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La liturgia di questa domenica ha come tema un banchetto di nozze, una festa un po’ speciale a cui il Signore in tempi e in modi diversi invita tutti.
Nella prima lettura tratta dal Libro del profeta Isaia, il brano si apre con un annuncio insperato: sul monte Sion, il Signore prepara un pranzo sontuoso e gli invitati sono tutti gli uomini senza distinzione di razza e ceto sociale. Essi però prima di accedere al banchetto devono far cadere dagli occhi la loro cecità, è il velo delle lacrime che appanna la vista, è la miseria umana che deve essere annientata. Anzi, muore la stessa morte e si apre un orizzonte di felicità e di speranza per questi invitati che sono posti sotto la guida della “mano del Signore”.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo, ringrazia gli amici per il loro aiuto, ma il suo grazie non è tanto per il dono ricevuto, quanto piuttosto per il grande cuore di chi lo ha donato, che a sua volta il Signore colmerà di ogni bene.
Nel Vangelo di Matteo, troviamo due parabole connesse tra di loro: la prima è quella degli invitati alle nozze, la seconda prende lo spunto dal simbolismo della “veste” indicativo di uno stile di vita coerente con la fede. Per far parte degli eletti bisogna meritarselo, non importa se convocati al primo o al secondo appello. La parabola è chiara: bisogna indossare la veste nuziale! Chi, pur avendo formalmente accolto la chiamata di Gesù, continua a vivere come se la rivoluzione evangelica dovesse ancora venire, verrà rifiutato. E Gesù conclude con una frase che ci deve far pensare: “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”

Dal libro del profeta Isaia
Preparerà il Signore degli eserciti
per tutti i popoli, su questo monte,
un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre distesa su tutte le nazioni.
Eliminerà la morte per sempre.
Il Signore Dio asciugherà le lacrime
su ogni volto,l’ignominia del suo popolo
farà scomparire da tutta la terra,
poiché il Signore ha parlato.
E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.
Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,
poiché la mano del Signore si poserà
su questo monte».
Is 25,6-9

Questa parte del libro del profeta Isaia è una sezione di oracoli chiamata “grande Apocalisse” perché riguarda la fine del mondo e il giudizio finale. Al centro di questa raccolta troviamo l’oracolo che preannunzia il banchetto degli ultimi tempi.
Il banchetto viene così descritto: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte,un banchetto di grasse vivande,un banchetto di vini eccellenti,di cibi succulenti, di vini raffinati”.
Il simbolismo del banchetto è noto nella Bibbia, ma qui Isaia si riferisce anzitutto al banchetto dell’alleanza, che i capi di Israele avevano consumato sul monte Sinai al cospetto di DIO, ma in questo caso però il convito viene preparato direttamente da Dio. Anche qui il banchetto viene imbandito sulla montagna, che indica simbolicamente il luogo in cui Dio ha messo la Sua dimora.
Diversamente dal banchetto del Sinai però qui sono presenti non solo i rappresentanti di Israele, ma ”tutte le nazioni”. L’alleanza escatologica quindi non sarà più limitata a un solo popolo, ma si estenderà a tutta l’umanità. Dalla magnificenza dei cibi serviti nel banchetto, si può comprendere l’importanza decisiva nella storia della salvezza.
Nel corso del banchetto il Signore indica ai convitati, sotto forma di doni simbolici, gli scopi che intende perseguire. Anzitutto Dio “strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni”.
Sul monte avviene dunque una nuova rivelazione, analoga a quella avvenuta sul Sinai.. Poi” Eliminerà la morte per sempre” Secondo la Genesi la morte era stata la prima conseguenza del peccato di Adamo (V.Gen 3,19), . non si tratta però semplicemente della morte fisica, ma della lontananza da Dio che la morte fisica simboleggia. Oltre a cancellare per sempre la morte, “Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto” Anche la sofferenza sia fisica che morale fa parte della triste relazione tra peccato e morte, per questo nel banchetto finale anch’essa verrà eliminata per sempre. (L’Apocalisse al cap. 21 ne farà riferimento nel v.4 “E tergerà ogni lacrima dai loro occhi;non ci sarà più la morte),
Infine “l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato”.
Alla promessa fatta da Dio per mezzo del profeta, il popolo reagisce con un piccolo inno di lode che verrà pronunziato quando le promesse si saranno realizzate: “Ecco il nostro Dio;in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,”
In questa preghiera predomina la speranza in una salvezza che può venire solo dal Signore. Il popolo esprime la sua fede nella parola di DIO e aspetta solo da Lui l’eliminazioni di quei mali che gli impediscono di godere fino in fondo della Sua comunione.
Il testo termina con queste parole: “poiché la mano del Signore si poserà su questo monte”.
La “mano del Signore” rappresenta la Sua potenza che gli permette di intervenire in modo straordinario ed efficace nella storia e negli eventi di questo mondo. Ma questa potenza non si esercita più nella guerra contro i Suoi nemici, bensì nella riconciliazione di tutte le nazioni con Lui e tra di loro.

Salmo 22 Abiterò per sempre nella casa del Signore.

Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce..
Rinfranca l’anima mia.

Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.

L’orante ha fatto l’esperienza di come il Signore lo guidi in mezzo a numerose difficoltà tesegli dai nemici. Egli dichiara che non manca di nulla perché Dio in tutto l’aiuta. Le premure del suo Pastore sono continue e si sente curato come un pastore cura il suo gregge conducendolo a pascoli erbosi e ad acque tranquille. L’orante riconosce che tutto ciò viene dalla misericordia di Dio, che agisce “a motivo del suo nome”, ma egli corrisponde con amore all’iniziativa di Dio nei suoi confronti. La consapevolezza che Dio lo ama per primo gli dà una grande fiducia in lui, cosicché se dovesse camminare nel buio notturno di una profonda valle non temerebbe le incursioni di briganti o persecutori, piombanti dall’alto su di lui. La valle oscura è poi simbolo di ogni situazione difficile nella quale tutto sembra avverso. Dio, buon Pastore, lo difende con il suo bastone e lo guida dolcemente con il suo vincastro, che è quella piccola bacchetta con cui i pastori indirizzano il gregge con piccoli colpetti. Non solo lo guida in mezzo alle peripezie, ma anche gli dona accoglienza, proprio davanti ai suoi nemici, i quali pensano di averlo ridotto ad essere solo uno sconvolto e disperato fuggiasco. Egli, al contrario, è uno stabile ospite del Signore che gli prepara una mensa e gli unge il capo con olio per rendere lucenti i suoi capelli e quindi rendere bello e fresco il suo aspetto. E il calice che ha davanti è traboccante, ma non perché è pieno fino all’orlo, ma perché è traboccante d'amore. Quel calice di letizia è nel sensus plenior del salmo il calice del sangue di Cristo, mentre la mensa è la tavola Eucaristica, e l’olio è il vigore comunicato dallo Spirito Santo.
Il cristiano abita nella casa del Signore, l’edificio chiesa, dove c’è la mensa Eucaristica. Quella casa, giuridicamente, è della Diocesi, della Curia, ma è innanzi tutto del Signore, e quindi egli, per dono del Signore, vi è perenne legittimo abitante.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.
Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.
Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Fil 4,12-14.19-20

Paolo, quando scrisse la lettera ai Filippesi era prigioniero probabilmente a Efeso ed è durante questo circostanza che riceve la visita di Epafrodito (Fil 2,25) il quale, oltre a prestargli la sua assistenza, gli aveva portato un aiuto in denaro da parte dei cristiani di Filippi (4,18).
Nella parte precedente questo brano, (vv. 10-14), Paolo manifesta la sua gratitudine per gli aiuti ricevuti perché vede in essi una nuova manifestazione dei sentimenti che i filippesi hanno per lui. Per quanto lo riguarda, egli non ha una necessità urgente dei loro aiuti, e all’inizio di questo brano manifesta la sua autonomia con queste parole: “so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza”. I tre abbinamenti di concetti contrapposti, povertà e ricchezza, sazietà e fame, abbondanza e indigenza, indicano gli estremi di tutta una serie di esperienze, positive e negative, considerate di secondaria importanza che Paolo ha saputo affrontare facendo ricorso al concetto stoico di “autocontrollo”, che consiste nella capacità di accontentarsi del necessario e di sapersene procurare quanto è sufficiente per vivere, mantenendo uno stato d’animo sereno e tranquillo.
Egli però aggiunge: “Tutto posso in colui che mi dà la forza”. Diversamente dai filosofi, Paolo basa la sua serenità, non su qualità dell’anima acquisita mediante un lungo esercizio, ma sulla fiducia in Dio che gli dà la forza di accettare con coraggio ogni situazione, positiva o negativa, che la vita apostolica presenta.
Dopo aver sottolineato questo suo atteggiamento interiore, egli ritorna al concetto iniziale:
“Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni”. Gli aiuti dei filippesi gli sono graditi nella misura in cui sono un segno di partecipazione alle sofferenze che egli sopporta per il vangelo
Nei versetti non riportati dal brano (vv. 15-20). Paolo ricorda il contributo che i filippesi gli hanno dato in diverse occasioni: quando, dopo aver evangelizzato Filippi, aveva lasciato la Macedonia, solo loro lo avevano aiutato finanziariamente, e quando si trovava a Tessalonica gli avevano inviato per due volte il necessario. Per evitare equivoci, l’apostolo soggiunge, che non è il loro dono che ricerca, “ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio”.
Adesso poi ha ricevuto mediante Epafrodito i loro doni, che considera come “un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio”, e di conseguenza ha il necessario e anche il superfluo (vv. 15-18). Ciò significa che il dono ricevuto non è stato fatto direttamente a lui, ma a Dio stesso.
Nei versetti finali, riportati dal brano liturgico, Paolo aggiunge che al dono dei filippesi corrisponderà un ulteriore dono da parte di Dio a loro vantaggio: “Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù”. Aiutando Paolo essi in realtà hanno offerto un sacrificio a Dio, quindi si sono messi nella condizione di ricevere da parte sua per mezzo di Cristo doni ancora più grandi, di carattere sia spirituale che materiale. Dio è infinitamente più generoso degli uomini!.
Il brano termina con l’invocazione:”Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen”. Sia il dono fatto a Paolo, sia gli ulteriori doni che i filippesi riceveranno, tutto deve servire alla gloria di Dio Padre.
In sintesi, Paolo anche se non dimostra di essere troppo contento per gli aiuti finanziari, apprezza non tanto l’aspetto materiale del dono, quanto piuttosto il sentimento che lo ha provocato. Per lui gli aiuti che gli sono pervenuti sono anzitutto un’offerta sacrificale fatta a Dio, e solo secondariamente un servizio alla sua persona. Il fatto di averglieli mandati, in un momento in cui egli soffre per il vangelo, significa aver capito l’importanza dell’annunzio e il desiderio di collaborare con lui in questa opera.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:
«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.
Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. ]
Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Mt 22,1-14

In questo brano del Vangelo di Matteo troviamo ancora Gesù che continua a parlare alla gente in parabole. Aveva terminato di esporre la parabola dei vignaioli omicidi e per essere ancora più esplicito ora racconta una splendida parabola la cui scena ha come sfondo un solenne banchetto nuziale. Si tratta in realtà di due parabole collegate tra loro: la prima è quella degli invitati alla grande cena, (riferita anche da Luca) la seconda è presente solo in Matteo e prende lo spunto dalla veste di cerimonia, simbolo della dignità di una persona.
Matteo inizia la parabola dicendo che “Gesù, riprese a parlare con parabole ” Con questa frase egli intende allacciare la nuova parabola alle due precedenti e chi lo ascolta sono sempre i sommi sacerdoti e i farisei (rappresentati dai loro scribi), cioè i due gruppi che, insieme agli anziani, erano membri del sinedrio e formavano l’autorità giudaica.
Il racconto prosegue con l’espressione tipica delle parabole: “Il regno dei cieli è simile a…”e questa volta il termine di paragone è “un re, che fece una festa di nozze per suo figlio”.
Sullo sfondo è chiaro il tema sponsale dell’alleanza, in cui lo sposo non è più Dio stesso, ma Suo figlio, l’erede, mediante il quale si attua il regno di Dio
Quando i preparativi furono completati, il re “mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire”
Si può suppone che gli invitati fossero persone che erano state avvertite per tempo e avevano accettato l’invito, ma all’ultimo momento si tirano indietro. Proprio loro, i primi, i privilegiati , rispondono con indifferenza, con fastidio, persino con ostilità e disprezzo.
Non conoscendo il motivo del loro rifiuto il re insiste e manda agli stessi invitati altri servi con questo messaggio: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”.
Ma anche questa volta “quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.”
La ripetizione dell’invito sottolinea la sollecitudine del re, ma anche la determinazione degli invitati a rifiutare. Questa volta al rifiuto si unisce oltre all’insulto anche l’uccisione degli inviati per un motivo umanamente non comprensibile, ma per Matteo rappresenta la persecuzione fatta prima dei profeti, poi del Messia e dei primi cristiani da parte del popolo giudaico (Mt 5,11; 21,35-39).
Il racconto prosegue riportando l’indignazione del re che “mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”. Questo particolare appare piuttosto inverosimile in quanto lascia intendere che, mentre il banchetto è pronto, il re fa una guerra, ovviamente non breve, per punire quelli che avevano rifiutato, e poi va in cerca di altri invitati.
Si tratta dunque evidentemente di un dettaglio allegorico, aggiunto da Matteo, con l’intenzione di inserire l’evento della guerra giudaica e della distruzione di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 d.C., considerata come il castigo inflitto da Dio al Suo popolo per aver rifiutato il dono della salvezza.
Dopo la parentesi della punizione dei primi invitati, il racconto riprende con un nuovo invio dei servi. Avendo constatato che il banchetto nuziale era ormai pronto, ma gli invitati non ne erano degni, il re manda i servi ai crocicchi delle strade con l’ordine di invitare alle nozze tutti quelli che avessero trovati.
I servi fanno come era stato loro ordinato e “radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali”.
Prima di arrivare all’epilogo del racconto si può dedurre che chiunque arrivi alla soglia della salaa del banchetto riceva un abito di festa donato gratuitamente, per indicare di aver accettato liberamente l’invito del re. Anche l’abito nuziale basta accoglierlo e indossarlo, non va meritato né comprato. C’è però ancora chi si oppone: non accetta quel dono, non vuole quell’abito, non lo indossa e nello stesso tempo entra al banchetto ! Eppure il re, regalando quel vestito, chiede solo a chi entra di essere in tenuta di festa, di essere pulito e ordinato, di dare un segno di miglioramento …
A questo punto possiamo leggere la finale del racconto: “Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. …Il linguaggio della parabola, dai tratti tipicamente orientali, ora si fa duro, persino crudele “Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti»“. Si tratta però di immagini che servono ad esprimere una realtà fondamentale: nell’ultimo giorno ci sarà un giudizio decisivo, che verterà sull’aver accettato o rifiutato il dono di Dio. Dio ci dona la vita, mai la morte definitiva: quest’ultima, la seconda morte (Ap. 21,8), con le sue conseguenze la scegliamo noi. E Dio, che rispetta fino in fondo la nostra libertà, con sofferenza ci lascia fare, e così ci vede vagare lontano da sé e preferire la prigione alla libertà, la distruzione alla vita vissuta in pienezza.


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Le parole di Papa Francesco

“La parabola che abbiamo ascoltato ci parla del Regno di Dio come di una festa di nozze.
Protagonista è il figlio del re, lo sposo, nel quale è facile intravedere Gesù. Nella parabola, però, non si parla mai della sposa, ma dei molti invitati, desiderati e attesi: sono loro a vestire l’abito nuziale. Quegli invitati siamo noi, tutti noi, perché con ognuno di noi il Signore desidera “celebrare le nozze”. Le nozze inaugurano la comunione di tutta la vita: è quanto Dio desidera con ciascuno di noi. Il nostro rapporto con Lui, allora, non può essere solo quello dei sudditi devoti col re, dei servi fedeli col padrone o degli scolari diligenti col maestro, ma è anzitutto quello della sposa amata con lo sposo. In altre parole, il Signore ci desidera, ci cerca e ci invita, e non si accontenta che noi adempiamo i buoni doveri e osserviamo le sue leggi, ma vuole con noi una vera e propria comunione di vita, un rapporto fatto di dialogo, fiducia e perdono.
Questa è la vita cristiana, una storia d’amore con Dio, dove il Signore prende gratuitamente l’iniziativa e dove nessuno di noi può vantare l’esclusiva dell’invito: nessuno è privilegiato rispetto agli altri, ma ciascuno è privilegiato davanti a Dio. Da questo amore gratuito, tenero e privilegiato nasce e rinasce sempre la vita cristiana. Possiamo chiederci se, almeno una volta al giorno, confessiamo al Signore il nostro amore per Lui; se ci ricordiamo, fra tante parole, di dirgli ogni giorno: “Ti amo Signore. Tu sei la mia vita”. Perché, se si smarrisce l’amore, la vita cristiana diventa sterile, diventa un corpo senz’anima, una morale impossibile, un insieme di princìpi e leggi da far quadrare senza un perché. Invece il Dio della vita attende una risposta di vita, il Signore dell’amore aspetta una risposta d’amore. Rivolgendosi a una Chiesa, nel Libro dell’Apocalisse, Egli fa un rimprovero preciso: «Hai abbandonato il tuo primo amore» (2,4). Ecco il pericolo: una vita cristiana di routine, dove ci si accontenta della “normalità”, senza slancio, senza entusiasmo, e con la memoria corta. Ravviviamo invece la memoria del primo amore: siamo gli amati, gli invitati a nozze, e la nostra vita è un dono, perché ogni giorno è la magnifica opportunità di rispondere all’invito.
Ma il Vangelo ci mette in guardia: l’invito però può essere rifiutato. Molti invitati hanno detto no, perché erano presi dai loro interessi: «non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari», dice il testo . Una parola ritorna: proprio; è la chiave per capire il motivo del rifiuto. Gli invitati, infatti, non pensavano che le nozze fossero tristi o noiose, ma semplicemente «non se ne curarono»: erano distolti dai loro interessi, preferivano avere qualcosa piuttosto che mettersi in gioco, come l’amore richiede. Ecco come si prendono le distanze dall’amore, non per cattiveria, ma perché si preferisce il proprio: le sicurezze, l’auto-affermazione, le comodità... Allora ci si sdraia sulle poltrone dei guadagni, dei piaceri, di qualche hobby che fa stare un po’ allegri, ma così si invecchia presto e male, perché si invecchia dentro: quando il cuore non si dilata, si chiude, invecchia. E quando tutto dipende dall’io – da quello che mi va, da quello che mi serve, da quello che voglio – si diventa pure rigidi e cattivi, si reagisce in malo modo per nulla, come gli invitati del Vangelo, che arrivarono a insultare e perfino uccidere (cfr v. 6) quanti portavano l’invito, soltanto perché li scomodavano.
Allora il Vangelo ci chiede da che parte stare: dalla parte dell’io o dalla parte di Dio? Perché Dio è il contrario dell’egoismo, dell’autoreferenzialità. Egli – ci dice il Vangelo –, davanti ai continui rifiuti che riceve, davanti alle chiusure nei riguardi dei suoi inviti, va avanti, non rimanda la festa. Non si rassegna, ma continua a invitare. Di fronte ai “no”, non sbatte la porta, ma include ancora di più. Dio, di fronte alle ingiustizie subite, risponde con un amore più grande. Noi, quando siamo feriti da torti e rifiuti, spesso coviamo insoddisfazione e rancore. Dio, mentre soffre per i nostri “no”, continua invece a rilanciare, va avanti a preparare il bene anche per chi fa il male. Perché così è l’amore, fa l’amore; perché solo così si vince il male. Oggi questo Dio, che non perde mai la speranza, ci coinvolge a fare come Lui, a vivere secondo l’amore vero, a superare la rassegnazione e i capricci del nostro io permaloso e pigro.
C’è un ultimo aspetto che il Vangelo sottolinea: l’abito degli invitati, che è indispensabile. Non basta infatti rispondere una volta all’invito, dire “sì” e basta, ma occorre vestire l’abito, occorre l’abitudine a vivere l’amore ogni giorno. Perché non si può dire: “Signore, Signore” senza vivere e mettere in pratica la volontà di Dio (cfr Mt 7,21). Abbiamo bisogno di rivestirci ogni giorno del suo amore, di rinnovare ogni giorno la scelta di Dio.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia del 15 ottobre 2017

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa domenica è impregnata dall’immagine poetica della vita campestre, ma nello stesso tempo anche drammatica della parabola della vigna e dei suoi vignaioli assassini.
Nella prima lettura tratta dal Libro del profeta Isaia, il Profeta afferma che, se la vigna, che simboleggia Israele oggetto delle cure premurose di Dio, diventa sterile o non produce più buoni frutti, il padrone può abbandonarla per sempre alla sua rovina.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo, dopo averli esortati a pregare con insistenza il Signore per ogni loro necessità, li incoraggia con parole molto belle e significative a verificare l’autenticità della loro fede: appartenere a Cristo, non significa allontanarsi dall’impegno di attuare, insieme a tanti altri fratelli, i valori e le realtà più comuni della vita e della convivenza umana, ma semplicemente di realizzarli ispirandosi agli insegnamenti e all’esempio di Gesù, e dello stesso Apostolo.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù propone la parabola dei “vignaioli omicidi”, che richiama l’allegoria della vigna. Il racconto presenta un dramma: Gesù sente incombere su di sè la morte, sa che dopo pochi giorni verrà arrestato, processato, condannato, ucciso, e con il simbolismo della vigna parla di Israele che per le sue infedeltà vedrà sorgere altri popoli, “che daranno frutto a suo tempo”. Tuttavia Israele rimane e rimarrà sempre il popolo eletto, amato da Dio “perchè i doni di Dio sono irrevocabili”.
Il 4 ottobre, ricorre la festa di S.Francesco d’Assisi, patrono d’Italia. Papa Francesco nel 2015 nell’enciclica “Laudato si’’” presentò san Francesco d’Assisi come esempio della cura di ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità.

Dal libro del profeta Isaia
Voglio cantare per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna.
Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle.
Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi
e vi aveva piantato viti pregiate;
in mezzo vi aveva costruito una torre
e scavato anche un tino.
Egli aspettò che producesse uva;
essa produsse, invece, acini acerbi.
E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda,
siate voi giudici fra me e la mia vigna.
Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?
Perché, mentre attendevo che producesse uva,
essa ha prodotto acini acerbi?
Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna:
toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo;
demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata.
La renderò un deserto, non sarà potata né vangata
e vi cresceranno rovi e pruni;
alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia.
Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele;
gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita.
Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue,
attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi.
Is 5,1-7

Il profeta Isaia (Primo Isaia autore dei capitoli 1-39) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C, quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro.
Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal buon re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini. Isaia si è sempre scagliato contro i sacrifici umani (prevalentemente di bambini o ragazzi), i simboli sessuali, gli idoli di ogni forma e materiale. Altro bersaglio della riforma, e delle invettive di Isaia, furono le forme cultuali puramente esteriori, ridotte quasi a pratiche magiche.
Questo brano si apre con un prologo nel quale il profeta dice anzitutto di voler cantare, a nome del suo diletto, l'amore che questi ha per la sua vigna. Egli si presenta dunque come l'amico dello sposo, al quale spettava, in occasione di feste nuziali, esprimere con un cantico, l'amore dello sposo per la sposa, la quale nell'AT veniva spesso simboleggiata nella vigna.
Egli poi prosegue raccontando un evento: l'amico possedeva una vigna sopra un fertile colle...e dopo averlo vangato e sgombrato dai sassi, vi piantò viti pregiate, quindi vi costruì una torre per custodirlo e un tino per fare il vino; al termine si aspettava che la vigna producesse uva prelibata, e invece essa ha prodotto uva selvatica. A questo punto lo sposo, che aveva parlato tramite il suo amico, prende voce e afferma di voler intentare un processo alla sua vigna-sposa e chiama gli abitanti di Gerusalemme e di Giuda come testimoni-giudici e fa la sua requisitoria: Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? …
Lo sposo deluso e amareggiato è dunque deciso a colpire la sposa infedele: il cantico d'amore si è così tramutato in una minaccia.
Il cantico della vigna è chiaramente un’allegoria, nella quale vengono raffigurati il dono fatto da Dio a Israele, l'infedeltà del popolo e il castigo che lo attende. Non si tratta però ancora di una condanna definitiva e irrevocabile, ma di un avvertimento il cui scopo è quello di richiamare il popolo alla conversione. L’allegoria della vigna rappresenta una delle espressioni più alte dell’amore di Dio per Israele. In essa Dio si presenta come un amante, che è spinto verso l’amata da una forte passione e da un desiderio ardente, per cui l’alleanza perde l’aspetto di un contratto giuridico e diventa l’espressione di un vero rapporto d’amore profondo.
La vicenda di Israele è simbolo dei rapporti di Dio con tutta l’umanità. Dio ama tutti i popoli e a tutti si rivela, chiamandoli ad essere strumento di una giustizia universale. Se per Israele si parla di un rapporto speciale con Dio, ciò significa che questo popolo si è sentito chiamato a fare in prima persona l’esperienza di una fedeltà piena al progetto di Dio che servisse come segno per l’umanità.
Israele è diventato così un simbolo, che mantiene tutto il suo valore anche quando il popolo è infedele a quei valori che ha messo alla base dell’alleanza. Il suo fallimento in questo campo, diventa così un forte richiamo a una ricerca, che tutti devono compiere e che non sarà mai conclusa su questa terra.

Salmo 79 La vigna del Signore è la casa d’Israele.

Hai sradicato una vite dall’Egitto,
hai scacciato le genti e l’hai trapiantata.
Ha esteso i suoi tralci fino al mare,
arrivavano al fiume i suoi germogli.

Perché hai aperto brecce nella sua cinta
e ne fa vendemmia ogni passante?
La devasta il cinghiale del bosco
e vi pascolano le bestie della campagna.

Dio degli eserciti, ritorna!
Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna,
proteggi quello che la tua destra ha piantato,
il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Da te mai più ci allontaneremo,
facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.
Signore, Dio degli eserciti, fa’ che ritorniamo,
fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi.

Il salmo venne scritto quando ancora l’arca non era distrutta, il che avvenne con la distruzione di Gerusalemme. Probabilmente è stato scritto dopo la presa di Samaria da parte dell’Assiro Sargon (721), e dopo che Gerusalemme, assediata dall’Assiro Sennacherib dopo la devastazione della Giudea, rimase indenne (701). Questo evento fece risaltare la potenza di Dio nel suo tempio di Gerusalemme, e rese sensibile la Samaria verso Gerusalemme, cosa che permetterà l’azione riformista di Giosia (640-609) anche in territorio Samaritano.
Il salmista è un pio Israelita delle tribù del nord (Samaria) che desidera che le tribù di Efraim, Beniamino e Manasse siano benedette da Dio, la cui gloria sta sui cherubini dell’arca, posta nel tempio di Gerusalemme; desidera la fine dello scisma samaritano: “Seduto sui cherubini, risplendi davanti a Efraim, Beniamino e Manasse. Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci”.
A Dio, che guida Giuseppe “come un gregge”, il salmista chiede di manifestare nuovamente quella potenza che esercitò quando fece uscire “Giuseppe” dall’Egitto; intendendo per Giuseppe tutto Israele, finito in Egitto proprio a partire da lui (Gn 37,38).
Egli attraverso la bella immagine della vigna rievoca la storia di Israele: “Hai sradicato un vite dall’Egitto…”. Questa vite curata da lui ha esteso i suoi rami fino al Mediterraneo e fino al Libano: “La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli”. “Il fiume”, è l’Eufrate. Esso era lontano dalla Terra Promessa, ma indica fin dove giungeva l’influenza di Israele.
Il salmista è stordito di fronte alle sventure che si sono abbattute su Israele: “Signore, Dio degli eserciti, fino a quando fremerai di sdegno contro le preghiere del tuo popolo?”; “Perché hai aperto brecce nella sua città e ne fa vendemmia ogni passante ?”, ma non desiste dalla preghiera e invoca Dio, “Dio degli eserciti”, perché forte in battaglia per difendere i suo popolo: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell'uomo che per te hai reso forte”.
Il salmista riconosce la dinastia di Davide e ha la speranza che il re di Gerusalemme saprà risollevare le sorti di Israele, costui al presente era Ezechia (716-687): “Sia la tua mano sull’uomo della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte”, ma nel futuro sarà il Cristo. Quell’uomo reso forte è ora ogni pontefice, ogni vescovo, ogni sacerdote, ogni diacono, ogni fedele, che tutti sono uno, nell’uno che è la Chiesa, corpo mistico di Cristo, e che si adoperano per portare nel mondo la vera pace, cioè Cristo.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.
In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri. Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!
Fl 4,6-9

Paolo continuando la sua lettera ai Filippesi in questo brano fa due esortazioni:
La prima riguarda il rapporto con Dio: “non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti”.
Il vero credente non deve preoccuparsi, anche quando incombono le difficoltà della vita quotidiana e le tribolazioni derivanti dalle persecuzioni: in qualsiasi situazione Paolo propone come sostegno e conforto la preghiera, che consiste in un dialogo continuo con Dio e si manifesta con suppliche e ringraziamenti.
Nei momenti difficili della vita, il credente non deve soltanto chiedere ciò di cui crede di aver bisogno, ma anche riconoscere ciò che Dio gli ha già dato e continua a dargli.
Supplica e ringraziamento, per esempio, sono due elementi costitutivi e indissolubili della preghiera dei salmi. Questo tipo di preghiera ha un effetto infallibile: “E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù.
La pace è un dono di Dio, nel quale sono racchiusi tutti i beni da Lui promessi e condensati nella persona di Cristo. Essa va al di là di quanto la ragione può capire e proporre e abbraccia non solo i cuori, ma anche i pensieri di chi crede e vive per Lui.
La seconda esortazione riguarda invece più direttamente la vita quotidiana: “In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri.
L’apostolo qui raccomanda un ideale di condotta che si ispira ad elenchi di virtù raccomandate anche nell’ambiente della filosofia popolare, i cui valori erano già stati assorbiti dal giudaismo ellenistico.
In sintesi i credenti devono perseguire come ideale di vita quello che già la tradizione sapienziale biblica e il pensiero filosofico greco avevano sviluppato e proposto.
Paolo conclude dicendo: “Le cose che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, mettetele in pratica. E il Dio della pace sarà con voi!”. Non si limita così a proporre delle virtù astratte, ma indica se stesso come esempio. I filippesi devono compiere ciò che hanno imparato e ricevuto, ascoltato e veduto da lui. In altre parole l’imitazione non deve essere esterna e superficiale, ma deve partire da un insieme di requisiti ricevuti e fatti propri. In conclusione ritorna così il tema della pace, che è sempre dono di Dio, ma è anche la caratteristica di quel Dio che abiterà nei cuori di coloro che sapranno ascoltare la Sua voce.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
“La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
Mt 21, 33-43

Il brano che la liturgia ci propone, ci riporta nella stessa atmosfera di domenica scorsa. Gesù continua a parlare in parabole ed ora descrive l’iniziativa di un proprietario terriero: “Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Il tema della vigna si collega a quello di Israele in quanto popolo eletto (Is 27,2-5) e in modo particolare si fa riferimento a Isaia 5, che troviamo nella prima lettura, in cui c’è l’allegoria della vigna
Il fatto riportato nel racconto non è inverosimile nella situazione della Palestina all'epoca di Gesù: allora era facile infatti che ricchi proprietari terrieri affittassero i loro podere ad agricoltori locali e andassero a vivere in altri luoghi.
Al momento del raccolto, il padrone della vigna esige dai vignaioli la parte dei frutti che gli spetta, per cui “mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo”. Dopo aver constatato l’insuccesso dei servi, il padrone decide di fare un ultimo tentativo: Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.
La parabola termina con un commento fatto dagli ascoltatori interpellati direttamente da Gesù: “Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. Matteo riporta l’interpretazione della parabola che Gesù stesso avrebbe dato mediante la citazione di un salmo:E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”?
Matteo dopo la citazione del salmo aggiunge un nuovo detto esplicativo di Gesù: “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti”.
La parabola dei vignaioli Gesù l’ha narrata alla fine del suo ministero. Anche se sente incombere su di sé la morte, non smette di invitare i suoi ascoltatori a comprendere l'importanza dell'ora che stavano vivendo, facendo balenare il castigo a cui sarebbero andati incontro se non avessero accolto il regno di Dio che egli annunziava.
Matteo nel riportare questo racconto teneva certamente presente la tensione che allora correva tra la Chiesa appena nata e Israele, il popolo a cui apparteneva Cristo e i primi cristiani. Infatti la finale della parabola è chiara: il padrone darà la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo …. a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».
Il rifiuto di Israele, però, viene interpretato come un segno universale e non razziale: esso rappresenta ogni peccato e ogni incredulità, come l’accoglienza del nuovo popolo che fa fruttificare la vigna non è che la continuazione dell’Israele fedele che accolse la voce dei profeti e credette.


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“La liturgia di questa domenica ci propone la parabola dei vignaioli, ai quali il padrone affida la vigna che aveva piantato e poi se ne va. Così viene messa alla prova la lealtà di questi vignaioli: la vigna è affidata loro, che devono custodirla, farla fruttificare e consegnare al padrone il raccolto. Giunto il tempo della vendemmia, il padrone manda i suoi servi a raccogliere i frutti. Ma i vignaioli assumono un atteggiamento possessivo: non si considerano semplici gestori, bensì proprietari, e si rifiutano di consegnare il raccolto. Maltrattano i servi, al punto di ucciderli. Il padrone si mostra paziente con loro: manda altri servi, più numerosi dei primi, ma il risultato è lo stesso. Alla fine, con sua pazienza, decide di mandare il proprio figlio; ma quei vignaioli, prigionieri del loro comportamento possessivo, uccidono anche il figlio pensando che così avrebbero avuto l’eredità.
Questo racconto illustra in maniera allegorica quei rimproveri che i Profeti avevano detto sulla storia di Israele. È una storia che ci appartiene: si parla dell’alleanza che Dio ha voluto stabilire con l’umanità ed alla quale ha chiamato anche noi a partecipare. Questa storia di alleanza però, come ogni storia di amore, conosce i suoi momenti positivi ma è segnata anche da tradimenti e da rifiuti. Per far capire come Dio Padre risponde ai rifiuti opposti al suo amore e alla sua proposta di alleanza, il brano evangelico pone sulle labbra del padrone della vigna una domanda: «Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?» . Questa domanda sottolinea che la delusione di Dio per il comportamento malvagio degli uomini non è l’ultima parola! È qui la grande novità del Cristianesimo: un Dio che, pur deluso dai nostri sbagli e dai nostri peccati, non viene meno alla sua parola, non si ferma e soprattutto non si vendica!
Fratelli e sorelle, Dio non si vendica! Dio ama, non si vendica, ci aspetta per perdonarci, per abbracciarci. Attraverso le “pietre di scarto” – e Cristo è la prima pietra che i costruttori hanno scartato – attraverso situazioni di debolezza e di peccato, Dio continua a mettere in circolazione il «vino nuovo» della sua vigna, cioè la misericordia; questo è il vino nuovo della vigna del Signore: la misericordia. C’è un solo impedimento di fronte alla volontà tenace e tenera di Dio: la nostra arroganza e la nostra presunzione, che diventa talvolta anche violenza! Di fronte a questi atteggiamenti e dove non si producono frutti, la Parola di Dio conserva tutta la sua forza di rimprovero e di ammonimento: «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti» .
L’urgenza di rispondere con frutti di bene alla chiamata del Signore, che ci chiama a diventare sua vigna, ci aiuta a capire che cosa c’è di nuovo e di originale nella fede cristiana. Essa non è tanto la somma di precetti e di norme morali, ma è prima di tutto una proposta di amore che Dio, attraverso Gesù, ha fatto e continua a fare all’umanità. È un invito a entrare in questa storia di amore, diventando una vigna vivace e aperta, ricca di frutti e di speranza per tutti. Una vigna chiusa può diventare selvatica e produrre uva selvatica. Siamo chiamati ad uscire dalla vigna per metterci a servizio dei fratelli che non sono con noi, per scuoterci a vicenda e incoraggiarci, per ricordarci di dover essere vigna del Signore in ogni ambiente, anche quelli più lontani e disagevoli.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’8 ottobre 2017

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa domenica ci aiuta a comprendere meglio come Dio non ama l’ipocrisia di chi dice subito si e non fa la sua volontà.La misura del valore autentico e nascosto di ogni persona è in ultima istanza solo nelle mani di Dio che vede nei cuori e non giudica per sentito dire!
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Ezechiele, ci porta a considerare che ogni uomo è arbitro della propria salvezza in quanto il Signore è pronto a perdonare sia il giusto che il peccatore che pentendosi si converte
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo riporta l’inno di lode a Colui che eseguì in modo perfetto la missione affiedatagli al Padre Suo. Obbediente fino alla morte: per amore del Padre e per amore dell’uomo.
Nel Vangelo di Matteo, troviamo Gesù che presenta una parabola che è un vero e proprio quadretto di vita familiare, semplice, ma sempre attuale: un figlio apparentemente corretto che dice subito si alla richiesta del padre, ma poi non obbedisce, e l’altro figlio, il classico ribelle, che prima dice no, ma poi pentito fa la volontà del padre. Questo testo è un chiaro invito a infrangere i luoghi comuni nel giudicare gli uomini. Ogni creatura, infatti, ha sempre in sè la fiaccola dell’amore di Dio, anche quando è appannata dal peccato, e ai nostri occhi umani sembra sul punto di spegnersi. Gesù non ha mai spento nessuna fiaccola, anche la più flebile, ma vi ha sempre aggiunto nuovo olio perchè potesse ritornare a splendere.

Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore: «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.
E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà». Ez 18,25-28

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo. Usò immagini di grande potenza evocativa, specie negli oracoli di condanna, ebbe toni ed espressioni particolarmente duri ed efficaci.
Nella parte precedente questo brano, che la liturgia ci propone, Ezechiele aveva messo in discussione, come aveva già fatto Geremia (cfr. Ger 31,29), il proverbio secondo cui «i padri hanno mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» ed esordisce affermando, a nome di Dio, che questo proverbio non deve essere più ripetuto, ed indica quali sono le condizioni perché un uomo possa vivere .
In questo brano il profeta immagina che gli israeliti criticano il comportamento di Dio per cui pronto il Signore risponde: «Ascolta dunque, popolo d'Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?» Il pensiero di scontare la pena di peccati commessi dai loro padri era per i giudei un comodo alibi per non responsabilizzarsi, mentre l’idea di una responsabilità personale li stimolava ad essere responsbaili delle loro azioni.
Dopo aver difeso il comportamento di Dio il profeta sintetizza il suo messaggio: in due ipotesi.
Nella prima dice: “Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.”
Nella seconda prospetta il caso opposto: “E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».
Dio mette davanti a Israele la vita e il bene, la morte e il male, e comanda che il popolo lo ami, minacciando in caso contrario i castighi più terribili (Dt 30,15-20). Ma Dio non è indifferente alle scelte delle Sue creature, Egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva .
La fede in un Dio amante della vita sta alla base della fede di Israele. Questa fede comporta l’osservanza dei comandamenti riguardanti la giustizia e la solidarietà con i più poveri. Se Dio vuole che il popolo gli sia fedele, l’unico motivo è che da questa fedeltà derivi al popolo la possibilità di essere prospero e felice.
In un’epoca in cui non si parlava ancora di una vita oltre la morte, sentirsi in comunione con Dio implicava anche un benessere materiale, che diventava però segno della benedizione divina solo se era condiviso con il bisognoso.

Salmo 24Ricòrdati, Signore, della tua misericordia.

Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza;
io spero in te tutto il giorno.

Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza
e le mie ribellioni, non li ricordare:
ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.

Il salmista è pieno d’umiltà al ricordo delle sue numerose colpe della sua giovinezza. E’ sgomento alla vista che tanti suoi amici lo hanno tradito per un nulla. Uno screzio è bastato perché si mettessero contro di lui. Egli, piegato dal peso dei suoi peccati, domanda che Dio guardi a lui e non a quanto ha fatto non osservando “la sua alleanza e i suoi precetti”. Si trova in grande difficoltà di fronte ad avversari che lo odiano in modo violento e lui non ha via di salvezza che quella del Signore. Gli errori passati sono il frutto del suo abbandono della “via giusta”. Ora sa che “tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà”, cioè non portano a rovina, ma anzi danno prosperità, poiché la discendenza di chi teme il Signore “possederà la terra”. L’orante voleva affermarsi sugli altri agendo con spavalderia, con vie traverse, ed ecco che sconfessa tutto il suo passato, trattenendone però la lezione di umiltà, che gli ha dato. Egli sa che non andrà deluso perché ha deciso di essere protetto da "integrità e rettitudine”, cioè dall’osservanza dell’alleanza stabilita da Dio con Israele. L’orante non pensa solo a se stesso, si sente parte del popolo di Dio, e invoca la liberazione di Israele dalle angosce date dai nemici. La liberazione dell’Israele di Dio, la Chiesa, cioè l’Israele fondato sulla fede in Cristo, non escludendo nella sua carità quello etnico basato sulla carne e sul sangue, per il quale la pace passerà dall’accoglienza del Principe della pace.
Commento di P. Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Filippesi

Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi nei cieli,
sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,1-11

Continuando la lettera ai Filippesi, che Paolo ha scritto da Efeso durante il terzo viaggio missionario, dopo averli incoraggiati a “combattere unanimi per la fede del vangelo senza lasciarsi intimidire in nulla dagli avversari” provenienti dall’esterno (1,27-30), in questo brano liturgico egli li esorta all’unità, e all’impegno per la salvezza.
Paolo inizia la sua esortazione con quattro frasi poste al condizionale:
“se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione”, In questo modo egli mette in luce alcuni atteggiamenti che devono animare la vita della comunità. Questi atteggiamenti costruiscono la comunità stessa, la quale può raggiungere il suo scopo solo se tutti i suoi membri si lasciano impregnare da “sentimenti di amore e di compassione”. Ma al tempo stesso Paolo sottolinea che questi atteggiamenti procurano anche a lui conforto e consolazione: rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. L’accenno alla gioia che gli procurano spinge l’apostolo a precisare meglio il suo pensiero: ciò che gli sta a cuore è il fatto che essi abbiano un medesimo sentire e con la stessa carità, Dunque ciò che gli sta soprattutto a cuore non è l’unità esteriore dell’agire, ma l’essere uniti nell’amore vicendevole e unanime nei pensieri, cioè nel modo di vedere e di valutare i valori fondamentali della vita.
Egli poi continua affermando: “ Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri”. Con queste parole egli esorta i filippesi a evitare lo spirito di rivalità e di concorrenza che rappresentano il rischio più grosso per la vita di una comunità.
Per evitare di cadere in una spirale di intolleranza reciproca è importante perseguire il bene, cercando sì il proprio interesse, ma sempre all’interno di un bene più grande, che è quello di tutti. Per ottenere ciò è necessaria una buona dose di umiltà, che consiste nel non ritenersi superiori agli altri, cioè nel non pensare di essere al centro di tutto e di far girare gli altri intorno a sé.
Infine queste esortazioni all’amore fraterno vengono condensate in un’unica richiesta:
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù .
Paolo non si accontenta di proporre dei comportamenti, anche se sublimi, che però rischiano di rimanere astratti, senza impatto nella vita delle persone. Egli propone un modello da seguire, che è quello del loro Maestro, Gesù Cristo. Egli però non chiede di imitare quello che Lui ha fatto, ma piuttosto di avere gli stessi sentimenti che hanno ispirato la Sua vita. Ciò che conta non è il fare, ma il pensare, cioè l’adesione convinta e vissuta, i valori per i quali Gesù è vissuto ed è morto
Per presentare concretamente quale sia stato il modo di pensare di Gesù, Paolo inserisce a questo punto l’inno cristologico, preso forse dalla liturgia di qualche comunità, che esprime tutta l’ampiezza del mistero di Cristo, che qui è celebrato in due grandi aspetti: discesa e risalita, che formano una curva le cui estremità si ricongiungono.
L’inno si apre con: egli, pur essendo nella condizione di Dio,
E continua con una frase in cui si spiega in che modo Gesù ha gestito il Suo essere nella condizione di Dio: non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
Questa espressione è stata comunemente tradotta “l’essere uguale a Dio”, con riferimento alla natura o essenza divina di Cristo. L’inno prosegue affermando che Cristo svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Perciò non solo non volle avvalersi del Suo privilegio, ma addirittura vi rinunciò, in quanto “svuotò se stesso”. Questo però non significa che Gesù ha cessato di essere uguale a Dio, ma che si è spogliato, nella Sua umanità, della gloria divina manifestata solo nella trasfigurazione (Mt 17,1-8) che poi riceve dal Padre.
E’ andato fino al più profondo dell’abbassamento “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. La precisazione “morte di croce” assume un significato speciale, in quanto la pena capitale della crocifissione richiamava alla mente dei filippesi, che vivevano in una città romana, l’umiliazione più degradante e più ignominiosa, il colmo dell’abiezione: essi potevano così rendersi conto che Gesù aveva raggiunto il limite estremo dell’umiliazione sottoponendosi perfino al crudelissimo e terribile supplizio, della crocifissione.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome”, il Padre lo glorifica, gli sottomette l’universo e gli dà la piena prerogativa del suo titolo regale e divino di Signore “perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.”
Nel pensiero di Paolo forse qui emerge il ricordo dell’orgoglio di Adamo, che pretendeva di farsi uguale a Dio, per contrapporlo al dono e all’abnegazione di Cristo. Ma l’inno soprattutto ricorda ancora più chiaramente i canti del Servo del Signore (Is 53) il cammino di umiliazione che ha portato Gesù, sulla linea del personaggio predetto da Isaia, alla sofferenza e alla morte. In altre parole, Egli diversamente da Adamo, non ha voluto condurre il Suo rapporto con Dio in termini di potere o di dominio, ma di amore e di servizio.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Mt 21, 28-32

Questo episodio che l’evangelista Matteo ci riporta, avviene dopo l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, e la cacciata dal tempio dei venditori, perciò il contesto della parabola è quello del conflitto aperto tra Gesù e le autorità religiose e civili che governano Gerusalemme.
Matteo ci presenta cinque controversie che segnano la rottura tra Gesù e chi esercita il potere.
La prima in particolare riguarda l'autorità di Gesù. I capi, infatti, dopo che Gesù aveva scacciato i venditori dal Tempio, ingaggiano con lui una vera e propria battaglia che si concluderà con la Sua condanna. Gesù non si sottrae allo scontro, anzi desidera confrontarsi e chiama i suoi interlocutori ad esporsi e a prendere posizione.
Gesù qui racconta che un uomo che aveva due figli, chiede al primo di andare a lavorare nella vigna. Questi risponde di sì, ma poi non ci va. Poi chiede la stessa cosa al secondo, che risponde di no, ma poi, pentitosi, ci va. Dal testo appare in modo abbastanza evidente che i destinatari della parabola sono i gran sacerdoti e gli anziani, menzionati nella controversia precedente quella su quale autorità Gesù agisse (v. 23), mentre il simbolo della vigna si riferisce al popolo d'Israele (Is 5,1-7) .
L'invito del padre ai due figli evidenzia la sua premura per la vigna, mentre la risposta dei figli sottolinea la loro libertà nei confronti del padre ed esprime teologicamente la risposta di fede o d'incredulità alla parola di Dio.
Al termine di questo breve racconto Gesù provoca il giudizio dei suoi interlocutori chiedendo: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. E quando questi non possono fare a meno di rispondere: “Il primo”, Gesù allora afferma: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.” C’è da tenere presente che nell’ambiente giudaico questa affermazione è sorprendente e quanto mai provocatoria perché la conversione di queste due categorie di persone era ritenuta quasi impossibile!
Gesù poi prosegue: “Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”. Matteo con questo versetti intende agganciare la parabola alla funzione del Battista, oggetto della disputa precedente tra Gesù e le autorità giudaiche. La “via della giustizia” è un'espressione sapienziale (V. Pr 8,20; 16,31), che indica qui la fedeltà del Precursore alla missione affidatagli da Dio, considerata da Matteo parallela a quella del Messia
Questa parabola è tipica della predicazione di Gesù, il quale, proprio per sottolineare l’iniziativa salvifica di Dio a vantaggio di tutti, mette in primo piano gli ultimi, presentandoli come l’oggetto privilegiato dell’indulgenza divina. Gesù non ha mai giudicato gli uomini per categorie, per cui i pubblicani e le prostitute andranno in paradiso, non in quanto pubblicani e prostitute, ma perché, pur essendo vissuti nel peccato, hanno poi accolto l’annuncio del regno, abbracciando la fede e le sue opere, come gli operai dell’ultima ora.

 

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“Oggi ci provoca la parabola dei due figli, che alla richiesta del padre di andare nella sua vigna rispondono: il primo no, ma poi va; il secondo sì, ma poi non va. C’è però una grande differenza tra il primo figlio, che è pigro, e il secondo, che è ipocrita. Proviamo a immaginare cosa sia successo dentro di loro. Nel cuore del primo, dopo il no, risuonava ancora l’invito del padre; nel secondo, invece, nonostante il sì, la voce del padre era sepolta. Il ricordo del padre ha ridestato il primo figlio dalla pigrizia, mentre il secondo, che pur conosceva il bene, ha smentito il dire col fare. Era infatti diventato impermeabile alla voce di Dio e della coscienza e così aveva abbracciato senza problemi la doppiezza di vita. Gesù con questa parabola pone due strade davanti a noi, che – lo sperimentiamo – non siamo sempre pronti a di dire sì con le parole e le opere, perché siamo peccatori. Ma possiamo scegliere se essere peccatori in cammino, che restano in ascolto del Signore e quando cadono si pentono e si rialzano, come il primo figlio; oppure peccatori seduti, pronti a giustificarsi sempre e solo a parole secondo quello che conviene.
Questa parabola Gesù la rivolse ad alcuni capi religiosi del tempo, che assomigliavano al figlio dalla vita doppia, mentre la gente comune si comportava spesso come l’altro figlio. Questi capi sapevano e spiegavano tutto, in modo formalmente ineccepibile, da veri intellettuali della religione. Ma non avevano l’umiltà di ascoltare, il coraggio di interrogarsi, la forza di pentirsi. E Gesù è severissimo: dice che persino i pubblicani li precedono nel Regno di Dio.
È un rimprovero forte, perché i pubblicani erano dei corrotti traditori della patria. Qual era allora il problema di questi capi? Non sbagliavano in qualcosa, ma nel modo di vivere e pensare davanti a Dio: erano, a parole e con gli altri, inflessibili custodi delle tradizioni umane, incapaci di comprendere che la vita secondo Dio è in cammino e chiede l’umiltà di aprirsi, pentirsi e ricominciare.
Cosa dice questo a noi? Che non esiste una vita cristiana fatta a tavolino, scientificamente costruita, dove basta adempiere qualche dettame per acquietarsi la coscienza: la vita cristiana è un cammino umile di una coscienza mai rigida e sempre in rapporto con Dio, che sa pentirsi e affidarsi a Lui nelle sue povertà, senza mai presumere di bastare a sé stessa. Così si superano le edizioni rivedute e aggiornate di quel male antico, denunciato da Gesù nella parabola: l’ipocrisia, la doppiezza di vita, il clericalismo che si accompagna al legalismo, il distacco dalla gente. La parola chiave è pentirsi: è il pentimento che permette di non irrigidirsi, di trasformare i no a Dio in sì, e i sì al peccato in no per amore del Signore. La volontà del Padre, che ogni giorno delicatamente parla alla nostra coscienza, si compie solo nella forma del pentimento e della conversione continua. In definitiva, nel cammino di ciascuno ci sono due strade: essere peccatori pentiti o peccatori ipocriti. Ma quel che conta non sono i ragionamenti che giustificano e tentano di salvare le apparenze, ma un cuore che avanza col Signore, lotta ogni giorno, si pente e ritorna a Lui. Perché il Signore cerca puri di cuore, non puri “di fuori”.
Vediamo allora, cari fratelli e sorelle, che la Parola di Dio scava in profondità, «discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). Ma è pure attuale: la parabola ci richiama anche ai rapporti, non sempre facili, tra padri e figli. Oggi, alla velocità con cui si cambia tra una generazione e l’altra, si avverte più forte il bisogno di autonomia dal passato, talvolta fino alla ribellione. Ma, dopo le chiusure e i lunghi silenzi da una parte o dall’altra, è bene recuperare l’incontro, anche se abitato ancora da conflitti, che possono diventare stimolo di un nuovo equilibrio. Come in famiglia, così nella Chiesa e nella società: non rinunciare mai all’incontro, al dialogo, a cercare vie nuove per camminare insieme.”
Papa Francesco Parte dell’omelia celebrata a Bologna per la conclusione del Congresso Eucaristico Diocesano il 1 ottobre 2017

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa domenica ci porta a considerare che la vita cristiana, come ci indica il Vangelo, non si può organizzare su una contabilità di dare e avere come se Dio fosse l’agenzia delle entrate, ma sulla grazia e i Suoi doni che ci precedono sempre, perché l’amore di Dio supera ogni forma di giustizia.
La prima lettura tratta dal Libro del profeta Isaia, ci illumina per comprendere il segreto comportamento di Dio nella storia. E’ il Signore stesso che ce lo ricorda quando afferma: “Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.”
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Filippesi, Paolo afferma che Cristo è tutto per lui. e vivere o morire non ha importanza purchè Cristo Gesù sia glorificato.
Il Vangelo di Matteo, ci propone la parabola degli operai che il Padrone manda a lavorare nella Sua vigna in diverse ore del giorno e nel momento della retribuzione gli ultimi operai si vedranno pagare come qui operai della prima ora. Come cristiani siamo invitati a seguire lo stile del padrone della vigna, che è quello di Gesù. Esso non si basa prima di tutto sul merito o sulla rigida giustizia, ma si lascia conquistare dall’amore gratuito che dona e fa credito anche a chi non ha diritti da accampare.

Dal Libro del profeta Isaia
Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino.
L’empio abbandoni la sua via
e l’uomo iniquo i suoi pensieri;
ritorni al Signore che avrà misericordia di lui
e al nostro Dio che largamente perdona.
Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie.
Oracolo del Signore.
Quanto il cielo sovrasta la terra,
tanto le mie vie sovrastano le vostre vie,
i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.
Is 55,6-9

Questo testo fa parte dei capitoli 40-55 del Libro di Isaia attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Forse era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che dalla sue profezie prendono speranza.
Era accaduto che a partire dal 550 a.C. un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re, Ciro, in pochi anni sottomisero l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, Ciro sembrò come un liberatore. Da allora nella comunità degli Ebrei esiliati si videro apparire racconti, oracoli, canti che esaltavano l’opera di Dio nella storia del mondo. Era finito il tempo in cui dominavano gli idoli, il vero Dio, il solo Dio apparve loro il padrone degli avvenimenti, che agiva per la liberazione e la salvezza del suo popolo. Con la caduta di Babilonia nel 539, Ciro autorizzò gli Israeliti a ritornare in patria e a praticare il loro culto. Si pensò persino che Ciro fosse l’inviato del Signore, un messia, un uomo di Dio, che avrebbe realizzato ovunque la pace. Ma per quanto Ciro fosse una figura gloriosa della storia, l’inviato di Dio sarebbe arrivato secoli dopo sotto spoglie più umili, quelle di un Giusto, che espia nel dolore le colpe degli uomini.
Il brano liturgico inizia con un’esortazione universale alla ricerca di Dio ed inizia con queste parole esortative: Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino.
Il tema del “cercare” Dio nasce dalla consuetudine diffusa in tutte le religioni di visitare il santuario di una divinità per poterla incontrare nella statua che la rappresenta e ottenere da essa doni e grazie.. In questa circostanza l’invito a cercare Dio è simile a quello di invocarlo e ha come motivazione il fatto che Egli si fa trovare, è vicino. Rivolto agli esuli, questo invito ha lo scopo di renderli attenti alla presenza di Dio nella storia e disponibili lasciarsi coinvolgere nella Sua azione, che sta per mostrarsi in un intervento risolutivo a loro favore, la liberazione e il ritorno nella loro terra.
L’esigenza di cercare Dio comporta quindi un impegno preciso:
“L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui al nostro Dio che largamente perdona.”
Il termine “empio” in parallelo con “uomo iniquo” indica colui che non si preoccupa di compiere il volere di Dio nella sua vita quotidiana. In questa situazione indica quei giudei che si erano stabiliti nella terra d’esilio integrandosi nella società in cui si trovavano senza più pensare alla possibilità di un ritorno nella loro terra. L’empio e l’iniquo sono quindi invitati ad abbandonare rispettivamente la loro “via “e i loro “pensieri.” Il termine “via” indica il comportamento pratico, mentre i “pensieri” indicano più direttamente i propositi e i progetti che si hanno. Secondo la mentalità biblica pensieri e azione sono intimamente collegati: per trasformare le abitudini è indispensabile cambiare la mentalità, il cuore delle persone, per poter “ritornare” a Dio.
Questo verbo “ritornare” indica la “conversione”, ossia letteralmente un cambiamento di rotta per rientrare sul proprio cammino e incontrare nuovamente il Signore.
Per colui che è andato molto fuori strada. non è facile convertirsi, soprattutto se si ha un’immagine di un Dio vendicativo e crudele. Perciò il profeta sottolinea che il Signore è un Dio misericordioso e propenso al perdono. Per cogliere fino in fondo la misericordia infinita di Dio bisogna perciò superare la tendenza naturale a immaginare Dio con categorie umane.
Questo è il problema di ogni pratica religiosa e il profeta lo affronta in questi termini:
“Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.”
Anche Dio ha i Suoi pensieri e le Sue vie, ma sia i pensieri che le vie sono totalmente diversi da quelli dell’uomo perchè i pensieri di Dio sono i Suoi progetti in favore del cosmo e dell’uomo e le Sue vie sono i suoi interventi nella storia. Ciò che Dio pensa e per cui agisce è solo la salvezza del Suo popolo e in prospettiva di tutta l’umanità. I pensieri e le vie di Dio non solo sono diversi, ma “sovrastano” quelli dell’uomo, sono più alti di essi come è più alto il cielo rispetto alla terra.
I piani di Dio sono quindi sconosciuti all’uomo, e questo non solo perché Dio è un Dio misterioso (v. Is 45,15), ma anche e soprattutto perché l’uomo è rivolto alle cose personali che gli interessano da vicino, mentre Dio cerca il vero bene di tutti.
In questo testo il Deuteroisaia presenta Dio come Colui che è immensamente superiore all’uomo, che ha pensieri e comportamenti diametralmente opposti ai suoi, ma che è anche Colui che è vicino e si lascia trovare dall’uomo. In forza della Sua trascendenza, Dio non può essere definito, perché inevitabilmente sarebbe ridotto a categorie umane. Di Lui si può dire con più sicurezza quello che non è che non quello che è. Tuttavia questo Dio inaccessibile si fa vicino all’uomo e gli parla attraverso gli eventi della storia ed anche quelli strettamente personali, è compito dell’uomo riconoscerlo per sentirlo vicino e poter camminare con Lui.
S.Agostino ha avuto un’espressione stupenda per definire ciò che prova l’uomo quando alla fine della sua intensa ricerca trova Dio: “Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te”. (Confess. 1, 1, 1)

Salmo 144 Il Signore è vicino a chi lo invoca.

Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.
Grande è il Signore e degno di ogni lode;
senza fine è la sua grandezza.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

Giusto è il Signore in tutte le sue vie
e buono in tutte le sue opere.
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,
a quanti lo invocano con sincerità.

Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano nella composizione di questa composizione, che tuttavia risulta bellissima nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode.
Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C.
Esso inizia rivolgendosi a Dio quale re: “O Dio, mio re, voglio esaltarti (...) in eterno e per sempre”. “In eterno e per sempre”, indica in modo incessante e continuativo nel tempo.
Segue uno sguardo su come la trasmissione, di generazione in generazione, delle opere di Dio non sia sentita solo come fatto prescritto (Cf. Es 13,14), ma come gioia di comunicazione, poiché le opere di Dio sono affascinanti: “Il glorioso splendore della tua maestà e le tue meraviglie voglio meditare. Parlino della tua terribile potenza: anch’io voglio raccontare la tua grandezza. Diffondano il ricordo della tua bontà immensa, acclamino la tua giustizia".
Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate (Cf. Ps 148). Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore.
La lode a Dio sul labbro dei fedeli diventa annuncio a tutti gli uomini: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno”. “Il regno” (malkut) è Israele e le “imprese” sono quelle della liberazione dall'Egitto, ecc. Terminata la successione monarchica dopo la deportazione a Babilonia, Israele, pur senza scartare minimamente la tensione verso il futuro re, il Messia, si collegò alla tradizione premonarchica dove il re era unicamente Dio.
Nel libro dell'Esodo si parla di Israele come regno (19,6): “Un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Israele come regno di Dio si manifesta in modo evidente mediante l'osservanza della legge data sul Sinai; ma Israele non è solo suddito di Dio, ma anche figlio (Cf. Es 4,22).
Il salmista continua a celebrare la bontà di Dio verso gli uomini: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie (...). Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge tutti i malvagi”.
Il salmista termina la sua composizione esortandosi alla lode a Dio e invitando, in una visione universale, “ogni vivente” a benedirlo: “Canti la mia bocca la lode del Signore e benedica ogni vivente il suo santo nome, in eterno e per sempre”. “Ogni vivente”; anche gli animali, le piante - ovviamente a loro modo - celebrano la gloria di Dio (Cf. Ps 148,9-10).
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.
Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno.
Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.
Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.
Fil. 1,20c-24.27ª

Paolo scrisse la lettera ai Filippesi mentre si trova in carcere, probabilmente durante la sua detenzione a Efeso nel 53-54. La lettera è ispirata da sentimenti di amicizia e Paolo l’ha scritta per ringraziare la comunità di Filippi d'averlo aiutato materialmente. Filippi è una città nel nord della Grecia, situata a circa 15 chilometri dal mare. Prese il nome dal re Filippo II di Macedonia, che la fece ingrandire e fortificare nel 356 a.C. per farne un centro minerario. Fu conquistata dai Romani nel 168 a.C. .e più tardi lìimperatore Augusto, la elevò al rango di colonia. I cristiani della comunità erano prevalentemente di origine pagana, come si evince dal fatto che nella lettera Paolo, a parte una breve allusione, non cita mai l’Antico Testamento.. La lettera. strutturata in 4 capitoli, si occupa di dimensioni specifiche dell'identità e della vita cristiana
Il brano liturgico, tratto dal primo capitolo, riporta questa annuncio di Paolo:
”Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno”.
Ciò che sta a cuore all’apostolo è la glorificazione di Cristo, che avviene quando sarà conosciuto da un numero sempre più grande di persone. Questa glorificazione avviene “nel corpo” di Paolo, cioè per mezzo di tutta la sua persona nei due aspetti che la caratterizzano, cioè la vita e la morte, perché per lui “vivere è Cristo”, di conseguenza “il morire è un guadagno”. Un guadagno, in quanto comporta la piena partecipazione alla sua esperienza umana e la caduta dell’unico ostacolo che gli impedisce di “guadagnare” completamente Cristo (V. Fil 3,8), cioè di vivere pienamente per Lui e con Lui.
Paolo si trova in prigione, in una situazione in cui la morte potrebbe sopraggiungere da un momento all’altro. Egli non può non pensare a questa eventualità, e lo fa nella prospettiva del suo rapporto con Cristo:”Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo.”
Da una parte Paolo si rende conto che il suo vivere nel corpo comporta un “lavorare con frutto” cioè un’attività fruttuosa per l’evangelizzazione. Si trova quindi in un dilemma difficile da sciogliere: pur ritenendo che per lui sarebbe meglio morire, riconosce che per i filippesi è ancora necessario che egli “rimanga nel corpo”, cioè continui la sua vita su questa terra.
Certo Paolo non può determinare il futuro, ma, nei versetti seguenti non riportati dal brano, si limita ad esprimere una sua percezione: “Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, (vv. 25-26).
Paolo prevede che la sua vita continuerà e accetta volentieri che la prigionia non termini con la sua morte. Questa convinzione non si basa su come potrà andare il processo che dovrà affrontare, ma sulla considerazione che ancora lo aspetta molto lavoro, quello cioè di aiutare i suoi a crescere nella fede.
Egli spera anche che il vanto che essi ripongono in lui, ma soprattutto in Gesù Cristo che egli rappresenta, aumenti per una nuova visita che egli vorrebbe fare loro.
La conclusione del testo liturgico è un’esortazione rivolta ai filippesi:
“Comportatevi dunque in modo degno del vangelo di Cristo.”
Ciò che Paolo esprime in questo brano è prima di tutto l’amore profondo che lo unisce a Cristo. È dunque chiaro che il desiderio della morte, da lui accennato in questo brano, non è effetto di una sofferenza pesante alla quale desidera sottrarsi, ma piuttosto un passo necessario per essere pienamente conforme a Colui che è vissuto, morto e risorto per la salvezza di tutti.
In altre parole la morte è importante non perché apre la strada a un incontro glorificante, ma perché rappresenta l’ultimo passo della configurazione del discepolo al suo maestro, è l’espressione del dono totale attuato con Lui e per Lui.
È solo attraverso la morte che si manifesta questo dono. E se Paolo per il momento è disposto a rinunziarvi, lo fa perché la sua stessa vita è un continuo morire con Cristo e per Cristo nel servizio dei fratelli.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”.
Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”.
Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro.
Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».
Mt 20, 1-16a

Questa parte del Vangelo di Matteo segna una svolta nel ministero di Gesù, che lascia la Galilea per dirigersi verso Gerusalemme, attraversando il territorio della Giudea, al di là del Giordano. Gesù continua la formazione dei suoi discepoli, approfondendo l’insegnamento sulle condizioni per entrare nel regno dei cieli.
Il brano liturgico narra la parabola degli operai mandati nella vigna e Matteo è l’unico evangelista a riportarla. La parabola inizia con la consueta l’espressione “Il regno dei cieli è simile” …e continua con la similitudine dicendo; “a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna”.
L’immagine della vigna, utilizzata in seguito per altre due parabole, è desunta dalla tradizione biblica, dove simboleggiava il popolo d’Israele spesso infedele al suo Dio (cfr. Is 5,1-7; Ger 2,21; Ez 17,6-10; 19,10-14).
Le modalità con cui sono assunti gli operai corrispondono alle usanze palestinesi del tempo di Gesù. Il primo ingaggio avviene al mattino, all’inizio della giornata, cioè alle ore sei. Con gli operai viene pattuito il salario quotidiano di un denaro, che essi accettano senza recriminazioni: perché era il prezzo di mercato.
Successivamente il padrone esce altre quatto volte, all’ora terza (le nove), sesta (le dodici), nona (le quindici) e undicesima (le diciassette), e ogni volta trova operai senza lavoro che manda alla sua vigna.
Le assunzioni, eccetto l’ultima, avvengono secondo la divisione greco-romana della giornata. A quelli delle nove dice che darà loro quanto è giusto, senza precisare la cifra. Lo stesso ripete ai due gruppi successivi. Agli operai che incontra alle diciassette chiede, con un tono di rimprovero “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Quando essi rispondono che nessuno li ha presi a giornata, manda anche loro nella vigna, senza promettere nulla e senza badare al fatto che restava ben poco tempo per lavorare.
Proprio queste ultime due chiamate ormai fuori tempo risultano strane e inverosimili tipiche delle parabole, il cui scopo è quello di provocare chi ascolta, affinché possano pensare a una logica diversa da quella a cui sono abituati.
Ma l’aspetto più provocatorio del racconto lo troviamo nelle modalità con cui il padrone effettua il pagamento: egli fa venire gli operai e cominciando dagli ultimi dà a tutti un denaro.
Il fatto di cominciare dagli ultimi sicuramente è solo un espediente per far sì che i primi si rendano conto che anche gli ultimi hanno ricevuto un denaro, come era stato pattuito con loro. Vedendo ciò costoro si aspettano naturalmente di ricevere di più, ma con loro grande delusione si accorgono che la paga è la stessa. Essi perciò, mentre ritirano il denaro, si lamentano con il padrone perché anche gli ultimi, che avevano lavorato solo un’ora, sono stati trattati come loro che avevano sopportato il peso della giornata e il caldo.
Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, gli dice: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te:non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”
Le parole del padrone costituiscono la vera interpretazione della parabola. Con esse Gesù intende sottolineare che l’ingresso nel regno dei cieli non va considerato come una ricompensa dovuta per diritto, in base ai meriti personali, ma come un dono gratuito, espressione della misericordia infinita di Dio. La parabola termina con una massima che dovrebbe darne la chiave di lettura: “Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi”.
Il messaggio base della parabola nella predicazione di Gesù sottolinea una questione molto viva e dibattuta nella prima esperienza della Chiesa, cioè l’apertura universale a tutti i popoli e a tutte le culture.
La parificazione dei pagani nella Chiesa delle origini intaccava certi privilegi e certe logiche umane che ritenevano la salvezza un bene e un patrimonio nazionale e culturale, Lo stile di Gesù è invece identico per tutti, giudei e pagani, giusti e peccatori. L’antica alleanza, basata sul diritto e sulla giustizia, si apre – come aveva annunziato Geremia (31,21-34) – alla nuova alleanza fondata sulla grazia e sul perdono.
Il Regno è un dono di Dio e non un salario per le opere della legge; la salvezza non è una ricompensa contrattuale, ma è innanzitutto un’iniziativa divina fatta di amore e di comunione a cui l’uomo è invitato a partecipare con gioia e senza limitazioni. Il cristiano è, perciò, invitato a seguire lo stile del padrone della vigna, che è quello di Gesù, che non si basa prima di tutto sul merito, ma si lascia conquistare dall’amore gratuito che dona e fa credito anche a chi non ha diritti da accampare.
La manifestazione di un amore puro e totale è la perfetta imitazione del Padre celeste “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. (Mt 5,45)

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“Nell’odierna pagina evangelica troviamo la parabola dei lavoratori chiamati a giornata, che Gesù racconta per comunicare due aspetti del Regno di Dio: il primo, che Dio vuole chiamare tutti a lavorare per il suo Regno; il secondo, che alla fine vuole dare a tutti la stessa ricompensa, cioè la salvezza, la vita eterna.
Il padrone di una vigna, che rappresenta Dio, esce all’alba e ingaggia un gruppo di lavoratori, concordando con loro il salario di un denaro per la giornata: era un salario giusto. Poi esce anche nelle ore successive – cinque volte, in quel giorno, esce – fino al tardo pomeriggio, per assumere altri operai che vede disoccupati. Al termine della giornata, il padrone ordina che sia dato un denaro a tutti, anche a quelli che avevano lavorato poche ore. Naturalmente, gli operai assunti per primi si lamentano, perché si vedono pagati allo stesso modo di quelli che hanno lavorato di meno. Il padrone, però, ricorda loro che hanno ricevuto quello che era stato pattuito; se poi Lui vuole essere generoso con gli altri, loro non devono essere invidiosi.
In realtà, questa “ingiustizia” del padrone serve a provocare, in chi ascolta la parabola, un salto di livello, perché qui Gesù non vuole parlare del problema del lavoro o del giusto salario, ma del Regno di Dio! E il messaggio è questo: nel Regno di Dio non ci sono disoccupati, tutti sono chiamati a fare la loro parte; e per tutti alla fine ci sarà il compenso che viene dalla giustizia divina – non umana, per nostra fortuna! –, cioè la salvezza che Gesù Cristo ci ha acquistato con la sua morte e risurrezione. Una salvezza che non è meritata, ma donata – la salvezza è gratuita -, per cui «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».
Con questa parabola, Gesù vuole aprire i nostri cuori alla logica dell’amore del Padre, che è gratuito e generoso. Si tratta di lasciarsi stupire e affascinare dai «pensieri» e dalle «vie» di Dio che, come ricorda il profeta Isaia, non sono i nostri pensieri e non sono le nostre vie. I pensieri umani sono spesso segnati da egoismi e tornaconti personali, e i nostri angusti e tortuosi sentieri non sono paragonabili alle ampie e rette strade del Signore. Egli usa misericordia – non dimenticare questo: Egli usa misericordia –, perdona largamente, è pieno di generosità e di bontà che riversa su ciascuno di noi, apre a tutti i territori sconfinati del suo amore e della sua grazia, che soli possono dare al cuore umano la pienezza della gioia.
Gesù vuole farci contemplare lo sguardo di quel padrone: lo sguardo con cui vede ognuno degli operai in attesa di lavoro, e li chiama ad andare nella sua vigna. E’ uno sguardo pieno di attenzione, di benevolenza; è uno sguardo che chiama, che invita ad alzarsi, a mettersi in cammino, perché vuole la vita per ognuno di noi, vuole una vita piena, impegnata, salvata dal vuoto e dall’inerzia. Dio che non esclude nessuno e vuole che ciascuno raggiunga la sua pienezza. Questo è l’amore del nostro Dio, del nostro Dio che è Padre.
Maria Santissima ci aiuti ad accogliere nella nostra vita la logica dell’amore, che ci libera dalla presunzione di meritare la ricompensa di Dio e dal giudizio negativo sugli altri.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus 24 settembre 2017

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La liturgia di questa domenica tratta un tema difficile: il perdono. Con la nostra mentalità umana vorremmo stabilire una misura, una norma che ci dia soddisfacimento. Perdonare, sì, ma quante volte? L’arte del perdonare è difficile, ma non impossibile.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Siracide, troviamo un brano il cui contenuto supera non solo la legge del taglione, ma è una vera anticipazione sulla dottrina del “Padre “nostro” e del discorso della montagna. Tale dottrina si fonda sulla condivisione che si è tutti bisognosi di perdono.
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera ai romani, parla delle relazioni fra i cristiani di diversa tradizione, che a motivo appunto della loro diversità determinano pluralismo nell’espressione della fede. L’amore del prossimo è la legge nuova di Cristo, fonte, maestro e modello della carità senza limiti e senza distinzioni.
Nel Vangelo, Matteo ci riporta che, per rispondere alla domanda di Pietro su quante volte deve perdonare il fratello che commette una colpa, il Signore Gesù formula la sua risposta riprendendo il bel numero simbolico di 7 che aveva proposto Pietro, in una moltiplicazione tale da proporre una completezza senza limiti: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” vale a dire “Bisogna perdonare sempre” E poi espone la parabola il cui senso è che Dio perdona gratuitamente il peccato a chi gli chiede perdono, dimostrando una benevolenza e una misericordia senza limiti.

Dal libro del Siràcide
Rancore e ira sono cose orribili,
e il peccatore le porta dentro.
Chi si vendica subirà la vendetta del Signore,
il quale tiene sempre presenti i suoi peccati.
Perdona l’offesa al tuo prossimo
e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.
Un uomo che resta in collera verso un altro uomo,
come può chiedere la guarigione al Signore?
Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile,
come può supplicare per i propri peccati?
Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore,
come può ottenere il perdono di Dio?
Chi espierà per i suoi peccati?
Ricòrdati della fine e smetti di odiare,
della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti.
Ricorda i precetti e non odiare il prossimo,
l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.
Sir 27, 30 - 28, 9

Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico.
Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo.
È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C. che nel prologo spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C.. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.
Il libro è composto da 51 capitoli e si divide in due grandi sezioni, nella prima delle quali sono esposti gli insegnamenti della Sapienza (Sir 1,1-42,14), mentre nella seconda si descrive l’opera della Sapienza nella natura e nella storia (Sir 42,15-50,26). Il punto culminante della prima di queste due sezioni è rappresentato dal carme chiamato “elogio della Sapienza” (Sir 24,1-21): questo brano divide la sezione in due parti, di cui la prima (Sir1,1-23,27) focalizza l’attenzione sulla sapienza che ogni essere umano percepisce nella sua coscienza, mentre la seconda (Sir 24,1-42,14) mette maggiormente in luce la sapienza che proviene dalla legge.
Da questa seconda parte è tratto il brano liturgico che consiste in una piccola raccolta di massime riguardanti il perdono.
Nella prima massima si dà un giudizio molto severo su due atteggiamenti abbastanza comuni nei confronti del prossimo: “Rancore e ira sono cose orribili,e il peccatore le porta dentro.” Mentre l’ira implica una reazione immediata ed emotiva nei confronti di chi ha arrecato un’offesa, il rancore cova il desiderio di vendetta che uno tiene dentro di sè magari per lungo tempo. Ciascuno di questi due atteggiamenti sono consideriate “cose orribili” e sono quindi considerati come peccati di carattere religioso.
Le cinque massime successive approfondiscono le implicazioni religiose di alcuni comportamenti negativi in campo sociale. Anzitutto si affronta il tema della vendetta: “Chi si vendica subirà la vendetta del Signore,il quale tiene sempre presenti i suoi peccati”. Si suppone che ogni essere umano abbia dei conti in sospeso con Dio: chi si vendica per le offese che riceve si pone nella situazione di ricevere su di sé, di rimando, la vendetta di Dio per le offese che lui stesso gli ha arrecato.
La massima successiva riguarda invece il perdono:”Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.” La preghiera che uno rivolge a Dio per ottenere il perdono dei suoi peccati è fruttuosa solo se egli per primo perdona il suo prossimo.
Ritorna poi il tema della collera: “Un uomo che resta in collera verso un altro uomo,come può chiedere la guarigione al Signore?” La malattia veniva spesso considerata come la punizione per un peccato commesso, perchè se uno mantiene in sé la collera verso il prossimo pone un ostacolo al perdono di Dio e quindi impedisce la guarigione che solo il perdono prima concesso potrebbe favorire.
La massima successiva parla della misericordia: “Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile,
come può supplicare per i propri peccati?”
Il termine “misericordia” di Dio si esprime con la radice r-h-m da cui il termine ebraico rahamim, plurale o accrescitivo di rehem, utero, seno materno. (V Is 54,8): essa indica dunque l’atteggiamento di compassione e di tenerezza della madre per il proprio figlio. Dio dimostra questa misericordia verso Israele Suo popolo soprattutto perdonando i suoi peccati. Ma nessuno può aspettarsi la misericordia da parte di Dio se la persona stessa non la esercita verso il suo “simile”.
Un’altra massima riprende il tema del rancore: “Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore,
come può ottenere il perdono di Dio? Chi espierà per i suoi peccati?“ Dio ha più motivi per conservare rancore, poiché la Sua dignità è infinitamente superiore a quella dell’uomo che lo offende; se quindi l’uomo che è solo una creatura debole e limitata, mantiene rancore verso uno che è sul suo stesso livello, non può aspettarsi di veder perdonati i propri peccati da parte di Colui che gli è immensamente superiore.
Le ultime due massime del brano richiamano l’attenzione sul rapporto tra perdono e osservanza dei comandamenti. Ambedue iniziano con l’invito a ricordare: ciò che il Signore ha fatto per il popolo durante il cammino dell’esodo. Questa è la premessa e la condizione essenziale, come è scritto nel Deuteronomio, per poter osservare la legge di Dio (8,18-19).
La prima massima è formata da due frasi parallele: “Ricòrdati della fine e smetti di odiare, della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti”.. Il ricordo qui ha per oggetto la propria fine, con il binomio “dissoluzione e morte”. Il ricordo di quello che lo aspetta in quel momento avrà come esito da un lato l’eliminazione dell’odio e dall’altro l’osservanza dei comandamenti. Il pensiero della propria fine comporta dunque l’osservanza dei comandamenti che a sua volta si manifesta nel perdono.
Nella frase successiva l’ordine è capovolto: “Ricorda i precetti e non odiare il prossimo, l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui”. Questa volta è il ricordo dei comandamenti che produce come effetto principale il “non odiare il prossimo”, perché il ricordo dell’alleanza invita a non tener conto dell’offesa subita.
Per sintetizzare il Siracide ci vuole dire che il rancore nei confronti del fratello è come uno schermo che interrompe anche il dialogo con Dio. Se tu perdoni al fratello, anche Dio ti perdonerà; se tu sei implacabile, anche Dio lo sarà con te.

Salmo 103 - Il Signore, è buono e grande nell’amore

Benedici il Signore, anima mia!
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici

Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia

Non è in lite per sempre,
non rimane adirato in eterno.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe.

Perchè quanto il cielo è alto sulla terra
Così la sua misericordia è potente
Su quelli che lo temono;
Quanto dista l’oriente dall’occidente,
Così egli allontana da noi le nostre colpe.

La critica è incline a datare la composizione di questo salmo nel tardo postesilio.
Il salmista esorta se stesso a benedire il Signore, e a non “dimenticare tutti i suoi benefici”. Questo ricordare è importantissimo nei momenti dolorosi per non cadere nello scoraggiamento e al contrario stabilirsi in una grande fiducia in Dio. Il salmista non presenta grandi tormenti storici della nazione; pare di poter indovinare normalità di vita attorno a lui. Egli si presenta a Dio come colpevole di numerose mancanze, ma ha sperimentato la misericordia di Dio, che lo ha salvato da angosce e anche probabilmente da una malattia grave: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità; salva dalla fossa la tua vita”.
Il salmista non cessa di celebrare la bontà, la giustizia di Dio, e prova una grande dolcezza nel fare questo: una dolcezza pacificante: “Ti circonda di bontà e di misericordia”.
Il salmista, fedele all'alleanza, loda Dio per la legge data per mezzo di Mosè: “Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele ”. Ma Dio non ha dato a Mosè solo la legge, ha anche dato l'annuncio del Cristo futuro, dal quale abbiamo la grazia e la verità (Cf. Gv 1,17). La misericordia di Dio celebrata dal salmista si è manifestata per mezzo di Gesù Cristo.
Il salmista si sente sicuro, compreso da Dio, che agisce sul suo popolo con la premura di un padre verso i figli. Un padre che “ricorda che noi siamo polvere”, e che perciò pur rilevando le colpe è pronto a perdonare pienamente: “Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno”.
L'alleanza osservata è fonte di bene, di unione con Dio. Egli effonde “la sua giustizia”, cioè la sua protezione dal male, sui “figli dei figli”.
Il salmista pieno di gioia conclude invitando tutti gli angeli a benedire Dio. Gli angeli non hanno bisogno di essere esortati a benedire Dio, ma certo possono essere invitati a rafforzare il nostro benedire Dio. Per una lode universale sono invitate a benedire Dio tutte le cose create (Cf. Ps 18,1s): “Benedite il Signore, voi tutte opere sue”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai romani
Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore.
Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.
Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.
Rm 14, 7-9

L’Apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Romani esorta all’accoglienza reciproca, mettendo così a fuoco il problema che divide la comunità (Rm 14,1-12); suggerisce poi i criteri a cui devono ispirarsi per dirimere la controversia (Rm 14,13-21).
In seguito si concentra brevemente sul tema della fede (Rm 14,22-23) e, rivolgendosi ai forti, presenta loro Cristo come modello di comportamento (Rm 15,1-6). Infine riprende nuovamente il tema dell’accoglienza ponendo l’accento sull’esempio di Cristo (Rm 15,7-13).
Il testo liturgico si limita a proporre alcuni versetti del capitolo 14. Nei versetti non citati dal brano liturgico si riporta
che nella comunità di Roma si contrappongono due fazioni: alla primo appartiene chi “crede di poter mangiare di tutto”, mentre all’altra, quello dei deboli, aderisce chi “mangia solo legumi”. La preoccupazione per l’osservanza di particolari norme alimentari era una consuetudine anche nell’antichità .Tuttavia le parole di Paolo contemplano l’ambito giudaico, dove esistevano norme minuziose circa la purità dei cibi: la consumazione di soli legumi richiama in particolare il comportamento dei tre giovani deportati a Babilonia, i quali si limitavano a questo cibo per non contaminarsi con i pasti serviti a corte (Dn 1,8.11-13). Le due fazioni si contrappongono anche per quanto riguarda l’osservanza di particolari feste religiose ereditate dal giudaismo.
Paolo riconosce la legittimità di questi diversi comportamenti: infatti sia chi si preoccupa di cibi o di feste, sia chi non vi presta attenzione, non lo fa per motivi egoistici, ma per il Signore, cioè allo scopo di rendergli onore e ringraziamento.
A questo punto ha inizio il brano liturgico, nel quale Paolo fa alcune considerazioni conclusive di carattere generale. Anzitutto egli afferma: “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso”
I due verbi “vivere” e “morire” indicano la totalità dell’esistenza umana. Per Paolo il credente, in quanto tale, non può vivere una vita egoistica, tutta orientata alla ricerca del proprio interesse e della propria soddisfazione personale; in questa prospettiva anche la morte non può essere vissuta come un evento che riguarda unicamente l’individuo. La vita del credente deve essere orientata diversamente: “perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore”.
Tutta la vita del credente, fino al momento conclusivo della morte, assume il suo vero significato solo se è vissuta “per il Signore”, cioè in un rapporto esistenziale con Colui che l’ha donata (V Gal 2,20 e ciò implica la totale appartenenza al Signore Gesù.
Il brano si conclude con l’affermazione: “Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi”. L’espressione “vivi e morti” indica la totalità degli esseri umani, che si trovano rispettivamente in questo mondo o nel regno dei morti. A motivo della Sua morte e risurrezione Cristo è diventato la “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20) ossia Colui che un giorno darà la vita a coloro che credono in Lui. Il cristiano che ha accettato di diventare partecipe della morte e risurrezione di Cristo è talmente attratto da Lui che può dire come Paolo (Gal2,20) che non è più lui che vive, ma è Cristo che vive in lui. E’ rapportandosi a Cristo il credente ritrova il senso vero della sua vita, e di conseguenza trova spontaneo aprirsi all’altro e amarlo come Cristo lo ama.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Mt 18, 21-35

Il brano liturgico riporta la seconda parte del quarto discorso di Gesù iniziato domenica scorsa in cui l’evangelista Matteo ha composto come una piccola catechesi sul tema della vita ecclesiale.
Questa parte si apre con una domanda di Pietro, il quale si avvicina a Gesù e gli chiede: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
La domanda di Pietro ha per oggetto il tema del perdono, che nella Bibbia è intimamente connesso con quello dell’amore (V. Lv 19,17-18). Alcuni testi biblici invitavano a concedere il perdono per almeno tre volte, come Dio “che perdona l’uomo due, tre volte ” secondo quanto è scritto nel Libro di Giobbe (33,29)
Pietro sicuramente si sarà sentito generoso proponendo un perdono fino a sette volte, un numero che simboleggia la perfezione, ma che pone comunque un limite al perdono.
Gesù allora gli risponde: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.”
Gesù perciò va oltre spezzando ogni concezione quantitativa del perdono.
Egli ribalta il terribile canto della violenza pronunziato da Lmech in Genesi 4,24 “Sette volte sarà vendicato Caino ma Lamech settantasette”.ed esige così dai suoi discepoli il perdono illimitato, espresso attraverso la cifra simbolica esorbitante di “settanta volte sette”.
Qui Gesù aggiunge una parabola dimostrativa che inizia con la .consueta introduzione:
“Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi”…
È chiaro che la parabola non vuole descrivere che cosa avviene nel regno dei cieli, ma solo proporre una situazione che può illustrarne un aspetto particolare. Il re simboleggia chiaramente Dio. I suoi servi non sono certamente dei semplici servitori, ma dei collaboratori ad alto livello, come apparirà subito dal primo e unico che è stato chiamato a rapporto. Colui che si presenta al re per rendere conto è un personaggio che gli deve ben diecimila talenti . Questa somma era quanto mai esorbitante basti pensare che il valore del talento oscillava tra i seimila e diecimila denari, che corrispondevano ad altrettante dracme. Per un confronto, basti pensare che, secondo G. Flavio, il reddito annuo dei possedimenti di Archelao era di 600 talenti, di Erode Antipa era di 200 talenti (Antichità giudaiche 17,318-320).
È chiaro dunque che si tratta di un debito enorme: colui che l’ha contratto deve quindi essere un dignitario di corte o forse un gran possidente.
Siccome costui non può restituire la somma dovuta, il re ordina che sia venduto come schiavo con tutta la sua famiglia e che tutti i suoi beni siano confiscati . Questi però supplica il re di avere pazienza e gli promette di restituirgli la somma dovuta; il re allora si impietosisce e gli condona il debito.
Nella seconda scena la situazione si capovolge. Colui a cui è stato condonato questo debito, incontra un suo collega debitore nei suoi confronti di cento denari, lo afferra e quasi lo soffoca pretendendo la restituzione immediata del dovuto. La somma di cento denari, che corrisponde al salario di cento giornate lavorative di un operaio ordinario, messa a confronto con i diecimila talenti è una cifra irrisoria. Questo servo reagisce esattamente come aveva fatto lui con il re: si butta a terra e lo supplica di avere pazienza e quanto prima restituirà il dovuto. Ma la finale invece è totalmente diversa perchè questa volta il servo non ne vuole sapere e lo fa gettare in carcere finché non abbia pagato il debito.
Il confronto tra i due comportamenti è spontaneo, e viene fatto da coloro che ne sono testimoni: essi ne restano molto addolorati e vanno a riferirlo al re. Il Signore allora fa comparire davanti a sé il servo a cui aveva condonato l’enorme debito e, chiamandolo “servo malvagio”, gli ricorda che gli aveva condonato tutto il debito semplicemente perché lo aveva implorato e gli chiede: “Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”.
Questa domanda si ispira alla regola d’oro che impone di fare agli altri quello che si desidera per sé. In essa ciò che viene condannato è l’assenza non tanto del condono, quanto piuttosto della pietà che lo avrebbe dovuto ispirare. Il racconto termina con il gesto del padrone che, adirato, revoca il condono accordato precedentemente e getta il servo in carcere finché abbia pagato tutto il dovuto
L’applicazione della parabola non richiede molte parole: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”
La lezione che Gesù dà ai suoi discepoli e a noi oggi è limpida e non ammette eccezioni. Il discepolo deve essere sempre pronto e gioioso nel concedere il perdono senza ricorrere a scusanti o a distinzioni vane sul modello del “perdonare ma non dimenticare”. Ma questo perdono dato al fratello ha una radice profonda: dobbiamo infatti riconoscere che noi per primi siamo dei perdonati da Dio.
Scriveva S.Agostino: “Perdonati, perdoniamo!” , “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (Mt 5,7) .

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“Il brano evangelico di questa domenica ci offre un insegnamento sul perdono, che non nega il torto subito ma riconosce che l’essere umano, creato ad immagine di Dio, è sempre più grande del male che commette.
San Pietro domanda a Gesù: «Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». A Pietro sembra già il massimo perdonare sette volte a una stessa persona; e forse a noi sembra già molto farlo due volte. Ma Gesù risponde: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette», vale a dire sempre: tu devi perdonare sempre. E lo conferma raccontando la parabola del re misericordioso e del servo spietato, nella quale mostra l’incoerenza di colui che prima è stato perdonato e poi si rifiuta di perdonare.
Il re della parabola è un uomo generoso che, preso da compassione, condona un debito enorme – “diecimila talenti”: enorme – a un servo che lo supplica. Ma quello stesso servo, appena incontra un altro servo come lui che gli deve cento denari – cioè molto meno –, si comporta in modo spietato, facendolo gettare in prigione. L’atteggiamento incoerente di questo servo è anche il nostro quando rifiutiamo il perdono ai nostri fratelli. Mentre il re della parabola è l’immagine di Dio che ci ama di un amore così ricco di misericordia da accoglierci, e amarci e perdonarci continuamente.
Fin dal nostro Battesimo Dio ci ha perdonati, condonandoci un debito insolvibile: il peccato originale. Ma, quella è la prima volta. Poi, con una misericordia senza limiti, Egli ci perdona tutte le colpe non appena mostriamo anche solo un piccolo segno di pentimento. Dio è così: misericordioso. Quando siamo tentati di chiudere il nostro cuore a chi ci ha offeso e ci chiede scusa, ricordiamoci delle parole del Padre celeste al servo spietato: «Io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». Chiunque abbia sperimentato la gioia, la pace e la libertà interiore che viene dall’essere perdonato può aprirsi alla possibilità di perdonare a sua volta.
Nella preghiera del Padre Nostro, Gesù ha voluto inserire lo stesso insegnamento di questa parabola. Ha messo in relazione diretta il perdono che chiediamo a Dio con il perdono che dobbiamo concedere ai nostri fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» . Il perdono di Dio è il segno del suo straripante amore per ciascuno di noi; è l’amore che ci lascia liberi di allontanarci, come il figlio prodigo, ma che attende ogni giorno il nostro ritorno; è l’amore intraprendente del pastore per la pecora perduta; è la tenerezza che accoglie ogni peccatore che bussa alla sua porta.
Il Padre celeste – nostro Padre – è pieno, è pieno di amore e vuole offrircelo, ma non lo può fare se chiudiamo il nostro cuore all’amore per gli altri.
La Vergine Maria ci aiuti ad essere sempre più consapevoli della gratuità e della grandezza del perdono ricevuto da Dio, per diventare misericordiosi come Lui, Padre buono, lento all’ira e grande nell’amore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 settembre 2017

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa domenica tratta un tema importante, ma sempre attuale, la correzione fraterna, che è un dovere da compiere però con discrezione e carità, e ci indica i modi migliori per farla.
Nella prima lettura, il profeta Ezechiele afferma che ciascun uomo potrebbe essere responsabile del male che commettono gli altri, perchè mancare di richiamare alla rettitudine il fratello che sbaglia equivale a rendersi complice del suo peccato, lasciando che questi si illuda di trovarsi nel giusto. Tuttavia la sua responsabilità si ferma davanti alla libera scelta del fratello che può rimanere indifferente o persino ostile e infastidito dal richiamo.
Nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Romani, Paolo ci dice che l’amore del prossimo è la legge nuova di Cristo, fonte, maestro e modello della carità senza limiti e senza distinzioni, e al termine afferma: pienezza della Legge è la carità. Lo scopo di tutta la Legge era precisamente quello di evitare il male in tutti i suoi aspetti, e per raggiungere questo scopo l’unico mezzo efficace è l’amore. La legge non è quindi trascurata ma è pienamente contenuta nel comandamento dell’amore
Nel Vangelo di Matteo, Gesù richiama alla correzione fraterna e al perdono. E' moralmente doveroso richiamare quanti sono nell'errore, ma è importantissimo farlo come un atto di amore e di sollecitudine per rendere consapevole l'altro del proprio errore attraverso argomenti convincenti. Chi riceve la correzione deve infatti sentirsi a proprio agio e avvertire la certezza che il rimprovero subito non è che un atto di amore nei suoi confronti.
E’ consolante come questo brano del Vangelo si conclude, Gesù infatti al termine dice”… dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro!, perché è una promessa per tutti! Gesù, infatti, non dice "dove due o tre santi..." o "dove due o tre perfetti", la Sua presenza è offerta a tutti, qualunque sia il loro merito.

Dal libro del profeta Ezechiele
Mi fu rivolta questa parola del Signore: «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.
Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te. Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato».
Ez 33,7-9

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo. Usò immagini di grande potenza evocativa, specie negli oracoli di condanna, ebbe toni ed espressioni particolarmente duri ed efficaci.
Nel brano che abbiamo Dio si rivolge ad Ezechiele dicendo di averlo costituito sentinella per gli israeliti: Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia.. Ma diversamente però dalla sentinella, la quale vede avvicinarsi i nemici, il profeta è avvertito da Dio stesso quando una sventura sta per abbattersi sul popolo. Il profeta è infatti il portavoce di Dio, l’uomo sulla cui bocca Dio pone la Sua parola (Dt 18,18). Osea scriveva che il profeta è come il trombettiere dell’esercito che “Dá fiato alla tromba!”(8,1) . E’ quindi, una missione da compiere in prima linea con rischi, ma anche con un impegno straordinario perchè essa coinvolge il destino di molti altri.
Vengono poi prospettate delle possibilità: “Se io dico al malvagio: “Malvagio, tu morirai”, e tu non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te... Se il profeta viene meno al suo compito, la rovina si abbatterà comunque sull’empio: ciò significa che questi doveva sapere che prima o poi la sua empietà sarebbe stata punita.
Ma il profeta reticente avrà la sua parte di responsabilità, della quale dovrà rendere conto a Dio. Egli infatti è venuto meno al suo dovere, rendendo inefficace l’ultima possibilità offerta da Dio al malvagio.
Poi c’è la seconda possibilità: “Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato”.
Se il profeta si è mosso a tempo e ha fatto sapere all’empio quello che lo aspetta ed egli non si è convertito, allora la responsabilità è tutta sua: egli solo ne pagherà le conseguenze, mentre il profeta non ne sarà responsabile. Il brano sottolinea la responsabilità che non solo il profeta, ma ogni credente, ha nei confronti di coloro che sbagliano.
Per Ezechiele vale il principio secondo cui nessuno può salvarsi da solo. Perciò chi assiste al male compiuto da un altro non può disinteressarsi, lavandosene le mani, lasciando che egli vada incontro alla rovina. L’impegno in favore del fratello che sbaglia deve però arrestarsi di fronte alla sua libertà: nessuno è autorizzato ad intervenire con la forza per impedirgli di compiere il male. Nessuno può, soprattutto, sostituirsi a Dio, il quale vuole la conversione dell’empio e non gradisce il bene se è compiuto per forza.

Salmo 94 Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.

Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.

Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».

Il salmo è un invito alla preghiera durante una visita al tempio, probabilmente durante la festa delle capanne, che celebrava il cammino nel deserto (Cf. Dt 31,11), visto che il salmo ricorda l'episodio di Massa e Meriba.
Dio è presentato come “roccia della nostra salvezza”, indicando la roccia la sicurezza data da Dio di fronte ai nemici.
Egli è “grande re sopra tutti gli dei”; sono gli dei concepiti dai pagani, dietro i quali striscia l'azione dei demoni. Egli è colui che ha in suo potere ogni cosa: “Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti...”.
Il gruppo orante è invitato ad accostarsi a Dio, cioè ad entrare nell'atrio del tempio. Successivamente il gruppo è invitato a prostrarsi davanti al Signore. Segue l'invito ad ascoltare la voce del Signore. Nel silenzio dell'adorazione davanti al tempio Dio muove il cuore (“la sua voce”) indirizzandolo al bene, all'obbedienza dei comandamenti, al cambiamento della vita.
“Non indurite il cuore”; il cuore indurito non ascolta la voce del Signore e segue i suoi pensieri, ma si troverà a vagare nei deserti di un'esistenza senza Dio, senza alcun riposo
Commento di Padre Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai romani
Fratelli, non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge.
Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della legge infatti è la carità
Rm 13,8-10

Paolo, nella prima parte del capitolo 13 della Lettera ai Romani, aveva messo in luce l’atteggiamento che i cristiani di Roma dovevano assumere nei confronti delle autorità dello Stato. L’invito a pagare le tasse, che prima aveva esposto, offre a Paolo lo spunto per fare un discorso più ampio circa i doveri sociali del cristiano. Questo brano inizia con un’esortazione: “non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole” . Gli obblighi infatti verso l’autorità civile, come qualsiasi altro debito, quando sono pagati, non esistono più, mentre c’è un debito che non può essere pagato una volta per tutte, quello cioè che esige di amarsi “l’un l’altro”. A questa esortazione fa seguito immediatamente la motivazione: “perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge”.
A questo punto Paolo dà un’ulteriore spiegazione: “Infatti: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai», e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».”
I comandamenti che Paolo porta come esempio sono ricavati dal decalogo ma egli sottolinea la ragione e conclude affermando: “La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della legge infatti è la carità”.
Lo scopo di tutta la legge è precisamente quello di evitare il male in tutti i suoi aspetti, e per raggiungere questo scopo l’unico mezzo efficace è l’amore: perciò l’amore è la “pienezza della legge”. La legge non è quindi trascurata, ma è pienamente contenuta nel comandamento dell’amore.
Secondo Paolo i comandamenti della legge restano dunque validi, ma quasi scompaiono di fronte al comandamento dell’amore, così come anche questo perde la sua importanza quando la persona ha scoperto come l’amore sia la parte essenziale e naturale della propria esistenza. Chi ha compreso come l’Amore sia esigente, sa con chiarezza che cosa è bene e che cosa è male e non può sbagliare se obbedisce all’impulso interiore dello Spirito. Soltanto su un amore così inteso e vissuto è possibile fondare la vita di una comunità capace di aprirsi alla ricerca di un bene veramente universale.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
Mt 18, 15-20

Questo quarto discorso di Gesù che l’evangelista Matteo ci riporta consiste in una raccolta di detti che hanno come tema centrale la vita della Chiesa.
Tutta la struttura del discorso parte da due domande poste dai discepoli che volevano sapere chi fosse il più grande nel regno dei cieli e quella di Pietro che chiedeva quante volte doveva perdonare.
Il brano liturgico si struttura con la presentazione di cinque ipotesi e la relativa soluzione, e termina con una frase conclusiva.
La prima ipotesi è presentata così: “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello”.
Questa azione è al primo livello quella compiuta nel “segreto”: il dialogo personale, infatti, stabilisce un’intimità che permette di sciogliere le incomprensioni e di rispettare meglio la dignità e l’onore del fratello. Il dovere di intervenire non si limita solo al caso di un’offesa personale, ma si estende a tutte le occasioni in cui emerge nella comunità un comportamento contrario allo spirito del vangelo.
L’esigenza di intervenire si contempla anche nel Libro del Levitico dove si dice: “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d’un peccato per lui” (Lv 19,17) Con il riconoscimento del proprio errore da parte di chi ha sbagliato il caso resta chiuso e non viene richiesta nessuna procedura ulteriore.
Nel caso che l’ammonizione a tu per tu sia rifiutata, si richiede un secondo tentativo: “se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.”
Questa azione al secondo livello è quello dei “testimoni”. Perciò prima di mettere in pubblico la mancanza commessa dal fratello viene richiesto l’intervento privato di due o tre membri della comunità. Questo passo è suggerito anche dal Deuteronomio : “Un solo testimone non avrà valore contro alcuno (...); qualunque peccato (Dt 19,15).questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni”.
È possibile che neppure l’intervento delle due o tre persone chiamate in causa risolva il problema. Perciò il testo continua con altri due supposizioni: “Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano”. Ossia se neanche così è disposto ad assumersi le proprie responsabilità, egli deve essere trattato come un pagano e un pubblicano. Nella mentalità giudaica ciò significa essere allontanato dalla comunità, ossia scomunicato.
Il motivo di un provvedimento così rigoroso è sicuramente determinato non tanto per ragioni punitive, quanto per la preoccupazione di evitare di scandalizzare i fratelli più deboli e di mantenere sano il livello di vita della comunità. Una decisione analoga, è contemplata anche nella parabola dell’invitato a nozze privo dell’abito nuziale (V. Mt 22,11-13), ed è richiesta anche da Paolo nei confronti dell’incestuoso di Corinto (V,1Cor 5,4-5).
Dopo aver indicato come comportarsi col fratello che sbaglia, Matteo conclude:
“In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.”
Questo detto richiama da vicino quello con cui nel vangelo di Giovanni, Gesù risorto assegna ai Suoi discepoli il compito di perdonare o non perdonare i peccati (V.Gv 20,23), cioè di annunziare a tutto il mondo la riconciliazione operata da Cristo. In questo caso il detto mette in primo piano il potere assegnato alla comunità di prendere decisioni autorevoli circa i suoi membri.
Al termine del brano riguardante la correzione fraterna, Matteo riporta due massime strettamente collegate al brano precedente. Nella prima di esse dice: “se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà.” ossia solo se la preghiera è sincera e parte dal cuore dei fratelli potrà essere esaudita.
In questo caso la preghiera è suggerita dalla sollecitudine per i fratelli che hanno sbagliato, e ha come scopo la loro conversione e la loro riammissione nella comunità.
A spiegazione di questo detto viene affermato:
“Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”.
La forza della preghiera comunitaria dipende dalla presenza di Cristo che unisce tra di loro nel Suo nome i fratelli, i quali hanno aderito alla Sua parola e alla Sua persona e sono partecipi della Sua stessa fede.
Una frase simile la si trova anche nei testi rabbinici : “Se due stanno insieme e in mezzo a loro ci sono le parole della Torah, in mezzo a loro sta la Shekinàh (Dio)” La differenza sta nel fatto che il vincolo che unisce i discepoli non sono le parole della legge, ma la persona del Cristo risuscitato, nel quale Dio si rende presente in mezzo a loro.
Una comunità riconciliata è il segno tangibile della presenza di Dio non solo in mezzo ai credenti, ma in tutta l’umanità. Solo la preghiera perciò può riconciliare non solo il fratello che sbaglia, ma anche tutta l’umanità immersa nell’errore.

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“Il Vangelo di questa domenica, tratto dal capitolo 18° di Matteo, presenta il tema della correzione fraterna nella comunità dei credenti: cioè come io devo correggere un altro cristiano quando fa una cosa non buona. Gesù ci insegna che se il mio fratello cristiano commette una colpa contro di me, mi offende, io devo usare carità verso di lui e, prima di tutto, parlargli personalmente, spiegandogli che ciò che ha detto o ha fatto non è buono. E se il fratello non mi ascolta? Gesù suggerisce un progressivo intervento: prima, ritorna a parlargli con altre due o tre persone, perché sia più consapevole dello sbaglio che ha fatto; se, nonostante questo, non accoglie l’esortazione, bisogna dirlo alla comunità; e se non ascolta neppure la comunità, occorre fargli percepire la frattura e il distacco che lui stesso ha provocato, facendo venir meno la comunione con i fratelli nella fede.
Le tappe di questo itinerario indicano lo sforzo che il Signore chiede alla sua comunità per accompagnare chi sbaglia, affinché non si perda. Occorre anzitutto evitare il clamore della cronaca e il pettegolezzo della comunità – questa è la prima cosa, evitare questo -. «Va’ e ammoniscilo fra te e lui solo» . L’atteggiamento è di delicatezza, prudenza, umiltà, attenzione nei confronti di chi ha commesso una colpa, evitando che le parole possano ferire e uccidere il fratello. Perché, voi sapete, anche le parole uccidono! Quando io sparlo, quando io faccio una critica ingiusta, quando io “spello” un fratello con la mia lingua, questo è uccidere la fama dell’altro! Anche le parole uccidono. Facciamo attenzione a questo. Nello stesso tempo questa discrezione di parlargli da solo ha lo scopo di non mortificare inutilmente il peccatore. Si parla fra i due, nessuno se ne accorge e tutto è finito. È alla luce di questa esigenza che si comprende anche la serie successiva di interventi, che prevede il coinvolgimento di alcuni testimoni e poi addirittura della comunità. Lo scopo è quello di aiutare la persona a rendersi conto di ciò che ha fatto, e che con la sua colpa ha offeso non solo uno, ma tutti. Ma anche di aiutare noi a liberarci dall’ira o dal risentimento, che fanno solo male: quell’amarezza del cuore che porta l’ira e il risentimento e che ci portano ad insultare e ad aggredire. E’ molto brutto vedere uscire dalla bocca di un cristiano un insulto o una aggressione. E’ brutto. Capito? Niente insulto! Insultare non è cristiano. Capito? Insultare non è cristiano.
In realtà, davanti a Dio siamo tutti peccatori e bisognosi di perdono. Tutti. Gesù infatti ci ha detto di non giudicare. La correzione fraterna è un aspetto dell’amore e della comunione che devono regnare nella comunità cristiana, è un servizio reciproco che possiamo e dobbiamo renderci gli uni gli altri. Correggere il fratello è un servizio, ed è possibile ed efficace solo se ciascuno si riconosce peccatore e bisognoso del perdono del Signore. La stessa coscienza che mi fa riconoscere lo sbaglio dell’altro, prima ancora mi ricorda che io stesso ho sbagliato e sbaglio tante volte.
Per questo, all’inizio della Messa, ogni volta siamo invitati a riconoscere davanti al Signore di essere peccatori, esprimendo con le parole e con i gesti il sincero pentimento del cuore. E diciamo: “Abbi pietà di me, Signore. Io sono peccatore!. Confesso, Dio Onnipotente, i miei peccati”. E non diciamo: “Signore, abbi pietà di questo che è accanto a me, o di questa, che sono peccatori”. No! “Abbi pietà di me!”. Tutti siamo peccatori e bisognosi del perdono del Signore. È lo Spirito Santo che parla al nostro spirito e ci fa riconoscere le nostre colpe alla luce della parola di Gesù. Ed è lo stesso Gesù che ci invita tutti, santi e peccatori, alla sua mensa raccogliendoci dai crocicchi delle strade, dalle diverse situazioni della vita (cfr Mt 22,9-10). E tra le condizioni che accomunano i partecipanti alla celebrazione eucaristica, due sono fondamentali, due condizioni per andare bene a Messa: tutti siamo peccatori e a tutti Dio dona la sua misericordia. Sono due condizioni che spalancano la porta per entrare a Messa bene. Dobbiamo sempre ricordare questo prima di andare dal fratello per la correzione fraterna.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 7 settembre 2014

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa domenica ci indica quale sia la via per seguire Gesù: incamminarsi con Lui verso la Croce, perchè chi vuol essere con Lui, deve accettare di rischiare la propria vita, seguendo il Suo esempio.
Nella prima lettura, vediamo come il profeta Geremia vorrebbe sottrarsi al compito che Dio gli ha affidato. E’ una confessione dolorosa che il profeta fa delle ostilità che la sua vocazione profetica incontra, ma alla fine riconosce che la Parola di Dio è divenuta più forte di lui, è come un fuoco che gli brucia dentro, che non può più contenere. Il profeta anticipa la figura del servo sofferente, immagine di Gesù.
Nella seconda lettura, dalla lettera ai Romani, San Paolo ci esorta a non comportarci secondo la logica del mondo che non conosce Cristo, ma di imparare a discernere per lasciarci poi trasformare dallo Spirito nella ricerca del volere di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
Il Vangelo di Matteo, ci presenta Gesù che rivela ai suoi discepoli il senso del suo essere Messia: non il successo e la fama, ma lo scandalo della croce. Gesù alle pretese di Pietro, che a nome degli altri apostoli, aveva commentato «... Signore questo non ti accadrà mai» gli rivela che chi non accetta la logica della croce non pensa secondo Dio, ma secondo gli uomini. Poi aggiunge, rivolto ai suoi discepoli di allora, e a noi oggi:”Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.” Questo è il paradosso cristiano: perdersi per ritrovarsi in Dio; spendersi per acquistare, servire per essere dalla parte di Dio; donare la vita per vivere da risorti.

Dal libro del profeta Geremìa
Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;
mi hai fatto violenza e hai prevalso.
Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno;
ognuno si beffa di me.
Quando parlo, devo gridare, devo urlare: «Violenza! Oppressione!».
Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno.
Mi dicevo: «Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!».
Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo.
Ger 20,7-9

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C). Incompreso, perseguitato, spesso minacciato di morte, Geremia, timido ma amico di Dio, non cessa di lanciare angosciati appelli alla conversione, non esita a mostrare a dito i responsabili che hanno deviato il popolo. Egli se la prende con la falsa coscienza dei benpensanti che si credono nel giusto, solo perchè osservano le pratiche religiose, senza viverle nell’animo.
Questo brano riporta i noti versetti:“Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;mi hai fatto violenza e hai prevalso,” che sono tratti dal cap. 20, e fanno parte dell’ultima sezione delle celebri confessioni; contengono parole impressionanti, ma si troveranno ancora di più sconcertanti nei versetti successivi non riportati dalla Liturgia. Il profeta si sente ingannato da Dio che lo ha reso, a causa della sua missione, un escluso dalla società, vorrebbe ribellarsi infatti dice: Mi dicevo: "Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!". Lui si propone questo, un po’ come un uomo innamorato di una donna che dice a sé stesso "Non penserò più a lei!” ma poi si rende conto che il suo amore è più forte di lui, non lo può controllare e capisce che “è come un fuoco ardente, chiuso nelle sue ossa, che non si può contenere” . La sua vocazione, è divenuta più forte di lui!
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli fu anche l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà. La sua intimità con Dio e la religione del cuore, che egli ha vissuto e predicato, fanno di lui il profeta-maestro della vita interiore dell’uomo di ogni tempo.

Salmo 62 Ha sete di te, Signore, l’anima mia.

O Dio, tu sei il mio Dio,
dall’aurora io ti cerco,
ha sete di te l’anima mia,
desidera te la mia carne
in terra arida, assetata, senz’acqua.

Così nel santuario ti ho contemplato,
guardando la tua potenza e la tua gloria.
Poiché il tuo amore vale più della vita,
le mie labbra canteranno la tua lode.

Quando penso a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
A te si stringe l’anima mia:
la tua destra mi sostiene.

Il salmo presenta un pio giudeo, che fin dal primissimo mattino si pone in orazione. Egli cerca Dio, perché gli si è rivelato a lui per mezzo del dono della fede e delle Scritture, e ora cerca l’unione con lui, l’intima conoscenza di lui, in un “cercare” in cui il “trovare” spinge ancor più a cercare.
L’orante è presentato come un assetato in mezzo ad un deserto. Ma l’assetato del salmo sa dov’è la fonte, non è disorientato; sa che la fonte della pace e della gioia è Dio: Dio stesso è questa fonte.
L’orante ha un punto di riferimento: il tempio; e così vi si reca per trarre ristoro nella contemplazione Dio: “Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria”. L’orante cerca Dio, ama Dio, non tanto i benefici di Dio. Ama lui, e lo dichiara poiché dice che la comunione con lui (“il tuo amore") “vale più della vita”. Questa dolce consapevolezza è la molla della sua lode: “Le mie labbra canteranno la tua lode”; “Così ti benedirò per tutta la vita”. Egli, ritornato dal tempio alla sua dimora, probabilmente distante da Gerusalemme, ha come pensiero dolce e vivo Dio, e così “nelle veglie notturne”, quando il sonno è assente, non si agita, ma pensa a Dio, cerca Dio.
Ha tanti nemici che cercano di ucciderlo, che probabilmente sono con bande di predoni Idumei (Cf. Ps 58), ma ha la ferma speranza che i nemici non avranno vittoria e che il re trionferà e insieme a lui chi gli è fedele: “Chi giura per lui” (Cf. 1Sam 17,55; 25,2; 2Sam 11,11; 15,21; ecc.). Gli ultimi versetti, per le loro dure espressioni, non entrano nella recitazione cristiana.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.
Rm 12,1-2

Nel corso della sua lettera ai Romani, Paolo ha rivolto diverse esortazioni a carattere dottrinale. Dal capitolo 12 iniziano esortazioni che sembrano a prima vista molto generali, ma in realtà ci dimostrano come egli conosceva bene la situazione della comunità romana perché le dà direttive concrete e determinate.
In questo brano Paolo sollecita anzitutto i romani dicendo:” vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. …
Paolo non si appella dunque al buon senso dei destinatari, ma al fatto che essi sono oggetto di un particolare amore da parte di Dio, che ha fatto di loro il Suo popolo. In forza del dono ricevuto, i credenti devono a loro volta offrire a Dio i propri “corpi”. Questo termine indica non una parte, ma tutta la persona, nelle sue grandezze e limitazioni. In altre parole Paolo li esorta a mettere al servizio non più del peccato, ma di Dio tutto il loro essere e il loro operare.
I credenti devono offrire a Dio i propri corpi come “sacrificio vivente”
Questo sacrificio è “vivente” perché mediante il battesimo i credenti sono morti al peccato e “camminano in una vita nuova” (Rm 6,4);
Il sacrificio è anche “santo”, in quanto coloro che lo praticano hanno ottenuto in modo pieno la santità del popolo di Dio (V. Rm 1,7) e “gradito a Dio”, poiché essi non mancano di affidarsi alla la Sua volontà.
Questo sacrificio è un “culto”, cioè un servizio divino, analogo a quello che era offerto dai sacerdoti nel tempio e costituiva uno dei privilegi di Israele (V. Rm 9,4); da esso però si distingue in quanto è “spirituale”, cioè dettato dalla ragione guidata dallo Spirito.
Poi l’Apostolo continua raccomandando una componente molto importante di questo sacrificio:
“Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”.
I credenti non devono conformarsi alla mentalità di questo mondo, ma piuttosto rinnovarsi intimamente per poter discernere la volontà di Dio.
Secondo la terminologia dei rabbini “questo mondo”, in quanto si oppone al “mondo futuro”, è il mondo attuale immerso nel peccato, che Paolo ha descritto lungamente nella prima parte della lettera (Rm 1,18-3,8). Essi devono evitare di “conformarsi” ad esso, cioè di assumere la mentalità che gli è propria, e perciò devono adottare uno stile di vita diverso.
Per fare ciò non devono uscire dal mondo (V. 1Cor 5,9-10), ma piuttosto devono “lasciarsi trasformare”, operando in se stessi un profondo “rinnovamento” della mente, cioè del proprio modo di pensare. *
Ciò ha come effetto la capacità di “discernere”, ossia di scoprire quale sia la volontà di Dio, che consiste in tutto “ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (V.Sal 19,8-9).
La volontà di Dio non si manifesta quindi in precetti che scandiscono la vita personale e comunitaria, ma in un bene che deve essere individuato dalla ragione illuminata dalla fede e dalla carità e praticato nelle più varie circostanze della vita.
Paolo sottolinea così come il credente sia chiamato ad offrire tutto se stesso a Dio nell’obbedienza alla Sua volontà.
La vita cristiana non consiste dunque in atteggiamenti rituali e neppure in slanci mistici dell’anima, ma in un operare quotidiano e costante in conformità al volere divino. Questo è indicato certamente nella legge che Dio ha dato al Suo popolo, ma secondo l’insegnamento di Gesù essa ha cessato di essere un insieme di prescrizioni che regolano i dettagli della vita quotidiana per identificarsi con l’unico comandamento che impone l’amore del prossimo. E proprio a questo amore che il credente deve conformarsi, dissociandosi dalla mentalità di questo mondo, tutta incentrata sul soddisfacimento egoistico dei propri desideri.
Al credente, che deve prendere ogni giorno numerose decisioni piccole e grandi, Paolo non propone dunque come criterio una legge, bensì la ragione del cuore, la quale è ora guidata e illuminata dallo Spirito.
* Questo pensiero di Paolo è ripreso in pieno nella Lettera a Diogneto, un testo anonimo risalente alla fine del II secolo, e inserito tradizionalmente nel corpo degli scritti dei Padri Apostolici

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni
Mt 16, 21-27

Nella brano liturgico di domenica scorsa, l’evangelista Matteo ci narrava dell’apostolo Pietro che veniva elogiato da Gesù per averlo riconosciuto Messia, Figlio di Dio, e depositario delle chiavi del regno; questa volta nel brano successivo ci riporta l’episodio in cui Gesù parla per la prima volta ai suoi della sua passione. E' il primo dei tre annunci della passione-morte e risurrezione che Gesù in diverse riprese fa ai discepoli durante il viaggio verso Gerusalemme.
Il brano inizia riportando che “Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.”
E’ proprio Pietro, che poco prima lo aveva proclamato: “il Cristo, il Figlio del Dio vivente” si sente in disaccordo con questo annunzio. Riconoscendo in Gesù il Messia promesso, Pietro come i suoi compagni pensava anche lui al liberatore politico e militare che con la forza di Dio avrebbe vinto tutti gli oppressori del suo popolo, instaurando una condizione di pace universale.
Anche questa volta, forse rafforzato dall’elogio ricevuto poco prima, prende coraggio e riprende Gesù dicendo: “Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai”
La contro-reazione di Gesù è però quanto mai forte: “ Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”
Il contrasto con la scena precedente - in cui Gesù aveva proclamato "beato" Pietro - non può essere immaginato più netto e più crudo. Gesù lo chiama addirittura "satana": il Nemico - che nel deserto aveva cercato di persuaderlo a imboccare la via del potere e del successo, ora torna all'assalto con una forza di suggestione ancora maggiore, servendosi del discepolo stesso. Ciò spiega la sua risposta dura e decisa: " Va’ dietro a me, Satana” che richiama quel “Vattene, satana!" (Mt 4,10) con cui Gesù aveva liquidato il tentatore.
Probabilmente, però, l'espressione può essere anche intesa nel richiamare Pietro a mettersi di nuovo nella sua posizione di discepolo che non deve pretendere di precedere il Maestro insegnandogli la strada, ma lo deve seguore accettando umilmente di condividere la sua sorte. “Tu mi sei di scandalo", cioè vuoi impedirmi di seguire il volere di mio Padre: "perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini".
Questo ultimo richiamo arriva anche a noi che ragioniamo molto spesso come Pietro e gli altri discepoli. Anche noi, come loro, spesso siamo prigionieri di un'immagine di Dio che - se è veramente potente e buono - non può permettere il dolore in tutte le sue forme e dovrebbe sopprimere quanti operano il male. Questo Dio però, dobbiamo rendercene conto ogni giorno di più, che è un dio a nostra immagine e somiglianza e non è il Dio di Gesù.
Poi Gesù non si limita ad esigere dai discepoli che lo riconoscano come il Messia crocifisso-risorto, ma li chiama ad abbracciare le sue stesse scelte e il suo stile di vita, spiegati soltanto dall'amore. Continua poi spiegando quali sono le condizioni per seguirlo "Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua….".
Sono parole che suonano dure ai nostri orecchi, ma sono le uniche che possono liberarci dalla prigionia delle nostre tradizioni, delle nostre abitudini, delle nostre pigrizie, per cui possiamo capire che “rinnegare se stessi”, vuol dire rinnegare l’uomo vecchio che è in noi, per ritrovare la purezza della nostra origine, la ragione vera della nostra vita. La via per la salvezza è una via diversa da quella del mondo che spinge invece a cercare solo se stessi senza occuparsi degli altri.
Per questo Gesù insiste dicendo: "Chi vorrà salvare la propria vita la perderà". Questo ci dice che la vita si trova perdendola, cioè donandola per amore. Ciò può avvenire non solo con la morte fisica, ma la vita può essere data anche goccia a goccia in ogni gesto quotidiano motivato dall'amore e compiuto con amore.
Si realizza in tal modo il programma di vita di cui parla Paolo nella II lettura (Rm 12, 1-2): "Vi esorto, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio...".
Sta qui il migliore investimento che si possa fare: " ... quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita
E’ bene verificare in che misura questa convinzione di fede è radicata in noi, soprattutto quando ci scontriamo con la realtà del male e del dolore nelle sue forme più diverse, perciò sarà bene chiedersi ogni tanto: in questo momento sto pensando "secondo Dio" o "secondo gli uomini“?

 

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“L’odierno brano evangelico è la prosecuzione di quello di domenica scorsa, nel quale risaltava la professione di fede di Pietro, “roccia” su cui Gesù vuole costruire la sua Chiesa.
Oggi, in stridente contrasto, Matteo ci mostra la reazione dello stesso Pietro quando Gesù rivela ai discepoli che a Gerusalemme dovrà patire, essere ucciso, risorgere
Pietro prende in disparte il Maestro e lo rimprovera perché questo – gli dice – non può accadere a Lui, al Cristo. Ma Gesù, a sua volta, rimprovera Pietro con parole dure: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» Un momento prima, l’apostolo era benedetto dal Padre, perché aveva ricevuto da Lui quella rivelazione, era una «pietra» solida perché Gesù potesse costruirvi sopra la sua comunità; e subito dopo diventa un ostacolo, una pietra ma non per costruire, una pietra d’inciampo sulla strada del Messia. Gesù sa bene che Pietro e gli altri hanno ancora molta strada da fare per diventare suoi apostoli!
A quel punto, il Maestro si rivolge a tutti quelli che lo seguivano, presentando loro con chiarezza la via da percorrere: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua» . Sempre, anche oggi, la tentazione è quella di voler seguire un Cristo senza croce, anzi, di insegnare a Dio la strada giusta; come Pietro: “No, no Signore, questo no, non accadrà mai”. Ma Gesù ci ricorda che la sua via è la via dell’amore, e non c’è vero amore senza il sacrificio di sé. Siamo chiamati a non lasciarci assorbire dalla visione di questo mondo, ma ad essere sempre più consapevoli della necessità e della fatica per noi cristiani di camminare contro-corrente e in salita.
Gesù completa la sua proposta con parole che esprimono una grande sapienza sempre valida, perché sfidano la mentalità e i comportamenti egocentrici. Egli esorta: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» . In questo paradosso è contenuta la regola d’oro che Dio ha inscritto nella natura umana creata in Cristo: la regola che solo l’amore dà senso e felicità alla vita. Spendere i propri talenti, le proprie energie e il proprio tempo solo per salvare, custodire e realizzare sé stessi, conduce in realtà a perdersi, ossia a un’esistenza triste e sterile. Invece viviamo per il Signore e impostiamo la nostra vita sull’amore, come ha fatto Gesù: potremo assaporare la gioia autentica, e la nostra vita non sarà sterile, sarà feconda.
Nella celebrazione dell’Eucaristia riviviamo il mistero della croce; non solo ricordiamo, ma compiamo il memoriale del Sacrificio redentore, in cui il Figlio di Dio perde completamente Sé stesso per riceversi di nuovo dal Padre e così ritrovare noi, che eravamo perduti, insieme con tutte le creature. Ogni volta che partecipiamo alla Santa Messa, l’amore di Cristo crocifisso e risorto si comunica a noi come cibo e bevanda, perché possiamo seguire Lui nel cammino di ogni giorno, nel concreto servizio dei fratelli.
Maria Santissima, che ha seguito Gesù fino al Calvario, accompagni anche noi e ci aiuti a non avere paura della croce, ma con Gesù inchiodato, non una croce senza Gesù, la croce con Gesù, cioè la croce di soffrire per amore di Dio e dei fratelli, perché questa sofferenza, per la grazia di Cristo, è feconda di risurrezione.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 3 settembre 2017

Pubblicato in Liturgia

Le letture che la liturgia di questa domenica ci porta a meditare, hanno come filo conduttore il simbolo delle chiavi e il suo profondo significato.
La prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, riporta l’oracolo che annuncia che Dio metterà la chiave della casa di Davide nelle mani di Eliakim, personaggio che simboleggia Cristo, Colui che prenderà su di sé in modo definitivo la chiave di Israele.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo di fronte ai disegni meravigliosi e imperscrutabili della sapienza e della misericordia di Dio, invita tutti a contemplare e adorare il Creatore.
Nel Vangelo, San Matteo narra come alla professione di fede di Pietro, Gesù risponde con la dichiarazione che proprio su di lui, Pietro, edificherà la Sua Chiesa, e gli affiderà l’incarico del servizio dell’autorità e della guida nell’unità. Per fede Pietro ha ricevuto il dono delle chiavi del Regno dei cieli e con esse il potere di sciogliere e legare, così per fede noi, come Pietro, possiamo riconoscere in Gesù, il Figlio del Dio vivente.

Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore a Sebna, maggiordomo del palazzo:
«Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto.
In quel giorno avverrà
che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkìa;
lo rivestirò con la tua tunica,
lo cingerò della tua cintura e metterò il tuo potere nelle sue mani.
Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme
e per il casato di Giuda.
Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide:
se egli apre, nessuno chiuderà;
se egli chiude, nessuno potrà aprire.
Lo conficcherò come un piolo in luogo solido
e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre».
Is 22,19-23

Il profeta Isaia iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C. A quel tempo, l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Il suo libro si apre con una raccolta di oracoli anteriori alla guerra siro-efraimita (cc. 1-5), a cui fa seguito il “libro dell’Emmanuele”, che risale invece al periodo in cui questo evento ha avuto luogo (cc. 6-12). Dopo queste due parti troviamo una serie di oracoli contro le nazioni (cc. 13-23). Verso la fine di questa raccolta si trova, un oracolo contro Sebna, un personaggio della corte reale, maggiordomo del re. Si tratta di un oracolo, anteriore alla campagna di Sennacherib (701 a.C.): ed è l’unico in cui il profeta si interessa alle sorti di una singola persona. A Sebna il profeta preannunzia la destituzione e la sostituzione con un altro dignitario chiamato Eliakim.
Nella parte precedente questo brano, vengono riportate le ragioni della disgrazia di Sebna e si descrive in modo metaforico la sua caduta. Il profeta lo accusa di essersi fatto costruire un sepolcro sotterraneo seguendo l’uso dei notabili egizi, con lo scopo certamente di immortalare il suo nome e l’immagine usata per indicare la sua caduta in disgrazia è quella di una palla che DIO scaglia lontano e fa rotolare sopra un ampio terreno; in conclusione il profeta gli annunzia che morirà in un paese straniero
Nel brano liturgico viene preannunziata in modo esplicito la sostituzione di Sebna: Il Signore stesso interviene pronunciando questa sentenza : “Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto. …. È questo il primo passo della sua caduta. Il profeta però quasi a rendere più dura la sua disgrazia descrive il passaggio del suo incarico ad un altro personaggio della corte:
In quel giorno avverrà che io chiamerò il mio servo Eliakìm, figlio di Chelkìa;
La sostituzione di Sebna con Eliakim viene descritta mediante due azioni rituali, il rivestimento del secondo con gli abiti del primo e il conferimento della chiave. Eliakim verrà rivestito della tunica e cinto con la sciarpa che erano appartenute a Sebna.
Ciò significa che gli sarà conferito il potere che questi prima deteneva: questa umiliazione sarà tanto più cocente in quanto il nuovo dignitario “ Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda”. “Padre” era un titolo o un ufficio di corte (cfr. Is 9,5): al di là del suo significato formale questo vuol forse dire che Eliakim gestirà la sua carica in modo tale da riscuotere non solo l’approvazione del re, ma anche il favore della gente comune. Forse proprio questo non era riuscito a Sebna, e ciò era stato uno dei motivi della sua rimozione.
Inoltre a Eliakim verrà consegnata la chiave della casa di Davide. Con questa chiave egli potrà aprire e chiudere, senza che nessuno possa ostacolarlo: “se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire”. La chiave della casa di Davide rappresenta il potere decisionale in tutti gli affari riguardanti il governo della nazione.
Infine si dice che Eliakim sarà come un paletto conficcato in un” luogo solido” e “sarà un trono di gloria per la casa di suo padre”.
Con l’immagine del paletto conficcato in luogo solido si vuole dunque significare la stabilità dell’incarico conferito. Il “trono di gloria” indica il suo successo, che porterà onore e potenza a tutta la sua famiglia.
L’importanza di questo testo è dovuta anche al fatto che viene ripreso nell’Apocalisse “Così parla il Santo, il Verace,Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre” (3,7) e anche Matteo ci fa riferimento nel suo Vangelo “A te darò le chiavi del regno dei cieli:” (16,19) . Affidare le chiavi è rendere l’affidatario detentore di pieni poteri.

Nei versetti successivi, non riportati dal brano liturgico, leggiamo che proprio perché di Eliakim si sono approfittati tutti i suoi parenti,* egli sarà come un paletto che si spezza e cade, coinvolgendo nella sua rovina tutto ciò che era stato appeso ad esso. Anche per Eliakim, nonostante le sue qualità, il potere sarà una realtà temporanea e provvisoria.
* (situazione che si è sempre ripetuta … dice bene Qoèlet “Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà;non c’è niente di nuovo sotto il sole” Qo 1,9)

Salmo 137 - Signore, il tuo amore è per sempre.
Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.

Rendo grazie al tuo nome
per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.

Perché eccelso è il Signore,
ma guarda verso l’umile;
il superbo invece lo riconosce da lontano.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani.

Il salmista ringrazia Dio per avere ascoltato la sua preghiera e avergli usato misericordia. La tradizione parla del re Davide, ma più probabilmente si tratta di Ezechia dopo la clamorosa liberazione di Gerusalemme dall'assedio degli Assiri (2Re 19,35): “Hai reso la tua promessa più grande del tuo nome”.
Egli vuole cantare la sua lode al cospetto di Dio, rifiutando ogni adesione agli idoli: "Non agli dèi, ma a te voglio cantare".
Dio ha risposto alla sua supplica rendendolo più forte di fronte ai sui nemici: “Hai accresciuto in me la forza”.
Il salmista professa la sua fede nel futuro messianico che vedrà “tutti i re della terra” lodare il Signore. Sarà quando “ascolteranno le parole della tua bocca”, dove per “bocca” si deve intendere il futuro Messia.
I re, i popoli, celebreranno le vie del Signore annunciate dal Messia.
Il salmista ha grande fiducia in Dio, affinché la sua missione di re abbia successo: "Il Signore farà tutto per me". Il salmista termina invocando: “Non abbandonare l'opera delle tue mani”, cioè la dinastia di Davide.
Noi crediamo che giungerà il tempo della “civiltà dell'amore”, quando i popoli e i potenti che li governano, si apriranno a Cristo. Ogni cristiano deve adoperarsi per questo tempo con la forza (“hai accresciuto in me la forza”) che sgorga dalla partecipazione Eucaristica.
La nostra battaglia non è contro nemici fatti di carne e sangue, come ci dice san Paolo (Ef 6,12), ma “contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male”, cioè contro i demoni.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
O profondità della ricchezza, della sapienza
e della conoscenza di Dio!
Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!
Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore?
O chi mai è stato suo consigliere?
O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?
Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose.
A lui la gloria nei secoli. Amen.
Rm 11,33-36

L’Apostolo Paolo dopo aver dato la sua spiegazione, ispirata alle Scritture, sul mistero di Israele, ha concluso che alla fine anche tutto il popolo eletto sarà salvato. Al termine di questa sua profonda riflessione Paolo eleva un inno di lode a Dio.
Il brano liturgico si apre con la lode che Paolo esprime con due esclamazioni: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!”. Egli esalta con la prima esclamazione la grandezza di Dio come creatore.
La profondità riguarda tre aspetti: la Sua “ricchezza”, che consiste nelle risorse inesauribili della Sua potenza, la Sua “sapienza”, che è l’attributo manifestato da Dio nella creazione, la Sua “scienza” che è la conoscenza intima e diretta che Dio ha di tutte le realtà create.
Con la seconda esclamazione Paolo esalta Dio come Colui che conduce gli esseri umani alla salvezza: i Suoi “giudizi” sono insondabili e le Sue “vie” cioè le Sue scelte, sono inaccessibili: l’uomo può vedere solo gli “effetti delle decisioni divine”, ma le Sue scelte profonde sono al di fuori della sua comprensione.
Paolo poi si pone tre domande che formula con le parole stesse della Scrittura. Per le prime due: “chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere?”
attinge ad un passo di Isaia e di Geremia (Is 40,13; Ger 23,18)
Per la terza domanda: “O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?” Paolo attinge al libro di Giobbe (Gb 41,3). Anche qui si possono solo dare risposte negative perché nessuno può pensare neppure lontanamente di aver dato qualcosa a Dio e pretendere così che Dio sia debitore nei suoi confronti. Dio è totalmente al di sopra e al di fuori della portata di ogni Sua creatura!
Alle tre domande fa seguito una piccola professione di fede “Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose”.
Paolo, qui si ispira alla teologia biblica della creazione in cui Dio è presentato come il principio supremo dal quale tutte le cose hanno origine. Dio è anche la causa strumentale, cioè Colui per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte ed è anche la meta verso cui gli esseri umani devono orientarsi per trovare il significato della loro vita.
Il brano termine con la formula: “A lui la gloria nei secoli. Amen” con la quale a Dio solo viene attribuita la lode da parte di tutte le creature.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Mt 16,13-19

In questo brano l’evangelista Matteo riferisce che Gesù, venendo nelle parti di Cesarea di Filippo, chiede ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”
Prima Matteo aveva riportato che i farisei e i sadducei avevano chiesto a Gesù un segno dal cielo e lui aveva risposto: nessun segno sarà dato se non il segno di Giona. Nel passare però all’altra riva, ai discepoli che avevano dimenticato di prendere il pane,Gesù ricorda loro la moltiplicazione dei pani e alla fine li ammonisce a guardarsi dal lievito dei farisei e dei sadducei.
Ora giunti a Cesarea di Filippo presso le sorgenti del Giordano, è Gesù che comincia a fare domande iniziando con il chiedere cosa la gente dice del Figlio dell’uomo. La risposta dei discepoli viene espressa con le stesse parole riportate anche nel Vangelo di Marco: “Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti”. Gesù viene così identificato, oltre che con il Battista, convinzione condivisa anche da Erode Antipa, con Elia, oppure con uno degli antichi profeti ritornato in vita. A questi personaggi Matteo aggiunge però anche Geremia, considerato un grande intercessore e difensore d’Israele.
Gesù non fa nessun commento a questa risposta, ma sembra più interessato a conoscere cosa i discepoli pensino di lui e incalza con la domanda che gli sta a cuore: “Ma voi, chi dite che io sia?”.
La risposta di Pietro è molto diretta: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Matteo amplia la risposta asserita da Marco aggiungendo “il Figlio del Dio vivente”, come pure la risposta di Gesù a Pietro si trova solo in Matteo: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. Gesù così afferma che la conoscenza che Simone ha di lui non proviene da “carne e sangue”, cioè dalla sua intelligenza umana, ma da una rivelazione speciale del Padre
Gesù poi prosegue: "E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”.
Il termine “Pietro”, è la traduzione greca dell’aramaico Kephas (roccia) e sta ad indicare una pietra staccata da un masso o un sasso. Nell’AT il titolo di “roccia” viene attribuito a Dio, in quanto saldo rifugio in cui l’orante trova protezione mentre nel NT l’appellativo di “pietra” è attribuito a Cristo (At 4,11; Rm 9,33; 1Pt 2,4-7). Simone era già stato chiamato precedentemente con questo nome (8,14; 10,2; 14,28; 15,15) ma secondo Matteo è in questo momento che Gesù glielo assegna ufficialmente.
Il cambiamento di nome significa nella Bibbia il conferimento di un compito che orienterà in modo nuovo la vita del prescelto. Per questo scopo Dio aveva cambiato il nome ad Abramo e a Giacobbe (Gen 17,5; 32,29).
Simone riceve il nome di Pietro perché su di lui, in quanto roccia, Gesù edificherà la Sua chiesa e contro la Chiesa fondata su Pietro le porte degli inferi non prevarranno. Con questa espressione Gesù non vuole certo dire che la Chiesa sarà preservata da tribolazioni, ma promette che non soccomberà agli assalti del Maligno
Infine Gesù promette ancora a Pietro: “A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
Il conferimento delle “chiavi” poteva indicare nel linguaggio biblico la trasmissione del potere di governo: a Eliakim, nominato maggiordomo del re, è conferita la chiave della casa di Davide, con la quale egli potrà aprire e chiudere (Is 22,22). In senso analogo nell’Apocalisse, Cristo è chiamato “il Santo, il Verace, Colui che ha la chiave di David” (Ap 3,7), che ha “potere sopra la morte e sopra gli inferi.”(Ap 1,18).
A Pietro invece sono assegnate le chiavi del regno dei cieli, cioè un ruolo che viene precisato subito dopo con i verbi “legare” e “sciogliere”.
A Pietro viene dunque conferito il potere di interpretare in modo autorevole l’insegnamento di Gesù e la volontà di Dio da Lui rivelata. Ciò che egli proibirà o permetterà sarà ratificato in cielo, cioè le sue decisioni in campo dottrinale o disciplinare verranno confermate da Dio.
La missione di Pietro è anche quella di offrire il perdono di Dio (come ci ricorda continuamente Papa Francesco) e più ampiamente è quella di consolare, di ammonire, di esortare e di guidare il popolo di Dio.

*****

“ Il Vangelo di questa domenica ci riporta un passaggio-chiave nel cammino di Gesù con i suoi discepoli: il momento in cui Egli vuole verificare a che punto è la loro fede in Lui. Prima vuole sapere che cosa pensa di Lui la gente; e la gente pensa che Gesù sia un profeta, cosa che è vera, ma non coglie il centro della sua Persona, non coglie il centro della sua missione.
Poi, pone ai discepoli la domanda che gli sta più a cuore, cioè chiede loro direttamente: «Ma voi, chi dite che io sia?»
E con quel «ma» Gesù stacca decisamente gli Apostoli dalla massa, come a dire: ma voi, che siete con me ogni giorno e mi conoscete da vicino, che cosa avete colto di più? Il Maestro aspetta dai suoi una risposta alta ed altra rispetto a quelle dell’opinione pubblica. E, in effetti, proprio una tale risposta scaturisce dal cuore di Simone detto Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
Simon Pietro si ritrova sulle labbra parole più grandi di lui, parole che non vengono dalle sue capacità naturali. Forse lui non aveva fatto le scuole elementari, ed è capace di dire queste parole, più forti di lui! Ma sono ispirate dal Padre, il quale rivela al primo dei Dodici la vera identità di Gesù: Egli è il Messia, il Figlio inviato da Dio per salvare l’umanità. E da questa risposta, Gesù capisce che, grazie alla fede donata dal Padre, c’è un fondamento solido su cui può costruire la sua comunità, la sua Chiesa. Perciò dice a Simone: «Tu, Simone, sei Pietro – cioè pietra, roccia – e su questa pietra edificherò la mia Chiesa».
Anche con noi, oggi, Gesù vuole continuare a costruire la sua Chiesa, questa casa con fondamenta solide ma dove non mancano le crepe, e che ha continuo bisogno di essere riparata. Sempre. La Chiesa ha sempre bisogno di essere riformata, riparata
Noi certamente non ci sentiamo delle rocce, ma solo delle piccole pietre. Tuttavia, nessuna piccola pietra è inutile, anzi, nelle mani di Gesù la più piccola pietra diventa preziosa, perché Lui la raccoglie, la guarda con grande tenerezza, la lavora con il suo Spirito, e la colloca nel posto giusto, che Lui da sempre ha pensato e dove può essere più utile all’intera costruzione.
Ognuno di noi è una piccola pietra, ma nelle mani di Gesù partecipa alla costruzione della Chiesa. E tutti noi, per quanto piccoli, siamo resi “pietre vive”, perché quando Gesù prende in mano la sua pietra, la fa sua, la rende viva, piena di vita, piena di vita dallo Spirito Santo, piena di vita dal suo amore, e così abbiamo un posto e una missione nella Chiesa: essa è comunità di vita, fatta di tantissime pietre, tutte diverse, che formano un unico edificio nel segno della fraternità e della comunione.
Inoltre, il Vangelo di oggi ci ricorda che Gesù ha voluto per la sua Chiesa anche un centro visibile di comunione in Pietro - anche lui, non è una grande pietra, è una piccola pietra, ma presa da Gesù diventa centro di comunione - in Pietro e in coloro che gli sarebbero succeduti nella stessa responsabilità primaziale, che fin dalle origini sono stati identificati nei Vescovi di Roma, la città dove Pietro e Paolo hanno reso la testimonianza del sangue.
Affidiamoci a Maria, Regina degli Apostoli, Madre della Chiesa. Lei era nel cenacolo, accanto a Pietro, quando lo Spirito Santo discese sugli Apostoli e li spinse ad uscire, ad annunciare a tutti che Gesù è il Signore. Oggi la nostra Madre ci sostenga e ci accompagni con la sua intercessione, perché realizziamo pienamente quell’unità e quella comunione per cui Cristo e gli Apostoli hanno pregato e hanno dato la vita.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 27 agosto 2017

Pubblicato in Liturgia

Le letture di questa domenica presentano scene di teofania: il Signore si rivela spesso in modo diverso dalle nostre attese, ma viene incontro all’uomo specialmente nei momenti di necessità quando questi lo invoca con fede.
Nella prima lettura, tratta dal primo libro dei Re, c’è il racconto di Elia che perseguitato a morte da Gezabele, fugge fino al monte Oreb, dove ha un incontro con il Signore, che lo incoraggia a riprendere la sua missione.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, Paolo, di fronte al rifiuto di Israele a riconoscere in Gesù il Messia, manifesta il suo profondo dolore fino ad accettare di essere separato da Cristo a vantaggio dei propri fratelli.
Il Vangelo di Matteo, ci presenta Gesù che cammina sulle acque. L’apostolo Pietro che aveva chiesto a Gesù di poterlo raggiungere, si fa vincere dalla paura di affogare e grida aiuto. Poi c’è quel gesto di Gesù che lo afferra per mano, e quel suo dolce rimprovero, che raggiunge anche noi: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

Dal primo libro dei Re
In quei giorni, Elia, [essendo giunto al monte di Dio, l’Oreb], entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Esci e fèrmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò.
Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna.
1Re19,9.11-13

Elia,vissuto nel IX secolo a.C., fu un grande profeta che svolse la sua missione sotto Acab, re d'Israele, che regnò nella nuova capitale Samaria dall'875 all'854 a.C.. Elia risuscitò il figlio della vedova di Sarepta che lo ospitava durante una carestia; ultimo fedele al Dio di Abramo, sfidò e vinse i profeti del dio Baal sul monte Carmelo e dimostrò la potenza di Dio accendendo, con la preghiera, una pira di legna verde e bagnata, suscitando le ire della regina Gezabele, moglie di Acab, che voleva la sua morte. Elia impaurito fugge al sud, desideroso di lasciarsi morire. Ma un angelo del Signore interviene e lo invita a mangiare un cibo che appare in modo misterioso.
Il brano molto breve che abbiamo ci racconta che Elia entrò in una caverna per passarvi la notte. La caverna, evoca raccoglimento, ma anche isolamento e chiusura. Il profeta è tutto preso dai suoi problemi, quasi ripiegato su se stesso nel ventre oscuro della terra. In quel contesto di buia angoscia si fa udire la voce del Signore. Nei versetti non riportati nel brano il Signore interroga il profeta sulle sue motivazioni: “Che fai qui, Elia?”. Egli risponde, rivelando il proprio stato d'animo e dice “Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita” . Ha dunque tutte le sue buone ragioni per essere così infuriato.
Il Signore gli risponde con due imperativi essenziali. “Esci e fèrmati sul monte alla presenza del Signore”
E' molto di più di un semplice ordine: Esci e fèrmati . Sono comandi fondamentali, rivolti a un uomo “chiuso” in se stesso e nel proprio problema. Il Dio dell'esodo invita sempre i suoi fedeli ad “uscire” fuori di sé e andare oltre i propri problemi. “Fermati”,ha anche un importante precisazione “alla presenza del Signore”. Il profeta è invitato dunque a resistere con forza a rimanere davanti al Signore, cioè a porsi con decisione in ascolto di Lui, con atteggiamento docile di chi accetta di imparare. “Ed ecco che il Signore passò”.
Elia aspetta che Dio si manifesti nelle forze della natura nel vento impetuoso che squassa i monti, nel fuoco e nel terremoto, cioè secondo schemi personali e tradizionali.
Infatti incendi, tempeste, terremoti ed eruzioni vulcaniche, erano la cornice popolare entro cui si verificavano le apparizioni divine. Isaia infatti afferma: Il Signore farà udire la sua voce maestosa e mostrerà come colpisce il suo braccio con ira ardente,in mezzo a un fuoco divorante,tra nembi, tempesta e grandine furiosa (Is 30,30) ed anche il salmo 29, il più antico. dice: “Il Signore tuona sulle acque,il Dio della gloria scatena il tuono,il Signore, sull’immensità delle acque. Il Signore tuona con forza, tuona il Signore con potenza.”
Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera.
Elia vede verificarsi tutti questi avvenimenti, ma sente che il il Signore non era nel vento, non era nel terremoto, non era nel fuoco.
E' evidente l'intento di insegnare che il Signore si manifesta in altro modo rispetto a come l’uomo lo può immaginare,. Dio infatti sceglie di presentarsi ad Elia nella tranquillità e nella pace, nel “sussurro di una brezza leggera ” E il profeta, come l’udì, si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Elia riconosce tale presenza, si coprì il volto, “perché nessun uomo può vedere Dio e restare vivo” (Es 33,20), , obbedisce, esce e sta fermo davanti al Signore, lo accoglie e si lascia cambiare.
Il modo della divina rivelazione è descritto con un'espressione ebraica qol demamah daqqah = Qol : vuol dire "voce, suono"; demamah : “silenzio” ; daqqah “sottile” = Voce di silenzio sottile.
Questo fa capire che Dio è una voce che ha il suo vertice, non nel clamore, bensì nel silenzio, nel mistero, nella trascendenza. La parola di Dio si percepisce nel silenzio lieve di una presenza che ama senza limite..

Salmo 84 - Mostraci, Signore, la tua misericordia.

Ascolterò che cosa dice Dio,
il Signore: egli annuncia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra.

Amore e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra
e giustizia si affaccerà dal cielo.

Certo, il Signore donerà il suo bene
e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui:
i suoi passi tracceranno il cammino

Il salmista ricorda come Dio ha ricondotto "hai ristabilito la sorte di Giacobbe" da Babilonia. I peccati commessi Dio li ha perdonati, mettendo fine alla sua grande ira.
Questa memoria del perdono di Dio alimenta nel salmista la fiducia che Dio perdonerà le mancanze del popolo, che, ritornato nella Giudea, dimostra tiepidezza nei confronti di Dio e per questo incontra sofferenze (Cf. Ag 1,7).
Il salmista, fortificato dal ricordo della misericordia di Dio, innalza quindi la sua supplica: ”Ritorna a noi, Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi".
Il salmista passa a considerare le profezie, ad ascoltare “cosa dice Dio”, e conclude che Dio presenta un futuro di pace “per chi ritorna a lui con fiducia”. Egli guarda ai tempi messianici, e può dire che “la sua gloria abiti la nostra terra” (Is 60,1s); e che “amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. “Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo”, quando verrà il Messia. La sua presenza farà si che “la nostra terra darà il suo frutto”, cioè il frutto di santità per il quale Israele è stato creato. Davanti al “bene” che Dio elargirà, cioè il Messia, “giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua.
Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne.
Essi sono Israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.
Rm 9,1-5

L’apostolo Paolo nella terza parte della lettera ai Romani (cc. 9-11), affronta la grande obiezione che poteva essere sollevata, contro la dottrina della giustificazione mediante la fede: come mai la salvezza portata da Gesù Cristo, non è stata accettata proprio dal popolo al quale per primo era stata promessa?
Paolo anzitutto dimostra che il modo in cui si è attuata la salvezza non mette in questione la fedeltà di Dio; poi sottolinea come sia stato proprio Israele a escludersi dalla salvezza per la sua infedeltà; infine egli mostra che di fatto, malgrado le apparenze, la salvezza non si attua senza la partecipazione del popolo di Israele.
In questo brano Paolo afferma: “dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua.” Ciò che Paolo intende affermare con tanta forza è la grande sofferenza che prova dal più profondo del cuore. Si comprende che questo dolore deriva dal fatto che i suoi connazionali giudei sono in gran parte separati da Cristo.
Infatti egli vorrebbe essere persino anàtema,(scomunicato) separato da Cristo se ciò portasse qualche vantaggio a coloro che egli considera ancora come “fratelli” e suoi consanguinei “secondo la carne”.
Qui si potrebbe anche cogliere in Paolo il mistero stesso di Gesù, il suo inabissarsi nella povertà della condizione umana fino alla morte in croce.
Il distacco dei giudei da Cristo è tanto più doloroso per Paolo in quanto essi sono stati dotati di numerosi privilegi: essi hanno l’onore di chiamarsi e di essere “israeliti e hanno l’adozione a figli,” hanno sperimentato la presenza “la gloria” di Dio in mezzo a loro, “le alleanze”, spesso ripetute nel corso della storia sacra, “la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi.
Soprattutto da essi proviene Cristo “secondo la carne”, cioè in base alla sua origine naturale (1,3). C’è poi al termine del brano l’affermazione massima di Paolo nei confronti di Gesù: “egli è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.” E’ rara l’attribuzione a Gesù del nome diretto di “Dio”, e qui Paolo lo dichiara.
Noi cristiani parliamo a volte genericamente di Dio, ma se siamo veramente cristiani dovremmo sempre affermare che per noi “Gesù è Dio”. Dovremmo avere il coraggio e l’ardire di gridare il Suo nome – di uscire allo scoperto manifestando la nostra fede in Gesù, “Dio benedetto nei secoli

Dal vangelo secondo Matteo
Dopo che la folla ebbe mangiato, subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.
La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».
Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».
Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».
Mt 14, 22-33

Questo brano del Vangelo di Matteo viene subito dopo l’evento della moltiplicazione dei pani e dei pesci. I discepoli e anche il popolo, sono sazi e soddisfatti, ma la loro soddisfazione umana non dura molto,
Il brano inizia riportando che “Dopo che la folla ebbe mangiato, subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla.”
Appena sfamata la folla, Gesù non si intrattiene di più, non desidera nessuna acclamazione. Egli "congeda" la gente, la manda a casa dopo averla saziata. Poi Gesù "costringe" i suoi discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull'altra riva.
“Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo”. Dopo aver congedato la folla Gesù va in un luogo in disparte a pregare, così come aveva programmato di fare prima che tutta quella gente lo raggiungesse.
“La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario”.
A questo punto il racconto si sposta sui discepoli. Loro sono con la loro barca nel bel mezzo del lago, sono lontani dalla riva e combattono contro le onde. Come pescatori conoscono benissimo il lago con tutte le sue correnti e sono ben abituati a navigare; le onde però hanno ora il sopravvento sulla barca, la situazione diventa difficile e Gesù non è con loro
“Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».
Sul finire della notte capita l’imprevisto, Gesù va verso di loro camminando sulle acque, ma i discepoli non lo riconoscono e si spaventano da morire, e pensano prima a un fantasma e non al loro Signore
E come una volta l’angelo sul campo ha detto ai pastori: “Non temete!” così parla adesso Gesù al gruppo dei dodici: “Coraggio, sono io; non abbiate paura!”
Ora l’attenzione si sposta su Pietro che chiede “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Possiamo chiederci perché Pietro ha chiesto a Gesù di farlo venire con lui sulle acque? Probabilmente Pietro sarà stato dubbioso circa la reale presenza di Gesù (infatti dice: se sei tu..."), perciò la sua iniziativa riflette una volontà di mettere alla prova il Signore, di svelarne la presenza, di costringerlo a scoprirsi. Emerge ancora una volta l'impetuosità del carattere di Pietro.
E quando Gesù “gli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù.”
Pietro è fuori dalla barca, che gli dava almeno un po’ di sicurezza (se lo vediamo con occhi umani) e si trova nel bel mezzo di un mare di paura. La barca è lontana, si sente solo, non trova più niente dove aggrapparsi, vede le onde che lo sommergono e cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!».
Gesù non fa sparire né le onde, né la tempesta, ma si rende subito presente, afferra la mano di Pietro e la tiene ben stretta e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»..
Gesù chiama Pietro “uomo di poca fede“, ma Pietro non è "diffidente", come invece si erano dimostrati i compaesani di Gesù, ma uno che deve ancora crescere, maturare nella fede come ognuno di noi.
“Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».”
Quando Gesù e Pietro salgono sulla barca il vento cessa e il mare si placa, come nell'episodio simile della tempesta sedata. Allora "quelli che stavano sulla barca" (cioè i discepoli) escono in una solenne confessione messianica, anticipatrice di quella che farà più tardi Pietro in Mt 16,16. Essi riconoscono Gesù come il Figlio di Dio e si prostrano davanti a lui. Quello di prostrarsi è l'unico gesto autentico che si può compiere davanti a Gesù. Lo avevano fatto i Magi, lo faranno le donne quando incontreranno Gesù risorto.
Quante volte nel mare della nostra la vita un vento impetuoso ci poteva fare affogare. Non scorgevamo intorno a noi nessuno che ci potesse aiutare per non finire nel buio, in un gorgo risucchiante. Come ultima speranza, la nostra fede, più piccola di un granello di senape, ci ha permesso di gridare: “Signore Gesù salvami!” Ed è proprio là che il Signore Gesù ci ha raggiunto, al centro di quella nostra debole fede. Ci ha raggiunto: non ha puntato il dito per accusarci, ma ci ha teso la mano per afferrare la nostra, e tramutare la nostra paura in abbraccio.

Origene, (II-III sec) riguardo a questo brano ha lasciato questo commento:
“Se un giorno ci troveremo alle prese con inevitabili e implacabili tentazioni, ricordiamoci che Gesù ci ha obbligati ad imbarcarci
e vuole che da soli lo precediamo sulla riva opposta.
Quando, in mezzo alle tempeste delle sofferenze, avremo passato tre quarti dell’oscura notte che regna nei momenti della tentazione, lottando il meglio possibile e sorvegliando per evitare il naufragio della fede, siamo sicuri che, al sopragggiungere dell’ultimo quarto di notte, quando la tenebra sarà ormai avanzata e il giorno vicino, accanto a noi arriverà il Figlio di Dio, per renderci il mare benigno, camminando sui flutti.
E anche noi cammineremo con lui sulle onde della tentazione, del dolore e del male”



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“Oggi la pagina del Vangelo descrive l’episodio di Gesù che, dopo aver pregato tutta la notte sulla riva del lago di Galilea, si dirige verso la barca dei suoi discepoli, camminando sulle acque. La barca si trova in mezzo al lago, bloccata da un forte vento contrario.
Quando vedono Gesù venire camminando sulle acque, i discepoli lo scambiano per un fantasma e si impauriscono. Ma Lui li rassicura: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Pietro, col suo tipico impeto, gli dice: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque»; e Gesù lo chiama «Vieni!» . Pietro scende dalla barca e si mette a camminare sull’acqua verso Gesù; ma a causa del vento si agita e comincia ad affondare. Allora grida: «Signore, salvami!», e Gesù gli tende la mano e lo afferra.
Questo racconto del Vangelo contiene un ricco simbolismo e ci fa riflettere sulla nostra fede, sia come singoli, sia come comunità ecclesiale, anche la nostra fede di tutti noi che siamo qui, oggi, in Piazza. La comunità, questa comunità ecclesiale, ha fede?
Come è la fede in ognuno di noi e la fede della nostra comunità?
La barca è la vita di ognuno di noi ma è anche la vita della Chiesa; il vento contrario rappresenta le difficoltà e le prove. L’invocazione di Pietro: «Signore, comandami di venire verso di te!» e il suo grido: «Signore, salvami!» assomigliano tanto al nostro desiderio di sentire la vicinanza del Signore, ma anche la paura e l’angoscia che accompagnano i momenti più duri della vita nostra e delle nostre comunità, segnata da fragilità interne e da difficoltà esterne.
A Pietro, in quel momento, non è bastata la parola sicura di Gesù, che era come la corda tesa a cui aggrapparsi per affrontare le acque ostili e turbolente. È quanto può capitare anche a noi. Quando non ci si aggrappa alla parola del Signore, per avere più sicurezza si consultano oroscopi e cartomanti, si comincia ad andare a fondo. Ciò vuol dire che la fede non è tanto forte.
Il Vangelo di oggi ci ricorda che la fede nel Signore e nella sua parola non ci apre un cammino dove tutto è facile e tranquillo; non ci sottrae alle tempeste della vita. La fede ci dà la sicurezza di una Presenza, la presenza di Gesù che ci spinge a superare le bufere esistenziali, la certezza di una mano che ci afferra per aiutarci ad affrontare le difficoltà, indicandoci la strada anche quando è buio.
La fede, insomma, non è una scappatoia dai problemi della vita, ma sostiene nel cammino e gli dà un senso.
Questo episodio è un’immagine stupenda della realtà della Chiesa di tutti i tempi: una barca che, lungo l’attraversata, deve affrontare anche venti contrari e tempeste, che minacciano di travolgerla. Ciò che la salva non sono il coraggio e le qualità dei suoi uomini: la garanzia contro il naufragio è la fede in Cristo e nella sua parola. Questa è la garanzia: la fede in Gesù e nella sua parola. Su questa barca siamo al sicuro, nonostante le nostre miserie e debolezze, soprattutto quando ci mettiamo in ginocchio e adoriamo il Signore, come i discepoli che, alla fine, «si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei il Figlio di Dio!”» . Che bello dire a Gesù questa parola: “Davvero tu sei il Figlio di Dio!”. La diciamo insieme, tutti? “Davvero tu sei il Figlio di Dio!”.
La Vergine Maria ci aiuti a perdurare ben saldi nella fede per resistere alle bufere della vita, a rimanere sulla barca della Chiesa rifuggendo la tentazione di salire sui battelli ammalianti ma insicuri delle ideologie, delle mode e degli slogan.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 13 agosto 2017

Pubblicato in Liturgia

Le letture che la liturgia di questa domenica ci offre, hanno in comune sia il cibo spirituale che quello materiale.
Nella prima lettura, il profeta Isaia invita tutti gli assetati affinché vengano all’acqua: anche coloro che non hanno denaro, potranno ugualmente mangiare e bere senza spesa vino e latte. L’appello del profeta è un compendio della vita nella nuova e perfetta Gerusalemme quando Dio e l’uomo avranno raggiunto il livello più alto di umanità.
Nella seconda lettura, dalla lettera ai Romani, San Paolo esulta di gioia per l’amore misericordioso di Gesù Cristo, dal quale nessuno può separarci. Il credente attinge solo in Lui la forza di rinascere ogni giorno a vita nuova.
Nel Vangelo, Matteo ci narra la prima moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Agli occhi dell’evangelista la mensa allestita in quel luogo deserto diventa l’anticipazione della cena eucaristica. In essa il corpo di Cristo in cibo e il suo sangue in bevanda sono il segno supremo della sua comunione con l’umanità affamata e assetata

Dal Libro del profeta Isaia
Così dice il Signore
O voi tutti assetati venite all’acqua,
voi che non avete denaro venite,
comprate e mangiate;venite,comprate
senza denaro, senza pagare, vino e latte.
Perché spendete denaro per ciò che non è pane,
il vostro guadagno per ciò che non sazia?
Su, ascoltatemi e mangerete cose buone
e gusterete cibi succulenti.
Porgete l’orecchio e venite a me,
ascoltate e vivrete.
Io stabilirò per voi un’alleanza eterna,
i favori assicurati a Davide.
Is 55,1-3

La seconda parte del libro del Deutero-Isaia, da dove è tratto questo brano, si preannunzia e si prepara il ritorno dei giudei esiliati in Babilonia nella loro terra (538 a.C.). La sezione inizia con l’evocazione di una grande strada che si apre nel deserto, lungo la quale gli esuli si incamminano sotto la guida di Dio (Is 40), e termina con un poema nel quale si riafferma la fedeltà di Dio che porterà a compimento tutte le sue promesse (Is 55).
Il brano si apre con un invito rivolto a tutti gli assetati:
O voi tutti assetati venite all’acqua,voi che non avete denaro venite,comprate e mangiate; venite,comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte.
Questo invito ha il tono di un appello simile a quello degli acquaioli e dei venditori ambulanti di derrate alimentari frequenti nelle piazze dell’Oriente, ma subito dopo il tono dell’invito cambia sensibilmente per l’insistenza che il profeta pone sulla gratuità del cibo e della bevanda offerti.
L’acqua diventa così l’emblema della vita, della libertà, dello Spirito donati dal Signore agli esuli che stanno per ritrovare nel tempio ricostruito di Gerusalemme, la sorgente d’acqua viva. Il vino e il latte sono il segno della fertilità della terra promessa. Il pane è il sostegno primario della vita mentre i cibi succulenti evocano il banchetto messianico cantato dallo stesso profeta: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti,di cibi succulenti, di vini raffinati.” (Is 25,6)
Dio stringerà con loro un’alleanza eterna ed essi saranno i depositari delle promesse fatte a Davide.
La prospettiva di speranza si aprirà su un personaggio sconosciuto, ma già promesso a Davide, e nel versetto successivo non riportato dalla liturgia, troviamo , “Ecco l’ho costituito testimonio fra i popoli,principe e sovrano sulle nazioni. Is 55,4
Nei nostri schemi mentali, immaginiamo Dio come un giustiziere che premia e castiga, qui invece si parla del Dio della misericordia, che Papa Francesco non si stanca mai di ricordarcelo. Se Dio libera, non è per il riconoscimento di una nostra giustizia, ma dono che permette di incontrarlo davvero come misericordioso.
L’invito a convertirsi, significa, prima di tutto: "Cercarlo e guardarlo in un modo nuovo“, solo così ci si potrà ritrovare davanti al vero volto del Signore.
La grandezza di Dio squarcia gli orizzonti. I nostri pensieri sono troppo piccoli e prevedibili, mentre quelli di Dio sono grandi, impensabili, carichi di stupore, di speranza, e di bellezza senza fine.

Salmo 144 Apri la tua mano, Signore, e sazia ogni vivente

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,su tutte le creature.

Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa
e tu dai loro il cibo a tempo opportuno.
Tu apri la tua mano
e sazi il desiderio di ogni vivente.

Giusto è il Signore in tutte le sue vie,
e buono in tutte le sue opere.
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,
a quanti lo invocano con sincerità.

Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano nella composizione di questa composizione, che tuttavia risulta bellissima nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode.
Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C.
Esso inizia rivolgendosi a Dio quale re: “O Dio, mio re, voglio esaltarti (...) in eterno e per sempre”. “In eterno e per sempre”, indica in modo incessante e continuativo nel tempo.
Segue uno sguardo su come la trasmissione, di generazione in generazione, delle opere di Dio non sia sentita solo come fatto prescritto (Cf. Es 13,14), ma come gioia di comunicazione, poiché le opere di Dio sono affascinanti: “Il glorioso splendore della tua maestà e le tue meraviglie voglio meditare. Parlino della tua terribile potenza: anch’io voglio raccontare la tua grandezza. Diffondano il ricordo della tua bontà immensa, acclamino la tua giustizia". Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate (Cf. Ps 148). Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore.
La lode a Dio sul labbro dei fedeli diventa annuncio a tutti gli uomini: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno”. “Il regno” (malkut) è Israele e le “imprese” sono quelle della liberazione dall'Egitto, ecc. Terminata la successione monarchica dopo la deportazione a Babilonia, Israele, pur senza scartare minimamente la tensione verso il futuro re, il Messia, si collegò alla tradizione premonarchica dove il re era unicamente Dio. Nel libro dell'Esodo si parla di Israele come regno (19,6): “Un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Israele come regno di Dio si manifesta in modo evidente mediante l'osservanza della legge data sul Sinai; ma Israele non è solo suddito di Dio, ma anche figlio (Cf. Es 4,22).
Il salmista continua a celebrare la bontà di Dio verso gli uomini: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie (...). Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge tutti i malvagi”.
Il salmista termina la sua composizione esortandosi alla lode a Dio e invitando, in una visione universale, “ogni vivente” a benedirlo: “Canti la mia bocca la lode del Signore e benedica ogni vivente il suo santo nome, in eterno e per sempre”. “Ogni vivente”; anche gli animali, le piante - ovviamente a loro modo - celebrano la gloria di Dio (Cf. Ps 148,9-10).
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?
Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati.
Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.
Rm 8:35,37-39

Questo brano conclude il capitolo 8 e in particolare l' Inno all'amore di Dio" iniziato nei i versetti precedenti. L’Apostolo dopo aver parlato della vita nello Spirito destinata ai credenti e alla gloria che li attende, erompe in una esclamazione di vittoria: "Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?” Certo i destinatari della lettera non hanno ancora visto la vittoria definitiva sul male e sulla morte, vivono nelle difficoltà e nella persecuzione quotidiana, però Paolo infonde in loro la certezza che Dio è con loro, essi sono vincitori perché niente li può separare dall'amore di Dio.
In questo brano Paolo si esprime mediante varie domande la cui risposta è scontata:
“chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?
Paolo si esprime spesso con domande retoriche per sottolineare maggiormente le proprie affermazioni. Alla domanda seguono alcuni esempi di difficoltà a cui sono posti i cristiani, e sono sette le prove che sembrano riprendere situazioni scomode e umilianti. Paolo parla di queste situazioni anche in 2Cor 6,4-5 e 11,23-27, riferendosi a tutte le difficoltà che lui e i suoi collaboratori devono continuamente affrontare per l'annuncio della Parola.
“Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati”.
In queste situazioni il credente è vincitore non grazie alle proprie virtù, ma perché è nelle mani di Dio.
L’esperienza acquisita insegna a Paolo che in tutto ciò che umanamente potrebbe separarci dall’amore di Cristo, noi credenti riusciamo, con l’aiuto di Dio, più che vincitori “grazie a colui che ci ha amati”. Perciò nulla potrà separarci dall’amore di Dio manifestato in Cristo Gesù.
“Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcuna altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore.”
Paolo qui evidenzia le difficoltà dei credenti, ricordando anche le potenze ostili che si scatenano contro di loro. Le mette due a due: morte e vita; angeli e principati: (si tratta degli elementi spaziali, divinità minori a cui i pagani attribuivano i movimenti del cosmo); presente-avvenire; le potenze (di nuovo gli elementi del cosmo) altezza-profondità. Di fatto anche questi elementi sono creature, sono state create da Dio e non possono separare l'uomo dal Suo amore.
Questo inno così esaltante è cantato però all’ombra della croce di Cristo, in una sofferenza reale e tangibile, che non chiude però alla speranza e alla gioia di appartenere al Signore.

Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, quando udì della morte di Giovanni Battista, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. Ma la folla, avendolo saputo, lo seguì a piedi dalle città. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”. Ma Gesù rispose: “Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare”.
Gli risposero: “Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!”. Ed egli disse: “Portatemeli qua”. E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli alla folla. Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
Mt 14, 13-21

Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte di un insieme di narrazioni che viene identificata con il titolo di “Sezione dei pani” poiché in essa il termine "pane" ritorna ben 15 volte, il termine "mangiare" 9 volte, per non contare altre espressioni simili come "saziare", "spezzare", "benedire", "lavarsi le mani", "lievito", "briciole", "ceste" ecc
Gesù è reduce dalla visita a Nazareth, dove i suoi concittadini si erano meravigliati della Sua sapienza, perché avendo una conoscenza diretta della famiglia di Gesù, di Sua madre, di tutti i Suoi parenti, vedono in Gesù la sola condizione umana: “per loro egli resta il figlio del carpentiere!”.
Il brano inizia riportando che “quando udì della morte di Giovanni Battista, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte. Ma la folla, avendolo saputo, lo seguì a piedi dalle città.
L'arresto di Giovanni Battista aveva segnato l'inizio della predicazione pubblica di Gesù, ed ora la sua morte segna una nuova svolta della Sua attività. L’atteggiamento di Gesù di ritirarsi in un luogo deserto è un tratto molto caratteristico del Gesù descritto da Matteo: fa parte del suo modo di rivelarsi come Messia. Gesù dunque si ritira, non vorrebbe rivelarsi alla folla, ma è proprio la folla che lo costringe a "uscire" dal suo nascondiglio, poiché lo hanno seguito a piedi lungo la costa del lago.
“Sceso dalla barca, egli vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati.” Egli dunque suo malgrado si commuove per questa folla e guarisce gli infermi. Il verbo che esprime la compassione di Gesù è davvero significativo, corrisponde al verbo ebraico “rachàm, rèchem»” che esprime l’amore viscerale materno.
“Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare”. Ma Gesù rispose: “Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare”
I discepoli vogliono che Gesù "congedi" la folla, essi ritengono che non troppo lontano ci siano dei villaggi nei quali è ancora possibile comprare qualcosa da mangiare. Ma Gesù risponde loro: “Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare”.
Anche noi come i discepoli, avremmo probabilmente fatto notare la sproporzione tra l'insufficienza, la scarsità dei mezzi a disposizione e le necessità smisurate a cui occorreva fare fronte. Gesù non ha convocato tutta quella gente, ma non vuole nemmeno mandarla via a mani vuote .
La preoccupazione dei discepoli per la folla è giusta, ma Gesù ha un pensiero molto più profondo, che li pone di fronte a una responsabilità nuova per loro per questo dice ..”dote loro da mangiare".
Alla risposta sconsolata dei discepoli: ”Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!”, Gesù ribatte: “Portatemeli qua”.
Nella seconda moltiplicazione (Mt 15,34) vedremo che i pani saranno sette. Il pesce diventerà presto un simbolo eucaristico, come si vede nel famoso mosaico bizantino di Tabga. Inoltre nel deserto i figli di Israele erano stati miracolosamente sfamati non solo dalla manna, ma anche dalle quaglie e molti dettagli ricordano il banchetto pasquale.
Cinque pani e due pesci per più di cinquemila persone sono niente… ma a Gesù nulla è impossibile.
E' caratteristico di Matteo questo ordine, mette in risalto la sovranità di Gesù, i discepoli non devono far altro che obbedirgli.
”E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull’erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli alla folla”.
La folla viene fatta accomodare sull'erba e Matteo dà volutamente anche un significato eucaristico all’episodio quando dice che Gesù:, alzò gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione….,.
Sono anche i gesti della berakhà ebraica quotidiana sul pane: "Benedetto sei tu Signore, re del mondo, che fai uscire il pane dalla terra". Non si benedice il pane, ma Dio che lo fa "uscire" dalla terra, con l'uso di un verbo che ricorda l'esodo, ma soprattutto la sovrana libertà del Signore, re del mondo, di produrre lui quanto pane vuole e di moltiplicarlo a suo piacimento.
“Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini”
Non solo tutti furono sazi, ma si raccolsero anche dodici ceste piene di pezzi avanzati, segno che Dio è generoso con i Suoi doni, agisce sempre con sovrabbondanza.
Le dodici ceste sembrano alludere alle 12 tribù di Israele e questo può significare che il Messia ha cura di tutto l'antico popolo dell'alleanza, non lo dimentica!. E’ interessante notare che nella seconda moltiplicazione compiuta in territorio pagano, dato che le ceste avanzate saranno sette ciò potrebbe far pensare al numero delle nazioni (settanta).
Per Matteo questa mensa nel deserto diventa l’anticipazione della cena eucaristica. I discepoli apprendono da Gesù che distribuisce loro i pani il valore della condivisione, inoltre il dar da mangiare alla folla da parte di Gesù è “segno” che Lui é il Messia e che imbandisce un banchetto di gioia per tutta l’umanità.


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LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO

“In questa domenica, il Vangelo ci presenta il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci . Gesù lo compì lungo il lago di Galilea, in un luogo isolato dove si era ritirato con i suoi discepoli dopo aver saputo della morte di Giovanni Battista. Ma tante persone li seguirono e li raggiunsero; e Gesù, vedendole, ne sentì compassione e guarì i malati fino alla sera. Allora i discepoli, preoccupati per l’ora tarda, gli suggerirono di congedare la folla perché potessero andare nei villaggi a comperarsi da mangiare.
Ma Gesù, tranquillamente, rispose: «Voi stessi date loro da mangiare»; e fattosi portare cinque pani e due pesci, li benedisse, e cominciò a spezzarli e a darli ai discepoli, che li distribuivano alla gente. Tutti mangiarono a sazietà e addirittura ne avanzò!
In questo avvenimento possiamo cogliere tre messaggi.
Il primo è la compassione. Di fronte alla folla che lo rincorre e – per così dire – “non lo lascia in pace”, Gesù non reagisce con irritazione, non dice: “Questa gente mi dà fastidio”. No, no. Ma reagisce con un sentimento di compassione, perché sa che non lo cercano per curiosità, ma per bisogno. Ma stiamo attenti: compassione – quello che sente Gesù – non è semplicemente sentire pietà; è di più! Significa con-patire, cioè immedesimarsi nella sofferenza altrui, al punto di prenderla su di sé. Così è Gesù: soffre insieme a noi, soffre con noi, soffre per noi. E il segno di questa compassione sono le numerose guarigioni da lui operate.
Gesù ci insegna ad anteporre le necessità dei poveri alle nostre. Le nostre esigenze, pur legittime, non saranno mai così urgenti come quelle dei poveri, che non hanno il necessario per vivere. Noi parliamo spesso dei poveri. Ma quando parliamo dei poveri, sentiamo che quell’uomo, quella donna, quei bambini non hanno il necessario per vivere? Che non hanno da mangiare, non hanno da vestirsi, non hanno la possibilità di medicine… Anche che i bambini non hanno la possibilità di andare a scuola. E per questo, le nostre esigenze, pur legittime, non saranno mai così urgenti come quelle dei poveri che non hanno il necessario per vivere.
Il secondo messaggio è la condivisione. Il primo è la compassione, quello che sentiva Gesù, il secondo la condivisione. È utile confrontare la reazione dei discepoli, di fronte alla gente stanca e affamata, con quella di Gesù. Sono diverse. I discepoli pensano che sia meglio congedarla, perché possa andare a procurarsi il cibo. Gesù invece dice: date loro voi stessi da mangiare. Due reazioni diverse, che riflettono due logiche opposte: i discepoli ragionano secondo il mondo, per cui ciascuno deve pensare a sé stesso; ragionano come se dicessero: “Arrangiatevi da soli”. Gesù ragiona secondo la logica di Dio, che è quella della condivisione. Quante volte noi ci voltiamo da un’altra parte pur di non vedere i fratelli bisognosi! E questo guardare da un’altra parte è un modo educato per dire, in guanti bianchi, “arrangiatevi da soli”. E questo non è di Gesù: questo è egoismo. Se avesse congedato le folle, tante persone sarebbero rimaste senza mangiare. Invece quei pochi pani e pesci, condivisi e benedetti da Dio, bastarono per tutti. E attenzione! Non è una magia, è un “segno”: un segno che invita ad avere fede in Dio, Padre provvidente, il quale non ci fa mancare il “nostro pane quotidiano”, se noi sappiamo condividerlo come fratelli.
Compassione, condivisione.
E il terzo messaggio: il prodigio dei pani preannuncia l’Eucaristia. Lo si vede nel gesto di Gesù che «recitò la benedizione» prima di spezzare i pani e distribuirli alla gente . E’ lo stesso gesto che Gesù farà nell’Ultima Cena, quando istituirà il memoriale perpetuo del suo Sacrificio redentore. Nell’Eucaristia Gesù non dona un pane, ma il pane di vita eterna, dona Sé stesso, offrendosi al Padre per amore nostro. Ma noi dobbiamo andare all’Eucaristia con quei sentimenti di Gesù, cioè la compassione e quella volontà di condividere. Chi va all’Eucaristia senza avere compassione dei bisognosi e senza condividere, non si trova bene con Gesù.
Compassione, condivisione, Eucaristia. Questo è il cammino che Gesù ci indica in questo Vangelo. Un cammino che ci porta ad affrontare con fraternità i bisogni di questo mondo, ma che ci conduce oltre questo mondo, perché parte da Dio Padre e ritorna a Lui. La Vergine Maria, Madre della divina Provvidenza, ci accompagni in questo cammino.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 3 agosto 2014

Pubblicato in Liturgia
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