Le letture liturgiche di questa V domenica di Quaresima ci invitano a meditare per arrivare a conoscere sempre di più il Signore, il mistero della Sua passione e morte per arrivare a contemplarlo nella Sua gloriosa resurrezione.
Nella prima lettura il profeta Geremia annuncia l’alleanza nuova, che Dio vuole fare con il suo popolo imprimendo la Sua legge nel cuore degli uomini e perdonando i loro peccati. L’osservanza di questa nuova alleanza dipenderà dalla qualità del rapporto di amore che ci sarà tra Dio ed ogni singola persona. Si tratterà quindi di una relazione di amore personale, che implica la fedeltà ed il desiderio profondo e sincero di piacere a Dio e di cercare sempre la Sua volontà.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, il suo straordinario autore afferma che Gesù non offrì a Dio doni e sacrifici per i peccati, ma offrì se stesso in un contesto di preghiera. Egli ha attraversato la sofferenza della morte con fedeltà filiale, perciò Dio lo ha reso perfetto, consacrato sacerdote, fonte di salvezza per tutti i credenti.
Nel Vangelo di Giovanni, viene descritta una scena posteriore all’ingresso di Gesù a Gerusalemme e appartiene a quel clima di segni e di presagi che attraversano le ore dell’avvicinamento di Gesù alla Sua morte. Raramente è dato percepire il divino e l’umano di Gesù in simbiosi così stretta, e il Suo mistero salvifico unito alla Sua sofferenza.
Dal libro del profeta Geremia
Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore.
Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore– porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.
Ger 31,31-34
Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C). Incompreso, perseguitato, spesso minacciato di morte, Geremia, timido ma amico di Dio, non cessa di lanciare angosciati appelli alla conversione, non esita a mostrare a dito i responsabili che hanno deviato il popolo. Egli se la prende con la falsa coscienza dei benpensanti che si credono nel giusto, solo perchè osservano le pratiche religiose, senza viverle nell’animo. Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli fu anche l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà. La sua intimità con Dio e la religione del cuore, che egli ha vissuto e predicato, fanno di lui il profeta-maestro della vita interiore dell’uomo di ogni tempo.
Questo brano è tratto dal cosiddetto “Libro della consolazione” ed è considerato uno dei vertici spirituali dell’A.T . C’era già una alleanza, quella che sul Sinai Dio consegnò a Mosè e questa alleanza esigeva l’adesione esclusiva al Signore, che si realizzava nel compimento della legge e dei precetti. Per questo la legge era formulata con chiarezza e stilata da una duplice serie di benedizioni e maledizioni, ma l’uomo, nella storia non fu capace di essere fedele a questa legge. Ora Dio ne dona una nuova con particolari caratteristiche:
Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande
io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato
È un‘alleanza definitiva, promessa di misericordia e perdono. Geremia preannuncia una conoscenza di Dio non più attraverso la mediazione della Legge, ma attraverso l’esperienza interiore per cui la conoscenza di Dio entra nel cuore dell’uomo. Tutto ciò anche se non esclude l’importanza di seguire le indicazioni di una dottrina, ci ricorda che prima di tutto c’è il nostro rapporto personale con Dio. Questa è la grande alleanza di Dio: entrare nel cuore dell’uomo, nell’interno della sua vita, di tutto il suo essere, affinché l’uomo non possa più rifiutarlo, respingerlo, abbandonarlo, allontanarlo. Gesù stesso rievocherà la promessa di Geremia nella sera dell’ultima cena, quando definirà la coppa pasquale del vino “il calice della nuova alleanza”.
Noi come cristiani possiamo rileggere la promessa di Geremia alla luce della croce di Cristo, di quell’istante fondamentale in cui egli “elevato da terra ha attirato tutti a sé" (Gv12,32)
Salmo 51 (50) Crea in me, o Dio, un cuore puro.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Insegnerò ai ribelli le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10).
Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera agli Ebrei
Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Eb 5,7-9
L’ autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
In questo breve brano, l’autore, dopo aver proclamato nei versetti precedenti Gesù Cristo “figlio di Dio e sacerdote in eterno” fa questa riflessione: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” L’obbedienza che Cristo imparò dalla Sua sofferenza consiste nell’adesione radicale al progetto di Dio, che lo ha guidato nelle scelte decisive della Sua vita. La sottomissione alla volontà del Padre viene presentata spesso nel N.T. come un aspetto specifico del comportamento di Gesù (V. Mc 14,36; Gv 4,34; 10,18) e Paolo in modo speciale sottolinea come l’obbedienza di Cristo si sia manifestata nella sofferenza della morte (V. Fil 2,8; Rm 5,19). Ma ciò che la lettera agli Ebrei evidenzia, in piena sintonia con il racconto evangelico della passione, è il fatto che questa obbedienza ha richiesto una fatica notevole per superare la naturale paura della sofferenza e della morte.
L’aspetto più specifico del sacerdozio di Cristo sta quindi nell’accettazione libera, anche se sofferta, della morte, che certo non è stata voluta dal Padre, ma imposta dalle circostanze concrete della storia. L’obbedienza di Cristo ha anche come risultato la salvezza eterna di tutti coloro che “gli obbediscono”. Obbedire significa qui accettare la totalità del messaggio di Cristo, ma soprattutto seguire l’esempio che Egli ha offerto a tutti nel Suo affidarsi all’amore del Padre, anche quando poteva sembrare che il Padre l’avesse abbandonato (V.Mt 27,46).
Per questa ragione, soltanto Gesù è causa di salvezza eterna, vera e definitiva per coloro che credono in Lui. Il mistero di Cristo non lo si può certo avvicinare con pigrizia, torpore e tantomeno indifferenza.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Gv 12,20-33
La scena descritta in questo brano del Vangelo di Giovanni viene dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme e appartiene a quel clima di segni e di presagi che attraversano le ore precedenti la Sua passione.
L’evangelista nei versetti precedenti questo brano, aveva annotato un amaro commento dei farisei: “Ecco che il mondo gli è andato dietro!” E a conferma di questo egli ci riporta che in quella occasione alcuni greci avevano espresso il desiderio di vedere Gesù. Non ci dice chi erano: potevano essere anche giudei della diaspora, che parlano la lingua greca, ma anche dei pagani che avevano aderito alla religione giudaica, senza però arrivare alla circoncisione e tutto ciò che essa comportava.
Essi si rivolgono, forse per il suo nome greco, a Filippo, il quale con Andrea, il cui nome è anch’esso greco, fa presente a Gesù la loro richiesta. Gesù risponde: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. … e poi continua portando l’esempio del chicco di grano, che se“caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” prosegue poi affermando che “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” Infine a tutti coloro che vogliono servirlo, rivolge l’invito a seguirlo, perché siano con lui e vengano onorati dal Padre. Il concetto fondamentale espresso in tutti questi detti è quello di una morte che rivela al mondo la gloria di Dio in quanto coinvolge tutti gli uomini in una vita di comunione piena con Lui.
Anche se la risposta di Gesù non sembra in sintonia con la richiesta dei greci, con essa però l’evangelista vuole affermare che anche i non giudei potranno vedere Gesù, accettando la nuova vita da Lui annunziata, ma solo dopo che Egli, con la Sua glorificazione, avrà portato a termine l’opera che il Padre gli ha affidato.
Infine l’evangelista inserisce un brano in cui viene anticipata la preghiera di Gesù nel Getsemani con la quale Gesù svela il suo turbamento: “Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”.
A questo punto una voce dal cielo risponde: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!”.
La voce viene udita dai presenti, alcuni dei quali dicono che è stato un tuono, mentre altri commentano che un angelo gli ha parlato, ma Gesù dice: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. E l’evangelista commenta: Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Le parole con cui Gesù annunzia il suo prossimo innalzamento, provocano un’ultima obiezione da parte della folla, che nei versetti non riportati nel brano, osserva: “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?”. Gesù risponde “Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce”. Detto ciò si allontana rendendosi irreperibile. Gesù non nega dunque l’eternità del Cristo, ma afferma che la sua permanenza in questo mondo è limitata nel tempo e ha come unico scopo quello di illuminare gli uomini portandoli alla fede.
Possiamo rilevare che Gesù nel suo discorso sembra che voglia sciogliere uno dei contrasti più tragici dell’esistenza, quello tra morte e vita. Il seme sprofonda nell’oscurità della terra, nel terreno sembra che l’energia del seme sia votata a spegnersi, infatti il seme marcisce e muore … eppure quando in estate biondeggiano le messi, è svelato il segreto fecondo di quella morte.
Si percepisce come Gesù vede incombere su di sè la morte, tuttavia non la presenta come un qualcosa di irreparabile. Anche se essa è tenebra, dolore, lacerazione, e distacco, per Gesù ha la forza segreta di un parto, racchiude in sé un mistero di fecondità e di risurrezione. E’ in questa luce che Gesù formula, allora, la grande legge della croce: Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Gesù sente che deve passare attraverso la via oscura della morte di croce per portare l’umanità sulla via luminosa della vita eterna, che è sinonimo di piena e perfetta comunione con Dio.
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"In questa Quinta Domenica di Quaresima, l’evangelista Giovanni attira la nostra attenzione con un particolare curioso: alcuni “greci”, di religione ebraica, venuti a Gerusalemme per la festa di Pasqua, si rivolgono all’apostolo Filippo e gli dicono: «Vogliamo vedere Gesù».. Nella città santa, dove Gesù si è recato per l’ultima volta, c’è molta gente. Ci sono i piccoli e i semplici, che hanno accolto festosamente il profeta di Nazareth riconoscendo in Lui l’Inviato del Signore.
Ci sono i sommi sacerdoti e i capi del popolo, che lo vogliono eliminare perché lo considerano eretico e pericoloso. Ci sono anche persone, come quei “greci”, che sono curiose di vederlo e saperne di più sulla sua persona e sulle opere da Lui compiute, l’ultima delle quali – la risurrezione di Lazzaro – ha fatto molto scalpore.
«Vogliamo vedere Gesù»: queste parole, come tante altre nei Vangeli, vanno al di là dell’episodio particolare ed esprimono qualcosa di universale; rivelano un desiderio che attraversa le epoche e le culture, un desiderio presente nel cuore di tante persone che hanno sentito parlare di Cristo, ma non lo hanno ancora incontrato. “Io desidero vedere Gesù”, così sente il cuore di questa Gente.
Rispondendo indirettamente, in modo profetico, a quella richiesta di poterlo vedere, Gesù pronuncia una profezia che svela la sua identità e indica il cammino per conoscerlo veramente: «E’ giunta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato. È l’ora della Croce! È l’ora della sconfitta di Satana, principe del male, e del trionfo definitivo dell’amore misericordioso di Dio. Cristo dichiara che sarà «innalzato da terra» , un’espressione dal doppio significato: “innalzato” perché crocifisso, e “innalzato” perché esaltato dal Padre nella Risurrezione, per attirare tutti a sé e riconciliare gli uomini con Dio e tra di loro. L’ora della Croce, la più buia della storia, è anche la sorgente della salvezza per quanti credono in Lui.
Proseguendo nella profezia sulla sua Pasqua ormai imminente, Gesù usa un’immagine semplice e suggestiva, quella del “chicco di grano” che, caduto in terra, muore per portare frutto. In questa immagine troviamo un altro aspetto della Croce di Cristo: quello della fecondità. La croce di Cristo è feconda.
La morte di Gesù, infatti, è una fonte inesauribile di vita nuova, perché porta in sé la forza rigeneratrice dell’amore di Dio. Immersi in questo amore per il Battesimo, i cristiani possono diventare “chicchi di grano” e portare molto frutto se, come Gesù, “perdono la propria vita” per amore di Dio e dei fratelli.
Per questo, a coloro che anche oggi “vogliono vedere Gesù”, a quanti sono alla ricerca del volto di Dio; a chi ha ricevuto una catechesi da piccolo e poi non l’ha più approfondita e forse ha perso la fede; a tanti che non hanno ancora incontrato Gesù personalmente…; a tutte queste persone possiamo offrire tre cose: il Vangelo; il crocifisso e la testimonianza della nostra fede, povera, ma sincera.
Il Vangelo: lì possiamo incontrare Gesù, ascoltarlo, conoscerlo. Il crocifisso: segno dell’amore di Gesù che ha dato sé stesso per noi. E poi una fede che si traduce in gesti semplici di carità fraterna. Ma principalmente nella coerenza di vita tra quello che diciamo e quello che viviamo, coerenza tra la nostra fede e la nostra vita, tra le nostre parole e le nostre azioni. Vangelo, crocifisso, testimonianza.
Che la Madonna ci aiuti a portare queste tre cose."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 22 marzo 2015
Nelle letture che la Liturgia di questa IV domenica di Quaresima ci propone, possiamo scorgere numerosi motivi di gioia.
Nella prima lettura nel brano tratto dal secondo libro delle Cronache, leggiamo che Dio, dopo aver punito Israele con l’esilio per le sue numerose infedeltà, dopo 70 anni vuole recuperare il suo popolo e attraverso un re straniero, Ciro re di Persia, farà ritornare i deportati in patria.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Efesini, l’apostolo Paolo, pone in risalto l’immenso amore di Dio che si è manifestato in Cristo, e la nostra partecipazione alla sua vita mediante la fede e il Battesimo.
Nel Vangelo di Giovanni meditiamo sull’incontro di Gesù con Nicodemo, un importante membro del Sinedrio, dottore della Legge, che attratto dalla figura di Gesù, ma per timore dei giudei, si reca da Lui di notte per interrogarlo. Emerge dalla risposta che Gesù gli dà, la frase più importante e consolante di tutta la Bibbia: Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna.
Dal secondo libro delle Cronache
In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio.
Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni».
Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».
2Cr 36,14-16.19-23
I due Libri delle Cronache, (testi anche contenuti nella Bibbia ebraica) la cui redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata attorno al 330-250 a.C. in Giudea, ripropongono molte delle vicende già narrate nei due Libri di Samuele e nei due Libri dei Re. Non si tratta però di una pura e semplice riedizione, come potrebbe apparire a prima vista. Questi libri appartengono infatti alla tradizione deuteronomistica, mentre l'autore di questi due libri, definito il Cronista, appartiene alla cosiddetta Tradizione Sacerdotale, la stessa del primo capitolo della Genesi;il Cronista non si limita ad esporre i fatti, ma seleziona e rielabora i dati allo scopo di esaltare principalmente il Tempio ed il Culto in Gerusalemme, intesa come il cuore stesso della fede e dell'identità di Israele come popolo.
In questo brano, (parallelo a 2Re 25,27-30), ci viene raccontato che tutto il popolo di Israele si era dato ad ogni infedeltà e abominio, tanto che il Signore, nella Sua immensa bontà, mandò i profeti, come Geremia e Baruc, “ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo”, ma “essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine”. I profeti hanno sempre avuto vita difficile per il loro compito scomodo, quello cioè di portare alla luce del sole le cose malvagie, e chi fa il male ama più le tenebre che la luce!
Arrivarono, come predissero i profeti, i nemici “incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.” La rovina fu grande, e gli abitanti che non furono uccisi, furono deportati in Babilonia. Si attuava “così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni»”. Vi rimasero schiavi infatti per 70 anni e solo quando, ispirato dallo Spirito del Signore, venne Ciro re di Persia, poterono essere liberi e tornare alla propria terra.
La situazione descritta è quella della infedeltà del popolo e dei sacerdoti del tempio, e come potremmo dire noi oggi - un dilagare sempre più esteso della secolarizzazione con l'abbandono della pratica religiosa. Il tempio era ormai diventato un container vuoto, con riti sempre più formali e abitudinari. La relazione con Dio era sterile, la Legge, ogni riferimento alla Parola di Dio, ormai dimenticata! La Scrittura, come noi la conosciamo, ancora non c'era ed era affidata alla "tradizione orale" della Parola e la sua memoria si era ormai affievolita. E’ facile fare confronti con i nostri giorni, perchè la storia si ripete e noi dovremmo essere in grado di capire, fare un'analisi del presente per riuscire a comprendere che l'intento di Dio non è mai stato il castigo, ma la conversione e la vita e il bene del suo popolo.
Salmo 136 - Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia.
Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo
e piangevamo ricordandoci di Sion.
Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.
Perché là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
allegre canzoni, i nostri oppressori:
«Cantateci canti di Sion!».
Mi si attacchi la lingua al palato
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non innalzo Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.
Questo salmo presenta un Giudeo, che, subito dopo il ritorno dall'esilio di Babilonia, ricorda le sofferenze subite in schiavitù, e si vincola ad una fermissima speranza nella ricostruzione di Gerusalemme, pur in mezzo alle ostilità dei popoli vicini, tra i quali gli Edomiti: (L'elenco dei popoli forniti dal libro di Esdra (9,1) non è quello preciso del tempo, ma è un'inserzione postuma che si rifà a Dt 7,1).
L'orante presenta il pianto degli esiliati, le umiliazioni, la determinazione con la quale appesero le cetre ai salici, vincolandosi di non cantare mai davanti agli oppressori i Canti di Sion. Lo scherno, l'insulto, l'attentato alla fede, sono espressi in maniera estremamente efficace: “Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato...”.
Poi, di fronte alla tentazione di tanti di imparentarsi con popoli stranieri per via di matrimoni (Esd 9,1.12; Nm 9,2), l'orante afferma che, dopo aver provato tanto dolore in terra straniera, non potrebbe pensare di cantare i Canti di Sion fuori della Palestina, e dimenticando Gerusalemme: “Mi si attacchi la lingua al palato (...) se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia”.
L'orante ricorda quanto con vile crudeltà fece Edom, già conquistato da Nabucodonosor, nel pieno della distruzione di Gerusalemme:”<spogliatela, spogliatela="" fino="" alle="" sue="" fondamenta="">”, e invoca su di lui la giustizia divina. La “Figlia di Babilonia” è Bozra, la città principale di Edom (Cf. Is 34,6; 63,1; Ger 48,24; 49,13s; Am 1,12). Su questa città il salmista invoca una distruzione vendicativa: “Beato chi ti renderà quanto ci hai fatto...”.
Commento di P.Paolo Berti
Questo salmo ha ispirato il coro del Nabucco ed è stato anche ripreso dal poeta Salvatore Quasimodo nell’opera poetica “Giorno dopo giorno”.
Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.
Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo. Ef 2,4-10
La Lettera agli Efesini, come le lettere ai Filippesi, ai Colossesi e a Filemone, formano il gruppo delle “Lettere della prigionia” poiché Paolo, a cui viene attribuita, afferma d’essere appunto “prigioniero”. L’Apostolo fu una prima volta ad Efeso (Atti degli Apostoli 18, 19-22) e vi soggiornò (At 18,23-20) ancora durante il suo secondo viaggio missionario, allargando in questo modo il suo raggio d’azione pastorale.
Questa lettera che Paolo avrebbe scritto durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62, è centrata sull'ecclesiologia e sul rapporto di riconciliazione in Cristo tra Giudei e pagani.
Nel primo capitolo nell'inno Cristologico, l’Apostolo ha ricordato la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e alla ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. Ora nel capitolo secondo egli scende nei particolari e ricorda la miserevole situazione di quanti erano schiavi del peccato e della morte.
In questo brano l’Apostolo inizia affermando:”Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati”. Dio è ricco di misericordia.! Questo concetto si trova spesso nell'Antico Testamento (Es 34,6). E’ Dio il primo protagonista della nostra rinascita e Cristo è il secondo. Con Lui siamo stati riportati in vita, dopo che il peccato ci aveva portato alla morte. Il movente è sempre la grazia di Dio, il Suo amore gratuito. I terzi protagonisti siamo noi, morti e riportati in vita.
“Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù “
L'accento è posto sulla solidarietà salvifica che ha due aspetti: uno con Cristo, fonte e ragione del nuovo stato di salvati, l'altro con i cristiani provenienti dai gruppi distinti: ebrei e pagani. Cristo dunque non solo ci ha salvato dalla morte e dal peccato, ma ci ha reso partecipi della Sua gloria.
“per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù”. Questa straordinaria verità rifulge per tutti i secoli ed è frutto della bontà di Dio che si è riversata su tutti noi.
“Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio”;
Paolo ribadisce che la vera fonte di tutta questa bellezza è la bontà gratuita di Dio, alla quale possiamo accedere grazie alla fede. Non è un'opera umana, è solo un dono di Dio.
“né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene”. Qui si può osservare un certo tono polemico indirizzato ad alcune teorie filosofiche che gli Efesini ben conoscevano, le quali sostenevano che esercitando delle virtù si poteva arrivare alla pienezza di vita. I cristiani non possono vantarsi delle buone opere che riescono a compiere, perchè non è per merito loro se le possono realizzare. Nell'economia della salvezza del Vangelo non sono le opere buone che portano alla salvezza, ma l'amore gratuito di Dio.
“Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo”.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Gv 3,14-21
In questo brano del suo Vangelo, Giovanni ci racconta che Gesù dopo essere tornato a Gerusalemme, in occasione della Pasqua, dopo l’episodio della purificazione del tempio, trovandosi ancora a Gerusalemme, riceve la visita notturna di Nicodemo, un fariseo, capo dei giudei e dottore della legge.
Nicodemo è un profondo conoscitore della Sacra Scrittura e della Legge, ha quindi una vasta cultura, ma gli manca qualcosa, per questo sente il bisogno assoluto di andare da Gesù, sente che in quel giovane Rabbi di Nazareth c’è qualcosa di misterioso, percepisce dal profondo del cuore che c’è in Lui qualcosa di più grande, qualcosa che va oltre.
Nei versetti non riportati dal brano liturgico leggiamo che Nicodemo non pone a Gesù una domanda precisa, ma si limita a riconoscere che Egli è un maestro venuto da Dio, in quanto “nessuno può fare i segni che lui fa, se Dio non è con lui” (v. 2,23): indirettamente però egli chiede quale sia la via giusta per arrivare a Dio.
Gesù non risponde alla domanda di Nicodemo, ma imposta lui stesso il discorso e gli dice qualcosa che lui, Nicodemo, non avrebbe mai potuto immaginare: “se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio”. Siccome Nicodemo rimane alquanto perplesso, Gesù gli spiega che questa rinascita avviene mediante l’acqua e lo Spirito (v. 4-5) e soggiunge: “Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito”. (v. 6-8). Ad una nuova richiesta di spiegazione da parte di Nicodemo, Gesù risponde osservando che: “noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”.
Questa ultima affermazione ammette l’incapacità da parte dell’uomo di cogliere nella sua interezza il mistero di Dio, perché egli non ha la possibilità di salire al cielo (v Pr 30,4), ma ciò è possibile solo al “Figlio dell’uomo”. Identificandosi con questo personaggio misterioso Gesù mette in luce il Suo rapporto specialissimo con Dio.
Nel brano liturgico, Gesù approfondisce poi il tema della manifestazione di Dio con queste parole: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”
Nel giudaismo il serpente di bronzo (V. Nm 21,4-9), era considerato come simbolo di quel Dio che aveva già dato nella legge un pegno di salvezza. Per Giovanni l’innalzamento di Gesù sulla croce fa di lui, ad analogia del serpente di bronzo, un segno di salvezza, e al tempo stesso manifesta il suo successo come Servo di JHWH e come Figlio dell’uomo. Su questo sfondo la morte di Gesù in croce viene vista come la Sua massima esaltazione, perché nel momento in cui si attua il Suo ritorno al Padre, al tempo stesso si realizza la vittoria sul peccato e la riconciliazione dell’umanità con Dio.
Nel versetto successivo questo concetto viene ripreso con questa espressione: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. All’innalzamento del Figlio dell’uomo, corrisponde l’amore di Dio che offre il Suo Figlio Unigenito. Con la parola “mondo” si vuole indicare l’umanità intera, non in senso negativo, ma in quanto bisognosa di salvezza. Anche qui, come nel versetto precedente, lo scopo è il conferimento della vita eterna.
In questo versetto il titolo “Figlio dell’uomo” viene sostituito con quello più considerevole di “Figlio unigenito”, per mettere in luce il rapporto specialissimo che unisce Gesù a Dio.
Nella parte successiva del discorso, Gesù affronta il tema del giudizio. Egli afferma che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”.
Il giudizio, inteso come condanna, dunque non rientra nei compiti del Figlio il quale è venuto solo per procurare la salvezza di tutti.
Al termine del brano l’evangelista Giovanni, ripete il concetto contenuto nel Prologo: “la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie.” Giovanni nell’antitesi simbolica luce-tenebre riassume tutto il segreto della storia umana: Cristo, luce del mondo, entra nel mondo, ma le tenebre tentano di soffocarlo, di cancellarlo dall’orizzonte. La luce, infatti, svela la vera natura delle cose e delle persone, impedisce che si celino le miserie e le vergogne. E’ l’eterna lotta tra il bene e il male e in questa lotta a noi oggi non viene richiesta un'auto-liberazione dal male, ma di alzare lo sguardo da noi stessi e di guardare un po' più in alto, di non restare nel buio dell'egocentrismo e accogliere quella luce che Dio ha inviato nel mondo, di non bloccarsi nell'amore per sé stessi e accorgersi di quell‘Amore che dall'alto è sceso sulla terra.
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"Il Vangelo di oggi ci ripropone le parole rivolte da Gesù a Nicodemo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» Ascoltando questa parola, rivolgiamo lo sguardo del nostro cuore a Gesù Crocifisso e sentiamo dentro di noi che Dio ci ama, ci ama davvero, e ci ama così tanto! Ecco l’espressione più semplice che riassume tutto il Vangelo, tutta la fede, tutta la teologia: Dio ci ama di amore gratuito e sconfinato.
Così ci ama Dio e questo amore Dio lo dimostra anzitutto nella creazione, come proclama la liturgia, nella Preghiera eucaristica IV: «Hai dato origine all’universo per effondere il tuo amore su tutte le tue creature e allietarle con gli splendori della tua luce». All’origine del mondo c’è solo l’amore libero e gratuito del Padre.
Sant’Ireneo un santo dei primi secoli scrive: «Dio non creò Adamo perché aveva bisogno dell’uomo, ma per avere qualcuno a cui donare i suoi benefici» (Adversus haereses, IV, 14, 1). È così, l'amore di Dio è così.
Così prosegue la Preghiera eucaristica IV: «E quando, per la sua disobbedienza, l’uomo perse la tua amicizia, tu non l’hai abbandonato in potere della morte, ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro». È venuto con la sua misericordia. Come nella creazione, anche nelle tappe successive della storia della salvezza risalta la gratuità dell’amore di Dio: il Signore sceglie il suo popolo non perché se lo meriti, ma perché è il più piccolo tra tutti i popoli, come egli dice. E quando venne “la pienezza del tempo”, nonostante gli uomini avessero più volte infranto l’alleanza, Dio, anziché abbandonarli, ha stretto con loro un vincolo nuovo, nel sangue di Gesù – il vincolo della nuova ed eterna alleanza – un vincolo che nulla potrà mai spezzare.
San Paolo ci ricorda: «Dio, ricco di misericordia, – mai dimenticarlo è ricco di misericordia – per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo» . La Croce di Cristo è la prova suprema della misericordia e dell’amore di Dio per noi: Gesù ci ha amati «sino alla fine» (Gv 13,1), cioè non solo fino all’ultimo istante della sua vita terrena, ma fino all’estremo limite dell’amore. Se nella creazione il Padre ci ha dato la prova del suo immenso amore donandoci la vita, nella passione e nella morte del suo Figlio ci ha dato la prova delle prove: è venuto a soffrire e morire per noi. Così grande è la misericordia di Dio: Egli ci ama, ci perdona; Dio perdona tutto e Dio perdona sempre.
Maria, che è Madre di misericordia, ci ponga nel cuore la certezza che siamo amati da Dio. Ci stia vicino nei momenti di difficoltà e ci doni i sentimenti del suo Figlio, perché il nostro itinerario quaresimale sia esperienza di perdono, di accoglienza e di carità."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 marzo 2015
Le letture di questa terza domenica di quaresima ci invitano a fare un vero e profondo esame di coscienza per capire fino a che punto siamo veri credenti.
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo, siamo di fronte al Decalogo, le dieci parole, il cuore della legge mosaica e il suggello dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Tre comandamenti garantiscono la fedeltà all’alleanza con Dio e sette regolano la corretta relazione con gli altri.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, a quanti non comprendono il valore della croce l’apostolo Paolo predica Gesù crocifisso, segno rigettato dalla sapienza greca e dalla religione giudaica, ma portatore di salvezza per l’umanità peccatrice.
Nel brano del suo Vangelo, Giovanni ci presenta Gesù in una vesta insolita: una sua reazione violenta, di sdegno, di fronte al degrado in cui gli uomini avevano ridotto il Tempio che, da luogo di preghiera, era divenuto un luogo di mercato. Le parole e i gesti di Gesù sembrano dire che il rapporto con Dio non si mercanteggia e neppure lo si vive mediante il semplice e formale ingresso nel tempio materiale, ma consiste essenzialmente, come ci dice Giovanni in un altro passo del vangelo, nell’adorare Dio “in spirito e verità”.
Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole:
«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile:
Non avrai altri dèi di fronte a me.
Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano.
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai adulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo». Es 20,1-17
Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nella parte precedente questo brano c’è una parte introduttiva nella quale Dio appare a Mosè e per mezzo suo manifesta agli israeliti la decisione di stringere un’alleanza con loro. A questo punto c’è il racconto della manifestazione di Dio e la proclamazione dei comandamenti (il decalogo) che la liturgia oggi ci presenta
Il decalogo si apre con una frase in cui Dio presenta se stesso e al tempo stesso fa un riassunto degli eventi passati:
“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile…”
Egli si presenta non con titoli di potenza ma semplicemente come il Dio di Israele, attribuendosi questo titolo perché ha liberato il popolo dalla schiavitù a cui era stato sottoposto in Egitto. In questa frase sono espressi la motivazione e il significato di tutti i precetti che saranno successivamente elencati: se Dio ordina qualcosa agli israeliti, lo fa solo perché Lui stesso per primo ha dato loro gratuitamente ciò che vi è di più essenziale nella vita; la libertà.
Dopo la frase introduttiva sono elencati i singoli precetti;
Il primo comandamento, che fa seguito immediatamente al prologo, contiene la clausola fondamentale dell’alleanza, che è così espressa: “Non avrai altri dèi di fronte a me.”
Questo precetto non ha lo scopo di inculcare il monoteismo, infatti qui non è negata l’esistenza di altre divinità, ma ne viene vietato il culto e di conseguenza poteri divini. Questo primo comandamento non richiede particolari atti di culto, ma solo una fedeltà totale ed esclusiva nei confronti di Dio.
Il primo comandamento è seguito da un secondo: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo…”. Nell’antico Oriente l’immagine era considerata come oggetto in cui la divinità poteva essere presente e manifestarsi; attraverso di essa si pensava quindi di poter catturare la potenza divina, utilizzandola a proprio uso e consumo. Per l’ebraismo è da tener presente che l’unica immagine di Dio è l’uomo vivente (Gen 1,26-27; Sir 17,3; Sap 2,23). A questo comandamento c’è poi un’altra aggiunta: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai”
Al primo e secondo comandamento viene dato una motivazione: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”.
DIO è un Dio “geloso” in quanto si comporta con Israele come un marito che ama sua moglie e difende il proprio diritto esclusivo nei suoi confronti (V. Os 3,1). La Sua gelosia ha come effetto la punizione del Suo popolo quando questi si allontana da Lui. La pena colpisce quattro generazioni, cioè tutti coloro che convivono nella famiglia patriarcale (padri, figli, nipoti e pronipoti). La “bontà” divina raggiunge invece migliaia di generazioni. In altre parole, il castigo è nulla in confronto alla fedeltà che rappresenta l’agire costante di DIO nel mondo. Inoltre sia la punizione che la fedeltà riguardano non tutti indiscriminatamente, ma solo rispettivamente coloro che lo “odiano” e coloro che lo “amano”. Appare qui per la prima volta il concetto di “amore”, che non è puro sentimento, ma si manifesta nell’osservanza dei comandamenti.
Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nella parte precedente questo brano c’è una parte introduttiva nella quale Dio appare a Mosè e per mezzo suo manifesta agli israeliti la decisione di stringere un’alleanza con loro. A questo punto c’è il racconto della manifestazione di Dio e la proclamazione dei comandamenti (il decalogo) che la liturgia oggi ci presenta
Il decalogo si apre con una frase in cui Dio presenta se stesso e al tempo stesso fa un riassunto degli eventi passati:
“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile…”
Egli si presenta non con titoli di potenza ma semplicemente come il Dio di Israele, attribuendosi questo titolo perché ha liberato il popolo dalla schiavitù a cui era stato sottoposto in Egitto. In questa frase sono espressi la motivazione e il significato di tutti i precetti che saranno successivamente elencati: se Dio ordina qualcosa agli israeliti, lo fa solo perché Lui stesso per primo ha dato loro gratuitamente ciò che vi è di più essenziale nella vita; la libertà.
Dopo la frase introduttiva sono elencati i singoli precetti;
Il primo comandamento, che fa seguito immediatamente al prologo, contiene la clausola fondamentale dell’alleanza, che è così espressa: “Non avrai altri dèi di fronte a me.”
Questo precetto non ha lo scopo di inculcare il monoteismo, infatti qui non è negata l’esistenza di altre divinità, ma ne viene vietato il culto e di conseguenza poteri divini. Questo primo comandamento non richiede particolari atti di culto, ma solo una fedeltà totale ed esclusiva nei confronti di Dio.
Il primo comandamento è seguito da un secondo: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo…”. Nell’antico Oriente l’immagine era considerata come oggetto in cui la divinità poteva essere presente e manifestarsi; attraverso di essa si pensava quindi di poter catturare la potenza divina, utilizzandola a proprio uso e consumo. Per l’ebraismo è da tener presente che l’unica immagine di Dio è l’uomo vivente (Gen 1,26-27; Sir 17,3; Sap 2,23). A questo comandamento c’è poi un’altra aggiunta: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai”
Al primo e secondo comandamento viene dato una motivazione: “Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti”.
DIO è un Dio “geloso” in quanto si comporta con Israele come un marito che ama sua moglie e difende il proprio diritto esclusivo nei suoi confronti (V. Os 3,1). La Sua gelosia ha come effetto la punizione del Suo popolo quando questi si allontana da Lui. La pena colpisce quattro generazioni, cioè tutti coloro che convivono nella famiglia patriarcale (padri, figli, nipoti e pronipoti). La “bontà” divina raggiunge invece migliaia di generazioni. In altre parole, il castigo è nulla in confronto alla fedeltà che rappresenta l’agire costante di DIO nel mondo. Inoltre sia la punizione che la fedeltà riguardano non tutti indiscriminatamente, ma solo rispettivamente coloro che lo “odiano” e coloro che lo “amano”. Appare qui per la prima volta il concetto di “amore”, che non è puro sentimento, ma si manifesta nell’osservanza dei comandamenti.
Nono comandamento Non desidererai la casa del tuo prossimo. Originariamente qui veniva considerato il furto vero e proprio. Si è accertato infatti che in ebraico il verbo “desiderare” indica non solo l’atto per se stesso, ma tutto lo svolgimento che va dalla decisione fino all’appropriazione indebita.
Decimo comandamento Non desidererai la moglie del tuo prossimo… In un primo momento questo precetto era tutt’uno con il precedente, in quanto la casa del prossimo, di cui si proibisce il desiderio, abbracciava tutti i beni in essa contenuti, compresa la moglie, gli schiavi e gli animali. In seguito, quando la proibizione di farsi immagini di DIO è stata inclusa nel primo comandamento e il settimo è passato a significare il furto in generale, il decimo comandamento è stato separato dal nono per indicare non più tutto il processo di appropriazione, ma il semplice atto vero e proprio, che porta di conseguenza all’azione.
Per concludere possiamo dire che questi comandamenti in sintesi richiedono un impegno verticale: amore per Dio, e orizzontale: amore per il prossimo. E’ per questo che il condensato di tutto il Decalogo è nel primo comandamento, nel quale tutti gli altri confluiscono. Non dovremmo mai dimenticare come rispose Gesù quando gli chiesero quale fosse il più grande comandamento della legge: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso.”
Basterà osservare bene questi due comandamenti e senza bisogno di pensarci si adempiranno interamente anche gli altri. Possiamo subito renderci conto da noi stessi che non può essere diversamente. Ad esempio: “Non avrai altri dèi di fronte a me”. Se un uomo ama Dio non occorre dirgli una cosa del genere.
“Non pronuncerai invano il nome del Signore”. Chi, amando Dio, sognerebbe di nominarlo invano, mancandogli di rispetto? “Ricordati del giorno di festa per santificarlo”. Non sarebbe egli ben felice di avere un giorno su sette da dedicare più esclusivamente a Chi ama?
Allo stesso modo a chi ama il suo prossimo è superfluo dire di onorare suo padre e sua madre. Non potrebbe farne a meno. Sarebbe assurdo anche dirgli di non uccidere e un insulto suggerirgli di non rubare. Come si può derubare colui che si ama?
Superfluo anche pregarlo di non dir falsa testimonianza contro il vicino. Se lo ama è l'ultima cosa che farebbe, come anche di desiderare i suoi beni e il suo coniuge.
Salmo 18 - Signore, tu hai parole di vita eterna.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.
I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.
Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.
Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante.
Il salmista si esprime considerando, in stato di riflessione laudante, la grandezza, la potenza, la bellezza dei cieli, della volta stellata. I cieli “narrano la gloria di Dio” in un’incessante continuità: “Il giorno al giorno ne affida il racconto…”. L’uomo percepisce questo racconto - “senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce” - dei cieli, che glorificano il Creatore, e conduce l’uomo a considerare la potenza, la maestà, la sapienza di Dio e a adorarlo.
La potenza del sole, sfera di fuoco radiante ovunque luce e calore, dà all’orante misura della potenza di Dio. Egli si affida alle immagini della poesia per descriverlo, con un risultato altissimo. Il sole esce radioso, vivo, carico d’amore da donare, come uno sposo che esce dalla stanza nuziale ricco delle effusioni della sposa. Il suo sovrano percorrere il cielo viene paragonato all’incedere glorioso di un prode in mezzo alla strada: nessuno può resistergli.
Il Creatore dell’universo ha stretto alleanza con il suo popolo dando una legge che è perfetta, perché non può ricevere appunti, e che rinfranca il cuore liberandolo dalle tenebre dell’ingiustizia. Questa legge d’amore è portata al suo vertice dal Cristo che la stampa nel cuore dei suoi dando loro lo Spirito Santo.
La legge, portata a compimento da Cristo, è la testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini. Tale testimonianza, che è stata sigillata dal sangue di Cristo, non delude. Essa è verace, luminosa, e rende saggio colui che non si presenta a Dio col vizio di pensieri oscuri.
Il salmista ha sperimentato nella sua vita quanto sia giusta la legge del Signore, tanto che fa gioire il cuore.
La legge, i suoi comandi, sono limpidi, perché non oscurano gli occhi portandoli a veder in modo malvagio le cose, ma li liberano dalle oscurità per dare loro la capacità di un luminoso vedere la bellezza delle cose,che inneggiano al Creatore e servono l’uomo.
“Il timore del Signore è puro”, perché non è come quello di chi teme la punizione perché colpevole, ma è il timore puro di chi teme di giungere a rattristare Dio con la disobbedienza alla legge d’amore verso lui e verso gli altri.
Il salmista comincia a focalizzarsi sull’effetto della legge su di lui; di lui che è piccolo, ma che è istruito dai giudizi di Dio, che sono contenuti nella legge, poiché Dio giudica gli uomini con quella legge.
Il salmista è consapevole di avere tante mancanze di cui non si rende pienamente conto: le “inavvertenze”. Di queste chiede a Dio perdono. Egli, infatti, anche se osserva la legge non reputa per niente di osservarla perfettamente e sa che sta nell’orgoglio la ragione di una scarsa osservanza. Orgoglio che se non dominato conduce l’uomo al grande peccato, cioè al peccato di una grande e palese disobbedienza alla legge.
Per ultimo, il salmista, chiede a Dio che ascolti, nella sua bontà misericordiosa, la sua preghiera che sgorga da un cuore retto e non doppio, consapevole di non poter nascondere nulla a Dio: “Davanti a te i pensieri del mio cuore”.
Infine, il salmista, sigilla la sua preghiera dicendo: “Signore, mia roccia e mio redentore”. “Mia rupe”, perché è la sua difesa dai suoi nemici (I nemici sono innanzi tutto i demoni Cf. Ef 6,12); ed è “mio redentore”, perché con la sua legge e la sua grazia lo ha strappato dal buio dell’ignoranza e del peccato.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera dei S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
1Cor 1,22-25
Nel 52-54 San Paolo pose le fondamenta a Corinto di una comunità viva, composta soprattutto di pagani di modesta condizione. Due anni dopo, mentre si trovava ad Efeso, l’Apostolo ha sentore delle divisioni che agitano questa giovane comunità, ed alcuni corinzi lo raggiungono per sottoporgli le loro difficoltà. L’apostolo scrive attorno al 55-56 questa lettera, che noi chiamiamo prima, anche se si suppone che ce ne sia stata un’altra che però è andata perduta.
Questa prima lettera è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale. Vi si trovano infatti informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna“, purezza dei costumi, matrimonio e verginità, svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell’eucaristia, uso dei carismi; sia per i rapporti con il mondo pagano.
Nella prima sezione della lettera, da dove è stato tratto questo brano, Paolo affronta il tema della divisione della comunità in partiti, dopo che i corinzi avevano cercato una sapienza umana, quella rappresentata dagli insegnamenti dei singoli predicatori, che li ha portati alla divisione.
Paolo, nonostante la sua istruzione, non si era fatto notare a Corinto per la sua sapienza, la sua cultura o la sua eloquenza. Avrebbe contraddetto il suo insegnamento, poiché la croce di Cristo, che egli annunciava, significa proprio la fine di tutto ciò di cui l’uomo s’inorgoglisce.
Il brano inizia con parole di sfida: mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani;
In modi diversi sia gli uni che gli altri vogliono acquistare potere e dominio sulla realtà: ma così si precludono la possibilità di scoprire la vera sapienza di Dio.
In contrasto con queste aspettative umane Paolo annuncia Cristo crocifisso, proprio perché il Crocifisso rappresenta per i giudei, con la sua debolezza, un motivo di “scandalo”, per i greci invece egli è ”stoltezza”, ossia la negazione della sapienza che essi cercano.
Ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. ossia per i “chiamati” che lo hanno accettato con fede, il Cristo annunziato da Paolo è “potenza e sapienza di Dio”.
Dio si è servito di Suo figlio, uomo crocifisso, come strumento per portare a termine la Sua creazione e per chiamare a sé tutta l’umanità.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
Gv 2, 13-25
Il Vangelo di Giovanni inizia dopo il Prologo riportando la testimonianza di Giovanni Battista (1,19-34), poi la chiamata dei primi discepoli (1,35-51) e infine il primo segno compiuto da Gesù a Cana di Galilea, il cambiamento dell’acqua in vino. (2,1-12). Subito dopo viene presentato l’episodio, che troviamo in questo brano liturgico, conosciuto come la “Cacciata dei mercanti dal tempio”,
Mentre per i sinottici questo episodio dà inizio alla settimana conclusiva della vita di Gesù, Giovanni lo pone all’inizio del Suo ministero.
Il brano si apre riportandoci che:” Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme”. Gesù sale a Gerusalemme in quanto si adegua alle feste liturgiche di Israele, ma per dare loro anche un significato nuovo. L’evangelista non precisa in quale momento delle celebrazioni pasquali l’episodio è avvenuto, mentre per i sinottici si tratta del lunedì santo.
Gesù entrato nel tempio: “Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete”. Il termine “tempio” qui non indica il luogo santo, considerato come la dimora di Dio, ma i cortili esterni, accessibili anche ai non giudei, chiamati anche “cortile dei gentili”. Gli animali venivano venduti perché i pellegrini, specialmente quelli venuti da lontano, potessero disporre di vittime per i sacrifici; i cambiavalute invece trasformavano il denaro profano nell’unica moneta ammessa nel tempio. Si trattava quindi di un’attività non solo lecita, ma anche indispensabile per il funzionamento del tempio.
Posto di fronte a questa realtà Gesù reagisce in modo molto duro: fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
Secondo Giovanni, Gesù rimprovera i giudei non perché, pur offrendo sacrifici a Dio, rifiutano il suo inviato, ma perché servendosene per usi commerciali, profanano il tempio, rendendolo inadatto al culto sacrificale. Giovanni aggiunge che i discepoli si ricordarono una frase della Scrittura che dice: Lo zelo per la tua casa mi divorerà”. La frase è del salmo 69, in cui il salmista si lamenta con Dio per la persecuzione che subisce da parte dei suoi avversari, e nel v. 10 egli sottolinea come sia pieno di un amore senza confini per il tempio di Dio, cioè per Dio stesso, e lascia intendere che proprio per questo è stato perseguitato.
In Giovanni invece il verbo “divorare” è al futuro, e sicuramente perché vuole alludere alla morte a cui Gesù va incontro proprio in forza del rapporto speciale che lo unisce a Dio: è proprio l’amore per la casa di Dio che lo porterà sulla croce.
Finora i giudei sono rimasti in silenzio di fronte a quanto Gesù aveva fatto. Ora essi intervengono chiedendo a Gesù: Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere.
Questa volta il termine “tempio” indica il luogo santo in cui era localizzata la presenza di Dio. La frase pronunziata da Gesù richiama quella che i falsi testimoni gli attribuiranno nel corso del processo davanti al sommo sacerdote.
I giudei ribattono: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?”. Essi si riferiscono ai lavori fatti da Erode per la restaurazione del tempio, per cui si può dedurre che questi sarebbero stati iniziati verso il 20 a.C.
L’evangelista non riporta alcuna risposta di Gesù, limitandosi a dire che egli parlava del tempio del Suo corpo. Non si tratta quindi del tempio materiale, ma della persona di Gesù, intesa come il luogo in cui Dio abita. L’evangelista fa questa riflessione “Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. “
È chiaro quindi che secondo Giovanni, Gesù parlava della Sua risurrezione, lasciando così intendere che in forza di essa il Suo corpo sarebbe diventato il vero tempio in cui Dio abita in mezzo al Suo popolo.
Ma tutto questo neppure i discepoli l’hanno capito durante la Sua vita terrena. È lo Spirito infatti che, dopo la Pasqua, farà comprendere pienamente ai discepoli le parole e i gesti di Gesù, illuminando in profondità il loro significato e permettendo di attualizzarli nel presente.
Al termine del racconto l’evangelista osserva: Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
Gesù ha compiuto numerosi miracoli nel corso della Sua vita e Giovanni definendoli come “segni”, conferisce loro il compito di suscitare la fede in Gesù. A Gerusalemme i segni da Lui operati suscitano l’entusiasmo, ma Gesù conosce l'intimo dell'uomo, le sue fragilità e non si lascia ingannare dall'entusiasmo superficiale che segue i Suoi segni. Il rapporto con Dio non si mercanteggia, sembrano dire le parole e i gesti di Gesù. E neppure lo si vive mediante il semplice e formale ingresso nel tempio materiale. Esso consiste essenzialmente nell’adorare Dio “in spirito e verità”, secondo quanto Gesù ci dice in un altro passo del Vangelo di Giovanni.
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"Il Vangelo di oggi ci presenta l’episodio della cacciata dei venditori dal tempio, Gesù «fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi», il denaro, tutto. Tale gesto suscitò forte impressione, nella gente e nei discepoli. Chiaramente apparve come un gesto profetico, tanto che alcuni dei presenti domandarono a Gesù: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?», chi sei tu per fare queste cose? Mostraci un segno che tu hai autorità per farle.
Cercavano un segno divino, prodigioso che accreditasse Gesù come inviato da Dio. Ed Egli rispose: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli replicarono: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Non avevano compreso che il Signore si riferiva al tempio vivo del suo corpo, che sarebbe stato distrutto nella morte in croce, ma sarebbe risorto il terzo giorno. Per questo “in tre giorni”. «Quando poi fu risuscitato dai morti – annota l’Evangelista – i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù».
In effetti, questo gesto di Gesù e il suo messaggio profetico si capiscono pienamente alla luce della sua Pasqua. Abbiamo qui, secondo l’evangelista Giovanni, il primo annuncio della morte e risurrezione di Cristo: il suo corpo, distrutto sulla croce dalla violenza del peccato, diventerà nella Risurrezione il luogo dell’appuntamento universale tra Dio e gli uomini. E Cristo Risorto è proprio il luogo dell’appuntamento universale - di tutti! - fra Dio e gli uomini. Per questo la sua umanità è il vero tempio, dove Dio si rivela, parla, si fa incontrare; e i veri adoratori, i veri adoratori di Dio non sono i custodi del tempio materiale, i detentori del potere o del sapere religioso, sono coloro che adorano Dio «in spirito e verità» (Gv 4,23).
In questo tempo di Quaresima ci stiamo preparando alla celebrazione della Pasqua, quando rinnoveremo le promesse del nostro Battesimo. Camminiamo nel mondo come Gesù e facciamo di tutta la nostra esistenza un segno del suo amore per i nostri fratelli, specialmente i più deboli e i più poveri, noi costruiamo a Dio un tempio nella nostra vita. E così lo rendiamo “incontrabile” per tante persone che troviamo sul nostro cammino. Se noi siamo testimoni di questo Cristo vivo, tante gente incontrerà Gesù in noi, nella nostra testimonianza. Ma - ci domandiamo, e ognuno di noi si può domandare –: il Signore si sente veramente a casa nella mia vita? Gli permettiamo di fare “pulizia” nel nostro cuore e di scacciare gli idoli, cioè quegli atteggiamenti di cupidigia, gelosia, mondanità, invidia, odio, quell’abitudine di chiacchierare e “spellare” gli altri? Gli permetto di fare pulizia di tutti i comportamenti contro Dio, contro il prossimo e contro noi stessi, come oggi abbiamo sentito nella prima Lettura? Ognuno può rispondere a sé stesso, in silenzio, nel suo cuore. “Io permetto che Gesù faccia un po’ di pulizia nel mio cuore?”. “Oh, padre, io ho paura che mi bastoni!”. Ma Gesù non bastona mai. Gesù farà pulizia con tenerezza, con misericordia, con amore. La misericordia è il suo modo di fare pulizia. Lasciamo - ognuno di noi - lasciamo che il Signore entri con la sua misericordia - non con la frusta, no, con la sua misericordia - a fare pulizia nei nostri cuori. La frusta di Gesù con noi è la sua misericordia. Apriamogli la porta perché faccia un po’ di pulizia.
Ogni Eucaristia che celebriamo con fede ci fa crescere come tempio vivo del Signore, grazie alla comunione con il suo Corpo crocifisso e risorto. Gesù conosce quello che c’è in ognuno di noi, e conosce pure il nostro più ardente desiderio: quello di essere abitati da Lui, solo da Lui. Lasciamolo entrare nella nostra vita, nella nostra famiglia, nei nostri cuori. Maria Santissima, dimora privilegiata del Figlio di Dio, ci accompagni e ci sostenga nell’itinerario quaresimale, affinché possiamo riscoprire la bellezza dell’incontro con Cristo, che ci libera e ci salva."
Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’8 marzo 2018
La liturgia di questa seconda domenica di quaresima, hanno come sfondo spaziale un monte e si aprono entrambe ad una rivelazione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, abbiamo il monte Moria – che la tradizione identificherà simbolicamente col colle del Tempio di Gerusalemme – a raccogliere una drammatica e gloriosa rivelazione di Dio destinata ad Abramo, nostro padre nella fede, come lo definirà S.Paolo . La narrazione è la storia di un credente che scopre anche attraverso la strada impervia del silenzio di Dio, la promessa di una salvezza piena. Infatti quel terribile e silenzioso viaggio di tre giorni affrontato da Abramo verso la vetta della prova possiamo scorgere l’esempio di ogni itinerario di fede.
Nella seconda lettura, Paolo, nella sua lettera ai Romani, fa un vibrante inno all’amore di Dio, che si manifesta nel dono del Figlio. L’antica figura di Isacco è diventata realtà in Cristo: “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi”..
Nel Vangelo di Marco troviamo il racconto della Trasfigurazione di Gesù, che avviene su di un monte, il cui nome non è citato nei Vangeli, anche se la tradizione cristiana lo identificherà col monte Tabor, in Galilea.
La Trasfigurazione è l’anticipazione della gloria del risorto. Solo chi cammina con Cristo sulla via della croce, può giungere con Lui alla gloria luminosa della resurrezione.
Dal libro della Genesi
In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Gen 22,1-2,9a,10-13,15-18
Questo celeberrimo racconto rappresenta il punto culminante della vicenda di Abramo, che occupa tutta la prima sezione della seconda parte della Genesi.
Sappiamo che dopo varie vicende, fra slanci di fede e umilianti sconfitte, Abramo ha ottenuto finalmente Isacco, il figlio della promessa. Ma proprio ora avviene un terribile colpo di scena: Dio domanda ad Abramo di offrirglielo in sacrificio.
Il brano inizia riportando che “Dio mise alla prova Abramo…” Ciò che sta per chiedergli è talmente terribile da preparare chi legge al fatto che Dio non lo vuole veramente, ma intende semplicemente saggiare fino in fondo e in modo definitivo il cuore di Abramo, quanto sia forte la sua fede in Lui.
Dio pronunzia due volte il nome del patriarca: “Abramo, Abramo!” per indicare il momento solenne, decisivo dal quale dipende il futuro di Abramo e del popolo che nascerà da lui.
Con quell’“Eccomi!” Abramo si dichiara pronto per ascoltare ciò che Dio gli dice: “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
La richiesta è veramente terribile, difficile da credere che Dio che è Amore voglia un sacrificio umano di un figlio ”unigenito”, che un padre ha tanto atteso e che ora ama immensamente, più di ogni altra cosa . È importante anche la designazione del luogo in cui dovrà attuarsi il sacrificio, si tratta infatti del monte Moria, che in un altro testo (v. 2Cr 3,1) è indicato come il luogo in cui sorgerà il tempio di Gerusalemme.
Nel testo non vengono descritti i sentimenti contrastanti di Abramo e nei versetti non presenti nel brano liturgico, viene riportato che “Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato”, e alla domanda che Isacco, giunti sul monte Moria fece al padre: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” “Abramo rispose “ Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”.
Questi versetti sono importanti perchè evidenziano l’obbedienza cieca e silenziosa di Abramo, ma soprattutto la sua fede incrollabile per il suo Dio.
Molti esperti giustamente si sono chiesti: come può Abramo aver pensato che Dio gli potesse chiedere questo suo figlio tanto atteso, il figlio della promessa? E come Abramo ha potuto distinguere la vera voce di Dio?
La deduzione a cui sono giunti ci permette di fare un passo in più per comprendere il mistero di Dio: Abramo osservando i suoi contemporanei si sarà accorto che essi amavano a tal punto i loro dèi da sacrificare i loro primogeniti. Gli sembrò allora che l’amore di Dio potesse esigere da lui il sacrificio di Isacco, il figlio della promessa, tanto atteso e amato.
Ma è qui che Dio interviene e per fermarlo invia il suo angelo per dirgli: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito”. Dio non vuole la morte dell’uomo, ma la vita!
Abramo, che aveva già sacrificato Isacco nel proprio cuore, lo poté considerare così come un salvato da morte, come un risuscitato, perciò i Padri della Chiesa hanno visto nel sacrificio di Isacco, la prefigurazione del sacrificio di Cristo.
Al termina del racconto Dio rinnova ad Abramo con un solenne giuramento le promesse che gli aveva fatto precedentemente, motivandole nuovamente col fatto che egli “non ha risparmiato” il suo unico figlio “io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare. la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”
Nota: E’ da tenere presente che l’idea ebraica di Dio ai tempi di Abramo, fosse una monolatria, ossia l’adorazione di un unico Dio, ma senza escludere che gli altri popoli avessero i loro dèi, infatti non si trova prima del Deuteronomio un vero e proprio monoteismo, ovvero un Dio unico e universale. Dopo l’esilio i pochi reduci del popolo d’Israele, non solo continuano a fidarsi del loro Dio, il che è contro l’apparente logica umana, ma addirittura arrivano ad affermare che il loro è l’unico Dio! Non ce ne sono altri. Lui è il Creatore dell’universo, tutto è uscito dalla Sua opera!
Salmo 115 Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.
Ho creduto anche quando dicevo:
«Sono troppo infelice».
Agli occhi del Signore
è preziosa la morte dei suoi fedeli.
Ti prego, Signore, perché sono tuo servo;
io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.
A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo,
negli atri della casa del Signore,
in mezzo a te, Gerusalemme.
Il salmista ha provato momenti di sgomento di fronte agli inganni degli uomini. Si era trovato imprigionato, ma poi ha visto la libertà: “hai spezzato le mie catene”. Come risposta di il salmista offrirà “un sacrificio di ringraziamento".
Una parte delle vittime sacrificate spettava all'offerente, che la consumava in un convito coi famigliari, gli amici, i poveri (Cf. Ps 21,27). Durante il convito l'offerente prendeva una coppa di vino presentandola al Signore e poi ne beveva lui e tutti gli altri: “Alzerò il calice della salvezza”.
Il salmista dice che “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli”, intendendo affermare che l'ora della morte dei fedeli a Dio non è ad arbitrio degli uomini. Lui decide il dove, il come e il quando, e questo per il bene del fedele.
Il salmista offrirà "un sacrificio di ringraziamento" davanti a tutto il popolo, e con piena ortodossia nel tempio del Signore, a Gerusalemme, testimoniando così pubblicamente la sua fede nel Signore.
L'esistenza del tempio porta a pensare ad un personaggio perseguitato per la sua fedeltà a Dio da un qualche re di Gerusalemme rivolto agli dei pagani; come fu il caso di Geremia.
“Il calice della salvezza”, nel sensus plenior è quello eucaristico.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto?
Dio è colui che giustifica!
Chi condannerà? Cristo è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
Rm 8,31b-34
San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità
Nel capitolo 8, da dove è tratto questo brano, Paolo riprende in chiave positiva il tema della giustificazione, mostrando come, una volta eliminata la minaccia di una legge che si impone dall’esterno all’uomo peccatore, la salvezza portata da Cristo si manifesta come una vita nuova animata e guidata dallo Spirito.
Nel brano che abbiamo, Paolo mette in risalto come nulla possa ormai pregiudicare il cammino di liberazione del credente e introduce due prime domande che riguardano il problema in generale:”se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” In forza della scelta speciale che ha fatto in loro favore, Dio è ormai dalla parte dei credenti. Nulla quindi potrà essere contro di loro. Poi prosegue: Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica!
Se Dio è giunto fino al punto di non risparmiare il proprio Figlio, anzi di “consegnarlo” per tutti loro, egli non potrà non donare loro ogni cosa insieme con Lui.
Infine pone la stessa domanda, dandone la risposta, riguardo a Cristo: Chi condannerà? Cristo è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!
Certo non sarà Cristo Gesù a condannare coloro per i quali è morto ed è risorto, e ora sta alla destra di Dio dove intercede per loro. Se hanno dalla loro parte sia Dio che Suo Figlio Gesù, i credenti non hanno nulla da temere: nessuno, se non loro stessi, potrà privarli di quei beni che Gesù ha acquistato loro con la Sua morte e risurrezione
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce:
«Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente,guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti
Mc 9,2-10
L’episodio della Trasfigurazione anche nel Vangelo di Marco, come negli altri vangeli sinottici, è inserito nella fase cruciale del ministero pubblico di Gesù, cioè tra la confessione di Pietro, la rivelazione del Messia sofferente, e l’inizio dell’ultimo pellegrinaggio verso Gerusalemme.
Il brano inizia riportando che “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli”. Marco non dice quale fosse l’alto monte su cui si è verificato l’evento. Esso è stato identificato dalla tradizione cristiana con il Tabor, un tozzo colle di 582 metri che incombe sulla fertile valle di Izreel in Galilea, in senso simbolico indica però il luogo in cui Dio si rivela al Suo popolo.
Possiamo considerare l’evento della trasfigurazione , strettamente legata alla passione del Signore e di conseguenza un anticipo della gloria della Sua risurrezione.
“Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”
L’effetto di questa trasfigurazione viene indicato mediante il candore straordinario delle sue vesti . Marco non poteva trovare altre definizioni perchè lo splendore di quelle vesti, avevano una luminosità, un candore tipica degli esseri celesti, che appartengono al mondo divino, che nessuna parola umana può descrivere. Accanto a Gesù, in atto di conversare con Lui, appaiono Elia e Mosè per indicare rispettivamente il profetismo e la legge che proprio in Gesù trovano il loro compimento. Il fatto che Elia preceda Mosè ha forse lo scopo di far risaltare la supremazia del profetismo, che invece nel giudaismo era messo al secondo posto.
La scena provoca la surreale reazione di Pietro,il quale, rivolgendosi a Gesù, gli dice: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
L’evangelista non spiega che cosa intendesse effettivamente l’apostolo, ma sottolinea che i tre erano talmente spaventati da non sapere che cosa dire. La loro confusione mentale era anche probabilmente l’effetto del sacro terrore che accompagna di solito la manifestazione del divino.
La richiesta di Pietro è in linea con l’episodio di Cesarea di Filippo, quando egli, di fronte all’annunzio della imminente morte e risurrezione di Gesù, aveva duramente protestato (Mc 8,32-33): in ambedue i casi egli si dimostra interessato alla gloria del Cristo, piuttosto che alla Sua sofferenza e morte.
Dopo l’intervento di Pietro una nube copre con la sua ombra Gesù, Elia e Mosè e da essa esce una voce che dice: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!”. La presenza della nube, segno classico della presenza di Dio, rievoca l‘apparizione del Figlio dell‘uomo (Dn 7,13) e la proclamazione di Gesù come “Figlio mio, l’amato” ricorda la scena del battesimo. Con il termine “figlio”, viene proclamata la dignità messianica di Gesù, e il termine “amato” richiama invece il sacrificio di Isacco.
Improvvisamente, dopo aver ascoltato la voce, i tre discepoli si guardano intorno e non vedono più nessuno se non Gesù. Questo brusco ritorno alla realtà quotidiana sottolinea il carattere singolare della visione: Gesù resta quello che era, ma i discepoli hanno compreso qualcosa di Lui che va al di là della percezione esterna e sensoriale.
Mentre scendono dalla montagna Gesù ordina ai tre di non raccontare a nessuno l’accaduto prima che avvenga la risurrezione del Figlio dell’uomo .
L’evangelista evidenzia che “essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti”. Questa incomprensione dei discepoli spiega la ragione perchè essi si troveranno del tutto smarriti e impreparati di fronte all‘evento della risurrezione.
Tra i tanti spunti che si possono trarre da questo racconto colpisce la domanda ingenua di Pietro: “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne …” L’apostolo vorrebbe subito essere nella pace e nella gloria della Pasqua, cancellando la quaresima della vita col suo cammino oscuro e con la morte.
Pietro qui ci rappresenta tutti quando vogliamo che non ci sia anche per noi la via della croce, quando sogniamo una scorciatoia facile che ci porti subito dal monte della trasfigurazione, cioè dai momenti di luce e di pace, alla Gerusalemme celeste della Pasqua definitiva.
Come Abramo, invece, dobbiamo percorrere la valle oscura delle prove; come Gesù dobbiamo discendere nella pianura quotidiana della Galilea, pronti a salire verso il picco più alto della prova, il Monte Moria o il Calvario, dove però si aprirà anche la luce della promessa e della Pasqua.
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"Domenica scorsa a liturgia ci ha presentato Gesù tentato da satana nel deserto, ma vittorioso sulla tentazione. Alla luce di questo Vangelo, abbiamo preso nuovamente coscienza della nostra condizione di peccatori, ma anche della vittoria sul male offerta a quanti intraprendono il cammino di conversione e, come Gesù, vogliono fare la volontà del Padre.
In questa seconda domenica di Quaresima, la Chiesa ci indica la meta di questo itinerario di conversione, ossia la partecipazione alla gloria di Cristo, quale risplende sul suo volto di Servo obbediente, morto e risorto per noi.
La pagina evangelica racconta l’evento della Trasfigurazione, che si colloca al culmine del ministero pubblico di Gesù. Egli è in cammino verso Gerusalemme, dove si compiranno le profezie del “Servo di Dio” e si consumerà il suo sacrificio redentore.
Le folle, non capivano questo: di fronte alla prospettiva di un Messia che contrasta con le loro aspettative terrene, lo hanno abbandonato. Ma loro pensavano che il Messia sarebbe stato un liberatore dal dominio dei romani, un liberatore della patria e questa prospettiva di Gesù non piace loro e lo lasciano. Anche gli Apostoli non capiscono le parole con cui Gesù annuncia l’esito della sua missione nella passione gloriosa, non capiscono! Gesù allora prende la decisione di mostrare a Pietro, Giacomo e Giovanni un anticipo della sua gloria, quella che avrà dopo la resurrezione, per confermarli nella fede e incoraggiarli a seguirlo sulla via della prova, sulla via della Croce. E così, su un alto monte, immerso in preghiera, si trasfigura davanti a loro: il suo volto e tutta la sua persona irradiano una luce sfolgorante. I tre discepoli sono spaventati, mentre una nube li avvolge e risuona dall’alto – come nel Battesimo al Giordano – la voce del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» .
Gesù è il Figlio fattosi Servo, inviato nel mondo per realizzare attraverso la Croce il progetto della salvezza, per salvare tutti noi. La sua piena adesione alla volontà del Padre rende la sua umanità trasparente alla gloria di Dio, che è l’Amore.
Gesù si rivela così come l’icona perfetta del Padre, l’irradiazione della sua gloria. E’ il compimento della rivelazione; per questo accanto a Lui trasfigurato appaiono Mosè ed Elia, che rappresentano la Legge e i Profeti, come per significare che tutto finisce e incomincia in Gesù, nella sua passione e nella sua gloria.
La consegna per i discepoli e per noi è questa: “Ascoltatelo!”. Ascoltate Gesù. E’ Lui il Salvatore: seguitelo. Ascoltare Cristo, infatti, comporta assumere la logica del suo mistero pasquale, mettersi in cammino con Lui per fare della propria esistenza un dono di amore agli altri, in docile obbedienza alla volontà di Dio, con un atteggiamento di distacco dalle cose mondane e di interiore libertà. Occorre, in altre parole, essere pronti a “perdere la propria vita” (cfr Mc 8,35), donandola affinché tutti gli uomini siano salvati: così ci incontreremo nella felicità eterna.
Il cammino di Gesù sempre ci porta alla felicità, non dimenticatelo! Il cammino di Gesù ci porta sempre alla felicità. Ci sarà in mezzo sempre una croce, delle prove ma alla fine sempre ci porta alla felicità. Gesù non ci inganna, ci ha promesso la felicità e ce la darà se andiamo sulle sue strade.
Con Pietro, Giacomo e Giovanni saliamo anche noi oggi sul monte della Trasfigurazione e sostiamo in contemplazione del volto di Gesù, per raccoglierne il messaggio e tradurlo nella nostra vita; perché anche noi possiamo essere trasfigurati dall’Amore.
In realtà l’amore è capace di trasfigurare tutto. L’amore trasfigura tutto!
Credete voi in questo? Ci sostenga in questo cammino la Vergine Maria, che ora invochiamo con la preghiera dell’Angelus."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 marzo 2015
Da mercoledì scorso, con la liturgia delle ceneri è iniziata la quaresima, tempo che ci riporta alla sostanza dell’esistenza cristiana, invitandoci a intensificare nella preghiera e nella penitenza il cammino per la preparazione alla Pasqua di risurrezione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, vediamo come una nuova umanità nasce purificata dalle acque del diluvio. L’alleanza di Dio con Noè è il primo annuncio della grande Alleanza che sarà compiuta da Cristo nella Pasqua, con il Suo sangue.
Nella seconda lettura, nella prima lettera di S.Pietro, leggiamo come il diluvio ha fatto nuova la terra, così il battesimo fa nuovo ogni uomo. E’ la novità che nasce dalla risurrezione di Cristo e abbraccia tutta l’umanità e l’intero creato.
Nel brano del suo Vangelo, Marco facendo seguire subito dopo il battesimo di Gesù l’episodio delle tentazioni, vuole indicare che il punto fondamentale della missione del Figlio di Dio è la lotta contro satana, che si può vincere solo se ci rivestiamo delle armi della fede in Colui che ha vinto il mondo. La quaresima perciò inizia con l’appello di Cristo: Convertitevi e credete al Vangelo! Nella loro essenzialità e nella loro forza, queste parole sono come un fulmine che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate della nostra esistenza umana!
Dal libro della Genesi
Dio disse a Noè e ai suoi figli con lui: «Quanto a me, ecco io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri discendenti dopo di voi, con ogni essere vivente che è con voi, uccelli, bestiame e animali selvatici, con tutti gli animali che sono usciti dall’arca, con tutti gli animali della terra. Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra».
Dio disse:
«Questo è il segno dell’alleanza,
che io pongo tra me
e voi e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future.
Pongo il mio arco sulle nubi,
perché sia il segno dell’alleanza
tra me e la terra.
Quando ammasserò le nubi sulla terra
e apparirà l’arco sulle nubi,
ricorderò la mia alleanza
che è tra me e voi
e ogni essere che vive in ogni carne,
e non ci saranno più le acque per il diluvio,
per distruggere ogni carne».
Gen 9,8-15
Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano lo troviamo alla conclusione del racconto del diluvio, dopo i racconti riguardanti la creazione. Il diluvio è presentato come un evento che ha sconvolto tutto l’universo, come punizione per un’ulteriore diffusione del peccato.
Il racconto, che si trova anche in altre religioni, ha solo valore teologico ed è la risposta che l’uomo si dà al perché c’è il male nel mondo. Questo brano ci parla dell’alleanza che Dio offre a Noè liberato dalle acque del diluvio. “Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi,
per tutte le generazioni future. Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne”.
Più di un’alleanza, si può dire che è una garanzia, un impegno assunto soltanto da parte di Dio perché non dipende dal futuro comportamento dell’uomo, perché il Signore non chiede a Noè nessun impegno in particolare. E’ perciò un puro atto di misericordia verso tutta l’umanità intera: uomini ed animali.
Come negli accordi terreni, viene stabilito anche un segno esterno che possa ricordare l’impegno assunto e questo segno sarà l’arcobaleno. L’arcobaleno, che sorge dopo ogni temporale, viene scelto perché fa pensare ad un arco da guerra deposto sulle nubi, significando così la fine di un conflitto tra Dio e il cosmo e una garanzia di pace.
Nella prospettiva biblica questa pace non si esaurisce nella stabilità delle leggi della natura, ma è l’espressione della misericordia infinita di Dio per tutta l’umanità. Infine questa alleanza si estende alle “generazioni future”, è cioè un’alleanza perenne, come quella stabilita con Abramo. Viene così confermata la misericordia di Dio che rispetta la vita di ogni vivente, specialmente dell’uomo che rappresenta il vertice di tutto il creato.
Salmo 24: Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà.
Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza.
Ricordati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
Ricordati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.
Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.
Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito. E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi; non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, in virtù della risurrezione di Gesù Cristo. Egli è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.
1Pt 3,18-22
La Prima lettera di Pietro è un testo scritto alla fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma secondo gli esperti è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire a Pietro o al suo ambiente. Non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale, che si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 - 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 - 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 - 5,11).
Il brano che abbiamo fa parte della parte centrale dello scritto, nella quale si danno direttive per la partecipazione dei cristiani alla vita sociale (2,11-4,11).
Pietro inizia ricordando che “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma reso vivo nello spirito”.
Egli non si limita però a richiamare le sofferenze di Cristo, ma ne mette in luce il significato ribadendo che “Cristo è morto una volta per sempre”, cioè con il suo gesto ha raggiunto pienamente, una volta per tutte, il suo scopo. Inoltre egli è morto “per i peccati” cioè per liberare l’uomo dai peccati che lo tengono schiavo. Proprio Lui, che era giusto, ha dato la vita per uomini ingiusti, attuando così il compito di ricondurli a Dio.
Infine Pietro sottolinea che Cristo è stato “messo a morte nel corpo”, cioè nella sua realtà umana, povera e limitata, che lo accomuna a tutta l’umanità, ma è stato “reso vivo nello Spirito”, cioè in forza della potenza stessa di Dio che Egli possiede nella sua pienezza. In altre parole Pietro vuole dire che, dopo e in forza della morte che lo ha colpito come ogni altro essere umano, lo Spirito di Dio ha attuato in lui una vita nuova, che si manifesta mediante la Sua resurrezione, e da Lui si estende a tutti i credenti (questo concetto lo si può ritrovare in Rm 1,4).
Pietro prende lo spunto dalla morte di Cristo per parlare della sua discesa agli inferi che descrive così: “nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere, quando Dio, nella sua magnanimità, pazientava nei giorni di Noè, mentre si fabbricava l’arca, nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell’acqua.
Pietro allude qui sicuramente allo Sheol, che era considerato come il regno dei morti, nel quale vanno a finire le anime dei trapassati, per i sadducei senza alcuna speranza di cambiamento, per i farisei in attesa della risurrezione finale. Secondo la terminologia ebraica “andare agli inferi” era semplicemente una giro di parole per indicare la morte. Pietro invece la interpreta come una visita in quella regione tenebrosa, nella quale secondo lui erano tenuti come prigionieri tutti coloro che erano vissuti al tempo del diluvio universale. Costoro, pur vedendo che Noè costruiva l’arca, invece di approfittare dell’ultima possibilità che veniva loro concessa dalla pazienza di Dio, non avevano creduto ed così salvati. In altre parole si tratterebbe dell’umanità che è stata sterminata per la sua malvagità al tempo di Noè. Ma forse Pietro pensa più in generale a tutta l’umanità vissuta prima di Cristo, che egli vede contrassegnata dallo stesso peccato che ha provocato la distruzione del diluvio.
A questi spiriti racchiusi nello Sheol come in una prigione, Cristo “andò a portare l’annuncio”. Anche se il testo non mette l’oggetto dell’annuncio ossia la “salvezza”, molti padri (tra i quali Agostino) e esegeti moderni sottintendono “annuncio di salvezza”, e una liberazione vera e propria.
Nell’ultima parte del brano si parla dell’acqua del diluvio “Quest’acqua, come immagine del battesimo, ora salva anche voi”; Pietro intravede qui una specie di analogia tra il diluvio e il battesimo cristiano: l’acqua del diluvio, da cui solo alcuni si salvarono, simboleggia l’economia dell’antica legge, le cui prescrizioni rituali ottenevano molto spesso solo una purificazione esteriore e “carnale”. È vero che l’acqua del diluvio è stata soprattutto strumento di morte, mentre quella del battesimo porta la salvezza, ma bisogna riconoscere che ambedue hanno in comune l’effetto di purificazione dal contagio del peccato. Il battesimo è presentato anzitutto come un mezzo di salvezza che opera “ora”.
Pietro precisa che il battesimo non porta via la sporcizia del corpo, ma è invocazione di salvezza rivolta a Dio da parte di una buona coscienza, cioè la richiesta a Dio perché mantenga l’impegno da lui preso in favore di chi lo riceve con retta intenzione.
La preghiera che accompagna il rito battesimale, non può non essere esaudita se chi la pronunzia non ha una “buona coscienza”, cioè le disposizioni del cuore che sono richieste per ritornare a Dio. Queste disposizioni non vengono dalla buona volontà dell’uomo, ma sono anch’esse un dono di Dio, che riceviamo “in virtù della risurrezione di Gesù Cristo”.
Il brano termina con una professione di fede cristologica: questo Cristo che è risorto
“è alla destra di Dio, dopo essere salito al cielo e aver ottenuto la sovranità sugli angeli, i Principati e le Potenze.”
Questa espressione riprende le affermazioni delle lettere paoline circa l’esaltazione di Cristo (v. Ef 1,20-21; Col 2,15), alle quali Luca attinge riportando il racconto dell’ascensione (At 1,9), facendole poi presentare da Pietro nella sua prima predica dopo la Pentecoste.
Nel contesto del mistero pasquale, Cristo ha dunque ricevuto la pienezza dello Spirito per proporre la salvezza a tutti gli uomini, anche a quelli che erano vissuti prima di lui, non esclusi i peccatori più pervertiti, come quelli del tempo di Noè. Pietro vuole qui affermare che la salvezza portata da Cristo opera in modo misterioso a favore di tutti gli uomini, anche di coloro che sono vissuti prima di Lui. Infatti nella sua esperienza personale si rende visibile, in modo chiaro e urgente, quella spinta che ha portato uomini di ogni razza e religione a dare la vita per i loro fratelli.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Mc 1, 12-15
Nella breve introduzione del suo vangelo, Marco, dopo aver parlato di Giovanni il Battista e il battesimo di Gesù, accenna in modo molto conciso al periodo che Gesù trascorre nel deserto. Diversamente dunque da Matteo e Luca, Marco narra la tentazione di Gesù in modo veramente molto conciso: “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano.
Vediamo che ancora una volta, dopo la sua apparizione al battesimo, interviene nella vita di Gesù lo Spirito di Dio, per indicargli che cosa deve fare per realizzare il suo progetto di salvezza. Sotto l’azione dello Spirito, Gesù dunque si reca nel deserto, cioè nella regione desolata che si estende tra la zona montagnosa della Giudea e il mar Morto (deserto di Giuda), e lì resta quaranta giorni.
I quaranta giorni sono un periodo di tempo simbolico, che richiama i quarant’anni trascorsi dal popolo di Israele nel deserto (Nm 14,34), dove è stato messo alla prova da Dio (Dt 8,2) o i quaranta giorni trascorsi da Mosè sul Sinai (Es 24,18) o quelli impiegati da Elia per raggiungere l’Oreb (1Re 19,8). Il tema della tentazione inoltre rievoca anche la figura di Adamo, il quale era stato tentato dal serpente (Gen 3,1-7).
Sebbene sia stato sospinto nel deserto dallo Spirito, Gesù non è messo alla prova da Dio (come il popolo in Dt 8,2), ma da satana. Questo per non offuscare l’immagine di Dio i giudei del tempo di Gesù si erano abituati ad attribuire la tentazione a un non meglio precisato “avversario” (satana; v.. Gb 1-2), che con il tempo era stato considerato come un’entità diabolica personificata (v. 1Cr 21,1). Questa maggiore sensibilità teologica appare anche nella rilettura sapienziale della vicenda di Adamo, dove il serpente non è più un semplice animale, ma è identificato con il diavolo (v. Sap 2,24).
Anche l’accenno agli animali selvatici viene utilizzato per creare un quadro simbolico, ossia che Gesù vive in mezzo ad essi in piena armonia. Questo ricorda il celebre passo messianico di Isaia (11,6-8) “… Il lupo dimorerà insieme con l’agnello…, il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà.” L’ostilità tra animali selvatici e domestici, tra belve, serpenti e uomo si cancellerà e si ricomporrà l’orizzonte paradisiaco celebrato nel II capitolo della Genesi col giardino dell’Eden, dove Adamo, l’uomo del progetto creativo divino, viveva in compagnia degli animali, e su di essi dominava come guida voluta dal Signore. Mentre stava con le fiere, “gli angeli lo servivano”: questo è chiaramente un segno inequivocabile della vicinanza di Dio, che si fa rappresentare dai Suoi messaggeri; ma diversamente da Israele, che nel deserto ha mormorato e si è ribellato contro Dio, e da Adamo che ha mangiato il frutto dell’albero proibito, Gesù non ha ceduto alle lusinghe del tentatore.
Marco introduce la predicazione di Gesù in Galilea con due versetti che rappresentano il primo dei sommari di cui è ricco il suo vangelo: Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata da giudei, dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, Sua terra d’origine, che a quei tempi veniva chiamata “Galilea delle genti”, appellativo che richiamava il carattere misto della sua popolazione (V. Mt 4,15).
Il termine “proclamare” o predicare, con cui è indicata l’attività di Gesù in Galilea, indica la proclamazione pubblica fatta da un araldo; con esso i cristiani indicavano l’annunzio della salvezza fatto dagli apostoli (v. At 8,5; Rm 10,8; 1Cor 1,23).
Anche l’espressione “vangelo di Dio”, appartiene al linguaggio della prima comunità cristiana (v. Rm 1,1; 15,16; 2Cor 11,7) e indica non tanto la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza.
Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con una frase molto concisa. Anzitutto egli afferma, con un linguaggio che si ispira all’apocalittica giudaica, che “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” Il tempo (kairos), cioè il periodo dell’attesa, che prepara il momento attuale da quello finale e conclusivo della storia, è giunto al termine; di conseguenza il “regno di Dio”, cioè l’esercizio pieno e definitivo della sovranità divina in questo mondo, “è vicino” sta per realizzarsi in questa terra.
“convertitevi e credete nel Vangelo”. Come già aveva fatto Giovanni il Battista, Gesù invita a “convertirsi” (metanoein, cambiare mente) cioè a “ritornare” a Dio, cambiando mentalità e sottomettendosi una volta per tutte alla Sua sovranità; ma per fare ciò è necessario “credere nel vangelo”, cioè aprirsi al lieto annunzio ed essere disposti a basare su di esso tutta la propria vita.
Nella loro essenzialità e nella loro forza queste parole sono come una sferzata che squarcia il grigiore, la superficialità, il compromesso e le abitudini consolidate dell’esistenza umana.
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"Mercoledì scorso, con il rito delle Ceneri, è iniziata la Quaresima, e oggi è la prima domenica di questo tempo liturgico che fa riferimento ai quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto, dopo il battesimo nel fiume Giordano. Scrive san Marco nel Vangelo odierno: «Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano». Con queste scarne parole l’evangelista descrive la prova affrontata volontariamente da Gesù, prima di iniziare la sua missione messianica. È una prova da cui il Signore esce vittorioso e che lo prepara ad annunciare il Vangelo del Regno di Dio. Egli, in quei quaranta giorni di solitudine, affrontò Satana “corpo a corpo”, smascherò le sue tentazioni e lo vinse. E in Lui abbiamo vinto tutti, ma a noi tocca proteggere nel nostro quotidiano questa vittoria.
La Chiesa ci fa ricordare tale mistero all’inizio della Quaresima, perché esso ci dà la prospettiva e il senso di questo tempo, che è un tempo di combattimento - nella Quaresima si deve combattere - un tempo di combattimento spirituale contro lo spirito del male (cfr Orazione colletta del Mercoledì delle Ceneri).
E mentre attraversiamo il “deserto” quaresimale, noi teniamo lo sguardo rivolto alla Pasqua, che è la vittoria definitiva di Gesù contro il Maligno, contro il peccato e contro la morte. Ecco allora il significato di questa prima domenica di Quaresima: rimetterci decisamente sulla strada di Gesù, la strada che conduce alla vita. Guardare Gesù, cosa ha fatto Gesù, e andare con Lui.
E questa strada di Gesù passa attraverso il deserto. Il deserto è il luogo dove si può ascoltare la voce di Dio e la voce del tentatore. Nel rumore, nella confusione questo non si può fare; si sentono solo le voci superficiali. Invece nel deserto possiamo scendere in profondità, dove si gioca veramente il nostro destino, la vita o la morte. E come sentiamo la voce di Dio? La sentiamo nella sua Parola. Per questo è importante conoscere le Scritture, perché altrimenti non sappiamo rispondere alle insidie del maligno… Il deserto quaresimale ci aiuta a dire no alla mondanità, agli “idoli”, ci aiuta a fare scelte coraggiose conformi al Vangelo e a rafforzare la solidarietà con i fratelli.
Allora entriamo nel deserto senza paura, perché non siamo soli: siamo con Gesù, con il Padre e con lo Spirito Santo. Anzi, come fu per Gesù, è proprio lo Spirito Santo che ci guida nel cammino quaresimale, quello stesso Spirito sceso su Gesù e che ci è stato donato nel Battesimo. La Quaresima, perciò, è un tempo propizio che deve condurci a prendere sempre più coscienza di quanto lo Spirito Santo, ricevuto nel Battesimo, ha operato e può operare in noi. E alla fine dell’itinerario quaresimale, nella Veglia Pasquale, potremo rinnovare con maggiore consapevolezza l’alleanza battesimale e gli impegni che da essa derivano."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 22 febbraio 2015
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)