera in molti preoccupazione, paura e sconforto; si corre il rischio di cadere nel pessimismo, il rischio di cadere in quella chiusura e nell’apatia. Come dobbiamo reagire di fronte a tutto ciò? Ce lo suggerisce il Salmo di oggi: «L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo. È in lui che gioisce il nostro cuore» (Sal 32,20-21). Cioè l’anima in attesa, un’attesa fiduciosa del Signore fa trovare conforto e coraggio nei momenti bui dell’esistenza. E da cosa nasce questo coraggio e questa scommessa fiduciosa? Da dove nasce? Nasce dalla speranza. E la speranza non delude, quella virtù che ci porta avanti guardando all’incontro con il Signore.
L’Avvento è un incessante richiamo alla speranza: ci ricorda che Dio è presente nella storia per condurla al suo fine ultimo per condurla alla sua pienezza, che è il Signore, il Signore Gesù Cristo. Dio è presente nella storia dell’umanità, è il «Dio con noi», Dio non è lontano, sempre è con noi, al punto che tante volte bussa alle porte del nostro cuore. Dio cammina al nostro fianco per sostenerci. Il Signore non ci abbandona; ci accompagna nelle nostre vicende esistenziali per aiutarci a scoprire il senso del cammino, il significato del quotidiano, per infonderci coraggio nelle prove e nel dolore. In mezzo alle tempeste della vita, Dio ci tende sempre la mano e ci libera dalle minacce. Questo è bello! Nel libro del Deuteronomio c’è un passo molto bello, che il profeta dice al popolo: “Pensate, quale popolo ha i suoi dèi vicini a sé come tu hai vicino me?”. Nessuno, soltanto noi abbiamo questa grazia di avere Dio vicino a noi. Noi attendiamo Dio, speriamo che si manifesti, ma anche Lui spera che noi ci manifestiamo a Lui!
Maria Santissima, donna dell’attesa, accompagni i nostri passi in questo nuovo anno liturgico che iniziamo, e ci aiuti a realizzare il compito dei discepoli di Gesù, indicato dall’apostolo Pietro. E qual è questo compito? Rendere ragione della speranza che è in noi (cfr1 Pt 3,15).”
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 29 novembre 2020

Pubblicato in Liturgia
Sabato, 11 Novembre 2023 21:26

XXXII Domenica - Anno A - 12 novembre 2023

In queste ultime settimane dell’Anno liturgico, le letture che la Liturgia propone ci invitano alla vigilanza, ad un continuo senso di attesa, per preparare il nostri cuori all’incontro con il Signore.
La prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, vediamo che proprio la Sapienza viene personificata nelle vesti di una figura femminile quanto mai affascinante, che i giusti cercano, amano e infine la trovano. Solo Dio la può donare, ma di questo dono bisogna esserne degni.
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera ai Tessalonicesi, che ritenevano imminente l’ultima venuta di Cristo ed erano perciò preoccupati per i fratelli defunti, rasserena gli animi, riducendo l’importanza dell’evento finale per presentarlo come il coronamento di una salvezza che già si attua nella vita e nella morte dei credenti.
Nel Vangelo di Matto, troviamo la celebre parabola delle vergini sagge e stolte.
E’ facile comprendere che questo racconto ci invita a stare svegli nello spirito, e sempre pronti al momento in cui il Signore verrà. La vigilanza, l’attesa operosa, la premura carica d’amore, l’impegno personale spalancano la porta del banchetto nuziale con il Signore. Come pensiero costante per il nostro cammino, anche in questo periodo così oscuro che stiamo vivendo, potremo ricordare ciò che la grande santa Teresa d’Avila diceva: Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta!

Dal libro della Sapienza
La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano.
Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta.
Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni; poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei, appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro incontro.
Sap 6,12-16

Il libro della Sapienza si presenta come opera del re Salomone, ma è un evidente espediente letterario, perché è stato scritto da un pio giudeo di lingua greca, sicuro conoscitore del mondo ellenistico, che viveva in Alessandria d’Egitto tra il 120-80 a.C.
E’ il più recente dei libri dell’Antico Testamento e il suo autore si rivolge ai suoi correligionari che vivevano in ambiente greco, per convincerli della superiorità della sapienza ebraica, ispirata da Dio e concretamente espressa nella Legge che governa il popolo eletto, sulla filosofia e la vita pagana.
Nelle sue grandi linee, il libro espone le vie della sapienza opposte alla via degli empi, la sapienza in se stessa come realtà divina, le opere della sapienza divina nella storia di Israele.
In quest’opera, la dottrina biblica sulla sapienza raggiunge gli ultimi sviluppi ed è come il sintomo dell’insegnamento del Nuovo Testamento sulla grazia; a sua volta il Nuovo Testamento aiuta a capire la dottrina dell’antico sulla sapienza.
La speranza beata nell’aldilà è espressa con rara chiarezza, illuminando il problema dell’umano destino. E’ l’ultimo passo verso la rivelazione cristiana: Cristo, sapienza di Dio incarnata tra gli uomini, è la fonte della vita e della felicità eterna.
Questo spiega l’influsso che il libro ha esercitato nella cristologia di Giovanni e di Paolo…
In questo brano l’autore definisce la sapienza splendida e non sfiorisce e che si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano.
Qui il termine “sapienza” indica non solo una dottrina, ma la verità divina, dono di Dio il quale si lascia trovare da chi lo cerca, anzi “Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta….
Nell’A.T. la Sapienza non è possibile concepirla distinta da Dio. Solo nel N.T. San Paolo definisce una persona (il Crocifisso) “Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,24)

O Dio, tu sei il mio Dio,
all’aurora io ti cerco,
di te ha sete l'anima mia,
a te anela la mia carne
come terra deserta, arida, senz’acqua.

Così nel santuario ti ho cercato,
per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
Poiché la tua grazia vale più della vita,
le mie labbra diranno la tua lode.

Nel mio giaciglio di te mi ricordo
e penso a te nelle veglie notturne,
a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.

Il salmo presenta un pio giudeo, che fin dal primissimo mattino si pone in orazione. Egli cerca Dio, perché gli si è rivelato a lui per mezzo del dono della fede e delle Scritture, e ora cerca l’unione con lui, l’intima conoscenza di lui, in un “cercare” in cui il “trovare” spinge ancor più a cercare.
L’orante è presentato come un assetato in mezzo ad un deserto. Ma l’assetato del salmo sa dov’è la fonte, non è disorientato; sa che la fonte della pace e della gioia è Dio: Dio stesso è questa fonte.
L’orante ha un punto di riferimento: il tempio; e così vi si reca per trarre ristoro nella contemplazione Dio: “Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria”. L’orante cerca Dio, ama Dio, non tanto i benefici di Dio. Ama lui, e lo dichiara poiché dice che la comunione con lui (“il tuo amore") “vale più della vita”. Questa dolce consapevolezza è la molla della sua lode: “Le mie labbra canteranno la tua lode”; “Così ti benedirò per tutta la vita”. Egli, ritornato dal tempio alla sua dimora, probabilmente distante da Gerusalemme, ha come pensiero dolce e vivo Dio, e così “nelle veglie notturne”, quando il sonno è assente, non si agita, ma pensa a Dio, cerca Dio.
Ha tanti nemici che cercano di ucciderlo, che probabilmente sono con bande di predoni Idumei (Cf. Ps 58), ma ha la ferma speranza che i nemici non avranno vittoria e che il re trionferà e insieme a lui chi gli è fedele: “Chi giura per lui” (Cf. 1Sam 17,55; 25,2; 2Sam 11,11; 15,21; ecc.). Gli ultimi versetti, per le loro dure espressioni, non entrano nella recitazione cristiana.
Commento tratto da “Perfetta Leltizia”

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell'ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.
Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti.
Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore.
Confortatevi dunque a vicenda con queste parole
1Ts 4,13-18

Nella sua lettera ai Tessalonicesi Paolo nella prima parte aveva fatto un lungo ringraziamento, nella seconda invece fa una serie di raccomandazioni per rispondere a richieste particolari dei tessalonicesi..
Nel brano liturgico viene riportata la terza raccomandazione con la quale l’Apostolo dà una risposta a un problema specifico della comunità, quello della sorte di coloro che sono morti prima del ritorno del Signore.
Il problema a cui Paolo risponde non è chiaro, anche se lo si può comprendere abbastanza bene dalle sue parole: egli infatti aveva annunziato l'imminente ritorno di Gesù come giudice escatologico. Per i tessalonicesi era quindi logico pensare che sarebbero stati sollevati dall'esperienza della morte per entrare direttamente nel regno glorioso di Dio. Ora invece il ritorno del Signore non si era ancora attuato mentre alcuni membri della comunità erano morti. Questo fatto aveva determinato in loro un certo malessere: che fine avevano fatto i loro fratelli defunti? Sarebbero stati esclusi per sempre dalla salvezza?
Si potrebbe pensare che questo disagio nascesse dal fatto che l’apostolo non aveva ancora detto nulla circa la risurrezione finale dei credenti; siccome ciò è improbabile, potrebbe anche darsi che i dubbi dei tessalonicesi derivassero dalla difficoltà, tipica del mondo greco, di capire e di accettare la dottrina della risurrezione finale dei morti. Comunque sia, le prime morti verificatesi dopo l’evangelizzazione di Tessalonica suscitavano un doloroso problema a cui Paolo non poteva non rispondere.
Come risposta ai dubbi espressi dai tessalonicesi, Paolo chiarisce il suo insegnamento:” Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell'ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza.”. La speranza, di cui ha già parlato all’inizio in relazione con la fede e l’amore (V.1,3) è la virtù che permette al credente di attendere l’intervento finale di Dio in questo mondo e di passare indenne attraverso le tribolazioni della vita.
Per dare fondamento alla speranza messa alla prova dei tessalonicesi, Paolo richiama anzitutto l’evento su cui si fonda la loro fede: ” Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto”. È questo il centro della professione di fede che i tessalonicesi stessi avevano diffuso nella loro città circa l’insegnamento ricevuto da Paolo. Da questo principio si ricava la conseguenza “così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.
A questo punto, rifacendosi a una “parola del Signore”, Paolo dichiara: “noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti. ”.
Alla sua seconda venuta il Signore troverà alcune persone ancora in vita, ma questo fatto non rappresenterà per loro un privilegio. Paolo convalida poi questa affermazione con una descrizione di ciò che avverrà alla fine: «il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo». Queste immagini erano note nel mondo culturale giudaico dell’epoca di Paolo: non è infatti difficile trovare mescolate nell’apocalittica giudaica e cristiana allusioni al comando di Dio, alla voce dell’arcangelo (Ap 5,2; 7,2), al suono della tromba (V.Es 19,13.16.19; Ap 1,10; 4,1 ecc.) e alla venuta del Figlio dell’uomo (V. Dn 7,13).
Quando avrà luogo la venuta del Signore, “prima risorgeranno i morti in Cristo”, cioè i defunti che, avendo creduto in Cristo durante la loro vita, sono diventati partecipi anche della Sua morte e resurrezione(V. Rm 6,4). Dopo di ciò anche “quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore..”
È significativo che l’apostolo, designando coloro che saranno ancora in vita al momento della seconda venuta del Signore, comprende tra essi anche se stesso.
Paolo qui è dunque convinto che la fine del mondo avrà luogo nel corso della sua generazione. Egli immagina il termine della vita terrena per coloro che saranno in vita alla venuta del Signore alla luce dei “rapimenti in cielo” di cui si parla nel giudaismo per esempio a proposito di Elia (V.2Re 2,11; 1Mac 2,58) . Questo rapimento avrà lo scopo di rendere possibile l’incontro con il Signore. La salvezza raggiungerà il suo culmine quando tutti i giusti saranno ammessi alla piena comunione con Lui e con il Padre. (Secondo Tertulliano , i morti, resuscitando, risponderanno per primi al segnale. Essi saranno raggiunti dai sopravvissuti e tutti insieme saranno condotti all’incontro col Signore, poi lo accompagneranno al giudizio che inaugura il Suo regno senza fine. Importante è il tratto finale: e così per sempre saremo con il Signore.
Per questo Paolo conclude: Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” per rasserenare gli animi dei tessalonicesi, riducendo l’importanza dell’evento finale per presentarlo come il coronamento di una salvezza che già si attua nella vita e nella morte dei credenti.
L’Apostolo ha potuto valorizzare così il tempo dell’attesa, dando spazio alla ricerca della santità, all’amore fraterno e alla fondazione di nuove comunità. Esortando poi i credenti a vivere con il lavoro delle proprie mani , egli ha dato importanza all’impegno per migliorare l’ambiente in cui viviamo, mostrando che una vita oziosa non si addice a una visione cristiana del mondo .

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”.
Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa.
Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”.
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora.“
Mt 25, 1-13


Matteo nel fare il resoconto dell’ultima settimana di Gesù prima della sua passione, dopo aver riportato le parabole riguardanti la gravità dell’ora, e il il discorso escatologico, ora riporta una parabola, quella delle dieci vergini , riguardante la vigilanza.
Il brano inizia con la solita breve introduzione, in cui si dice che “Il regno dei cieli sarà simile ….” poi c’è la descrizione della situazione: “dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi.
Il tempo passa e improvvisamente è annunziata la venuta dello sposo: “Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. A questo punto viene alla luce la differenza tra i due gruppi di vergini: “Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.”
Anche se le usanze nuziali del tempo di Gesù non sono molto note, ciò non impedisce l’interpretazione della parabola. Sappiamo dagli esperti che secondo le usanze in cui si svolgevano le nozze nella Palestina del I secolo d.C., nell’ultimo giorno dei festeggiamenti, al tramonto, il fidanzato si recava con gli amici alla residenza della fidanzata che attendeva il suo arrivo in compagnia delle amiche. Con l’arrivo del corteo dello sposo, si costituiva un’unica comitiva verso la casa dello sposo dove si sarebbe celebrato il matrimonio e consumato il banchetto nuziale.. Ma in questo racconto il ritardo stranamente si allunga; il sonno e l’eccitazione impediscono ad alcune ragazze, amiche della sposa, di misurare l’olio necessario per il corteo finale. Inizia così l’atmosfera di tensione che appare nella parabola: corsa nella notte per trovare una bottega aperta, echi del corteo dello sposo che ormai si avvicina e progressivamente si allontana, e la porta del banchetto si chiude, cosi quando “ più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”, lo sposo con accento ostile e sospetto risponde: “In verità io vi dico: non vi conosco”.
Le vergini stolte perciò non possono partecipare al banchetto nuziale. L'occasione di una festa si è trasformata per loro in una situazione di umiliazione e di sconforto.
Lo sposo richiama subito la figura del Cristo giudice, le vergini simboleggiano i discepoli di Gesù, l'olio sembra che in Matteo si riferisca alla pratica delle opere buone, che presuppone una fede perseverante nella Parola. La discriminazione tra i due gruppi delle vergini esprime il diverso comportamento dei cristiani in attesa della parusia, uno vigile e operoso, l'altro ozioso. Il messaggio centrale della parabola viene sintetizzato nella conclusione: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”
E’ facile comprendere che con questo racconto, Gesù, nel Vangelo di Matteo, ci invita a stare svegli nello spirito, e sempre pronti al momento in cui il Signore verrà.
E’ un invito “a vivere nell’amore”, allo scopo di essere degni di raggiungere la pienezza del Regno, quando il Signore ci chiamerà a sè. L’importante, per noi, è avere la lampada accesa, quindi, l’olio dello Spirito non deve mai mancare. Ricordiamoci che solo l'amore, di cui Gesù parla, quando dice “come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34) ci dà la misura del nostro essere cristiani.

*****

“Il brano del Vangelo di questa domenica ci invita a prolungare la riflessione sulla vita eterna, iniziata in occasione della Festa di Tutti i Santi e della Commemorazione dei fedeli defunti. Gesù narra la parabola delle dieci vergini invitate a una festa nuziale, simbolo del Regno dei cieli.
Ai tempi di Gesù c’era la consuetudine che le nozze si celebrassero di notte; pertanto il corteo degli invitati doveva procedere con le lampade accese. Alcune damigelle sono stolte: prendono le lampade ma non prendono con sé l’olio; quelle sagge, invece, assieme alle lampade prendono anche dell’olio. Lo sposo tarda, tarda a venire, e tutte si assopiscono. Quando una voce avverte che lo sposo sta per arrivare, le stolte, in quel momento, si accorgono di non avere olio per le loro lampade; lo chiedono alle sagge, ma queste rispondono che non possono darlo, perché non basterebbe per tutte. Mentre le stolte vanno a comprare l’olio, arriva lo sposo. Le ragazze sagge entrano con lui nella sala del banchetto, e la porta viene chiusa. Le altre arrivano troppo tardi e vengono respinte.
È chiaro che con questa parabola, Gesù ci vuole dire che dobbiamo essere preparati all’incontro con Lui. Non solo all’incontro finale, ma anche ai piccoli e grandi incontri di ogni giorno in vista di quell’incontro, per il quale non basta la lampada della fede, occorre anche l’olio della carità e delle opere buone. La fede che ci unisce veramente a Gesù è quella, come dice l’apostolo Paolo, «che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). È ciò che viene rappresentato dall’atteggiamento delle ragazze sagge. Essere saggi e prudenti significa non aspettare l’ultimo momento per corrispondere alla grazia di Dio, ma farlo attivamente da subito, cominciare da adesso. “Io… sì, poi più avanti mi convertirò…” – “Convertiti oggi! Cambia vita oggi!” – “Sì, sì… domani”. E lo stesso dice domani, e così mai arriverà. Oggi! Se vogliamo essere pronti per l’ultimo incontro con il Signore, dobbiamo sin d’ora cooperare con Lui e compiere azioni buone ispirate al suo amore.
Noi sappiamo che capita, purtroppo, di dimenticare la meta della nostra vita, cioè l’appuntamento definitivo con Dio, smarrendo così il senso dell’attesa e assolutizzando il presente. Quando uno assolutizza il presente, guarda soltanto il presente, perde il senso dell’attesa, che è tanto bello, e tanto necessario, e anche ci butta fuori dalle contraddizioni del momento. Questo atteggiamento – quando si perde il senso dell’attesa – preclude ogni prospettiva sull’al di là: si fa tutto come se non si dovesse mai partire per l’altra vita. E allora ci si preoccupa soltanto di possedere, di emergere, di sistemarsi… E sempre di più. Se ci lasciamo guidare da ciò che ci appare più attraente, da quello che mi piace, dalla ricerca dei nostri interessi, la nostra vita diventa sterile; non accumuliamo alcuna riserva di olio per la nostra lampada, ed essa si spegnerà prima dell’incontro con il Signore. Dobbiamo vivere l’oggi, ma l’oggi che va verso il domani, verso quell’incontro, l’oggi carico di speranza. Se invece siamo vigilanti e facciamo il bene corrispondendo alla grazia di Dio, possiamo attendere con serenità l’arrivo dello sposo. Il Signore potrà venire anche mentre dormiamo: questo non ci preoccuperà, perché abbiamo la riserva di olio accumulata con le opere buone di ogni giorno, accumulata con quell’attesa del Signore, che Lui venga il più presto possibile e che venga a portarmi con Lui.
Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima, perché ci aiuti a vivere, come ha fatto Lei, una fede operosa: essa è la lampada luminosa con cui possiamo attraversare la notte oltre la morte e giungere alla grande festa della vita.”

Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 8 novembre 2020

Pubblicato in Liturgia
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