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S.Messe (settimana)
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Elena Tasso

Elena Tasso

1. Giovedì 24 giugno - Solennità di S. Giovanni Battista.

2. Giovedì 24 giugno 2021 alle ore 19.30 nella Basilica Lateranense, in occasione della solennità della Natività di San Giovanni Battista, il Cardinale Vicario Angelo De Donatis presiederà la preghiera dei Vespri. Sono invitati un sacerdote e un rappresentante laico per ogni parrocchia (delegato dal Parroco). Alla luce del percorso ecclesiale sinora svolto, il Cardinale Vicario consegnerà gli orientamenti pastorali per il prossimo anno. La preghiera si svolgerà nel rispetto delle attuali disposizioni in tema di contrasto alla diffusione del virus COVID-19. L’ingresso in Basilica, dietro l’esibizione di un apposito biglietto, sarà consentito tra le ore 18.30 e le ore 19.00. La preghiera sarà trasmessa in diretta su Telepace (digitale terrestre canali 73 e 214 HD, con decoder Sky HD canale 515 e decoder TivùSat HD canale 815) e in streaming sulla pagina Facebook della Diocesi di Roma.

Le letture liturgiche delle domeniche precedenti ci hanno presentato un Gesù dominatore delle malattie e delle potenze demoniache. Oggi il suo potere si allarga fino ad abbracciare gli elementi della natura nella loro raffigurazione più grandiosa e potente: il mare. Il mare esercita su tutti un fascino straordinario: è un segno dell’infinito quando esso si distende davanti agli occhi di chi lo contempla, ma è anche il simbolo del mistero più oscuro quando si scatena in una tempesta o in un maremoto.
Anche la prima lettura, tratta dal discorso divino indirizzato a Giobbe fa riferimento al mare come simbolo del caos e delle potenze oscure di fronte al quale l’uomo ha i suoi limiti: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nella sua seconda lettera ai Corinzi, afferma che nella sua missione non è mosso da considerazioni umane, ma il suo criterio di valutazione e le sue relazioni sono ispirati dalla fede in Cristo morto e risorto.
Nel Vangelo di Marco, Gesù calma il mare in tempesta. Nel racconto primeggiano due domande: quella di Gesù che chiede ai suoi discepoli: Non avete ancora fede?». e quella dei discepoli che si domandano: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»La loro domanda si apre sul mistero di Cristo e dimostra che i discepoli non hanno ancora capito chi sia il loro maestro, oppure hanno persino timore di riconoscere che solo Dio poteva operare un tale prodigio.

Dal libro di Giobbe
Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano:
«Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando usciva impetuoso dal seno materno,
quando io lo vestivo di nubi
e lo fasciavo di una nuvola oscura,
quando gli ho fissato un limite,
gli ho messo chiavistello e due porte
dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre
e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».
Gb 38,1-8-11

Il Libro di Giobbe, composto da 42 capitoli, è stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi di molti studiosi, la prima redazione risale all'XI-X secolo a.C., mentre la redazione definitiva, con le aggiunte in prosa, è stata composta in Giudea verso il 575 a.C.. La storia di Giobbe nasce dagli infiniti interrogativi che il problema del male porta all'umanità. Ci troviamo di fronte ad una ricerca drammatica sul senso dell'esistenza, sull'amore di Dio, e sulla fedeltà verso di Lui.
Ambientata in un paese favoloso, anche per quel tempo, dell'Antico Medio Oriente, il protagonista, Giobbe, un fedele di Dio, prima ricco e felice, e poi improvvisamente colpito dalla sventura, perde i figli, i beni, la salute. Sarà poi afflitto da una piaga maligna, sarà cacciato anche di casa dalla moglie, stanca di quest'uomo per la sua fedeltà incrollabile. Qualcuno ha commentato che per rendere peggiore la situazione di Giobbe, Dio gli ha lasciato quel tipo di moglie. Giobbe soffriva non solo per il dolore fisico e per l’incomprensione dei suoi familiari e amici, ma piuttosto perché si sentiva abbandonato da Dio. In questa situazione egli vede l’esistenza umana come un seguito di avvenimenti senza senso, di fronte ai quali l’uomo resta pieno di angoscia, mentre il tempo passa troppo in fretta o troppo lentamente a seconda delle circostanze.. Dalla sua condizione di sofferenza Giobbe aveva sfidato Dio, ed era giunto a maledire il giorno della sua nascita, e aveva posto una critica radicale al piano di Dio, al disegno della creazione..
Questo brano riporta una parte del lungo discorso di Dio a Giobbe con le varie domande «Chi ha chiuso tra due porte il mare,quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura,quando gli ho fissato un limite,….
C’è da tener presente che gli antichi Israeliti non amavano il mare e non erano certamente un popolo di navigatori; per loro, un modesto lago come quello di Genesaret era un mare vero e proprio come il Mediterraneo. In questa parte del libro Dio fa capire a Giobbe che i suoi tentativi di comprenderLo e di conoscere il mondo sono destinati a fallire: chi può conoscere perfettamente l’universo se non Colui che l’ha creato? Dio ricorda a Giobbe, che è una creatura e quindi un essere limitato. Gli fa scoprire che la sua vita, e la vita dell’umanità stessa, non sta al centro o al di sopra delle altre creature, ma va accostata come parte di una realtà più grande. Nella creazione c’è un limite per tutto, anche per le insondabili forze del male, persino Dio stesso si pone un limite di fronte alla libertà umana, non può che rispettarla.
La consapevolezza di essere piccolo, di non essere a capo e al centro del mondo, conduce Giobbe a ridimensionarsi, a scoprire di dover mettersi in rapporto con Dio in modo nuovo per lui sorprendente..
A Giobbe si manifesta il volto di Dio che non offre soluzioni alle sue domande e non spiega il perché del suo dolore, ma soffre insieme a lui e gli fa scoprire che Lui, Dio, si pone come suo vicino, e si mette in relazione con lui. Questa presa di coscienza prepara la conclusione pratica: il dolore resta un mistero per l’uomo. Nel Nuovo Testamento la morte di Cristo cercherà di darvi una risposta.

Salmo 106 - Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre.
Coloro che scendevano in mare sulle navi
e commerciavano sulle grandi acque,
videro le opere del Signore
e le sue meraviglie nel mare profondo.

Egli parlò e scatenò un vento burrascoso,
che fece alzare le onde:
salivano fino al cielo, scendevano negli abissi;
si sentivano venir meno nel pericolo.

Nell’angustia gridarono al Signore,
ed egli li fece uscire dalle loro angosce.
La tempesta fu ridotta al silenzio,
tacquero le onde del mare.

Al vedere la bonaccia essi gioirono,
ed egli li condusse al porto sospirato.
Ringrazino il Signore per il suo amore,
per le sue meraviglie a favore degli uomini.

Il salmo è stato chiaramente scritto nel postesilio, quando i vari gruppi di Israeliti deportati ritornarono in Palestina. Il salmo ci dà notizia che i deportati ritornarono praticamente dai quattro punti cardinali. Ci furono anche prigionieri condotti in Egitto dal faraone Necao (2Cr 36,4) (l'Egitto venne conquistato da Cambise (530-522), figlio di Ciro); essi ritornarono dal mezzogiorno. Altri furono fatti prigionieri dai Babilonesi e posti al loro servizio nella costa mediterranea (Tiro venne conquistata dai Babilonesi nel 574), così giunsero dall'occidente. Altri giunsero attraverso il deserto Siro-Arabico, passando per Damasco, cioè dal settentrione; altri attraverso il deserto Arabico, cioè dall'oriente. …
Il salmo presenta una sintesi della storia di Israele.
Parte dalla grande siccità, intervallata da temporali furibondi, che si ebbe quando i fratelli di Giuseppe andarono a cercare cibo in Egitto. Gli Israeliti prosperarono poi in Egitto, mentre la terra di Canaan riprendeva la sua floridezza: “Poi cambiò il deserto in distese d'acqua e la terra arida in sorgenti d'acqua”. Questa terra venne poi data agli “affamati”, cioè ad Israele che usciva dal deserto Sinaitico. Ci fu la prosperità, ma poi allontanandosi da Dio vennero colpiti da numerose sventure e infine, ridotti a pochi per le decimazioni delle guerre, vennero deportati verso mete a loro ignote: “Li fece vagare nel vuoto, senza strade”.
Ma ritornato in patria, il derelitto (“il povero”) Israele tornò a prosperare: “Moltiplicò le sue famiglie come greggi”.
Il salmo si conclude con l'invito a considerare tutte “queste cose”: “Chi è saggio osservi queste cose e comprenderà l'amore del Signore”.
Noi sappiamo che siamo stati riscattati da Cristo; liberati dal cumulo dei nostri peccati. Abbiamo pure noi sperimentato situazioni difficili a causa delle nostre disubbidienze a Dio, e, ritornati a lui, ne siamo stati liberati.
Altre volte la malattia ci rimane, ma ne veniamo sostenuti.
Altre volte, a causa della testimonianza, i cristiani conoscono la prigionia, ma in questo caso non è disgrazia, punizione, bensì gloria.

Dalla II lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
2Cor 5,14-17

Paolo proseguendo la sua seconda lettera ai Corinzi continua ad approfondire il tema già iniziato ed espone le ragioni che lo spingono ad annunciare il Vangelo. Già ne aveva menzionate due: la profonda persuasione che ha della sua verità (4:14) e il timore che bisogna avere per il Signore (5:11). In questo brano ne presenta un'altra: “l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. ”
E’ proprio questo amore che spinge Paolo ad evangelizzare. Proprio lui che prima della sua conversione ha perseguitato Gesù, perseguitando con grande fervore coloro che avevano creduto in Lui. L’incontro con Gesù ha stravolto però la sua vita ed è stato l’amore di Cristo a spingerlo a servirlo in maniera così instancabile. Paolo è giunto a questa conclusione dopo aver valutato attentamente i fatti e i dati a sua disposizione: la sua non è una fede superficiale, è qualcosa di profondo radicato dentro di lui e lo si comprende ancora meglio quanto afferma:
“(Cristo) egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro”.
La visione di questa nuova realtà che si è realizzata con la resurrezione di Cristo, impone a Paolo, e con lui a tutti noi oggi, di non considerare più gli altri secondo la carne, cioè come se Cristo non fosse entrato nella loro vita, ma alla luce di quel destino nuovo che Cristo ha realizzato per rendere tutti nuova creatura in Lui. Per questo afferma: “se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove”.
Il credente in Cristo è veramente una creatura nuova, deve perciò lasciare perdere le opere della carne, del mondo in cui viviamo, e guardarle con distacco. Questo non significa che una volta diventati creature nuove, diventiamo all'improvviso perfetti, ma con l'aiuto di Dio e il nostro lasciarci plasmare da Lui, riusciremo a soggiogare il male che ci circonda e che è sempre in agguato..
L'espressione nuova creatura è ripresa dagli ambienti apocalittici, nei quali si diceva che alla fine del mondo ogni persona sarebbe diventata una nuova creatura. Paolo prende il termine e lo adatta al messaggio evangelico. La nuova creatura si realizzerà alla fine dei tempi, ma già da ora chi crede in Cristo è una nuova creatura, perché l'esperienza di liberazione portata da Cristo per il singolo credente è pari allo sconvolgimento della fine dei tempi, è l'irrompere di una nuova epoca.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Mc 4,35-41

Questo episodio della tempesta che si sviluppa all’improvviso, si colloca nella sequenza dei quattro miracoli che accompagnano le parole dette da Gesù nel discorso in parabole (La tempesta sedata, L’indemoniato geraseno; Guarigione dell’emorroissa e risurrezione della figlia di Giairo). Al centro di ognuno di questi miracoli c’è un lineamento del volto segreto dell’uomo Gesù, i cui contorni sono sempre più misteriosi e sconvolgenti.
In questo brano, Marco ci riporta che Gesù “venuta la sera, disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui”.
I discepoli, dunque, iniziano la traversata del lago “Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena!.
Teniamo sempre presente che per gli ebrei il mare era il grande nemico, vinto dal Signore quando fece uscire il suo popolo dall’Egitto (cf. Es 14,15-31); era la residenza del Leviatan, il mostro marino (cf. Gb 3,8; Sal 74,14); era il grande abisso che, quando scatenava la sua forza, impauriva i naviganti (cf. Sal 107,23-27)..
È notte, e la paura scuote quei discepoli, che non riescono più a governare la barca. Il naufragio sembra ormai inevitabile, eppure incredibilmente Gesù “se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva”. Allora i discepoli, in preda all’angoscia, al vedere Gesù addormentato decidono di svegliarlo gridandogli «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Finalmente Gesù “si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.” Poi subito dopo rimprovera i discepoli: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
Questo miracolo operato da Gesù ha un gran valore simbolico, perché ognuno di noi nella propria vita conosce ore di tempesta e in certe situazioni, in particolare quando durano a lungo, si ha l’impressione che Dio non veda, non senta le grida e i gemiti di chi si lamenta.. La sofferenza, l’angoscia, la paura ci rendono simili ai discepoli sulla barca della tempesta. Per questo Gesù li deve rimproverare con parole dure. Non solo chiede loro: Perché avete paura “ma aggiunge anche: “Non avete ancora la fede?.
Di fronte a queste parole così severe di Gesù, ma anche di fronte al prodigio che hanno visto con i loro occhi, il discepoli “furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Gesù, nel suo modo di essere e di agire, genera grande curiosità ed anche timore perché solo Dio creatore ha potere sul vento e sul mare, ma qui i discepoli vedono con i propri occhi che il vento e il mare hanno obbedito a quell’uomo che sta nella barca e che poco prima dormiva tranquillo.
Marco ci conduce gradatamente davanti al mistero di Cristo: due grandi sorprese suscitate da due paure: il disappunto per l’uomo che dorme nonostante la tempesta e la meraviglia per il maestro che destato dal loro richiamo comanda ai venti e al mare… eppure si tratta sempre dello stesso Gesù
Quando Marco scriveva il suo vangelo e lo consegnava alla chiesa di Roma, la piccola comunità cristiana nella capitale dell’impero era nella tempesta e regnava in essa una grande paura, tale da impedire a quei cristiani la missione presso i pagani. Così Marco con questo racconto li invita a non temere l’“uscita” missionaria, li invita a conoscere le prove che li attendono come necessarie (Mc 10,30); prove e persecuzioni nelle quali Gesù, il Vivente, non dorme, ma è sempre in mezzo a loro

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Le Parole di Papa Francesco

Nell’Orazione Colletta abbiamo pregato: «Dona al tuo popolo, o Padre, di vivere sempre nella venerazione e nell’amore per il tuo santo nome, poiché tu non privi mai della tua grazia coloro che hai stabilito sulla roccia del tuo amore». E le Letture che abbiamo ascoltato ci mostrano come è questo amore di Dio verso di noi: è un amore fedele, un amore che ricrea tutto, un amore stabile e sicuro.
Il Salmo ci ha invitato a ringraziare il Signore perché «il suo amore è per sempre». Ecco l’amore fedele, la fedeltà: è un amore che non delude, non viene mai meno.
Gesù incarna questo amore, ne è il Testimone. Lui non si stanca mai di volerci bene, di sopportarci, di perdonarci, e così ci accompagna nel cammino della vita, secondo la promessa che fece ai discepoli: «Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Per amore si è fatto uomo, per amore è morto e risorto, e per amore è sempre al nostro fianco, nei momenti belli e in quelli difficili. Gesù ci ama sempre, sino alla fine, senza limiti e senza misura. E ci ama tutti, al punto che ognuno di noi può dire: “Ha dato la vita per me”. Per me! La fedeltà di Gesù non si arrende nemmeno davanti alla nostra infedeltà. Ce lo ricorda san Paolo: «Se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso» (2 Tm 2,13). Gesù rimane fedele, anche quando abbiamo sbagliato, e ci aspetta per perdonarci: Lui è il volto del Padre misericordioso. Ecco l’amore fedele.
Il secondo aspetto: l’amore di Dio ri-crea tutto, cioè fa nuove tutte le cose, come ci ha ricordato la seconda Lettura.
Riconoscere i propri limiti, le proprie debolezze, è la porta che apre al perdono di Gesù, al suo amore che può rinnovarci nel profondo, che può ri-crearci. La salvezza può entrare nel cuore quando noi ci apriamo alla verità e riconosciamo i nostri sbagli, i nostri peccati; allora facciamo esperienza, quella bella esperienza di Colui che è venuto non per i sani, ma per i malati, non per i giusti, ma per peccatori (cfr Mt 9,12-13); sperimentiamo la sua pazienza – ne ha tanta! - la sua tenerezza, la sua volontà di salvare tutti. E quale è il segno? Il segno che siamo diventati “nuovi” e siamo stati trasformati dall’amore di Dio è il sapersi spogliare delle vesti logore e vecchie dei rancori e delle inimicizie per indossare la tunica pulita della mansuetudine, della benevolenza, del servizio agli altri, della pace del cuore, propria dei figli di Dio. Lo spirito del mondo è sempre alla ricerca di novità, ma soltanto la fedeltà di Gesù è capace della vera novità, di farci uomini nuovi, di ri-crearci.
Infine, l’amore di Dio è stabile e sicuro, come gli scogli rocciosi che riparano dalla violenza delle onde. Gesù lo manifesta nel miracolo narrato dal Vangelo, quando placa la tempesta, comandando al vento e al mare. I discepoli hanno paura perché si accorgono di non farcela, ma Egli apre il loro cuore al coraggio della fede. Di fronte all’uomo che grida: “Non ce la faccio più”, il Signore gli va incontro, offre la roccia del suo amore, a cui ognuno può aggrapparsi sicuro di non cadere. Quante volte noi sentiamo di non farcela più! Ma Lui è accanto a noi con la mano tesa e il cuore aperto.
Cari fratelli e sorelle torinesi e piemontesi, i nostri antenati sapevano bene che cosa vuol dire essere “roccia”, cosa vuol dire “solidità”. Ne dà una bella testimonianza un famoso poeta nostro:
«Dritti e sinceri, quel che sono, appaiono: teste quadre, polso fermo e fegato sano, parlano poco ma sanno quel che dicono, anche se camminano adagio, vanno lontano. Gente che non risparmia tempo e sudore – razza nostrana libera e testarda –.Tutto il mondo conosce chi sono e, quando passano… tutto il mondo li guarda».
Possiamo chiederci se oggi siamo saldi su questa roccia che è l’amore di Dio. Come viviamo l’amore fedele di Dio verso di noi. Sempre c’è il rischio di dimenticare quell’amore grande che il Signore ci ha mostrato. Anche noi cristiani corriamo il rischio di lasciarci paralizzare dalle paure del futuro e cercare sicurezze in cose che passano, o in un modello di società chiusa che tende ad escludere più che a includere.
In questa terra sono cresciuti tanti Santi e Beati che hanno accolto l’amore di Dio e lo hanno diffuso nel mondo, santi liberi e testardi. Sulle orme di questi testimoni, anche noi possiamo vivere la gioia del Vangelo praticando la misericordia; possiamo condividere le difficoltà di tanta gente, delle famiglie, specialmente quelle più fragili e segnate dalla crisi economica. Le famiglie hanno bisogno di sentire la carezza materna della Chiesa per andare avanti nella vita coniugale, nell’educazione dei figli, nella cura degli anziani e anche nella trasmissione della fede alle giovani generazioni.
Crediamo che il Signore è fedele? Come viviamo la novità di Dio che tutti i giorni ci trasforma? Come viviamo l’amore saldo del Signore, che si pone come una barriera sicura contro le onde dell’orgoglio e delle false novità? Lo Spirito Santo ci aiuti a essere sempre consapevoli di questo amore “roccioso” che ci rende stabili e forti nelle piccole o grandi sofferenze, ci rende capaci di non chiuderci di fronte alla difficoltà, di affrontare la vita con coraggio e guardare al futuro con speranza. Come allora sul lago di Galilea, anche oggi nel mare della nostra esistenza Gesù è Colui che vince le forze del male e le minacce della disperazione. La pace che Lui ci dona è per tutti; anche per tanti fratelli e sorelle che fuggono da guerre e persecuzioni in cerca di pace e libertà.
Carissimi, ieri avete festeggiato la Beata Vergine Consolata, la Consola’, che “è lì: bassa e massiccia, senza sfarzo: come una buona madre”. Affidiamo alla nostra Madre il cammino ecclesiale e civile di questa terra: Lei ci aiuti a seguire il Signore per essere fedeli, per lasciarci rinnovare tutti i giorni e rimanere saldi nell’amore. Cosi sia.

Parte dell’Omelia che Papa Francesco ha tenuta a Torino domenica 21 giugno 2015

Domenica, 13 Giugno 2021 16:22

PRIME COMUNIONI 2021

Domenica 30 maggio e 6 giugno 2021, nelle celebrazioni eucaristiche delle ore 10:00, il parroco P. Stanislao ha celebrato il Sacramento di Prima Comunione per ventisette bambini della nostra comunità parrocchiale, accompagnati dalle loro famiglie. La partecipazione ai sacramenti è avvenuta in totale sicurezza e tranquillità, con la piena collaborazione, gioia e entusiasmo di tutti i bambini e dei loro genitori che hanno animato le diverse parti della celebrazione. Il parroco ringrazia sentitamente le catechiste che in questi due anni di pandemia, hanno portato avanti il percorso di catechismo con i rispettivi gruppi e ringrazia anche i genitori e le famiglie che sono state sempre presenti all’interno della nostra comunità, partecipando a tante iniziative.


Un augurio ancora una volta, da parte delle catechiste, per tutti i bambini e bambine e i loro genitori: che possiate coltivare l’amicizia con Gesù risorto, presente nel pane eucaristico, per il resto della vostra vita.

Le catechiste del II anno di comunione

 

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Le letture liturgiche di questa domenica per parlarci del Regno di Dio prendono spunto dalla parabola del seme: la Parola di Dio si diffonde tra gli uomini non per la capacità o la bravura degli uomini, che restano solo collaboratori per l’avvento del Regno di Dio, ma l’azione dello Spirito Santo che fa germogliare e crescere il seme, che guida e anima la Chiesa.
Nella prima lettura il profeta Ezechiele si rivolge al popolo ebreo sfiduciato e scoraggiato, deportato in esilio a Babilonia e adopera l’immagine della cima del cedro reciso e trapiantato su di un altro terreno. Il popolo ebreo teme di essere stato abbandonato da Dio, teme di essere destinato alla dispersione, di essere votato allo sterminio. Solo pochi rimangono fedeli e radicati nella speranza, fedeli alle promesse.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, ci esorta ad avere fiducia in Dio ed essere sicuri che Dio non dimentica nulla di quanto facciamo di bene nel suo amore.
Nel Vangelo di Marco, Gesù con le parabole del piccolo seme che germoglia e cresce e del granello di senape che si sviluppa fino a diventare un grande arbusto, mette in evidenza la sproporzione tra gli umili inizi e il grandioso risultato del Regno di Dio che Egli annuncia.

Dal libro del profeta Ezechièle
Così dice il Signore Dio:
«Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami lo coglierò
e lo pianterò sopra un monte alto, imponente;
lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti
e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
Sapranno tutti gli alberi della foresta
che io sono il Signore,
che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso,
faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.
Io, il Signore, ho parlato e lo farò».
Ez 17,22-24

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo.
Centro del messaggio di Ezechiele è la trascendenza di Dio, caratteristica condivisa con gli altri grandi profeti. Nella grande teofania iniziale e nella seconda grande teofania, evita accuratamente di dare una rappresentazione della divinità, e descrive in termini fantasticamente antropomorfici 'la corte divina',e non la divinità in sé. Ezechiele aveva fatto proprio anche un messaggio di giudizio. Giuda aveva disobbedito alle leggi di Dio, trascurato il sabato, profanato il Tempio, praticato l'impurità, stretto legami con popoli stranieri e per tutto questo doveva essere punito. Ma Ezechiele si fece portatore anche di un messaggio di speranza, perché Giuda si sarebbe risollevato dalla sua caduta come un morto che risuscita dalla tomba.
Questo brano ci porta all’anno 597 a.C. quando Nabucodonosor deportò in Babilonia il re Ioiachin e mise al suo posto Sedecia, il quale non solo ruppe l’alleanza con il re di Babilonia, ma anche con Dio.
Il Signore allora lo castiga, ma senza però interrompere con il popolo di Israele l’opera di salvezza promessa. Infatti tramite Ezechiele annuncia la restaurazione del regno ricorrendo a delle allegorie, (nei versetti precedenti questo brano c’è l’allegoria dell’Aquila che richiamava Nabucodonosor) ora con l’allegoria dell’agricoltore dichiara:
“Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico”.
Ezechiele paragona la storia del suo popolo a un grande cedro nato e cresciuto per iniziativa di Dio. L'albero è divenuto infruttuoso a causa dell'infedeltà, perciò Dio reciderà un ramoscello dalla sua cima per trapiantarlo in un altro terreno (simbolo della deportazione in Babilonia).
In mezzo all'infedeltà generale, però, un "piccolo resto" è rimasto fedele a Dio e alla Sua alleanza e, grazie ad esso, il piano di Dio giungerà a compimento.
Questo "resto fedele“, simboleggiato nel ramoscello che Dio stesso ha reciso “dalla cima del cedro”, e piantato di nuovo sul monte alto d’Israele, metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico” alla cui ombra ogni volatile riposerà.
E’ l’albero messianico, simbolo di vita, di speranza e di protezione, un segno verso il quale volgeranno lo sguardo gli altri popoli per arrivare al culto del vero Dio.
In questa interpretazione dell'esilio babilonese si sente l'eco dell'esodo dall'Egitto: due esperienze distanti nel tempo, ma che hanno aiutato Israele a crescere nella coscienza di popolo di Dio; un Dio che tra le complesse vicende umane è sempre capace di costruire e tracciare una nuova storia per il Suo popolo. E'Dio il garante del futuro soprattutto per chi è debole, piccolo e senza speranza.
Il versetto finale: “Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco” che possiamo collegare alle parole di Maria nel Magnificat: "Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili..“ ci presentano un Dio che vuole anche oggi un futuro, una dignità, per ogni persona anche piccola, per ogni popolo povero e oppresso. Nessuno nella vita può considerarsi un fallito, perché veglia su di lui il Dio della vita che si fa solidale con l'uomo.


Salmo 91 È bello rendere grazie al Signore.
È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte.
Il giusto fiorirà come palma
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore
fioriranno negli atri del nostro Dio

Nella vecchiaia daranno ancora frutti
saranno verdi e rigogliosi
per annunciare quanto è retto il Signore:
mia roccia, in lui non c’è malvagità.

Il salmo esordisce presentando la bellezza del dar lode a Dio, della preghiera che canta contemplando ciò che Dio è: “Al tuo nome, o Altissimo”.
Il salmo è individuale, ma celebra la preghiera liturgica del tempio, dove erano in uso gli strumenti musicali e dove si lodava Dio anche durante veglie notturne. A questa preghiera nel tempio egli partecipava.
Il salmista, probabilmente un levita, riflette sulla grandezza delle opere di Dio: la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai, la conquista della Terra Promessa, la costruzione del tempio.
Egli osserva che i pensieri di Dio hanno una profondità tale che gli uomini non possono esaurirne la comprensione (Cf. Ps 35,7; 39,6).
Gli uomini insensati non sono umili, per questo non possono intendere le cose di Dio, e scelgono i loro vaneggiamenti che li conducono alla rovina eterna, che come tale è irreversibile. Il loro fiorire e affermarsi “è solo per la loro eterna rovina”.
Il salmista ha molti nemici, che sono anche e principalmente nemici di Dio, ma riceve da Dio la forza per la lotta: “Tu mi doni la forza di un bufalo, mi hai cosparso di olio splendete”.
Noi in Cristo la forza la riceviamo dallo Spirito Santo, e l'olio che abbiamo ricevuto è quello del crisma del sacramento della Confermazione.
La forza e la sicurezza che il salmista sente nella fede lo porta a non temere gli uomini, gli avversari: “I miei occhi disprezzeranno i miei nemici”. Per noi cristiani non c'è il disprezzo dei nemici in quanto persone, ma solo disprezzo delle loro lusinghe per travolgerci, delle loro intimidazioni per fiaccarci.
E' certo che gli empi non potranno prosperare che per un attimo, ma poi cadranno in rovina: “Contro quelli che mi assalgono, i miei orecchi udranno sventure”.
Il contrario avverrà per i giusti, che si radicano nella frequentazione del tempio, e per questo fioriranno “negli atri del nostro Dio”, e nella vecchiaia “daranno ancora frutti”. Esempi perfetti di questo sono Simeone ed Anna (Lc 2,25s.36s).
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla Seconda Lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.
Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi.
Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.
2Cor 5,6-10

Paolo sente la necessità di scrivere una seconda lettera ai Corinzi perchè aveva saputo che a Corinto erano arrivati in quel periodo degli evangelizzatori che avevano, non soltanto preso le loro distanze dalla persona di Paolo (anziché riconoscerne l'autorità e il suo ruolo di privilegio nei confronti dei Corinzi, essendo egli il fondatore di quella comunità), ma addirittura erano giunti a contestare la sua autorità di apostolo e di padre della comunità. Erano con tutta probabilità giudeo-cristiani venuti da fuori regione, con delle lettere credenziali che avevano lo scopo di "raccomandarli" presso la comunità di Corinto, e presentandosi, si definivano "servitori di Cristo e suoi apostoli“. Con tutta probabilità si facevano mantenere dalle comunità stesse (per questa ragione Paolo, polemicamente, insiste sul suo lavoro con cui ha provveduto personalmente al proprio mantenimento senza pesare sugli altri). Paolo si mostra dunque molto duro e severo anche con la comunità di Corinto che li ha accettati e seguiti, anziché metterli al bando e restare fedele al suo fondatore.
In questo brano l’Apostolo, continua ad approfondire il tema, già iniziato, di tenere sempre lo sguardo rivolto ai beni eterni, e presenta il desiderio di lasciare il corpo per abitare presso il Signore, cioè giungere alla visione beatifica. Queste parole ci dicono come l'anima fedele dopo la morte salirà a Dio vedendolo così come egli è (Fil 1,23; 1Gv 3,2). La visione beatifica non sarà dunque solo alla risurrezione dei corpi, ma dopo la morte per quelli che sono morti in Cristo. Non si dà assolutamente una sospensione dell'attività dell'anima, (come ad esempio si vede nella parabola del ricco epulone), ma anzi essa è superattiva nella carità perché non cammina più nella fede, ma è nella visione di Dio. (Ap 4,4) . Dio inoltre darà all'anima, con una suprema luce, la possibilità di vederlo faccia a faccia (1Cor 13,12). Inoltre, quando l'anima si separerà dal corpo per la morte, c'è subito un giudizio per ciascuno, il giudizio particolare: “Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male”.
Fa un po’ impressione leggere: “comparire davanti al tribunale di Cristo”, ma dobbiamo pensare che la nostra salvezza è sicura. Noi non compariremo in giudizio, ma tutta la nostra vita sarà ripercorsa, come in un film, rivelando tutto ciò che avremo fatto, “di bene o di male”, e riceveremo o un guadagno o una perdita. Ma, nello stesso tempo, il Signore mostrerà come la sua grazia abbia saputo trarre il suo fulgore anche dai nostri peccati.
Ciò che conta è di essere fin da oggi graditi a Dio rendendosi docili alla Sua volontà, svolgendo sempre bene le proprie azioni quotidiane, per essere pronti a sostenere vittoriosi il giudizio davanti al tribunale di Cristo. L’invito è a vivere quaggiù con la speranza fondata su Cristo e non sulle proprie forze.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
Mc 4,26-34

Da questa domenica riprendiamo la lettura del vangelo di Marco che ci accompagnerà fino al prossimo Avvento Su questo brano meditiamo su due parabole: la prima, è quella del “seme” che germoglia e cresce da solo, tipica di Marco, la seconda è quella della senape, narrata anche da Matteo e Luca, ma con minor apporto di particolari.
La prima parabola inizia parlando di un uomo che getta il seme nella terra “dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura”. Con questo paragone Gesù ci vuole far comprendere come l'agricoltore che semina il buon seme deve anche saper attendere pazientemente il raccolto. Nello stesso modo dobbiamo fare anche noi: dobbiamo cioè seminare il bene attorno a noi e, a suo tempo, raccoglieremo questo bene, moltiplicato, anche se, il più delle volte, saranno gli altri, che verranno dopo di noi, a vedere i frutti.
La seconda parabola Gesù la fa iniziare con una domanda: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”.
Nella Terra Santa, ai tempi di Gesù, con il nome di senapa chiamavano, oltre alla pianta che noi conosciamo, anche un albero che raggiunge diversi metri di altezza. Questa parabola ci insegna come il Signore, per diffondere il bene nel mondo, si serve di strumenti umili e semplici. Sono queste le Sue preferenze, e così ha fatto anche quando ha scelto gli Apostoli, umili e semplici pescatori, e li ha fatti diventare evangelizzatori del mondo.
Gesù con le Sue parabole cerca di dare soprattutto una risposta alle idee e alle aspettative messianiche degli Ebrei del Suo tempo. C'erano i Farisei, i quali pensavano che si potesse affrettare l'avvento del Regno di Dio con la penitenza, con i digiuni, con l'osservanza, in genere, della Legge e delle tradizioni. C'erano poi gli Zeloti, che cercavano di impiantare il Regno ricorrendo alla violenza e alla resistenza armata contro i conquistatori romani. C'erano infine gli Apocalittici, che erano convinti di stabilire con precisione, attraverso i loro calcoli complicati, l'ora e il luogo della gloriosa manifestazione del Messia.
Gesù corregge queste varie attese e afferma solennemente che il Regno dei cieli è opera di Dio e non degli uomini. Entrambe le parabole, infatti, mettono in evidenza la inadeguatezza e l' assoluta irrilevanza degli strumenti umani, che Dio usa per realizzare il suo Regno.
La parola di Dio è come il seme, una volta entrata nel cuore non rimane senza effetto, ma germoglia e cresce anche quando tutto sembra spento e morto. Non dobbiamo mai dimenticare che è Dio che lo fa crescere, quando e come vuole.

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“Nell’odierna pagina evangelica (cfr Mc 4,26-34), Gesù parla alle folle del Regno di Dio e dei dinamismi della sua crescita, e lo fa raccontando di due brevi parabole.
Nella prima parabola, il Regno di Dio è paragonato alla crescita misteriosa del seme, che viene gettato sul terreno e poi germoglia, cresce e produce la spiga, indipendentemente dalla cura del contadino, che al termine della maturazione provvede al raccolto. Il messaggio che questa parabola ci consegna è questo: mediante la predicazione e l’azione di Gesù, il Regno di Dio è annunciato, ha fatto irruzione nel campo del mondo e, come il seme, cresce e si sviluppa da sé stesso, per forza propria e secondo criteri umanamente non decifrabili. Esso, nel suo crescere e germogliare dentro la storia, non dipende tanto dall’opera dell’uomo, ma è soprattutto espressione della potenza e della bontà di Dio, della forza dello Spirito Santo che porta avanti la vita cristiana nel Popolo di Dio.
A volte la storia, con le sue vicende e i suoi protagonisti, sembra andare in senso contrario al disegno del Padre celeste, che vuole per tutti i suoi figli la giustizia, la fraternità, la pace. Ma noi siamo chiamati a vivere questi periodi come stagioni di prova, di speranza e di attesa vigile del raccolto. Infatti, ieri come oggi, il Regno di Dio cresce nel mondo in modo misterioso, in modo sorprendente, svelando la potenza nascosta del piccolo seme, la sua vitalità vittoriosa. Dentro le pieghe di vicende personali e sociali che a volte sembrano segnare il naufragio della speranza, occorre rimanere fiduciosi nell’agire sommesso ma potente di Dio. Per questo, nei momenti di buio e di difficoltà noi non dobbiamo abbatterci, ma rimanere ancorati alla fedeltà di Dio, alla sua presenza che sempre salva. Ricordate questo: Dio sempre salva. È il salvatore.
Nella seconda parabola, Gesù paragona il Regno di Dio a un granellino di senape. E’ un seme piccolissimo, eppure si sviluppa così tanto da diventare la più grande di tutte le piante dell’orto: una crescita imprevedibile, sorprendente.
Non è facile per noi entrare in questa logica della imprevedibilità di Dio e accettarla nella nostra vita. Ma oggi il Signore ci esorta a un atteggiamento di fede che supera i nostri progetti, i nostri calcoli, le nostre previsioni. Dio è sempre il Dio delle sorprese. Il Signore sempre ci sorprende. È un invito ad aprirci con più generosità ai piani di Dio, sia sul piano personale che su quello comunitario.
Nelle nostre comunità occorre fare attenzione alle piccole e grandi occasioni di bene che il Signore ci offre, lasciandoci coinvolgere nelle sue dinamiche di amore, di accoglienza e di misericordia verso tutti.
L’autenticità della missione della Chiesa non è data dal successo o dalla gratificazione dei risultati, ma dall’andare avanti con il coraggio della fiducia e l’umiltà dell’abbandono in Dio. Andare avanti nella confessione di Gesù e con la forza dello Spirito Santo. È la consapevolezza di essere piccoli e deboli strumenti, che nelle mani di Dio e con la sua grazia possono compiere opere grandi, facendo progredire il suo Regno che è «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17). La Vergine Maria ci aiuti ad essere semplici, ad essere attenti, per collaborare con la nostra fede e con il nostro lavoro allo sviluppo del Regno di Dio nei cuori e nella storia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 giugno 2018

La festa del Corpus Domini, più propriamente chiamata solennità del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, è una delle principali solennità dell'anno liturgico e la celebrazione, chiudendo il ciclo delle feste del dopo Pasqua, vuole celebrare il mistero dell'Eucaristia. Questa festa è stata istituita nel lontano 1264 da Papa Urbano IV a ricordo del miracolo eucaristico avvenuto nel 1263 a Bolsena.
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Esodo, leggiamo che il popolo d’Israele ai piedi del monte Sinai strinse solennemente l’alleanza con Dio, impegnandosi ad osservare con totale fedeltà i comandamenti del Signore. Il sangue sparso sull’altare e sul popolo prefigura il sangue di Cristo nostro Salvatore.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, l’autore afferma che il sangue di Cristo, immolato sulla croce una volta per sempre, elimina l’ostacolo dell’incontro con Dio, cioè il peccato, che l’antico rituale ebraico non era in grado di togliere.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco ci fa rivivere la scena della Cena Pasquale, in cui Gesù istituisce l’Eucaristia nella quale si offre vittima per i peccati del mondo. La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore è una pregustazione di una intimità senza incrinature e senza frontiere con Dio. E’ per questo che l’Eucaristia domenicale è celebrata sempre “nell’attesa della venuta” gloriosa di Cristo. L’eucaristia è espressione della presente vicinanza di Dio con il Suo popolo, che pellegrina in mezzo alle oscurità della storia, ma è anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno eliminati per sempre.

Dal Libro dell’Esodo
In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!».
Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.
Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
Es. 24,3-8

Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Nel brano che la Liturgia ci propone, tratto dal 24^ capitolo, troviamo descritte varie operazioni che compie Mosé per celebrare un rito che sancisce un'Alleanza con Dio e il Suo l popolo. Dio accetta questi riti perché sono segni che si praticavano a quei tempi e la gente li capiva. In questo modo il Signore vuole garantire un'alleanza concreta con il Suo popolo attraverso il sacrificio di animali con il mutuo consenso del popolo intero e non solo di Mosè. Così metà del sangue è versato sull'altare (che rappresenta Dio): Dio in tal modo esprime il Suo consenso. Un'altra metà è posta in catini. Poi dopo queste azioni Mosé “prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».” Un'alleanza si compie quando per tutti sono chiare le clausole e si sa quello che si accetta. E qui vengono lette le leggi che il popolo deve mantenere per stare ai patti e quindi meritare la fiducia del Signore e la Sua protezione. Il popolo accetta e formula anche verbalmente la propria adesione. Accettata l'alleanza perché c'è accordo con le regole-leggi di Dio, Mosè versa l'altra metà del sangue contenuta nei catini “dicendo «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!”.
Con tutta probabilità, anche se non viene riportato, si asperge il popolo versando il sangue su dodici stele o colonnine, presumibilmente disposte in cerchio che rappresentano le 12 tribù. La medesima vita, rappresentata dal sangue, lega i due contraenti: Dio e il Suo popolo diventano "consanguinei". Un patto di sangue lega ormai il Signore e Israele in una relazione di intimità e di amore.
E’ proprio a quelle parole che Gesù si ricollega nell’ultima sera della Sua vita terrena, quando nel cenacolo celebra la cena pasquale con i Suoi discepoli.

Salmo 115 - Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore.

Che cosa renderò al Signore,
per tutti i benefici che mi ha fatto?
Alzerò il calice della salvezza
e invocherò il nome del Signore.

Agli occhi del Signore è preziosa
la morte dei suoi fedeli.
Io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.

A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo.

Il salmista ha provato momenti di sgomento di fronte agli inganni degli uomini. Si era trovato imprigionato, ma poi ha visto la libertà: “hai spezzato le mie catene”. Come risposta il salmista offrirà “un sacrificio di ringraziamento".
Una parte delle vittime sacrificate spettava all'offerente, che la consumava in un convito coi famigliari, gli amici, i poveri (Cf. Ps 21,27). Durante il convito l'offerente prendeva una coppa di vino presentandola al Signore e poi ne beveva lui e tutti gli altri: “Alzerò il calice della salvezza”.
Il salmista dice che “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli”, intendendo affermare che l'ora della morte dei fedeli a Dio non è ad arbitrio degli uomini. Lui decide il dove, il come e il quando, e questo per il bene del fedele.
Il salmista offrirà "un sacrificio di ringraziamento" davanti a tutto il popolo, e con piena ortodossia nel tempio del Signore, a Gerusalemme, testimoniando così pubblicamente la sua fede nel Signore.
L'esistenza del tempio porta a pensare ad un personaggio perseguitato per la sua fedeltà a Dio da un qualche re di Gerusalemme rivolto agli dei pagani; come fu il caso di Geremia.
“Il calice della salvezza”, nel sensus plenior è quello eucaristico.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Lettera agli Ebrei
Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.
Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?
Per questo egli è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.
Eb 9,11-15

L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Bibbia, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se rimaste sconosciute. Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica .
Il capitolo 9, da dove è tratto questo brano, mette a confronto il sacrificio di Cristo, sacerdote e vittima con quello offerto nel grande giorno dell’espiazione. Nel rito ebraico il sommo sacerdote una volta all’anno, durante la festa dell’Espiazione (Yom Kippur), entrava con il sangue dell’espiazione nel Santo dei Santi e lì, nascosto alla vista del popolo, rimaneva però al suo servizio in quanto ne espiava le colpe offrendo il sacrificio annuale.
A confronto del sommo Sacerdote, Cristo è entrato una sola volta e per sempre nel santuario celeste e non con il sangue di capri e di tori ha offerto il sacrificio, ma con il proprio sangue proclamando per tutti una redenzione definitiva, eterna, perchè il Suo sacrificio ha valore eterno. Infatti se già purificava il sacrificio di sangue di capri e tori, di gran lunga maggiore sarà la purificazione ottenuta con un sangue senza macchia e per di più del Figlio di Dio. Per questo Gesù è divenuto mediatore di un nuovo patto, una nuova alleanza, assolutamente perfetta, che assicura a quelli che credono in Lui l’eredità promessa.

Il “Santo dei Santi o Sancta sanctorum”, letteralmente “camera posteriore”, era la parte più santa del tempio, era il luogo della presenza di Dio, il luogo in cui si trovava l’arca con le tavole della legge, coperta dal propiziatorio costituito da una lastra d’oro e due angeli che la coprivano con le loro ali.
Il Santo dei Santi era una cella cubica di circa 9 metri di lato e separata dall’altra parte del tempio da una porta, poi sostituita da una tenda: il “Velo del tempio” che si squarciò alla morte di Gesù in croce (Mc 15,38; Mt, 27,51; Lc 23,45

Dal Vangelo secondo Marco
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Mc 14,12-16.22-26

L’evangelista Marco struttura il racconto della cena del Signore su quanto si legge nel Libro dell’Esodo, in cui Mosè prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo, poi prese il sangue e ne asperse il popolo e disse “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole”.
Il brano liturgico inizia in questo modo: Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».1
I discepoli chiedono a Gesù dove vuole celebrare la Pasqua in modo di avere il tempo per i vari preparativi come la pulizia rituale degli ambienti e l’acquisto dell’agnello e di gli altri cibi necessari prima del calar del sole. Come risposta alla domanda dei discepoli Gesù manda due di loro in città dopo aver programmato tutto nel minimo dettaglio. I discepoli allora vanno e, entrati in città, trovano come aveva detto loro e preparano per la Pasqua. Ancora una volta, come in occasione dell’ingresso in Gerusalemme, Gesù agisce come il regista di un piano preordinato da Dio e da Lui pienamente conosciuto e accettato.
All’inizio della cena Gesù dimostra nuovamente la piena consapevolezza di quanto sta per accadere (anche il tradimento di Giuda) e dei suoi sviluppi futuri. Il brano precisa che mentre mangiavano, Gesù “prese il pane e recitò la benedizione”; questi gesti richiamano il rito con cui aveva inizio non solo la cena pasquale, ma ogni banchetto giudaico.
Per i giudei la benedizione consisteva in un ringraziamento a Dio per i benefici accordati al Suo popolo, dei quali il pane era simbolo; mangiando insieme il pane spezzato i commensali esprimevano da una parte l’accettazione dei doni di Dio e dall’altra il rapporto di comunione tra loro, che ne era la diretta conseguenza. Gesù, pur seguendo il rituale, ne offre all’improvviso un significato sorprendente e inedito perchè afferma rivolto ai commensali “Prendete, questo è il mio corpo!”. Ciò significa, secondo il linguaggio biblico, che il pane rappresenta Lui stesso, la Sua persona. Spezzando quel pane e offrendolo ai commensali, Gesù stabiliva con loro un legame di comunione profonda, facendo si che essi entrassero nella Sua stessa vita, nella Sua morte e nella Sua gloria.
Secondo il costume giudaico, alla consumazione del pane azzimo e dell’agnello pasquale seguiva la benedizione solenne che si pronunziava su una coppa di vino per ringraziare Dio per i benefici concessi al Suo popolo: tutti i commensali poi ne bevevano, per testimoniare così nuovamente la comunione che si era stabilita tra di loro in forza del dono ricevuto da Dio. Anche a questo punto Gesù imprime al rituale una svolta con le parole del Suo “ringraziamento”: “ Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti”. E’ qui che riecheggiano le parole di Mosè al Sinai: il vino della Pasqua è ora il sangue di Cristo, che crea l’alleanza piena e perfetta tra Dio e l’uomo. “Il sangue versato per molti”, è un’espressione orientale per indicare che è il sangue di una persona sacrificata per salvare tutti gli uomini.
Gesù poi aggiunge un ultimo messaggio: “io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio” ossia Egli annunzia che dopo la cena eucaristica e la pausa buia della morte, berrà il calice del vino nuovo nel regno di Dio.
E’ il banchetto della perfezione celeste cantato da Isaia, in cui “il Signore Dio eliminerà la morte per sempre; asciugherà le lacrime su ogni volto” Is 25,8
La cena eucaristica che noi oggi celebriamo nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore è, quindi una pregustazione di un’intimità senza limiti con Dio.
Dobbiamo sempre avere in mente che l’eucaristia è espressione della presente vicinanza di Dio con il Suo popolo in cammino in mezzo alle oscurità della storia, ma anche squarcio di luce verso la speranza che il dolore e la morte saranno eliminate per sempre.

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Si conoscono tanti Miracoli Eucaristici, il più conosciuto è quello di Bolsena, che ha dato origine alla festa del Corpus Domini, ma il più straordinario è senza dubbio quello di Lanciano che è avvenuto intorno all'anno settecento.. Ciò si desume da circostanze e concomitanze storiche dovute alla persecuzione in Oriente da parte dell'Imperatore Leone III, l'Isaurico, il quale iniziò una feroce persecuzione contro la Chiesa e il culto delle immagini sacre (iconoclastia).
In concomitanza della "lotta iconoclasta" nella Chiesa orientale, molti monaci greci si rifugiarono in Italia, tra essi i monaci basiliani, discepoli di San Basilio (329-379) Vescovo di Cesarea di Cappadocia (nell'attuale Turchia Orientale). Alcune comunità di esse si rifugiarono a Lanciano.
Un giorno un monaco mentre celebrava la Santa Messa fu assalito dal dubbio circa la presenza reale di Gesù nella Santa Eucaristia. Pronunziate le parole della consacrazione sul pane e sul vino, all'improvviso, dinanzi ai suoi occhi vide il pane trasformarsi in Carne, il vino in Sangue…
Alle varie ricognizioni ecclesiastiche, condotte fin dal 1574, seguì, nel 1970-1971 e ripresa in parte nel 1981, quella scientifica, compiuta da illustri scienziati. Le analisi, eseguite con assoluto rigore scientifico e documentate da una serie di fotografie al microscopio, hanno dato questi risultati: La Carne è vera Carne. Il Sangue è vero Sangue. La Carne e il Sangue appartengono alla specie umana. La Carne è un "CUORE" completo nella sua struttura essenziale. Nella Carne sono presenti, in sezione, il miocardio, l'endocardio, il nervo vago e, per il rilevante spessore del miocardio, il ventricolo cardiaco sinistro. La Carne e il Sangue hanno lo stesso gruppo sanguigno: AB, lo stesso del lenzuolo della Sacra sindone di Torino .
La conservazione della Carne e del Sangue miracolosi, lasciati allo stato naturale per dodici secoli ed esposti all'azione di agenti fisici, atmosferici e biologici, rimane un fenomeno straordinario.
A conclusione si può dire che la Scienza, chiamata in causa, ha dato una risposta sicura ed esauriente circa la autenticità del Miracolo Eucaristico di Lanciano.

Oggi in molti Paesi, tra i quali l’Italia, si celebra la solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, o, secondo la più nota espressione latina, la solennità del Corpus Domini. Il Vangelo ci riporta le parole di Gesù, pronunciate nell’Ultima Cena con i suoi discepoli: «Prendete, questo è il mio corpo». E poi: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti». Proprio in forza di quel testamento d’amore, la comunità cristiana si raduna ogni domenica, e ogni giorno, intorno all’Eucaristia, sacramento del Sacrificio redentore di Cristo. E attratti dalla sua presenza reale, i cristiani lo adorano e lo contemplano attraverso l’umile segno del pane diventato il suo Corpo.
Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, mediante questo Sacramento così sobrio e insieme così solenne, noi facciamo esperienza della Nuova Alleanza, che realizza in pienezza la comunione tra Dio e noi. E in quanto partecipi di questa Alleanza, noi, pur piccoli e poveri, collaboriamo a edificare la storia come vuole Dio.
Per questo, ogni celebrazione eucaristica, mentre costituisce un atto di culto pubblico a Dio, rimanda alla vita e alle vicende concrete della nostra esistenza. Mentre ci nutriamo del Corpo e Sangue di Cristo, siamo assimilati a Lui, riceviamo in noi il suo amore, non per trattenerlo gelosamente, bensì per condividerlo con gli altri. Questa logica è inscritta nella Eucaristia riceviamo in noi il suo amore e lo condividiamo con gli altri. Questa è la logica eucaristica. In essa infatti contempliamo Gesù pane spezzato e donato, sangue versato per la nostra salvezza. E’ una presenza che come fuoco brucia in noi gli atteggiamenti egoistici, ci purifica dalla tendenza a dare solo quando abbiamo ricevuto, e accende il desiderio di farci anche noi, in unione con Gesù, pane spezzato e sangue versato per i fratelli.
Pertanto, la festa del Corpus Domini è un mistero di attrazione a Cristo e di trasformazione in Lui. Ed è scuola di amore concreto, paziente e sacrificato, come Gesù sulla croce. Ci insegna a diventare più accoglienti e disponibili verso quanti sono in cerca di comprensione, di aiuto, di incoraggiamento, e sono emarginati e soli. La presenza di Gesù vivo nell’Eucaristia è come una porta, una porta aperta tra il tempio e la strada, tra la fede e la storia, tra la città di Dio e la città dell’uomo.

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 3 giugno 2018

 

1 Il termine Pasqua indica due feste che in origine erano separate, la Pasqua propriamente detta, che consisteva nell’immolazione dell’agnello e nella sua consumazione nell’ambito familiare, e gli Azzimi, che consisteva nel consumare pane azzimo per la durata di una settimana (Es 12,1-20). Nel volgere degli anni le due feste sono state fuse: il giorno di Pasqua in senso proprio è diventato così il primo giorno della settimana degli Azzimi, la quale termina poi con un’altra assemblea festiva. La Pasqua aveva luogo il 15 del mese di Nisan. Siccome il calendario allora in uso era basato sui cicli lunari, la data della pasqua variava ogni anno. La celebrazione della festa iniziava il giorno precedente, dopo il calar del sole. La Pasqua rappresenta per gli ebrei il ricordo annuale dell’uscita degli israeliti dall’Egitto; ad essa era collegato, il ricordo di altri eventi salvifici, quali la creazione, l’alleanza di Dio con Abramo, il sacrificio di Isacco e infine la venuta del Messia.

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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