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Le letture liturgiche di questa V domenica di quaresima spesso vengono considerate come il grande momento penitenziale dell’anno cristiano, ma non sono solo pentimento per un peccato che incombe e umilia l’umanità, sono soprattutto speranza gioiosa di liberazione, di perdono e soprattutto di pace interiore.
La prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, agli ebrei provati dall’esilio di Babilonia, il profeta ricorda la liberazione dall’Egitto e promette, da parte di Dio, un nuovo intervento liberatore.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Filippesi, Paolo usa un linguaggio sportivo per indicare il suo impegno per il Vangelo. La vita dell’Apostolo è come una corsa verso una meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
L’evangelista Giovanni ci propone il brano che riporta l’incontro di Gesù con l’adultera, rea per la legge ebraica di lapidazione. Gesù alla domanda trabocchetto che gli pongono i farisei, risponde sfidandoli: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra”. Il messaggio che Gesù ci dà consiste nel riconoscere che nessuno davanti a Dio è senza peccato e che ognuno può non peccare più se lascia nel passato i propri errori per seguire la luce che l’amore di Dio gli dona in Cristo Gesù.

Dal libro del profeta Isaìa
Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti,
che fece uscire carri e cavalli,
esercito ed eroi a un tempo;
essi giacciono morti, mai più si rialzeranno,
si spensero come un lucignolo, sono estinti:
«Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, io faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto,fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi».
Is 43;16-21

Questo brano fa parte dei testi (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia”. Forse era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Infatti a partire dal 550 a.C. compare un nuovo popolo non semitico, sono i Persiani sotto il comando del loro re: Ciro. In 10 anni egli sottomette l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, egli appare come un liberatore. Da allora nella comunità degli Ebrei esiliati si vedono apparire racconti, oracoli, canti che esaltano l’opera di Dio nella storia del mondo.
E’ finito il tempo in cui dominano gli idoli, il vero Dio, il solo Dio appare loro il padrone degli avvenimenti che agisce per la liberazione e la salvezza del suo popolo. Con la caduta di Babilonia nel 539, Ciro autorizza gli Israeliti a ritornare in patria e a praticare il loro culto. Si pensò persino che Ciro fosse l’inviato del Signore, un messia, un uomo di Dio, che avrebbe realizzato ovunque la pace. Ma per quanto Ciro fosse una figura gloriosa della storia, l’inviato di Dio sarebbe arrivato secoli dopo sotto spoglie più umili, quelle di un Giusto, che espia nel dolore le colpe degli uomini.
In questo brano il profeta Isaia ci parla di novità di vita e la esprime in un modo splendido con delle metafore molto suggestive: i sentieri nel deserto, i fiumi nella steppa. E’ come se il Signore dicesse anche a noi: "ci sono cose nuove che stanno fiorendo, non ve ne accorgete?"
“Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo;essi giacciono morti, mai più si rialzeranno,si spensero come un lucignolo, sono estinti:
Il brano inizia con una formula profetica “Così dice il Signore” che ricorre molte volte in Isaia (42-50) e per introdurre il messaggio ci sono due verbi (che aprì), (che fece uscire) che annunciano l'azione di Dio, quella che sta all'origine della storia d'Israele: il passaggio del mare. La “strada nel mare” è un'immagine classica del racconto di Pasqua, per ricordarci che Dio si apre un varco nelle situazioni impossibili per aiutare i suoi figli sottomessi dai poteri forti del mondo.
“Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!”
C’è un incoraggiamento a dimenticare persino l'azione salvifica dell'esodo, “il passato” che va dimenticato, tanto è potente e straordinario l'evento nuovo che il Signore sta per compiere
La memoria è una legge fondamentale per Israele, dalla memoria nasce il senso della storia, ma la memoria non deve però essere una fuga nostalgica nel passato, il ricordo è valido quando prepara un futuro migliore.
“Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada,immetterò fiumi nella steppa.”
“una cosa nuova” o “una novità” è un termine che si trova soltanto in questo passo e in Geremia (31,22), cioè nel capitolo sulla nuova alleanza. La novità ricorda e supera il primo esodo!
Anche questa nuova azione consiste nel realizzare una strada, simile all'antica, stabilendo così un’analogia con l'esodo classico. Il profeta non vuol dire che le antiche tradizioni non valgono più perché ora siamo di fronte ad una nuova azione di Dio che incoraggia a non lamentarsi più guardando al passato, ma piuttosto a comprendere che si è in presenza di un nuovo straordinario evento. Pertanto l'invito del profeta è in piena armonia con la missione di testimone che egli conferisce al resto del popolo. La novità che Dio dice di creare è quell’avvenimento che Israele non si aspettava più, in cui non sperava e non credeva più, poiché, come mostrano le sue lamentazioni, esso pensava che l'azione salvifica di Dio fosse ormai un capitolo chiuso, relegato nel passato. Si tratta invece di una novità che sta già germogliando; ciò significa che tra breve essa potrà essere vista da tutto Israele.
“Mi glorificheranno le bestie selvatiche,sciacalli e struzzi,perché avrò fornito acqua al deserto,fiumi alla steppa,per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi”.
La somiglianza tra l'esodo nuovo e quello che sta per iniziare è reso possibile da Dio che fornisce acqua al deserto in abbondanza, al punto che anche gli animali ne possano bere.
Isaia vede perciò nell'imminente ritorno del popolo come un altro esodo, come una seconda Pasqua, dove l'unica differenza sarebbe il passaggio non attraverso il mare, ma nel deserto.
Gli occhi del popolo non sono ancora in grado di vedere la novità di Dio, che sta per sbocciare e la salvezza futura supererà radicalmente qualsiasi esperienza vissuta da Israele nel passato.
E' vero ci sono frangenti in cui, se leggiamo la storia con occhi realistici, ci pare non esistano vie di uscita, che ci si debba rassegnare a ciò che risulta compromesso una volta per tutte, ma il passato deve servire anche a ricordarci che Dio è intervenuto sempre nella storia ma con i Suoi tempi, e nei Suoi modi, perchè come Egli stesso dice per bocca del profeta: ” i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie “ (Is55,8)

Salmo 125 Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Il salmista faceva parte degli Israeliti rimasti in Palestina al tempo delle deportazioni babilonesi.
Egli esprime la gioia di tutti di fronte ai primi arrivi e invoca da Dio il ritorno di tutti i deportati, in moltitudine e velocità, cioè senza intoppi e stenti di viaggio, come, appunto, i torrenti del Negheb, cioè i torrenti della parte meridionale del territorio della tribù di Giuda.
L'evento del ritorno è un fatto del tutto straordinario che mette in luce la fedeltà di Dio per il suo popolo.
I popoli, cioè quelli facenti parte dell'impero Persiano, pur a modo loro, cioè senza diventare monoteisti, lo riconobbero. Diversamente si comportarono i popoli vicini, che si erano spinti con scorribande continue nei territori di Israele. Questi cercarono di sfaldare ogni tentativo di Israele di ridarsi una fisionomia stabile.
Il desiderio che i prigionieri ritornino è grande, ma bisogna nel frattempo creare le condizioni per facilitare i nuovi arrivi.
Il salmo per questo presenta una sentenza proverbiale come invito a non lesinare fatiche per la ricostruzione di Gerusalemme, il ripristino dei campi, dei villaggi; questo pur in mezzo alle difficoltà causate dall'ostilità dei vicini popoli: “Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia”.
Il salmo nel suo sensus plenior riguarda la liberazione dei popoli dal peso dell'ignoranza del vero Dio, dal peso delle divisioni e contrapposizioni.
Essi hanno ricevuto l'editto di liberazione nel sangue di Cristo. La Chiesa, sacramento di salvezza e di unità, deve fare conoscere il Liberatore dal peccato, sempre pronta ad accogliere nella gioia della comunione che la regge tutti coloro che accolgono Cristo e che già sono misteriosamente orientati a lui dall'azione dello Spirito Santo (Cf. 1Gv 1,3-4).
La chiave di lettura di questo Salmo, come inno dei rimpatriati dall’esilio babilonese in seguito all’editto di Ciro del 538 a.C., è certamente la più immediata e suggestiva e accosterebbe questo “cantico delle ascensione”, il settimo, alle pagine del cosiddetto Secondo Isaia (cc.40-44), il profeta cantore del ritorno di Israele al focolare nazionale, abbandonato dopo la distruzione di Gerusalemme a opera delle armate di Nabucodonosor nel 586 a.C. Questa piccola composizione, di sole 48 parole ebraiche, riesce a fondere insieme in modo mirabile ringraziamento gioioso per il dono della libertà, ma anche supplica ardente per il futuro che non sembra essere del tutto sgombro di nubi.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
Fil 3,8-14

La Lettera ai Filippesi è stata scritta da Paolo fra il 53 e il 62, mentre si trovava in carcere, probabilmente durante la sua detenzione a Efeso, ed è ispirata da sentimenti di amicizia per la comunità cristiana di Filippi, che è stata la prima fondata da Paolo in Europa e con la quale l'apostolo aveva un legame particolarmente armonico e affettuoso. Filippi che ha preso il nome dal re Filippo II di Macedonia (padre di Alessandro Magno) è una città nel nord della Grecia, situata a circa 15 chilometri dal mare, e i cristiani di questa comunità erano prevalentemente di origine pagana, e questo lo si deduce dal fatto che nella lettera Paolo, a parte una breve allusione, non cita mai l'Antico Testamento. Nella lettera non vengono trattati grandi temi, né vengono risolte particolari questioni: l'apostolo vuole semplicemente informare i filippesi della sua situazione, ringraziarli per l'attenzione dimostrata nei suoi confronti ed esortarli a proseguire sulla via dell'amore evangelico.
Nei versetti precedenti questo brano Paolo aveva presentato le proprie credenziali (ebreo figlio di ebrei, circonciso l'ottavo giorno...) e commenta che quello che poteva essere per lui un guadagno, lo considera una perdita a motivo di Cristo.
Da qui inizia il nostro brano
“Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo”
Paolo dunque aveva tutte le carte in regola per rivaleggiare con i giudeo-cristiani. Però è successo qualcosa nella sua vita che gli fa considerare assolutamente prive di valore tutte queste cose di cui poteva vantarsi: il suo appartenere al popolo di Israele, l'essere stato osservante in tutto, essere stato pieno di zelo per seguire la fede dei suoi padri... Tutto è una perdita davanti a ciò che ha potuto conoscere di Gesù Cristo. Addirittura chiama queste cose spazzatura) roba da buttare tra i rifiuti! L'unico valore che conta veramente per Paolo è Cristo: tutto ciò che non è Lui è da gettare via.
“ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede:”
Paolo non poteva mantenere l’anima ebrea e quella cristiana poiché non sono conciliabili. La fede ebraica si basava sull'acquisto di una giustificazione in base alle opere che seguono la Legge. La fede in Cristo, è quella che ti giustifica grazie alla fiducia che riponi in Lui.
“perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti”. La conoscenza cristiana non riguarda solo la mente, è un'esperienza che coinvolge tutta la persona, cambia radicalmente la vita. Questo significa vivere come ha vissuto Cristo, conoscere la Sua vicenda terrena, conoscere la gloria della Sua risurrezione, aderire a Lui passando attraverso le prove della vita, anche la sofferenza e la morte, perché tutto questo apre alla speranza della risurrezione! Non è una certezza, poiché l'essere ammesso a questa gioia è dono di Dio, però nella fede già si partecipa in una certa misura a questa pienezza di vita. E come conseguenza di tutto questo nella vita di ogni giorno egli si dispone a seguire Gesù e a vivere secondo la Sua volontà.
“Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù.”
Paolo è ben cosciente dei propri limiti, non si illude di essere già arrivato al traguardo. Si può notare una nota polemica nei confronti dei predicatori che avevano ammaliato i Filippesi presentandosi come esempio di perfezione. Paolo prende a prestito il linguaggio sportivo quando dice che come un atleta cerca di allenarsi a correre per raggiungere la meta, la vera perfezione. Egli corre per conquistare il premio perché si sente a sua volta conquistato, affascinato da Gesù e lo vuole raggiungere.
“Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.
Quindi Paolo può paragonare la propria vita come a una corsa. Ha dimenticato la sua vita di prima, perché il suo cuore è tutto volto a Gesù, alla promessa di pienezza e di felicità che Lui gli ha fatto. Non desidera altro, la sua vita non è protesa a niente altro, per questo si impegna nella predicazione, nel lavoro a favore del Vangelo.
Per tutto questo può essere preso come esempio e può anche criticare coloro che invece propongono ancora ai cristiani le pratiche della fede ebraica.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
Gv 8: 1-11

Questo racconto della donna colta in adulterio, proviene da un’antica tradizione, storicamente certa, ed è stato stranamente omesso nei più antichi manoscritti greci, ma si trova in alcuni manoscritti dell’antica versione latina, nella Vulgata, ed in altri lezionari. E’ certo comunque che non faceva parte del primitivo vangelo di Giovanni, per cui poteva anche essere inserito in quello di Luca, per il contenuto più vicino all’evangelista del Vangelo della Misericordia. Tutto questo è avvenuto sicuramente perché i capi della Chiesa antica, si sforzavano di inculcare una rigida dottrina, soprattutto in materia di adulterio, per cui hanno preferito omettere questo episodio, in cui Gesù poteva sembrare troppo indulgente per una donna adultera.
Il racconto ci porta al Tempio di Gerusalemme, dove Gesù insegnava alla folla che si raccoglieva intorno a Lui. Gli scribi e i farisei, sempre pronti come al solito per metterlo alla prova, gli portarono una donna, che era stata sorpresa mentre commetteva adulterio “la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici””.
Il caso era semplice,e regolato dalla Torah, nel Levitico infatti è scritto: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno esser messi a morte”. Lv,20,10 per cui non potevano esserci dubbi per la sentenza. Gesù però non rispose subito, infatti prima “si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Davanti a Lui c’è una donna sorpresa in adulterio, un gruppo gli scribi e di farisei in attesa del suo responso, consapevoli che secondo la Scrittura la donna doveva essere lapidata.
“Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, Gesù alla fine si alzò e disse loro: Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra”.
Gesù non dice una sola parola che possa attenuare la colpa della donna, ma neanche la condanna e la giudica. Con le Sue parole Egli supera la legge e manifesta la via dell’amore di Dio.
L’evangelista annota: “Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.”
C’è da immaginare la scena nell’aula di questo tribunale improvvisato in cui rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Ora Gesù si alzò e disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».”
In tanti anni ho sentito tante spiegazioni di questo brano, ma la più straordinaria, unica, illuminante, l’ho avuta da un mio professore, che è stato molto importante per la mia formazione, e la sua versione, almeno una parte, desidero riportarla:
Che significa che Gesù ha perdonato ma poi ha detto “non peccare più” , ma questo stravolge Gesù, ci avete mai pensato? Gesù dolcissimo, serenissimo, ogni volta che va verso qualcuno è sempre il pastore che prende la pecorella e se la mette sulle spalle, con una dolcezza infinita, non può essere “non peccare più!” detto con imperativo. Cambia tutto il significato!
Questa frase è stata messa apposta perché il brano fosse accettato. La frase certa da parte di Gesù è: “va’e d’ora in poi non peccherai più”.Non peccherai più! Il che cambia tutto perché, e questo guardiamolo esegeticamente, ogni volta che Gesù ha cambiato una persona, l’ha convertita, ha fatto la metanoia. Quella persona non ha bisogno di sentire “non peccare più!” perché non riuscirebbe a peccare più. Quando Gesù interviene rispetto al male, al peccato, il male sparisce definitivamente. La persona è sanata è come se avesse un’accensione definitiva, che non riesce più, non potrebbe più, peccare come prima.
Allora che cosa vuol dire questo brano bellissimo? Vuol dire questo da parte di Gesù alla donna “Va’ ora finalmente puoi andare avanti…” se avesse detto “Non peccare più!” la donna a testa bassa avrebbe avuto ancora un rimprovero. C’è una contraddizione nel dire “Io non ti condanno, nessuno ti ha condannata” e poi “non peccare più!”. perché dire così vuol dire “ti condanno e ti faccio andare via”. “Io non ti condanno perché nessuno è condannato dall’amore di Dio. Ora tu sei talmente sanata…”, non sul piano di fatto ma sul piano esistenziale, questi sono i valori di fondo in duemila anni perché si è posta la morale al di sopra dell’esistenza. Questa donna una volta sanata acquistata la serenità sicuramente, non riuscirebbe più a peccare, a ricadere nello stesso errore. …
Può capire questo solo chi è stato “investito” nella sua vita da Gesù, solo Lui può capovolgere la tua esistenza, allora ti accorgi che le cose di prima veramente sono cose passate, non contano nulla, sono nate le nuove e come S.Paolo puoi dire: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me!

 

*****

“In questa quinta domenica di Quaresima, la liturgia ci presenta l’episodio della donna adultera.. In esso si contrappongono due atteggiamenti: quello degli scribi e dei farisei da una parte, e quello di Gesù dall’altra. I primi vogliono condannare la donna, perché si sentono i tutori della Legge e della sua fedele applicazione. Gesù invece vuole salvarla, perché Lui impersona la misericordia di Dio che perdonando redime e riconciliando rinnova.
Vediamo dunque l’avvenimento. Mentre Gesù sta insegnando nel tempio, gli scribi e i farisei gli portano una donna sorpresa in adulterio; la pongono nel mezzo e chiedono a Gesù se si deve lapidarla, così come prescrive la Legge di Mosè. L’Evangelista precisa che essi posero il quesito «per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo». Si può supporre che il loro proposito fosse questo – vedete la malvagità di questa gente: il “no” alla lapidazione sarebbe stato un motivo per accusare Gesù di disobbedienza alla Legge; il “sì”, invece, per denunciarlo all’autorità romana, che aveva riservato a sé le sentenze e non ammetteva il linciaggio popolare. E Gesù deve rispondere.
Gli interlocutori di Gesù sono chiusi nelle strettoie del legalismo e vogliono rinchiudere il Figlio di Dio nella loro prospettiva di giudizio e condanna. Ma Egli non è venuto nel mondo per giudicare e condannare, bensì per salvare e offrire alle persone una vita nuova. E come reagisce Gesù davanti a questa prova? Prima di tutto rimane per un po’ in silenzio, e si china a scrivere col dito per terra, quasi a ricordare che l’unico Legislatore e Giudice è Dio che aveva scritto la Legge sulla pietra. E Poi dice: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» . In questo modo Gesù fa appello alla coscienza di quegli uomini: loro si sentivano “paladini della giustizia”, ma Lui li richiama alla consapevolezza della loro condizione di uomini peccatori, per la quale non possono arrogarsi il diritto di vita o di morte su un loro simile. A quel punto, uno dopo l’altro, cominciando dai più anziani – cioè quelli più esperti delle proprie miserie – se ne andarono tutti, rinunciando a lapidare la donna. Questa scena invita anche ciascuno di noi a prendere coscienza che siamo peccatori, e a lasciar cadere dalle nostre mani le pietre della denigrazione e della condanna, del chiacchiericcio, che a volte vorremmo scagliare contro gli altri. Quando noi sparliamo degli altri, buttiamo delle pietre, siamo come questi.
Alla fine rimangono solo Gesù e la donna, là in mezzo: «la misera e la misericordia», dice Sant’Agostino (In Joh 33,5). Gesù è l’unico senza colpa, l’unico che potrebbe scagliare la pietra contro di lei, ma non lo fa, perché Dio “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (cfr Ez 33,11). E Gesù congeda la donna con queste parole stupende: «Va’ e d’ora in poi non peccare più».
E così Gesù apre davanti a lei una strada nuova, creata dalla misericordia, una strada che richiede il suo impegno di non peccare più. È un invito che vale per ognuno di noi: Gesù quando ci perdona ci apre sempre una strada nuova per andare avanti.
In questo tempo di Quaresima siamo chiamati a riconoscerci peccatori e a chiedere perdono a Dio. E il perdono, a sua volta, mentre ci riconcilia e ci dona la pace, ci fa ricominciare una storia rinnovata. Ogni vera conversione è protesa a un futuro nuovo, ad una vita nuova, una vita bella, una vita libera dal peccato, una vita generosa. Non abbiamo paura a chiedere perdono a Gesù perché Lui ci apre la porta a questa vita nuova. La Vergine Maria ci aiuti a testimoniare a tutti l’amore misericordioso di Dio che, in Gesù, ci perdona e rende nuova la nostra esistenza, offrendoci sempre nuove possibilità.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 7 aprile 2019

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche di questa IV domenica di quaresima ci parlano di riconciliazione con Dio e di misericordia divina, di coscienza del peccato e di garanzia del perdono. Inquadrano situazioni di pena che si trasforma in gioia e di penitenza che si trasforma in festa.
Nella prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, con l’ingresso degli Israeliti in Palestina si conclude l’esodo e ha inizio il compimento di un’altra promessa fatta da Dio ad Abramo: il dono della terra. Il passaggio dalla schiavitù alla terra promessa, ha avuto inizio e si è concluso con la celebrazione della Pasqua. L’esodo diventa così un grande passaggio. In questo cammino gli Israeliti erano sostenuti dalla manna, che ora cessa, perchè la terra promessa è stata raggiunta. Anche l’Eucarisita è il cibo di un popolo in cammino che cesserà nel giorno in cui verrà il Signore.
Nella seconda lettura, tratta dalla seconda lettera di S.Paolo ai Corinzi, troviamo i criteri fondamentali che guidano l’apostolo delle genti nella sua missione e che sono per lui il punto di vista giusto per risolvere le difficoltà della Chiesa di Corinto: Dio riconcilia a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe … La Pasqua ormai vicina deve fare di noi delle “creature nuove”: se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate…. Ogni giorno, ogni momento, dobbiamo rinnovare la nostra conversione.
Nel brano del Vangelo, Luca ci conforta con una delle più toccanti pagine evangeliche: la parabola del figlio prodigo, o meglio del padre prodigo d’amore che spia una strada deserta, che spera contro ogni speranza, e appena si profila all’orizzonte la figura del figlio, gli corre incontro per abbracciarlo e in quell’abbraccio la morte si trasforma in vita, uno smarrimento diventa un ritrovamento gioioso.

Dal libro di Giosuè
In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto».
Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico.
Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno.
E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.
Gs 5, 9a, 10-12

Il libro di Giosuè viene subito dopo il Pentateuco e apre la serie dei Libri Storici dell'Antico Testamento. E’ stato scritto in ebraico e la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata in Giudea intorno al VI-V secolo a.C, sulla base di tradizioni orali e scritte.. Il libro prende il nome dal suo protagonista principale, Giosuè, figlio di Nun della tribù di Efraim, presentato già nell'Esodo come aiutante di Mosè. Dal libro dei Numeri sappiamo che era al servizio di Mosè fin dalla giovinezza, e che fu uno degli esploratori della Terra Promessa. Essendo stato, con Caleb, il solo tra il popolo a non rivoltarsi contro Mosè dopo il rientro degli esploratori, ebbe il diritto di entrare nella Terra di Canaan dopo la morte dell'intera generazione mosaica. Il periodo descritto va intorno al 1200.-1150 a.C
Il libro di Giosuè, composto da 24 capitoli è ripartito in tre sezioni:
- la conquista della Palestina (capitoli 1-12) E qui si inserisce uno dei brani più famosi della Bibbia, per prolungare la giornata ed assicurare la vittoria agli Israeliti, Giosuè grida:« Fermati, o sole, su Gabaon, e tu, luna, sulla valle di Aialon! » (Gs 10, 12)
- la suddivisione delle terre conquistate (capitoli 13-21)
- ultimi discorsi e morte di Giosuè (capitoli 22-24)
II capitolo 15, da dove è tratto questo brano, inizia con questo versetto: ”Quando tutti i re degli Amorrei, che sono oltre il Giordano ad occidente, e tutti i re dei Cananei, che erano presso il mare, seppero che il Signore aveva prosciugato le acque del Giordano davanti agli Israeliti, finché furono passati, si sentirono venir meno il cuore e non ebbero più fiato davanti agli Israeliti.” Era avvenuto che nonostante il Giordano fosse in piena per lo scioglimento delle nevi dell’Hermon, Giosuè ricevette da Dio l’ordine di passare e predispose quella che potremmo definire oggi la liturgia del passaggio,(il secondo prodigio delle acque dopo quello del passaggio del Mar Rosso). Il Salmo 114 (113) con espressioni poetiche lo ricorda:. “Il Giordano si volse indietro (…) e tu, Giordano, perché torni indietro?” che presentano il Giordano che ritira a monte il suo flusso d’acqua. Con l’ingresso degli Israeliti in Palestina si conclude l’esodo e ha inizio il compimento di un’altra promessa fatta ad Abramo il dono della terra (Gn 15,18).
In questo brano, dopo che Giosuè circoncise gli Israeliti alla collina Aralot, il Signore lo ribadisce: “Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto».
Il passaggio dalla schiavitù alla terra promessa ha avuto inizio e si è concluso con la celebrazione della Pasqua che gli “Israeliti accampati a Gàlgala celebrarono al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico”.
C’è un’annotazione che riveste una particolare importanza: “…a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò “. Il segno del salto di condizione è evidenziato dalla possibilità di mangiare i prodotti della terra e dalla fine della manna. La notizia che il popolo non ha più la manna non è negativa, ma ha il sapore della bella notizia: il popolo può vivere del lavoro delle proprie mani nella sua terra. Al termine del viaggio di liberazione, la fine della manna dà come l'impressione che Dio si metta da parte e lo fa proprio nel momento in cui le Sue promesse si dimostrano vere e quelli che si sono fidati di Lui possono dimostrare di avere avuto ragione, proprio allora Dio toglie il segno più evidente della dipendenza del popolo dalla Sua provvidenza! Il risultato dell'azione di liberazione che Dio compie verso il Suo popolo, è che il popolo è libero, che può provvedere con le proprie mani ai suoi bisogni, fare le proprie scelte e decidere se rimanere fedele a Lui. Dio non si allontana dalla storia del Suo popolo, ma lo lascia libero di cercarlo. La non evidenza della presenza di Dio rende il cammino del credente, un viaggio compiuto nella piena libertà.

Salmo 33 - Gustate e vedete com’è buono il Signore.

Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.

L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”. L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1).
Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fà il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento tratto da Perfetta Letiziai

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione
In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta.
Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.
2Cor 5:17-2

Paolo scrisse la seconda lettera ai Corinzi, spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo è a Efeso (At 19) e viene a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stanno sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare un’altra volta.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, in cui traspare il suo carattere appassionato. E’ una lettera ardente che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”.
Nei primi 6 capitoli Paolo ripercorre la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto. I contorni veri di questo malinteso non sono chiari, ma questo diventa per Paolo un motivo per ricordare le motivazioni del suo impegno a favore del Vangelo.
Nel brano che abbiamo l’apostolo esorta i Corinzi a diventare in Cristo creature nuove:
“Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove”.
I predicatori giunti a Corinto davano valore alle proprie parole con esperienze estatiche, alle quali i Corinzi erano particolarmente sensibili. Paolo nel versetto precedente ricorda che tali manifestazioni sono ancora opere della carne mentre il credente in Cristo invece è una creatura nuova e deve tralasciare le opere della carne, le cose vecchie. L'espressione “nuova creatura” è ripresa dagli ambienti apocalittici, nei quali si diceva che alla fine del mondo ogni persona sarebbe diventata una nuova creatura, Paolo quindi prende questo termine e lo adatta al messaggio evangelico. La nuova creatura si realizzerà alla fine dei tempi, ma già da ora chi crede in Cristo è una nuova creatura, perché l'esperienza di liberazione portata da Cristo per il singolo credente è pari allo sconvolgimento della fine dei tempi, è l'irrompere di una nuova epoca.
“Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione”.
Paolo prende ancora un termine dell’ambiente in cui vive, per adattarlo anche in questo caso al messaggio evangelico. Egli prende come punto di riferimento la Pax romana, l'ideale politico a cui l'impero romano aveva ispirato la sua espansione in tutto il bacino del Mediterraneo. Ma se quella era una pace imposta con la spada e il timore, la pace di Cristo si estende grazie alla riconciliazione con il Padre, realizzata dal sacrificio di Cristo, e diffusa in tutto il mondo attraverso i ministri della riconciliazione.
“Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione”
Ovviamente una riconciliazione presuppone una situazione di avversione e di rottura e segnala l'iniziativa di Dio come artefice attivo di questo superamento, che è giunto alla riconciliazione del mondo a sé, con il perdono dei peccati, non tenendo più conto delle colpe degli uomini.
“In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.”
In questa riconciliazione Paolo inserisce il proprio caso particolare. I Corinzi lo avevano criticato, non seguivano più le sue esortazioni perché affascinati dai nuovi predicatori. Paolo ricorda che il suo messaggio non viene da lui, ma viene da Cristo, che ha riconciliato il mondo con il Padre. Egli è solo un ambasciatore! Egli dunque esorta in modo accorato i Corinzi a riconciliarsi con lui, per riconciliarsi a sua volta con Dio.
“Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.”
In questa parte l’Apostolo ricorda che la riconciliazione del mondo con Dio è avvenuta non solo mediante il perdono dei peccati, ma anche con la giustificazione degli uomini. Coloro che non erano giusti a causa delle loro opere, sono stati resi giusti grazie al sacrificio di Cristo. E' Lui che ci ha resi giusti, quindi non vi sono meriti da parte degli uomini. Essi devono solo accogliere questa loro nuova condizione di essere stati giustificati e devono lasciarsi riconciliare con il Signore.
Viene in mente cosa scriveva Pascal, in un immaginario colloquio tra Dio e l’anima:
Dio: Se tu conoscessi i tuoi peccati ti dispereresti!
L’anima: Se tu mi li mostri, allora mi dispererò.
Dio: Non ti scoraggerai perché i tuoi peccati ti saranno rivelati nel momento stesso in cui ti saranno perdonarti.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Lc 15,1-3.11-32

Il Capitolo 15 del Vangelo di Luca ci presenta tre parabole sul tema della misericordia. La prima ci descrive il ritrovamento della pecora, la moneta ritrovata e la terza è la celeberrima parabola del Figliol prodigo che è una sintesi delle due precedenti, perché è la storia di due persone che si perdono spiritualmente: una fuori casa (il figliol prodigo) e l'altra in casa (il fratello maggiore).
Il brano inizia riportando che “si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».”
Si può subito notare che i pubblicani e i peccatori "ascoltano" la parola di Gesù, manifestando così un desiderio di salvezza mentre i farisei e gli scribi, “mormorano”, palesando ostinazione e rifiuto. Gli scribi e i farisei non riescono ad accettare il comportamento di Gesù che mangia e beve persino con peccatori pubblici, che non solo hanno commesso qualche peccato, ma sono in una condizione permanente di peccato. La condivisione del pasto esprime un senso di
comunione, e siccome Gesù è un maestro e non appartiene alla razza dei peccatori, questa mescolanza di sacro e di profano, di giusto e di peccatore crea problemi perché contrasta con la mentalità degli scribi e dei farisei.
Gesù inizia la parabola raccontando che: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. È la storia di sempre: un padre e due figli dei quali il più giovane manifesta una certa inquietudine, un mal di vivere, un atteggiamento sempre attuale dei giovani, di ogni tempo e di ogni luogo, e dice al padre di dargli “la parte del patrimonio che gli spetta”.
“ Ed egli divise tra loro le sue sostanze”. Ciò che colpisce in questa prima parte è la “condiscendenza silenziosa" del Padre che fin troppo rispettoso della libertà del figlio, accetta la sua richiesta e divide le sue sostanze.
Dividere le sostanze quando i1 Padre è ancora in vita, è un chiaro atto di ribellione, impensabile per la cultura orientale. Qui il figlio si dimostra già un sconsiderato e irresponsabile e la legge era molto dura nel reprimere un tale atteggiamento (v. Dt 21,18-21).
“Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno”
Questo figlio va in un paese lontano, e per lontano si intende anche pagano dove si perde ogni contatto con la propria famiglia, ma in cui può effettivamente fare quello che vuole; e questo giovane lo fa “vivendo in modo dissoluto”, fino “a trovarsi nel bisogno”.
La condizione di questo ragazzo diventa così grave al punto che è costretto a “mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci”.
Il porco è un animale immondo, tanto che non viene allevato da ebrei; andare a pascolare i porci è il massimo del degrado, peggio di così non si poteva finire. E la parabola vuole dire questo: il figlio scende al punto più basso della sua vita.
“Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.”
Questo significa che da figlio è diventato meno di un servo; l’autonomia che lui cercava non l’ha certo trovata! .
“Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!” In questo suo ragionamento non si può ravvisare ancora una conversione: lo chiama padre, anche se non considera se stesso come figlio, fa un paragone con i salariati, ma ha ancora una falsa immagine del padre.
La fame gli fa capire come abbia sbagliato nel valutare le cose… E’ appropriato qui un antico proverbio ebraico: “Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono”.
“Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te”.
Il figlio si è allontanato da casa perché pensava che suo padre fosse un tiranno e ritorna a casa con la speranza che suo padre sia un padrone e lo tratti come un padrone tratta i suoi servi. La conversione del figlio in realtà non è una vera conversione, perché non ritorna per amore di suo padre, ma ritorna per fame, con il desiderio di saziarsi, di potere vivere in un modo meno miserabile di quello attuale. Non gli dispiace di aver fatto soffrire suo padre!
“non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”.Questo è il discorso che si era preparato mentalmente, nel quale, con atteggiamento umile, si riconosceva colpevole.
Arriviamo alla seconda parte della parabola dominata dalla figura del padre che:
“quando era ancora lontano, lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.”
Il padre qui è ben altro, un padre che spia una strada deserta, che spera contro ogni speranza, non aspetta al varco il figlio degenere per rinfacciarli una colpa che non ha scusanti, ma appena si profila all’orizzonte la figura del figlio, questo padre gli corre incontro per abbracciarlo. Per farci capire meglio l'evangelista usa i verbi dell'amore:
“lo vide”. Per quanto lontano possa essere il padre lo vede sempre; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista Sal 139,11). (L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una madre verso il figlio malato (Is 49,14-16; Ger 31,20; Sal 27,10; Os 11,8).
“ebbe compassione”. È il verbo che definisce la figura del padre. “Commuoversi” vuole dire: “gli si sono mosse dentro le viscere”. L'evangelista Luca attribuisce a questo padre i sentimenti di una madre, e si collega cosi alla tradizione biblica, dove Dio ha sovente atteggiamenti materni verso Israele.
“gli corse incontro”. C'è una corsa del padre che termina in uno slancio che lo fa letteralmente “cadere addosso” al figlio.
“lo baciò” Il “bacio” è il segno del perdono (v-2Sam 14,33). Questi sono gesti che nell'Antico Testamento indicano il perdono e la riconciliazione il segno che la comunione d’amore che c’era prima, è stata immediatamente ristabilita.
“Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi.
Il padre prende subito l’iniziativa e non permette al figlio neanche di terminare la sua confessione, non lo rimprovera e la dichiarazione di perdono non completata del figlio, indica che l’aspetto importante della parabola, non è la conversione più o meno sentita del figlio, ma piuttosto l’accoglienza e la misericordia del padre. Oltre al vestito più bello si può notare il particolare dell’anello al dito, simbolo di autorità, e dei sandali ai piedi che gli ridona la libertà di figlio (lo schiavo non porta sandali).
“facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
È il canto alla vita del figlio ritrovato, della relazione nuova, filiale e fraterna.
I termini "morte e vita" lasciano intuire che la sua gioia deriva da una relazione che si era spezzata prima, ma ora è rinnovata in una atmosfera di gioiosa libertà.
Ora giungiamo all’ultima scena del racconto in cui appare la figura del “figlio maggiore che si trovava nei campi”, che è una tipica rappresentazione del benpensante che soddisfatto della sua conclamata onestà, diventa un impietoso giudice del fratello.
Questo figlio maggiore rappresenta anche Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto, ma rappresenta anche colui che crede di essere nel giusto per cui come il figlio maggiore della parabola domanda, si arrabbia e il suo arrabbiarsi è giustificato da un ragionamento che ha una logica rigorosa, in cui suppone che il padre sia un padrone e che i figli siano dei salariati. Afferma perciò con rabbia: io ti servo da tanti anni … e tu non mi hai mai dato un capretto… Il figlio maggiore che ha mantenuto sempre un rapporto da salariato a datore di lavoro, è un esempio di una religiosità seria e impegnata ma di scambio, una religiosità dove Dio è datore di lavoro e l’uomo è un operaio, per cui secondo il lavoro che l’operaio compie, ha diritto ad un salario corrispondente.
Il padre che era uscito per supplicarlo gli dice: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; … ma bisognava far festa e rallegrarsi” con queste parole il padre cerca di far entrare nella logica dell’amore e della gioia colui che è rimasto sempre avvolto nelle funzioni del puro dovere, della sola osservanza di norme che escludono qualsiasi sentimento, gioia e soprattutto perdono. Il padre non rinnega il comportamento tenuto nei confronti del figlio minore e riafferma con enfasi la sua gioia.
La parabola non rivela la reazione del figlio maggiore, non dice se è entrato o no a far festa. Gesù lascia le cose in sospeso con le domande che ognuno di noi anche oggi si può sentire rivolgere: volete fare come il figlio maggiore, essere invidiosi dei peccatori che si convertono? Volete o no entrare alla festa di Dio? Volete continuare a non capire la mentalità, il cuore di Dio?
A Gesù sta a cuore far intravedere a noi peccatori e presunti giusti, il modo con cui Dio si rapporta alle persone: ogni uomo, anche se peccatore, rimane per Dio sempre un figlio, proprio come succede nella parabola.

 

*****

Le parole di Papa Francesco

 

““Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò»
Così il Vangelo ci immette nel cuore della parabola che manifesta l’atteggiamento del padre nel vedere ritornare suo figlio: scosso nelle viscere non aspetta che arrivi a casa ma lo sorprende correndogli incontro. Un figlio atteso e desiderato. Un padre commosso nel vederlo tornare.
Ma quello non è stato l’unico momento in cui il Padre si è messo a correre. La sua gioia sarebbe incompleta senza la presenza dell’altro figlio. Per questo esce anche incontro a lui per invitarlo a partecipare alla festa .Però, sembra proprio che al figlio maggiore non piacessero le feste di benvenuto; non riesce a sopportare la gioia del padre e non riconosce il ritorno di suo fratello: «quel tuo figlio», dice . Per lui suo fratello continua ad essere perduto, perché lo aveva ormai perduto nel suo cuore.
Nella sua incapacità di partecipare alla festa, non solo non riconosce suo fratello, ma neppure riconosce suo padre. Preferisce l’essere orfano alla fraternità, l’isolamento all’incontro, l’amarezza alla festa. Non solo stenta a comprendere e perdonare suo fratello, nemmeno riesce ad accettare di avere un padre capace di perdonare, disposto ad attendere e vegliare perché nessuno rimanga escluso, insomma, un padre capace di sentire compassione.
Sulla soglia di quella casa sembra manifestarsi il mistero della nostra umanità: da una parte c’era la festa per il figlio ritrovato e, dall’altra, un certo sentimento di tradimento e indignazione per il fatto che si festeggiava il suo ritorno. Da un lato l’ospitalità per colui che aveva sperimentato la miseria e il dolore, che era giunto persino a puzzare e a desiderare di cibarsi di quello che mangiavano i maiali; dall’altro lato l’irritazione e la collera per il fatto di fare spazio a chi non era degno né meritava un tale abbraccio.
Così, ancora una volta emerge la tensione che si vive tra la nostra gente e nelle nostre comunità, e persino all’interno di noi stessi. Una tensione che, a partire da Caino e Abele, ci abita e che siamo chiamati a guardare in faccia. Chi ha il diritto di rimanere tra di noi, di avere un posto alla nostra tavola e nelle nostre assemblee, nelle nostre preoccupazioni e occupazioni, nelle nostre piazze e città? Sembra che continui a risuonare quella domanda fratricida: sono forse il custode di mio fratello? (cfr Gen 4,9).
Sulla soglia di quella casa appaiono le divisioni e gli scontri, l’aggressività e i conflitti che percuoteranno sempre le porte dei nostri grandi desideri, delle nostre lotte per la fraternità e perché ogni persona possa sperimentare già da ora la sua condizione e dignità di figlio.
Ma a sua volta, sulla soglia di quella casa brillerà con tutta chiarezza, senza elucubrazioni né scuse che gli tolgano forza, il desiderio del Padre: che tutti i suoi figli prendano parte alla sua gioia; che nessuno viva in condizioni non umane come il suo figlio minore, né nell’orfanezza, nell’isolamento e nell’amarezza come il figlio maggiore. Il suo cuore vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità (1 Tm 2,4).
Sicuramente sono tante le circostanze che possono alimentare la divisione e il conflitto; sono innegabili le situazioni che possono condurci a scontrarci e a dividerci. Non possiamo negarlo. Ci minaccia sempre la tentazione di credere nell’odio e nella vendetta come forme legittime per ottenere giustizia in modo rapido ed efficace. Però l’esperienza ci dice che l’odio, la divisione e la vendetta non fanno che uccidere l’anima della nostra gente, avvelenare la speranza dei nostri figli, distruggere e portare via tutto quello che amiamo.
Perciò Gesù ci invita a guardare e contemplare il cuore del Padre. Solo da qui potremo riscoprirci ogni giorno come fratelli. Solo a partire da questo orizzonte ampio, capace di aiutarci a superare le nostre miopi logiche di divisione, saremo capaci di raggiungere uno sguardo che non pretenda di oscurare o smentire le nostre differenze cercando forse un’unità forzata o l’emarginazione silenziosa. Solo se siamo capaci ogni giorno di alzare gli occhi al cielo e dire “Padre nostro” potremo entrare in una dinamica che ci permetta di guardare e di osare vivere non come nemici, ma come fratelli.
«Tutto ciò che è mio è tuo», dice il padre al figlio maggiore. E non si riferisce solo ai beni materiali ma al partecipare del suo stesso amore e della sua stessa compassione. Questa è la più grande eredità e ricchezza del cristiano. Perché, invece di misurarci o classificarci in base ad una condizione morale, sociale, etnica o religiosa, possiamo riconoscere che esiste un’altra condizione che nessuno potrà cancellare né annientare dal momento che è puro dono: la condizione di figli amati, attesi e festeggiati dal Padre.
«Tutto ciò che è mio è tuo», anche la mia capacità di compassione, ci dice il Padre. Non cadiamo nella tentazione di ridurre la nostra appartenenza di figli a una questione di leggi e proibizioni, di doveri e di adempimenti. La nostra appartenenza e la nostra missione non nasceranno da volontarismi, legalismi, relativismi o integrismi, ma da persone credenti che imploreranno ogni giorno con umiltà e costanza: “venga il tuo Regno”.
La parabola evangelica presenta un finale aperto. Vediamo il padre pregare il figlio maggiore di entrare a partecipare alla festa della misericordia. L’Evangelista non dice nulla su quale sia stata la decisione che egli prese. Si sarà aggiunto alla festa? Possiamo pensare che questo finale aperto abbia lo scopo che ogni comunità, ciascuno di noi, possa scriverlo con la sua vita, col suo sguardo e il suo atteggiamento verso gli altri. Il cristiano sa che nella casa del Padre ci sono molte dimore, e rimangono fuori solo quelli che non vogliono partecipare alla sua gioia.”


Parte dell’Omelia che Papa Francesco
ha pronunciato nel Complesso Sportivo Principe Moulay Abdellah (Rabat)
Domenica, 31 marzo 2019

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa III domenica di quaresima ci propone tre letture che parlano di uscita da uno stato di schiavitù e pena, di guarigione dalla malattia del peccato e di conversione (cambiamento della mente e del cuore) garantite da Dio.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, Dio parla a Mosè sul Monte Oreb in un roveto che arde senza consumarsi. Gli comunica il Suo nome: “Io sono colui che sono” e gli affida la missione di liberare il Suo popolo dallo stato di schiavitù in cui era tenuto dal Faraone d’Egitto. La chiamata di Mosè costituisce una tappa decisiva nella storia della salvezza.
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi, San Paolo, dalla storia d’Israele trae una lezione per i cristiani: gli Ebrei usciti dall’Egitto e assistiti da Dio, con doni prodigiosi, sono morti nel deserto, a causa della loro infedeltà. La conversione, non è mai finita e l’Apostolo come monito alla fine dice: Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Senza umiltà non si arriva alla grazia della conversione.
Nel brano del Vangelo, Luca racconta che Gesù, prendendo prima spunto da due fatti di cronaca di quel tempo, (alcuni giudei trucidati da Pilato e diciotto abitanti di Gerusalemme morti sotto il crollo della torre di Siloe), dice “…se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Propone anche come esempio la parabola del fico sterile per farci capire che se anche la conversione è spesso difficile e lenta, non deve scoraggiarci, perché Dio è misericordioso e paziente!
In questo tempo così angoscioso l’unica cosa che possiamo fare è lasciarci convertire da Fio. Non dobbiamo perdere tempo per cui approfittiamo di ogni istante per essere graditi a lui, che è immensa bontà e infinita giustizia dalla quale nessuno sfugge.

Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.
L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava.
Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».
Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno: “Qual è il suo nome?”. E io che cosa risponderò loro?».
Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse: «Così dirai agli Israeliti: “Io Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti: “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi”. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».
Es 3,1-8a.13-15

Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica) e della Bibbia cristiana. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, concludendosi con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Questo celebre brano che rappresenta l’inizio del dialogo tra Dio e l’uomo, si apre con una particolare teofania. Mosè stava pascolando il gregge del suocero, era arrivato oltre il deserto, al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. ma quel roveto non si consumava. Il roveto è un cespuglio selvatico che consideriamo comunemente un’erbaccia, eppure Dio ha scelto questa pianta umile e povera per manifestare, con una luce che illumina e purifica senza bruciare, la Sua presenza..
Solo quando Mosè incuriosito si volle avvicinare per osservare da vicino il fenomeno ,”Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!».
Dio si presenta così all’improvviso nella vita dell’esule Mosè proclamando: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio”.Mosè si coprì il volto perchè aveva intuito di trovarsi davanti a Dio, e aveva paura di guardare, ma poiché il desiderio di Dio è più forte della paura della morte, Mosè, senza però poterlo vedere direttamente, riprende il discorso dopo che Dio gli conferisce la missione di liberare il suo popolo dal potere dell’Egitto e per farlo salire verso una terra dove scorrono latte e miele. E’ a questo punto che Mose chiede il nome.
E’ il primo dialogo della rivelazione ed è anche uno dei doni più alti di Dio all’uomo. Infatti svelare il proprio nome a qualcuno, presso i Semiti, equivaleva a mettersi in qualche modo in suo potere. Presentandosi come “Io sono colui che sono!” vediamo che Dio non si rivela in un sostantivo, ma in un verbo, cioè in una forma attiva e non statica e inerte come è invece per l’idolo. Il Dio d’Israele, è Colui che è lì, l’eterno vivente, ma non vuole manifestarsi completamente e, allo stesso tempo, si svela come Dio vivo, sempre presente e impegnato in mezzo al Suo popolo.
Il testo, uno dei più profondi della storia della salvezza, indica il compimento di una promessa fatta ad Abramo e segna l’avvio verso altri eventi.

Salmo 102/103 - Il Signore ha pietà del suo popolo
Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.

Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.

Il Signore compie cose giuste,
difende i diritti di tutti gli oppressi.
Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie,
le sue opere ai figli d’Israele.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Perché quanto il cielo è alto sulla terra,
così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono.

La critica è incline a datare la composizione di questo salmo nel tardo postesilio.
Il salmista esorta se stesso a benedire il Signore, e a non “dimenticare tutti i suoi benefici”. Questo ricordare è importantissimo nei momenti dolorosi per non cadere nello scoraggiamento e al contrario stabilirsi in una grande fiducia in Dio. Il salmista non presenta grandi tormenti storici della nazione; pare di poter indovinare normalità di vita attorno a lui. Egli si presenta a Dio come colpevole di numerose mancanze, ma ha sperimentato la misericordia di Dio, che lo ha salvato da angosce e anche probabilmente da una malattia grave: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità; salva dalla fossa la tua vita”.
Il salmista non cessa di celebrare la bontà, la giustizia di Dio, e prova una grande dolcezza nel fare questo: una dolcezza pacificante: “Ti circonda di bontà e di misericordia”.
Il salmista, fedele all'alleanza, loda Dio per la legge data per mezzo di Mosè: “Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele ”. Ma Dio non ha dato a Mosè solo la legge, ha anche dato l'annuncio del Cristo futuro, dal quale abbiamo la grazia e la verità (Cf. Gv 1,17).
La misericordia di Dio celebrata dal salmista si è manifestata per mezzo di Gesù Cristo.
Il salmista si sente sicuro, compreso da Dio, che agisce sul suo popolo con la premura di un padre verso i figli. Un padre che “ricorda che noi siamo polvere”, e che perciò pur rilevando le colpe è pronto a perdonare pienamente: “Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno”.
L'alleanza osservata è fonte di bene, di unione con Dio. Egli effonde “la sua giustizia”, cioè la sua protezione dal male, sui “figli dei figli”.
Il salmista pieno di gioia conclude invitando tutti gli angeli a benedire Dio. Gli angeli non hanno bisogno di essere esortati a benedire Dio, ma certo possono essere invitati a rafforzare il nostro benedire Dio. Per una lode universale sono invitate a benedire Dio tutte le cose create (Cf. Ps 18,1s): “Benedite il Signore, voi tutte opere sue”.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Non voglio che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto.
Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono.
Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere.
1 Cor 10,1-6.10-12

La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso nel 56 o 57, è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale; vi si trovano informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna": purezza dei costumi (5,1-13:6,12-20), matrimonio e verginità (7,1-40), svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell‘eucaristia (11.12) , uso dei carismi (12,1-14) ; sia per i rapporti con il mondo pagano; ricorso ai tribunali (6,1-11), carni offerte agli idoli (8-10) .
In questo brano Paolo, per mettere in guardia i Corinzi dal rischio di cadere nell’idolatria, presenta in sintesi l’esempio dei padri, mostrando che essi, pur avendo ricevuto notevoli grazie spirituali, non hanno saputo resistere all’attrattiva del peccato. Dopo aver premesso:”Non voglio infatti che ignoriate, fratelli”, con cui sottolinea l’importanza di ciò che sta per dire, Paolo prosegue: “i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare ..” L’esperienza fatta dagli israeliti al tempo dell’esodo ha valore anche per i cristiani, i quali riconoscono in essi i loro progenitori nella fede.
Tipico di questi progenitori è il fatto di essere stati sotto la nube e di aver attraversato il mare. Queste due esperienze vengono interpretate simbolicamente come un “essere battezzati” (essere immersi) nella nube e nel mare.
Dopo aver presentato la liberazione degli israeliti come un’esperienza battesimale, Paolo prosegue: “tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo” Il cibo spirituale, dato cioè dallo Spirito di Dio e quindi apportatore di un dono salvifico, non è altro che la manna, chiamata anche “pane del cielo” nella quale i primi cristiani vedevano la prefigurazione del pane moltiplicato da Gesù durante il Suo ministero, simbolo a sua volta del pane distribuito nell’ultima cena (Gv 6,31-33) e consumato dai corinzi nella celebrazione della cena del Signore (1Cor 11,17-34), mentre la bevanda spirituale è l’acqua scaturita dalla roccia (Es 17,6).
L’esperienza della salvezza fatta da Israele non è inferiore a quella dei cristiani. “Ma,- continua Paolo,- la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto”. Se essi sono stati rifiutati da Dio, ciò non è dovuto a un venir meno della grazia divina, ma alla mancanza di partecipazione da parte loro. L’apostolo vuole dunque dire che i sacramenti non operano in modo automatico, come i corinzi potevano pensare (v: 11,17-34), ma richiedono la fede viva e operosa di chi li riceve.
Infine, Paolo mette in guardia i corinzi dalla mormorazione: “Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore”. La mormorazione indica l’incredulità, il rifiuto e la sfiducia. E’ collegata a diversi episodi in cui gli israeliti si lamentarono per le difficoltà dell’esodo e alcuni di loro furono sterminati da Dio.
Al termine di questa lista di peccati Paolo riprende quanto aveva affermato prima , commentando: “Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi.” Nessuno deve pensare, perché sono giunti i tempi della salvezza definitiva attuata da Cristo, che non vi sia più pericolo di peccare. “Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”. La tentazione dunque resta, ma il credente ha però il potere di superarla, purché non si lasci prendere dalla falsa presunzione di essere preservato da cadute.
L’apostolo conclude con una riflessione, non riportata dal brano, che è un vero e proprio incoraggiamento per tutti: “Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere. (v.13)
La grazia di Dio dunque è più forte della tentazione: chi sbaglia è l’unico responsabile del suo peccato, perché Dio dà a tutti la possibilità di superare la prova.


Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
Lc 13,1-9

Il brano liturgico ci riporta dei fatti che troviamo solo nel vangelo di Luca e non hanno passaggi paralleli negli altri vangeli. Nel lungo cammino di Gesù dalla Galilea fino a Gerusalemme, che occupa quasi la metà del suo vangelo, Luca colloca la maggior parte delle informazioni che ha raccolto sulla vita e l’insegnamento di Gesù
Nel brano leggiamo che: “si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici.”. L’inizio del brano prende spunto da un sanguinoso fatto di cronaca 1 (*) : il massacro di alcuni Galilei giunti a Gerusalemme per offrire sacrifici durante una festa giudaica, che si sono trovati coinvolti in un tumulto insurrezionale, una rivolta alquanto frequente allora, e che Pilato ha fatto trucidare. Chi riferisce a Gesù questo fatto di violenza forse attende da lui un giudizio politico.
Gesù risponde ponendo a sua volta una domanda: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo….” Viene spontaneo chiederci quale sia il senso della morte e soprattutto della morte ingiusta, della morte di coloro che non hanno colpe, e sono addirittura uomini pii e giusti. Qui c’è la risposta: il male che arriva, non è segno di castigo per i colpiti, ma richiamo alla conversione per i superstiti, che dovrebbero essere grati a Dio di non essere tra il numero dei colpiti, cercando di fare buon uso del tempo che ancora Dio concede loro per portare frutti di bene. Vediamo che Gesù reagisce senza scomporsi a questa segnalazione e chiarisce che il pericolo sovrasta tutti quanti: egli non vede nemici dappertutto, ma fa un esortazione, quella cioè di cogliere il momento opportuno per convertirsi, aspettare potrebbe voler dire perdere un'occasione preziosa e rischiare la stessa sorte.
“O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? “
Gesù fa riferimento a questi due fatti di cronaca per sottolineare l’urgenza della conversione, di questo tornare a Dio con tutto il cuore e con tutta la mente e che non è mai troppo presto prendere questa decisione fondamentale per ottenere la sSalvezza.
Poi Gesù continua il Suo insegnamento presentando la parabola del fico sterile : “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò.” Gesù fa riferimento a un’immagine già molte volte utilizzata nell’Antico Testamento per indicare il popolo di Dio. Infatti il fico e la vigna rappresentano nella Scrittura e nella tradizione rabbinica e profetica il popolo di Israele che è la vigna scelta, piantata e curata da Dio nonostante la sua infedeltà. Ed ora è Gesù, il Figlio di Dio che viene a visitare questa vigna e a mangiarne i frutti… e i vignaioli stanno per metterlo a morte ….
In questo versetto viene presentata la parabola: un tale aveva piantato questo fico va nella vigna per raccogliere frutti ma non ne trova. Possiamo leggervi dentro l'azione di Dio che invia Suo Figlio Gesù, che per tre anni predica in mezzo al popolo annunciandosi come il Salvatore, il Redentore, il Misericordioso.
“Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Il padrone comunica al vignaiolo il suo disappunto per quell’albero che ormai già da tre anni non dà frutti, quindi dà ordine di tagliarlo perché è un parassita, sfrutta solo il terreno senza portare frutto. La decisione del padrone ha una logica giusta: un albero che non dà frutto è improduttivo, sterile, abbatterlo è la soluzione più logica.
Ogni buon contadino sa bene che un vitigno comincia a dare frutto dopo tre anni da quando è stato piantato.
Questi versetti, ci presentano la sterilità del fico e qui possiamo leggere la nostra storia alla luce di quella di Gesù.
“Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno”, Il vignaiolo parla in modo misericordioso, chiede pazienza al padrone. Parla nello stesso modo in cui Gesù ci ha parlato di Dio: paziente e misericordioso.
“finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Il vignaiolo non ne vuole sapere di tagliare l’albero anche se deve riconoscere che finora è stato improduttivo e s’impegna a lavorare perché il fico porti frutto: lo zappa tutt’attorno e gli mette il concime. Viene da pensare a quell’opera attenta, premurosa, abbondante che Dio ha compiuto, attraverso Gesù, a nostro favore, per rendere la nostra vita feconda di frutti di bene.
“Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”. Il tempo che si prolunga è segno di misericordia, non assenza di giudizio. Il tempo si prolunga per permetterci di approfittarne, non per giustificare il rinvio o l’indifferenza… comunque la pazienza di Dio ha un limite! Il tempo è decisivo, non perché breve, ma perché carico di occasioni determinanti.
Questo dialogo tra padrone e vignaiolo mette in risalto il valore dell’intercessione, della preghiera per ottenere misericordia, fatta da Gesù che è il vignaiolo al Padre che è il padrone. Fa pensare alla stessa intercessione chiesta da Abramo verso le città di Sodoma e Gomorra, la stessa intercessione di Mosè nei confronti di Israele nell’episodio del vitello d’oro.
La parabola è fin troppo chiara: Il Padre e il Figlio si prendono cura dell'uomo e attendono che egli risponda al loro amore. Come al fico sterile il Padrone della vigna concede ancora del tempo per farlo fruttificare, così Dio concede del tempo anche all’uomo che non dà frutti di conversione, prima della “resa dei conti”.
Nella parola "quest'anno“ sono indicati tutti gli anni e i secoli delle generazioni che verranno. E' “l'anno” della pazienza e della misericordia di Dio, san Pietro lo ribadisce nella sua lettera: "Egli. usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi" (2Pt 3,9).
Con la parabola del fico Gesù, in un certo senso, ci vuole confortare: la conversione è spesso difficile e lenta, ma questo non deve scoraggiarci perché la giustizia di Dio è paziente. La conversione, anzi – come dice San Paolo – non è mai finita; il rifiuto del peccato perché dia frutti va continuamente concimato con il coraggio di essere diversi, con la carità e l’amore, con il rigetto delle tentazioni. “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” ci raccomanda San Paolo. Senza la vera umiltà non si attinge alla grazia della conversione.

*****

“Il Vangelo di questa terza domenica di Quaresima ci parla della misericordia di Dio e della nostra conversione. Gesù racconta la parabola del fico sterile. Un uomo ha piantato un fico nella propria vigna, e con tanta fiducia ogni estate va a cercare i suoi frutti ma non ne trova, perché quell’albero è sterile. Spinto da quella delusione ripetutasi per ben tre anni, pensa dunque di tagliare il fico, per piantarne un altro. Chiama allora il contadino che sta nella vigna e gli esprime la sua insoddisfazione, intimandogli di tagliare l’albero, così che non sfrutti inutilmente il terreno. Ma il vignaiolo chiede al padrone di avere pazienza e gli domanda una proroga di un anno, durante il quale egli stesso si preoccuperà di riservare una cura più attenta e delicata al fico, per stimolare la sua produttività. Questa è la parabola. Che cosa rappresenta questa parabola? Cosa rappresentano i personaggi di questa parabola?
Il padrone raffigura Dio Padre e il vignaiolo è immagine di Gesù, mentre il fico è simbolo dell’umanità indifferente e arida. Gesù intercede presso il Padre in favore dell’umanità – e lo fa sempre – e lo prega di attendere e di concederle ancora del tempo, perché in essa possano germogliare i frutti dell’amore e della giustizia. Il fico che il padrone della parabola vuole estirpare rappresenta una esistenza sterile, incapace di donare, incapace di fare il bene. È simbolo di colui che vive per sé stesso, sazio e tranquillo, adagiato nelle proprie comodità, incapace di volgere lo sguardo e il cuore a quanti sono accanto a lui e si trovano in condizione di sofferenza, di povertà, di disagio. A questo atteggiamento di egoismo e di sterilità spirituale, si contrappone il grande amore del vignaiolo nei confronti del fico: fa aspettare il padrone, ha pazienza, sa aspettare, gli dedica il suo tempo e il suo lavoro. Promette al padrone di prendersi particolare cura di quell’albero infelice.
E questa similitudine del vignaiolo manifesta la misericordia di Dio, che lascia a noi un tempo per la conversione. Tutti noi abbiamo bisogno di convertirci, di fare un passo avanti, e la pazienza di Dio, la misericordia, ci accompagna in questo. Nonostante la sterilità, che a volte segna la nostra esistenza, Dio ha pazienza e ci offre la possibilità di cambiare e di fare progressi sulla strada del bene. Ma la dilazione implorata e concessa in attesa che l’albero finalmente fruttifichi, indica anche l’urgenza della conversione. Il vignaiolo dice al padrone: «Lascialo ancora quest’anno» . La possibilità della conversione non è illimitata; perciò è necessario coglierla subito; altrimenti essa sarebbe perduta per sempre.
Noi possiamo pensare in questa Quaresima: cosa devo fare io per avvicinarmi di più al Signore, per convertirmi, per “tagliare” quelle cose che non vanno? “No, no, io aspetterò la prossima Quaresima”. Ma sarai vivo la prossima Quaresima? Pensiamo oggi, ognuno di noi: cosa devo fare davanti a questa misericordia di Dio che mi aspetta e che sempre perdona? Cosa devo fare? Noi possiamo fare grande affidamento sulla misericordia di Dio, ma senza abusarne. Non dobbiamo giustificare la pigrizia spirituale, ma accrescere il nostro impegno a corrispondere prontamente a questa misericordia con sincerità di cuore.
Nel tempo di Quaresima, il Signore ci invita alla conversione. Ognuno di noi deve sentirsi interpellato da questa chiamata, correggendo qualcosa nella propria vita, nel proprio modo di pensare, di agire e di vivere le relazioni con il prossimo.
Al tempo stesso, dobbiamo imitare la pazienza di Dio che ha fiducia nella capacità di tutti di potersi “rialzare” e riprendere il cammino. Dio è Padre, e non spegne la debole fiamma, ma accompagna e cura chi è debole perché si rafforzi e porti il suo contributo di amore alla comunità. La Vergine Maria ci aiuti a vivere questi giorni di preparazione alla Pasqua come un tempo di rinnovamento spirituale e di fiduciosa apertura alla grazia di Dio e alla sua misericordia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 24 marzo 2019

 

1 Questo eccidio anche se non è noto storicamente, è verosimile nel clima surriscaldato della Giudea. Giuseppe Flavio parla infatti di un massacro di samaritani compiuto nel 35 d.C. da soldati romani sul monte Garizim in occasione di un sacrificio. E’ probabile che l’evangelista si riferisca a una repressione avvenuta nel tempio, mentre si sacrificavano gli agnelli per la celebrazione pasquale. La strage assumeva una particolare gravità per il fatto che era stata compiuta nel luogo sacro, durante un rito liturgico.

Pubblicato in Liturgia

Da mercoledì scorso, con la liturgia delle ceneri, è iniziata la quaresima, tempo che ci riporta alla sostanza dell’esistenza cristiana invitandoci a intensificare nella preghiera e nella penitenza il cammino per la preparazione alla Pasqua di risurrezione.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Deuteronomio, ci viene proposto il più antico credo di Israele, in cui nel rito dell’offerta delle primizie, il popolo ricordava il grandioso intervento divino che lo liberò dall’umiliazione e dalla schiavitù d’Egitto per introdurlo nella Terra promessa.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Romani, Paolo ci rassicura che “non c’è distinzione tra giudeo e greco”, dato che Gesù Cristo è il Signore di tutti, infatti “chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato”. Invocare il Signore in spirito di penitenza e umiltà significa ravvivare la propria fede: una fede da vivere con sincerità interiore ma anche con il coraggio di testimoniarla. .
Nel brano del Vangelo, Luca racconta che all’inizio della sua missione Gesù fu tentato da Satana, che lo invitava a salvare il mondo, obbedendo ad aspirazioni del tutto umane e non in sintonia con la volontà di Dio. Ma Gesù sul pinnacolo del tempio dichiara il suo “si” definitivo al Padre, diventando anche per tutti i suoi seguaci, di ogni tempo e di ogni luogo, l’emblema luminoso dell’adesione piena e totale Dio.

Dal libro del Deuteronòmio
Mosè parlò al popolo e disse:
«Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio:
“Mio padre era un Aramèo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato”.
Le deporrai davanti al Signore, tuo Dio, e ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio».
Dt 26,4-10

Il Deuteronomio è il quinto libro del Pentateuco ed essendo l’ultimo, ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi. È composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali.
Il nome “Deuteronomio”, come per gli altri libri del Pentateuco, viene dalla traduzione greca dei Settanta, e significa “seconda legge”. Tale titolo è preso da Dt 17,18, dove l’espressione ebraica che vuol dire “ una copia della legge (che il re è tenuto a trascrivere) venne erroneamente tradotta con “una seconda legge”.. Il titolo del libro secondo la tradizione ebraica è invece “Parole”, termine con cui inizia appunto il libro.
Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge” la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire. Questi nuovi precetti sono orientati a regolare la vita stabile, sedentaria, che di lì a poco il popolo d'Israele avrebbe iniziato all'arrivo alla Terra Promessa. Ciononostante, queste leggi sono stilate con grande affetto, animando il compimento della Legge con motivi teologici.
Il Deuteronomio ci consente di comprendere che cos’è il popolo di Dio, di cogliere quanto l’Alleanza che unisce a Dio, comporta un insieme di ricchezza e di esigenza: essa è un dono gratuito e appello pressante che bisogna vivere nelle realtà concrete.
Il Deuteronomio richiama continuamente il credente a quelli che sono gli atteggiamenti fondamentali: una fede che si fa sempre più profonda, un amore di Dio che esclude ogni compromesso, un servizio di Dio prestato con gioia, e una accettazione reale e fiduciosa delle realtà terrestri.
Il capitolo 26 da dove è tratto il brano, è uno dei testi strategici della storia d’Israele. Alla vigilia dell’ingresso nella terra promessa nelle parole che Mosè rivolge al popolo, troviamo formulata liturgicamente e tramandata la confessione di fede del popolo di Dio.
Nei versetti precedenti non riportati dal brano, Mose aveva detto rivolgendosi al popolo: “E quando sarai entrato” nel paese che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà come eredità, e lo possederai e ti ci starai stabilito, prenderai le primizie di tutti i frutti del suolo da te raccolti nel paese che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà, “le metterai in una cesta e andrai al luogo che il Signore, tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi il suo nome- non in un luogo che essi potrebbero scegliere, o altri per loro, ma che il Signore ha scelto per loro -
“Ti presenterai al sacerdote in carica in quei giorni e gli dirai:“Io dichiaro oggi al Signore, tuo Dio, che sono entrato nella terra che il Signore ha giurato ai nostri padri di dare a noi”. L’israelita non offriva la cesta delle primizie dei frutti con lo scopo di entrare nel paese, ma perché vi era già realmente entrato.
Da qui inizia il brano liturgico
“Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore, tuo Dio: “Mio padre era un Aramèo errante... “
Troviamo qui espresso il più antico Credo di Israele che gira intorno a tre articoli di fede: la vocazione dei patriarchi “Aramèi erranti ”, il dono della libertà dopo la terribile esperienza dell’oppressione egiziana, il dono della terra promessa.
Offrendo al Signore le primizie dei suoi raccolti, ogni israelita così riconosce che la terra è un dono di Dio. La professione di fede che egli pronuncia in occasione di tale offerta, rievoca non la creazione del mondo, ma l'evento principale della storia della salvezza.
L'epopea dell'esodo inizia con la migrazione del "padre" delle dodici tribù di Israele, Giacobbe, il quale scese in Egitto “come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa”. Oppresso dagli egiziani, il popolo alzò la voce al Dio dei padri, “e il Signore ascoltò”, il suo grido, vide la sua umiliazione, la sua miseria e la sua oppressione; "con mano potente e con braccio teso" lo liberò dalla schiavitù e lo condusse nella terra promessa, dandogli quel luogo "dove scorrono latte e miele“.
In questa estrema semplicità della fede degli Israeliti emerge un dato decisivo: Dio non si rivela con apparizioni mistiche o paranormali, non si affaccia in mezzo a cieli limpidi o sopra a nuvole dorate, ma si nasconde nelle cose semplici, nel quotidiano delle nostre giornate.
La più completa risposta di fede non è quella che si esaurisce nel silenzio della contemplazione orante, ma è quella che oltrepassa i confini e si espande nelle case e nelle strade, nell’impegno di ogni giorno, negli atti di amore verso il nostro prossimo.

Salmo 90/91 Resta con noi, Signore, nell'ora della prova.
Chi abita al riparo dell’Altissimo
passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente.
Io dico al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio in cui confido».

Chi abita al riparo dell’Altissimo
passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente.
Io dico al Signore: «Mio rifugio e mia fortezza,
mio Dio in cui confido».

Sulle mani essi ti porteranno,
perché il tuo piede non inciampi nella pietra.
Calpesterai leoni e vipere,
schiaccerai leoncelli e draghi.

«Lo libererò, perché a me si è legato,
lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.
Mi invocherà e io gli darò risposta;
nell’angoscia io sarò con lui,
lo libererò e lo renderò glorioso».

Il salmista professa di trovare la sua forza e pace nel Signore, nel quale confida: “Io dico al Signore: ”.
Il salmo vuole infondere fiducia nel futuro, sicuramente positivo per chi confida nel Signore (Cf. Dt 6,14).
Il "laccio del cacciatore”, sono le trappole poste dai nemici per giungere a compromettere il giusto.
“Dalla peste che distrugge”; più giustamente secondo l'originale ebraico dovrebbe tradursi: “Dalla parola che distrugge”, cioè dalla parola calunniatrice.
“Il terrore della notte”, sono gli assalti dei briganti, le incursioni dei nemici.
“La freccia che vola di giorno”, sono gli attacchi in pieno giorno dei nemici: di notte le frecce non si usano.
“La peste che vaga nelle tenebre”, l'uomo non vede il propagarsi del contagio; per questo “nelle tenebre”.
“Lo sterminio che devasta a mezzogiorno”, è l'azione delle carestie.
Di fronte all'imperversare delle sventure: “Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire”.
Indubbiamente il salmo presenta una situazione del giusto non costantemente frequente, per cui va aperta ad una lettura in chiave figurata, dal momento che le sventure colpiscono anche i giusti. Le sventure non colpiscono il giusto nel senso che in tutte le circostanze avrà l'aiuto di Dio per non cadere nell'infedeltà a Dio ed essere felice della sua presenza: Dio è il più grande bene.
Gli angeli custodiranno il giusto in tutti i suoi passi, cioè nei suoi viaggi, nelle sue iniziative. Anzi, tutto sarà facilitato dagli angeli, la cui azione è presentata con l'immagine degli angeli che stendono le loro mani a formare la strada dove percorre il giusto, affinché non inciampi nella pietra il suo piede.
Il giusto assistito da Dio camminerà indenne
nei pericoli: “Calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi”. I “draghi”, sono un'immagine tratta dalla mitologia cananea (Vedi il Leviatan; Cf. Ps 73).
Il salmista alla fine “passa la parola” a Dio: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome...lo libererò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli farò vedere la mia salvezza”.
Commento tratto da Perfetta Letizia i

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo. Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».
Rm 10,8-13

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59 e lo fa anche per presentare se stesso, in vista di un suo viaggio a Roma. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
In questo brano tratto dal capitolo 10, Paolo continuando il discorso già iniziato, ricorda che l'elemento fondamentale per ottenere la salvezza è la fede in Gesù Cristo, l'adesione alla Sua parola. Nel capitolo precedente aveva trattato della sorte degli ebrei che non avevano aderito alla salvezza inaugurata da Cristo.
“Fratelli, che cosa dice [Mosè]? «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore», cioè la parola della fede che noi predichiamo.”
All’inizio del capitolo 10, Paolo aveva affermato che gli ebrei si sono costruiti una loro giustizia a partire dalla Legge, ignorando la giustizia di Dio. Ma il termine della Legge è Cristo e la giustizia non deriva più dalla legge ma dalla fede. Per sostenere le sue affermazioni Paolo in questo brano cita il Deuteronomio (30,14) ricordando che Dio ha messo la Sua parola, “nella bocca e nel cuore" degli Israeliti, facilitando l'ascolto e l'obbedienza. E' interessante notare che queste parole riguardanti la giustizia che deriva dalla fede (e non dalla Legge) siano riprese dai discorsi di Mosè, ciò significa che anche agli ebrei era stata aperta la porta della fede, ma essi non hanno voluto entrarvi.
“Perché se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.”
Non bisogna compiere chissà quale impresa per raggiungere la salvezza. (Paolo in questi versetti probabilmente si riferisce all'epopea di Gilgamesh, l'eroe mesopotamico che per raggiungere l'immortalità aveva scalato il cielo e camminato sulle acque dell'oceano della morte). Chi ha ascoltato la predicazione degli apostoli deve proclamare con la propria bocca e riconoscere Gesù come il Signore, e credere con tutto il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti.
“Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.”
Paolo sottolinea l'ultima affermazione che è fondamentale: nel cuore si crede e grazie a questa fede si ottiene di essere "giusti" davanti a Dio. Con la bocca dunque si esprime all'esterno questa fede e si può ottenere così la salvezza.
“Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso».”
La fede non delude, qui Paolo riporta un versetto dal profeta Isaia " chi crede non si turberà" (Is 28,16).
“Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano”.
Qui Paolo coglie l'occasione per precisare che la fede è la via alla salvezza per tutti gli uomini, siano essi pagani, siano giudei. Ogni discriminazione è superata da Cristo, proclamato nella risurrezione Signore dell'umanità intera. Privilegi e limitazioni religiose e morali non hanno più valore determinante: tutti gli uomini sono equiparati di fronte all'evento salvifico della risurrezione. Gli ebrei non hanno alcuni privilegio rispetto agli altri.
“Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato»”.
Tutti possono attingere alla sua salvezza. L'unica cosa necessaria è riconoscere Gesù come il Signore e invocare il suo nome.
Invocare il Signore in spirito di penitenza e umiltà significa ravvivare la propria fede: una fede da vivere con sincerità interiore ma anche con coraggio per poterlo testimoniare.

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti:
“Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”;
e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”».
Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
Lc4,1-13

L’Evangelista Luca, come Marco e Matteo, fa delle tentazioni uno schema di tutta la vita di Gesù, però solo lui le estende a tutti i quaranta giorni.
Il brano inizia riportando che “Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo …” Con l ‘espressione “Gesù pieno di Spirito Santo ... Luca collega le tentazioni al battesimo di Gesù, dove lo Spirito discese su di lui e dove Gesù è stato dichiarato "Figlio amato" dal Padre.
Con tale richiamo ci viene introdotto il tema delle tentazioni: esse metteranno alla prova Gesù come "Figlio di Dio". E', dunque, la figliolanza divina di Gesù l'oggetto della prova. Infatti, per ben due volte Satana si rivolge a Gesù dicendo: "Se tu sei il Figlio di Dio...".
“ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo”
Si può notare che Gesù non è mosso dallo Spirito, ma “è guidato dallo Spirito”.
“Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame”
la fame dice tutta la fragilità della condizione umana, che per sostenersi ha bisogno di cercare nella creazione il suo sostentamento. Questo per dire che l'uomo non possiede in sé la vita, ma questa dipende da qualcos'altro. Anche Gesù, rinunciando alle sue qualità divine (Fil. 2,6-11), viene assoggettato a tutta la fragilità dell'uomo. Gesù, dunque, si pone di fronte alla missione, che gli viene affidata, non come un super eroe invincibile, che grazie ai suoi super poteri travolge ogni resistenza, ma come un uomo che cerca di trovare in sé e al di fuori di sé il senso del proprio vivere e della propria missione, avendo sempre come riferimento la volontà del Padre, che Gesù scopre non solo in sé, ma anche nella Sacra Scrittura. Non a caso a tutte le tentazioni Lui risponde con citazioni bibliche.
Prima tentazione
“ Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane»”
Nella condizione della fragilità umana, simboleggiata dalla fame, si svolge, questa prima tentazione. "Se tu sei il Figlio di Dio…". La tentazione nasce dalla sproporzione della fragilità umana di Gesù posta a confronto con la sua condizione divina, a cui Gesù ha rinunciato entrando nella storia. Paolo lo ricorda nella sua lettera ai Filippesi: “... egli pur essendo nella condizione di Dio non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” ha messo da parte la sua natura divina per fare spazio alle esigenze del Padre. Gesù, qui, si presenta come il Dio che è venuto a servire gli uomini, non a conquistarli o a dominarli (Mc10,45; Mt 20,28).
La missione di Gesù è pertanto una missione di servizio all'uomo, perché proprio vivendo fino in fondo la condizione umana, Gesù poi saprà riscattarla pienamente con la Sua risurrezione. La tentazione che Gesù subisce è quella di poter usare le sue prerogative divine per rendere più facile la Sua missione e il Suo permanere qui nell'ambito della storia. Ma le sue prerogative divine non le usa per se stesso, ma per gli uomini, che Lui è venuto a servire.
“Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo»”. Gesù risponde citando il libro del Deuteronomio: “…l’uomo non vive soltanto di pane, ma …l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. " (Dt 8,3). Qui Luca lascia intendere che il senso della missione di Gesù non è quello di soddisfare le esigenze umane, ma di ricondurre l'uomo a Dio.
La parola che esce "dalla bocca del Signore", infatti, è Cristo stesso, Parola eterna del Padre, offertasi all'uomo affinché comprenda le esigenze di Dio.
Seconda tentazione
“Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò ….tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, … perché a me è stata data e io la do a chi voglio …. se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me”
L’espressione "condurre in alto" potrebbe far pensare il far prendere coscienza a Gesù della Sua divinità, che sta sopra ad ogni potere umano, simboleggiato dai regni della terra.
Gesù è ancora una volta messo alla prova nella Sua divinità. Satana, qui, assume il significato e il valore del potere politico di fronte al quale Gesù è invitato a prostrarsi, cioè a seguirlo, a farne uno strumento di dominio.
Ma il potere che Gesù ha, non è suo, ma del Padre e lo ricorderà a Satana rispondendo: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Anche questa riposta è ispirata al Deuteronomio che dice: “ Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai e giurerai per il suo nome. (Dt 6,13) e ancora: “Temi il Signore tuo Dio, a lui servi, restagli fedele e giura nel suo nome” (Dt 10,20). In altre parole, la divinità di Gesù e il suo potere è posto soltanto al servizio del Padre, perché da questo potere appaia e si realizzi il suo progetto di salvezza, che si compirà, quale nuova creazione, nella risurrezione stessa di Gesù.
Terza tentazione
“Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio..”.
Satana conduce Gesù a Gerusalemme. Per Luca Gerusalemme è la meta finale verso cui Gesù è rivolto e attorno a cui è incentrato un'ampia parte dell'intero suo vangelo (Lc 9,51-19,28). Gerusalemme è il luogo in cui si compirà la salvezza e si realizzerà pienamente il progetto del Padre: morte e risurrezione di Gesù.
Satana mette alla prova ancora una volta la divinità di Gesù e lo pone sul pinnacolo del tempio, che è la casa del Padre.
Il porre Gesù sul tempio è un tentativo di porre Gesù al di sopra del Padre. L'invito di Satana rivolto a Gesù di buttarsi giù costringendo Dio a intervenire a suo favore per evitargli di massacrarsi al suolo, corrisponde all'invito di spingere Dio a modificare il Suo piano iniziale avvalendosi della Sua stessa divinità.
“Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.”
Luca condensa nel suo racconto tutte le prove che Gesù, presentatosi nella fragilità della carne umana, ha dovuto subire. Si parla, infatti, di "ogni specie di tentazione", mostrando così, tutta intera, la povertà della sua umanità. Il racconto, infine, si conclude con Satana che si allontana da Gesù, ma solo temporaneamente, per ritornare al tempo fissato, il tempo in cui si compirà la salvezza per mezzo della Sua morte e risurrezione, che avverranno a Gerusalemme, dove Satana lo aveva lasciato.
La narrazione delle tentazioni suddivisa in tre scene ha una insolita inversione nella seconda e terza scena rispetto al racconto di Matteo; per Luca il vertice della tentazione non è il monte alto, come per Matteo, ma Gerusalemme, la città verso la quale è orientato tutto il Vangelo lucano. Ebbene, è proprio a Gerusalemme, vertice della vita di Gesù, che ha il suo culmine anche la tentazione e la professione di fiducia di Gesù .
A Gerusalemme, infatti, si compie la suprema prova della Sua messianicità : Gesù poteva rifiutare il Suo destino ultimo, quello della salvezza, raggiunta non trionfalmente, ma attraverso il sacrificio estremo della croce. Gesù, se avesse accettato questa tentazione, avrebbe rinunciato al Suo perfetto affidamento al Padre e noi come conseguenza avremmo perso la fede nel vero Salvatore. Ma Gesù sul punto più alto del tempio dichiara il Suo sì definitivo al Padre diventando per il credente di ogni tempo e di ogni luogo l’emblema luminoso dell’adesione piena e totale a Dio al Suo piano di salvezza.

 

*****

“Il Vangelo di questa prima domenica di Quaresima narra l’esperienza delle tentazioni di Gesù nel deserto. Dopo aver digiunato per quaranta giorni, Gesù è tentato tre volte dal diavolo. Costui prima lo invita a trasformare una pietra in pane; poi gli mostra dall’alto i regni della terra e gli prospetta di diventare un messia potente e glorioso; infine lo conduce sul punto più alto del tempio di Gerusalemme e lo invita a buttarsi giù, per manifestare in maniera spettacolare la sua potenza divina .
Le tre tentazioni indicano tre strade che il mondo sempre propone promettendo grandi successi, tre strade per ingannarci: l’avidità di possesso – avere, avere, avere –, la gloria umana e la strumentalizzazione di Dio. Sono tre strade che ci porteranno alla rovina.
La prima, la strada dell’avidità di possesso. È sempre questa la logica insidiosa del diavolo. Egli parte dal naturale e legittimo bisogno di nutrirsi, di vivere, di realizzarsi, di essere felici, per spingerci a credere che tutto ciò è possibile senza Dio, anzi, persino contro di Lui. Ma Gesù si oppone dicendo: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”». Ricordando il lungo cammino del popolo eletto attraverso il deserto, Gesù afferma di volersi abbandonare con piena fiducia alla provvidenza del Padre, che sempre si prende cura dei suoi figli.
La seconda tentazione: la strada della gloria umana. Il diavolo dice: «Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Si può perdere ogni dignità personale, ci si lascia corrompere dagli idoli del denaro, del successo e del potere, pur di raggiungere la propria autoaffermazione. E si gusta l’ebbrezza di una gioia vuota che ben presto svanisce. E questo ci porta anche a fare “i pavoni”, la vanità, ma questo svanisce. Per questo Gesù risponde: «Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai» .
E poi la terza tentazione: strumentalizzare Dio a proprio vantaggio. Al diavolo che, citando le Scritture, lo invita a cercare da Dio un miracolo eclatante, Gesù oppone di nuovo la ferma decisione di rimanere umile, rimanere fiducioso di fronte al Padre: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore tuo Dio”». E così respinge la tentazione forse più sottile: quella di voler “tirare Dio dalla nostra parte”, chiedendogli grazie che in realtà servono e serviranno a soddisfare il nostro orgoglio.
Sono queste le strade che ci vengono messe davanti, con l’illusione di poter così ottenere il successo e la felicità. Ma, in realtà, esse sono del tutto estranee al modo di agire di Dio; anzi, di fatto ci separano da Dio, perché sono opera di Satana. Gesù, affrontando in prima persona queste prove, vince per tre volte la tentazione per aderire pienamente al progetto del Padre. E ci indica i rimedi: la vita interiore, la fede in Dio, la certezza del suo amore, la certezza che Dio ci ama, che è Padre, e con questa certezza vinceremo ogni tentazione.
Ma c’è una cosa, su cui vorrei attirare l’attenzione, una cosa interessante. Gesù nel rispondere al tentatore non entra in dialogo, ma risponde alle tre sfide soltanto con la Parola di Dio. Questo ci insegna che con il diavolo non si dialoga, non si deve dialogare, soltanto gli si risponde con la Parola di Dio.
Approfittiamo dunque della Quaresima, come di un tempo privilegiato per purificarci, per sperimentare la consolante presenza di Dio nella nostra vita.
La materna intercessione della Vergine Maria, icona di fedeltà a Dio, ci sostenga nel nostro cammino, aiutandoci a rigettare sempre il male e ad accogliere il bene.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 10 marzo 2019

Pubblicato in Liturgia
Mercoledì, 02 Marzo 2022 15:56

I giorno di Quaresima - Anno C - 2 marzo 2022

Il Mercoledì delle Ceneri segna, nella tradizione cristiana, l'inizio della Quaresima, il tempo di preparazione alla Pasqua. Il carattere penitenziale della Quaresima si rende visibile proprio in questo giorno attraverso l’austero rito dell’imposizione delle ceneri che ha la sua origine nel battesimo poiché la penitenza è nell’insieme fondata sulla stessa realtà battesimale per il perdono dei peccati ed è poi ripresa e resa segno espressivo, per quanti ricadono nel peccato, nel sacramento della Riconciliazione.
L’invito alla riconciliazione è naturalmente il filo conduttore di tutte e tre le letture liturgiche.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Gioele, il Signore ci invita a tornare a Lui con tutto il cuore…. Non basta offrire a Dio le primizie della terra, ma bisogna che l’uomo riconosca i propri limiti e offra a Dio il suo cuore pentito.
Nella seconda lettura, nella seconda lettera di S.Paolo ai Corinzi, l’apostolo si presenta come ambasciatore di Cristo ed esorta i Corinzi a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro.
Nel brano del Vangelo di Matteo, Gesù ci rivela il senso profondo delle pratiche religiose e penitenziali del cristianesimo che prima erano del giudaismo: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù ci incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso.
La vita cristiana esige l’autentico coinvolgimento di tutta la nostra persona: pensieri, desideri, corporeità, comunione e relazione con gli altri e con Dio.

Dal libro del profeta Gioèle
Così dice il Signore: « ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio,
perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio.
Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
Tra il vestibolo e l’altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».
Il Signore si mostra geloso per la sua terra
e si muove a compassione del suo popolo.
Gl 2,12-18

Il Libro del profeta Gioele è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanak) che quella cristiana. E’ stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi, la redazione del libro è avvenuta nel Regno di Giuda, forse tra la fine VII - inizio VI secolo a.C.. E’ un libro breve, di appena 4 capitoli in cui nella prima parte presenta l'invasione delle cavallette e il ritorno del popolo a Dio che, nel peccato, ha riconosciuto la causa di questa calamità; nella seconda parte predice l'intervento futuro di Dio che, con il perdono, concede il dono dello Spirito santo che fa nuove tutte le cose
Sappiamo molto poco del profeta Gioele, che visse sicuramente a Gerusalemme, il cui nome significa “Yahweh è Dio”, tutto ciò che ci viene detto a suo riguardo si trova in Gioele 1:1: “Parola del Signore, rivolta a Gioele, figlio di Petuel.” Da alcuni è definito il profeta della Pentecoste per la profezia sull'effusione dello Spirito Santo realizzatasi il giorno della Pentecoste (Atti 2). È molto difficile stabilire il periodo in cui Gioele profetizzò; comunque, la maggior parte degli studiosi lo considera il primo dei profeti minori, visse durante il regno di Joas (circa 800 a.C.); si è scelta questa datazione perché si ritiene che Amos (760-747) abbia usato i testi di Gioele (v,Amos 9:13). Il tema centrale del messaggio di Gioele è il “Giorno del Signore”, sia sotto l'aspetto negativo sia sotto quello positivo. Egli ne parla negativamente presentando la collera divina, le tenebre e la vendetta contro i malvagi, citando avvenimenti naturali come siccità e invasione di insetti. Ne parla anche positivamente quando presenta la riabilitazione per i giusti, quando Dio invierà a tutti i membri del suo popolo il dono dello Spirito. In questo contesto Gioele parla della valle di Giosafat (dall'ebraico Jehôshafat, «Jahweh giudica»), parola usata per indicare il luogo ideale dove convergeranno tutte le genti. Ogni profeta ha un suo punto di vista e vuole raggiungere dei precisi obiettivi, e Gioele, di fronte ad una grande carestia provocata dall'invasione delle cavallette, che ha colpito la terra di Giuda, non si sente di considerarla un fatto naturale, ma un segno del giudizio di Dio e a questo giudizio non basta prepararsi con un semplice rito penitenziale.
In questo brano egli esprime con parole accorate il messaggio del Signore: “ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti,ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male”.
L'invito a lacerarsi il cuore, è un termine che richiama la sofferenza dello strappo da cui si vorrebbe fuggire, ma a leggerlo in profondità, accostandolo ad altri passi biblici, vi troviamo non un invito alla morte ma alla vita, alla pienezza della vita.
Come ultima nota si può sottolineare che Gioele è anche un poeta che sa gridare il proprio messaggio con un linguaggio chiaro e tono poetico. E’ il profeta della quaresima e della Pentecoste e durante le settimane che precedono la Pasqua i testi di Gioele ci esortano ad una seria conversione. Il racconto stesso della Pentecoste vede diffondersi sul mondo intero i doni dello Spirito che questo profeta promette (At 2,17-21)

Salmo 50- Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.

Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10). Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento tratto da Perfetta Letiziai

Dalla seconda lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta.
Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio.
Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!
2Cor 5,20-6,2

Paolo scrisse la seconda lettera al Corinzi, spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo è a Efeso (At 19) e viene a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stanno sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, in cui traspare il suo carattere appassionato. E’ una lettera ardente che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”.
Nei primi 6 capitoli Paolo ripercorre la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto. I contorni veri di questo malinteso non sono chiari , ma questo diventa per Paolo un motivo per ricordare le motivazioni del suo impegno a favore del Vangelo.
Il brano che abbiamo è la parte finale in cui ritroviamo il motivo fondamentale della lettera: la riconciliazione tra Dio e gli uomini.
“…in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”.
Qui Paolo ricorda che la salvezza operata da Cristo, si può considerare come una grande opera di riconciliazione di cui lui, Paolo, ne è ambasciatore. Egli quindi esorta i Corinzi fino a supplicarli a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro. E continua affermando:”Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”. L'opera della riconciliazione si è potuta realizzare attraverso la morte in croce di Gesù, che pur non avendo peccato è stato trattato da peccato, ha subito la morte del malfattore, perché noi, i veri peccatori, potessimo diventare giusti davanti a Dio.
“Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio”
Di nuovo Paolo ricorda la propria qualità di collaboratore di Dio e in questa veste comunica che questa grazia della riconciliazione richiede una pronta risposta. Non si può rimandare l'adesione a Dio perché si tratta di una realtà davvero importante.
“Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!”
Questa citazione è tratta da Is 49,8. Paolo la rilegge come promessa divina che si attua al presente: “ecco ora il il momento favorevole!” Riconciliarsi con Dio per l'apostolo è esigenza improrogabile, perché per la storia umana è suonata l'ora in cui Dio ha deciso di accogliere come amici coloro che gli erano diventati nemici. E' il giorno della pace con il Padre e tra gli uomini!

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando pregate, non siate simili agli ipòcriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipòcriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».
Mt 6,1-6,16-18

Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte del discorso della montagna, in cui Gesù presenta le nove Beatitudini. Il discorso segue quanto detto prima nel versetto precedente (5,20); “ se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”, e questo brano inizia con il monito: “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli.”
Il termine giustizia è usato nella Bibbia per riassumere i rapporti dell'uomo con Dio, la pietà, la religiosità, la fede e con questo termine Gesù intendeva un comportamento che sia conforme alla volontà divina.
“Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa”.
Gesù non voleva dire che non bisogna mai compiere azioni buone in pubblico, dato che aveva esortato prima i discepoli a far ‘risplendere la loro luce davanti agli uomini’. (Mt. 5:14-16) , ma non avremo nessuna “ricompensa’” dal nostro Padre celeste se facciamo le cose “per essere osservati” e ammirati, come attori che recitano a teatro.
I “doni di misericordia” erano offerte a favore dei bisognosi. (v. Isaia 58:6, 7). Gesù e gli apostoli avevano un fondo comune da usare per aiutare i poveri. (Gv. 12:5-8; 13:29), dato che prima di fare l’elemosina non si suonava letteralmente la tromba, Gesù evidentemente usò un esempio esagerato quando disse che non dobbiamo “suonare la tromba” (*) davanti a noi quando facciamo “l’elemosina” . Non dobbiamo cioè sbandierare la nostra generosità, come facevano i farisei. Gesù li chiama ipocriti perché rendevano note le loro offerte “nelle sinagoghe e nelle strade”. Quegli ipocriti ‘hanno già ricevuto la loro ricompensa”, ossia avrebbero ricevuto soltanto il plauso degli uomini non certo il premio del Signore.
Come dovevano agire invece i discepoli ed anche noi oggi? Gesù dice: “quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” .
Ci ricompensa permettendoci di stringere un’intima relazione con Lui, perdonando i nostri peccati e concedendoci la vita eterna. (Prov. 3:32; Giov. 17:3; Efes. 1:7) Questo è decisamente meglio che ricevere l’approvazione degli uomini. Gesù incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso.
Nel capitolo precedente Gesù ha esortato ad essere perfetti “come è perfetto il Padre celeste” (5,48), ora Egli spiega ai suoi discepoli che è la relazione con il Padre la sorgente del nostro essere e agire; solo in Lui essi si possono sentire come figli liberi, amati e felici, capaci di portare tanto frutto di bontà verso gli altri.
(* )Nota – Sul termine “suonare la tromba” un esegeta ha dato un’ulteriore spiegazione: il tempio di Gerusalemme aveva fuori le fessure da cui entravano le monete e all’interno del tempio c’era una piccola stanzetta, dove andava chi voleva fare un’offerta senza essere visto. Quando la gente voleva essere notata, l’offerta la faceva fuori, non soltanto perché era visibile, ma perché le monete entrando scivolavano e facevano un rumore come di tromba molto forte, e tutti si giravano per ammirare. Realmente c’era un’acustica ed era stato fatto apposta perché si lodasse e si evidenziasse la persona.

 

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Le parole di Papa Francesco



Iniziamo il cammino della Quaresima. Esso si apre con le parole del profeta Gioele, che indicano la direzione da seguire. C’è un invito che nasce dal cuore di Dio, che con le braccia spalancate e gli occhi pieni di nostalgia ci supplica: «Ritornate a me con tutto il cuore» . Ritornate a me. La Quaresima è un viaggio di ritorno a Dio. Quante volte, indaffarati o indifferenti, gli abbiamo detto: “Signore, verrò da Te dopo, aspetta… Oggi non posso, ma domani comincerò a pregare e a fare qualcosa per gli altri”. E così un giorno dopo l’altro. Ora Dio fa appello al nostro cuore. Nella vita avremo sempre cose da fare e avremo scuse da presentare, ma, fratelli e sorelle, oggi è il tempo di ritornare a Dio.
Ritornate a me, dice, con tutto il cuore. La Quaresima è un viaggio che coinvolge tutta la nostra vita, tutto noi stessi. È il tempo per verificare le strade che stiamo percorrendo, per ritrovare la via che ci riporta a casa, per riscoprire il legame fondamentale con Dio, da cui tutto dipende. La Quaresima non è una raccolta di fioretti, è discernere dove è orientato il cuore. Questo è il centro della Quaresima: dove è orientato il mio cuore? Proviamo a chiederci: dove mi porta il navigatore della mia vita, verso Dio o verso il mio io? Vivo per piacere al Signore, o per essere notato, lodato, preferito, al primo posto e così via? Ho un cuore “ballerino”, che fa un passo avanti e uno indietro, ama un po’ il Signore e un po’ il mondo, oppure un cuore saldo in Dio? Sto bene con le mie ipocrisie, o lotto per liberare il cuore dalle doppiezze e dalle falsità che lo incatenano?
Il viaggio della Quaresima è un esodo, è un esodo dalla schiavitù alla libertà. Sono quaranta giorni che ricordano i quarant’anni in cui il popolo di Dio viaggiò nel deserto per tornare alla terra di origine. Ma quanto fu difficile lasciare l’Egitto! È stato più difficile lasciare l’Egitto del cuore del popolo di Dio, quell’Egitto che portavano sempre dentro, che lasciare la terra d’Egitto… È molto difficile lasciare l’Egitto. Sempre, durante il cammino, c’era la tentazione di rimpiangerne le cipolle, di tornare indietro, di legarsi ai ricordi del passato, a qualche idolo. Anche per noi è così: il viaggio di ritorno a Dio è ostacolato dai nostri malsani attaccamenti, è trattenuto dai lacci seducenti dei vizi, dalle false sicurezze dei soldi e dell’apparire, dal lamento vittimista che paralizza. Per camminare bisogna smascherare queste illusioni.
Ma ci domandiamo: come procedere allora nel cammino verso Dio? Ci aiutano i viaggi di ritorno che la Parola di Dio ci racconta.
Guardiamo al figlio prodigo e capiamo che pure per noi è tempo di ritornare al Padre. Come quel figlio, anche noi abbiamo dimenticato il profumo di casa, abbiamo dilapidato beni preziosi per cose da poco e siamo rimasti con le mani vuote e il cuore scontento. Siamo caduti: siamo figli che cadono in continuazione, siamo come bimbi piccoli che provano a camminare ma vanno in terra, e hanno bisogno di essere rialzati ogni volta dal papà. È il perdono del Padre che ci rimette sempre in piedi: il perdono di Dio, la Confessione, è il primo passo del nostro viaggio di ritorno. Ho detto alla Confessione, mi raccomando i confessori: siate come il padre, non con la frusta, con l’abbraccio.
Poi abbiamo bisogno di ritornare a Gesù, di fare come quel lebbroso risanato che tornò a ringraziarlo. In dieci erano stati guariti, ma lui solo fu anche salvato, perché era tornato da Gesù (cfr Lc 17,12-19). Tutti, tutti abbiamo delle malattie spirituali, da soli non possiamo guarirle; tutti abbiamo dei vizi radicati, da soli non possiamo estirparli; tutti abbiamo delle paure che ci paralizzano, da soli non possiamo sconfiggerle.
Abbiamo bisogno di imitare quel lebbroso, che tornò da Gesù e si buttò ai suoi piedi. Ci serve la guarigione di Gesù, serve mettergli davanti le nostre ferite e dirgli: “Gesù, sono qui davanti a Te, con il mio peccato, con le mie miserie. Tu sei il medico, Tu puoi liberarmi. Guarisci il mio cuore”.
Ancora: la Parola di Dio ci chiede di ritornare al Padre, ci chiede di ritornare a Gesù, e siamo chiamati a ritornare allo Spirito Santo. La cenere sul capo ci ricorda che siamo polvere e in polvere torneremo. Ma su questa nostra polvere Dio ha soffiato il suo Spirito di vita. Allora non possiamo vivere inseguendo la polvere, andando dietro a cose che oggi ci sono e domani svaniscono. Torniamo allo Spirito, Datore di vita, torniamo al Fuoco che fa risorgere le nostre ceneri, a quel Fuoco che ci insegna ad amare. Saremo sempre polvere ma, come dice un inno liturgico, polvere innamorata. Ritorniamo a pregare lo Spirito Santo, riscopriamo il fuoco della lode, che brucia le ceneri del lamento e della rassegnazione.
Fratelli e sorelle, questo nostro viaggio di ritorno a Dio è possibile solo perché c’è stato il suo viaggio di andata verso di noi. Altrimenti non sarebbe stato possibile. Prima che noi andassimo da Lui, Lui è sceso verso di noi. Ci ha preceduti, ci è venuto incontro. Per noi è sceso più in basso di quanto potevamo immaginare: si è fatto peccato, si è fatto morte. È quanto ci ha ricordato San Paolo: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore» . Per non lasciarci soli e accompagnarci nel cammino è sceso dentro al nostro peccato e alla nostra morte, ha toccato il peccato, ha toccato la nostra morte. Il nostro viaggio, allora, è un lasciarci prendere per mano. Il Padre che ci chiama a tornare è Colui che esce di casa per venirci a cercare; il Signore che ci guarisce è Colui che si è lasciato ferire in croce; lo Spirito che ci fa cambiare vita è Colui che soffia con forza e dolcezza sulla nostra polvere.
Ecco allora la supplica dell’Apostolo: «Lasciatevi riconciliare con Dio» . Lasciatevi riconciliare: il cammino non si basa sulle nostre forze; nessuno può riconciliarsi con Dio con le proprie forze, non può. La conversione del cuore, con i gesti e le pratiche che la esprimono, è possibile solo se parte dal primato dell’azione di Dio. A farci ritornare a Lui non sono le nostre capacità e i nostri meriti da ostentare, ma la sua grazia da accogliere. Ci salva la grazia, la salvezza è pura grazia, pura gratuità. Gesù ce l’ha detto chiaramente nel Vangelo: a renderci giusti non è la giustizia che pratichiamo davanti agli uomini, ma la relazione sincera con il Padre. L’inizio del ritorno a Dio è riconoscerci bisognosi di Lui, bisognosi di misericordia bisognosi della sua grazia. Questa è la via giusta, la via dell’umiltà. Io mi sento bisognoso o mi sento autosufficiente?
Oggi abbassiamo il capo per ricevere le ceneri. Finita la Quaresima ci abbasseremo ancora di più per lavare i piedi dei fratelli. La Quaresima è una discesa umile dentro di noi e verso gli altri. È capire che la salvezza non è una scalata per la gloria, ma un abbassamento per amore. È farci piccoli. In questo cammino, per non perdere la rotta, mettiamoci davanti alla croce di Gesù: è la cattedra silenziosa di Dio. Guardiamo ogni giorno le sue piaghe, le piaghe che Lui ha portato in Cielo e fa vedere al Padre, tutti i giorni, nella sua preghiera di intercessione. Guardiamo ogni giorno le sue piaghe. In quei fori riconosciamo il nostro vuoto, le nostre mancanze, le ferite del peccato, i colpi che ci hanno fatto male. Eppure proprio lì vediamo che Dio non ci punta il dito contro, ma ci spalanca le mani. Le sue piaghe sono aperte per noi e da quelle piaghe siamo stati guariti (cfr 1 Pt 2,25; Is 53,5). Baciamole e capiremo che proprio lì, nei buchi più dolorosi della vita, Dio ci aspetta con la sua misericordia infinita. Perché lì, dove siamo più vulnerabili, dove ci vergogniamo di più, Lui ci è venuto incontro. E ora che ci è venuto incontro, ci invita a ritornare a Lui, per ritrovare la gioia di essere amati.

Mercoledì delle Ceneri – Omelia di Papa Francesco
durante la Santa Messa del 17 Febbraio 2021

Pubblicato in Liturgia

Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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