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Mercoledì, 30 Dicembre 2020 11:26

1 gennaio 2021 - MARIA SANTISSIMA MADRE DI DIO

Con questa celebrazione iniziamo il nuovo anno accanto a Maria, Madre di Dio e Madre nostra con la viva speranza che in fondo a questo tunnel oscuro che con il vecchio anno stiamo lasciando, si apra un po’ di luce Questa ricorrenza liturgica, strettamente collegata con il titolo mariano di Theotókos, dogma mariano solennemente proclamato dal concilio di Efeso il 22 giugno dell'anno 431, celebra la tematica della Divina Maternità di Maria, ed è la festa più antica in suo onore.
La liturgia odierna, è anche connessa alla celebrazione della pace, istituita da papa Paolo VI l’8 dicembre 1967. La pace è il grande dono atteso e annunziato dagli angeli nel cantico della notte di Natale e questo tema ci viene proposto oggi dalle letture liturgiche.
La prima lettura, tratta dal Libro dei Numeri, riporta la formula di benedizione che veniva pronunciata dai -sacerdoti sul popolo eletto per attirate la benevolenza di Dio.
Nella seconda lettura, San Paolo, scrivendo ai Galati, svela il piano di Dio che ha voluto che Suo Figlio nascesse da una donna, e sotto la legge, perché tutti diventassimo Suoi figli e vivessimo riconciliati nella libertà e nell’amore.
Il Vangelo di Luca ci parla dei pastori che vanno a Betlemme e rendono omaggio al divino bambino e subito dopo, pieni di gioia, annunciano a tutti il lieto evento.
E’ nel nome di Maria, Madre di Dio e madre degli uomini, che si celebra in tutto il mondo la “giornata della pace”, ed oggi ricorre la 54^ giornata.
La pace, in senso biblico, è il dono messianico per eccellenza, è la salvezza portata da Gesù. La pace è anche un valore umano da realizzare sul piano sociale e politico, ma affonda le sue radici nel mistero di Cristo. E’ stato Lui a dire: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi.“ E’ questo il senso della pace che ognuno di noi deve sentire prima nel proprio cuore per poterla poi augurare agli altri!

Dal libro dei Numeri
Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:
Ti benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto
E ti faccia grazia.
Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace.”
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”.
Nm 6,22-27

Il libro dei Numeri, il quarto libro della Bibbia, è stato scritto in ebraico e, secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. La tradizione ebraica e varie confessioni religiose cristiane, ritengono persino che sarebbe stato scritto da Mosè in persona, ma la maggioranza degli esegeti moderni ritiene che tutto il Pentateuco sia in realtà una raccolta, formatasi in epoca post-esilica, di vari scritti di epoche diverse. “Numeri” è il titolo che l'antica traduzione greca ha dato a questo libro perché contiene elenchi e censimenti degli Israeliti in cammino verso la "Terra promessa".
È composto da 36 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.). Infatti molti eventi del Libro avvengono nel deserto, principalmente tra il secondo ed il quarantesimo anno del vagabondare degli Israeliti. I primi 25 capitoli riportano le esperienze della prima generazione d’Israele nel deserto, mentre il resto del libro descrive le esperienze della seconda generazione.
Il brano che abbiamo inizia con queste parole:
“Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro …”
Diversamente da quanto avviene in altri testi in cui la parola o l’ordine è dato a Mosè e ad Aronne insieme, qui Mosè riceve l’incarico di affidare un compito specifico proprio ad Aronne e, per mezzo suo, a tutto l’ordine sacerdotale. La facoltà di benedire il popolo è presentata qui come una prerogativa che compete ai sacerdoti (V. Lv 9,22) e non ai re, come appare in due testi dove sono Davide (V. 2Sam 6,18) e Salomone (1Re 8,14.55-61) a benedire il popolo, o ai leviti (Dt 10,8).
Ancora una volta si fa risalire all’epoca del deserto, con tutta l’autorevolezza della mediazione mosaica una consuetudine dell’epoca in cui è stato composto il libro.
È probabile però che la formula di benedizione qui riportata sia antica perché ha avuto un gran rilievo sulla preghiera di Israele (V. Sal 4,7 e 67,2). La benedizione divina riguardo tutto il popolo e ciascuno dei suoi membri.
“Ti benedica il Signore e ti custodisca.”
La benedizione (berakah) invocata da Dio rappresenta una parola efficace che conferisce benessere e felicità. Come conseguenza della benedizione divina si chiede a Dio di “custodire” Israele. Questo verbo esprime non tanto la protezione del Signore contro un immediato pericolo, ma soprattutto la sua premura per Israele in ogni momento della sua esistenza.
La benedizione prosegue con una invocazione:
” Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia”.
Il volto splendente del Signore è un’immagine per indicare il sorriso con cui si rivolge al Suo popolo. L'immagine del volto luminoso di Dio è frequente nei salmi anche come invocazione (Sal 31,17; 80,4.8.20; 119,135).
Il sorriso del Signore è auspicio di prosperità, di benevolenza e di protezione e la “grazia” consiste appunto nella benevolenza di Dio verso il suo popolo.
La benedizione continua poi con una terza richiesta:
“ Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace.”
Si riprende qui quanto era già stato espresso nel versetto precedente, con l'auspicio che il volto di Dio resti rivolto verso Israele, segno di attenzione e di benevolenza, perché in caso contrario il popolo cade nella disperazione: La benevolenza e l'attenzione di Dio sono premessa del dono della “pace” (shalôm). Questo termine in ebraico ha un significato molto profondo perchè indica non semplicemente l’assenza di guerra, ma soprattutto la pienezza di vita, cioè quello stato di grazia in cui si è liberi dalla necessità e dal male; nelle forme di saluto diventa augurio di una vita serena, equilibrata nella felicità materiale e spirituale.
Il brano termina con queste parole:
“Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”.
Questa espressione vuol dire rendere Dio presente e benevolo in mezzo al popolo.
Si comprende perché questo testo sia stato adottato, nella recente riforma liturgica, come ampliamento (libero) della benedizione del sacerdote nel congedare il popolo dopo la Messa.

Salmo 67 (66) Dio abbia pietà di noi e ci benedica

Dio abbia pietà di noi e ci benedica,
su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via,
fra tutte le genti la tua salvezza.

Gioiscano le nazioni e si rallegrino,
perché tu giudichi i popoli con rettitudine,
governi le nazioni sulla terra.

Ti lodino i popoli, Dio,
ti lodino i popoli tutti.
Ci benedica Dio e lo temano
tutti i confini della terra.

Il salmista presenta come Dio abbia benedetto il suo popolo con un raccolto abbondante: “La terra ha dato il suo frutto”. Ma questo non chiude il salmista nell’appagamento dei beni dati dalla terra, poiché egli manifesta, fin dall’inizio del salmo, il desiderio di un ben più alto dono: quello della presenza del Messia. Per tale presenza il popolo sarà rinnovato e si avrà che tutti i popoli giungeranno a conoscere il vero Dio e a lodarlo: “Su di noi faccia splendere il suo volto; perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti ”. Il salmista conclude il salmo ripresentando il suo desiderio dei tempi messianici: “Ci benedica Dio; il nostro Dio, ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra”. Noi, in Cristo, desideriamo vivamente una terra rinnovata dalla conoscenza di Cristo e dall’azione del suo Spirito, e dobbiamo, nella viva appartenenza alla Chiesa, adoperarci incessantemente per questo.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo ai Galati
Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.
E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio il quale che grida: Abbà, Padre!
Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.
Gal 4,4-7

Paolo scrive la lettera ai Galati probabilmente da Efeso tra il 54 e il 57 e lo fa per controbattere ad una predicazione fatta da alcuni ebrei cristiani dopo che l'apostolo aveva lasciato la comunità: questi missionari avevano convinto alcuni galati che l'insegnamento di Paolo era incompleto e che la salvezza richiedeva il rispetto della Legge di Mosè, in particolare della circoncisione. Paolo condanna tale orientamento, proclamando la libertà dei credenti e la salvezza per mezzo della fede.
In questo brano in particolare Paolo delinea la svolta che si è verificata con l’avvento di Cristo ed inizia affermando: “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.”
Per l’apostolo è chiaro, che Gesù è fin dall’eternità il “Figlio di Dio”, che è nato non solo “da donna”, assumendo così fino in fondo un’umanità limitata e sofferente, ma anche “sotto la Legge”, al punto tale da portarne in modo unico e drammatico la maledizione (Gal 3,13) così la sua vita è stata contrassegnata dalla solidarietà più piena con la situazione di tutta l’umanità. In questo cammino di abbassamento Cristo però non ha mai cessato di essere Figlio, e se Egli si è messo sullo stesso piano dell’umanità peccatrice, lo ha fatto, non per adeguarsi ad essa, ma “per riscattare quelli che erano sotto la Legge”, cioè per portare a termine, come Dio un giorno aveva fatto con il popolo di Israele schiavo in Egitto, una grande opera di liberazione, i cui destinatari non sono soltanto i giudei, ma anche i pagani. Egli ha potuto raggiungere il Suo scopo facendo sì che essi ricevessero l’adozione a figli, cioè diventassero partecipi della Sua stessa qualità di Figlio. Il Figlio di Dio ha dunque manifestato pienamente la Sua “potenza” quando, risuscitando dai morti, ha comunicato a tutti gli uomini la Sua filiazione divina (Rm 1,3).
Paolo sottolinea poi l’efficacia della missione del Figlio affermando ancora : “E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio il quale che grida: Abbà, Padre!” La filiazione divina perciò comporta la presenza e l’opera dello Spirito, che viene designato come “Spirito del suo Figlio”, e come tale è stato “mandato” da Dio “nei nostri cuori”.
La filiazione divina dei credenti appare dal fatto che lo Spirito, presente in essi, grida “Abbà, Padre”:
E’ da notare che il termine Abbà era normalmente usato dai bambini in Palestina per rivolgersi al loro papà, mentre i giudei si rivolgevano a Dio con formule più solenni e rispettose, come Abì (Padre mio) o Abinû (Padre nostro). L’iniziativa di pregare Dio con l’appellativo di Abbà è solo di Gesù, quando ha dato ai suoi discepoli il comando di rivolgersi a Dio chiamandolo “Padre nostro”, coinvolgendoli così nel rapporto che Egli, in quanto unico Figlio, ha con il Padre.
Nel versetto finale: “Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per grazia di Dio” Paolo afferma che il credente deve prendere atto della sua nuova situazione in cui, ormai libero dal peccato, è divenuto figlio di Dio ed erede delle promesse.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, i pastori andarono senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo.
Lc 2,16-21

Questo breve brano tratto dal Vangelo di Luca riprende la seconda parte del racconto della nascita di Gesù, nella quale viene raccontata la visita che i pastori, avvisati dall’angelo, hanno fatto al bambino Gesù. La scelta del testo per la solennità della Madre di Dio è significativa perché cade proprio l'ottavo giorno dopo la nascita del figlio Gesù, che ricorda il rito della circoncisione e dell'imposizione del nome al bambino.
Il brano inizia riportando che
“i pastori andarono senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia.
Invitati dagli angeli a rallegrarsi per la nascita del Salvatore e sollecitati a verificarne il segno, i pastori si muovono ”senza indugio, affrettandosi”, come Maria nell'episodio della visitazione, anch'essi spinti in obbedienza alla parola che è stata loro annunciata. Citando per prima Maria, nel nominare le persone che i pastori incontrano, Luca ci mostra ancora una volta la sua grande venerazione per la Madre di Gesù.
“E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori.”
E' importante notare gli atteggiamenti dei pastori: prima ascoltano, poi si muovono e trovano il segno. A questo punto lo guardano e diventano a loro volta annunciatori, riferendo quanto avevano udito.
Si può comprendere che Luca non sta parlando solo dell'esperienza dei pastori di Betlemme, ma del diffondersi del vangelo. Coloro che accoglieranno la predicazione degli apostoli e faranno esperienza dell'incontro con Gesù e crederanno, potranno comunicare a loro volta questa buona notizia.
“Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.”
Solo Maria non parla, ma conserva in se stessa tutte queste cose meditandole nel suo cuore. Maria non si perde in vane parole, ma pone se stessa e tutta la sua vita in sintonia con quanto Dio aveva detto e stava operando nella storia del suo popolo mediante quel bambino che lei stessa aveva generato.
Luca conclude annotando che i pastori, dopo aver visto il bambino e aver riferito il messaggio che avevano udito, “se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro”. Non solo perciò per quello che avevano udito, ma anche per quello che avevano visto con i loro occhi, a conferma di quanto era stato detto loro.
Il brano si conclude menzionando il rito della circoncisione (attraverso il quale il Bambino è inserito ufficialmente nel popolo di Dio) e l'imposizione del nome, a cui Luca dà un risalto particolare:
"Gli fu messo nome Gesù come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo”.
Il nome nella Bibbia è la realtà stessa della persona che lo porta: tanti Gesù nella storia di Israele avevano portato questo nome, ma nessuno poteva dire di attuarne in pieno il significato: Yehôsua‘ “YHWH salva” il Signore salva. Ora, in questa circoncisione appare il vero Salvatore che recupera a sé nell’alleanza del Suo sangue quel popolo e quell’umanità a cui Egli si sta unendo attraverso il rito della circoncisione. Gesù entra nel tempio non per essere consacrato ma per consacrare, non per essere purificato ma per purificare, non per essere assorbito e dissolto dalla nostra creaturalità, ma per assumere e salvare la nostra umanità così da renderci come Lui figli ed eredi


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“Ieri sera abbiamo concluso l’anno 2019 ringraziando Dio per il dono del tempo e per tutti i suoi benefici. Oggi iniziamo il 2020 con lo stesso atteggiamento di gratitudine e di lode. Non è scontato che il nostro pianeta abbia iniziato un nuovo giro intorno al sole e che noi esseri umani continuiamo ad abitarvi. Non è scontato, anzi, è sempre un “miracolo” di cui stupirsi e ringraziare.
Nel primo giorno dell’anno la Liturgia celebra la Santa Madre di Dio, Maria, la Vergine di Nazareth che ha dato alla luce Gesù, il Salvatore. Quel Bambino è la Benedizione di Dio per ogni uomo e donna, per la grande famiglia umana e per il mondo intero. Gesù non ha tolto il male dal mondo ma lo ha sconfitto alla radice. La sua salvezza non è magica, ma è una salvezza “paziente”, cioè comporta la pazienza dell’amore, che si fa carico dell’iniquità e le toglie il potere. La pazienza dell’amore: l’amore ci fa pazienti. Tante volte perdiamo la pazienza; anch’io, e chiedo scusa per il cattivo esempio di ieri [si riferisce alla reazione verso una persona che, in Piazza, lo aveva strattonato]. Per questo contemplando il Presepe noi vediamo, con gli occhi della fede, il mondo rinnovato, liberato dal dominio del male e posto sotto la signoria regale di Cristo, il Bambino che giace nella mangiatoia.
Per questo oggi la Madre di Dio ci benedice. E come ci benedice, la Madonna? Mostrandoci il Figlio. Lo prende tra le braccia e ce lo mostra, e così ci benedice. Benedice tutta la Chiesa, benedice tutto il mondo. Gesù, come cantarono gli Angeli a Betlemme, è la «gioia per tutto il popolo», è la gloria di Dio e la pace per gli uomini. E questo è il motivo per cui il Santo Papa Paolo VI ha voluto dedicare il primo giorno dell’anno alla pace – è la Giornata della Pace –, alla preghiera, alla presa di coscienza e di responsabilità verso la pace.. Per quest’anno 2020 il Messaggio è così: la pace è un cammino di speranza, un cammino nel quale si avanza attraverso il dialogo, la riconciliazione e la conversione ecologica.
Dunque, fissiamo lo sguardo sulla Madre e sul Figlio che lei ci mostra. All’inizio dell’anno, lasciamoci benedire! Lasciamoci benedire dalla Madonna con il suo Figlio.
Gesù è la benedizione per quanti sono oppressi dal giogo delle schiavitù, schiavitù morali e schiavitù materiali. Lui libera con l’amore. A chi ha perso la stima di sé rimanendo prigioniero di giri viziosi, Gesù dice: il Padre ti ama, non ti abbandona, aspetta con pazienza incrollabile il tuo ritorno (cfr Lc 15,20). A chi è vittima di ingiustizie e sfruttamento e non vede la via d’uscita, Gesù apre la porta della fraternità, dove trovare volti, cuori e mani accoglienti, dove condividere l’amarezza e la disperazione, e recuperare un po’ di dignità. A chi è gravemente malato e si sente abbandonato e scoraggiato, Gesù si fa vicino, tocca le piaghe con tenerezza, versa l’olio della consolazione e trasforma la debolezza in forza di bene per sciogliere i nodi più aggrovigliati. A chi è carcerato ed è tentato di chiudersi in sé stesso, Gesù riapre un orizzonte di speranza, a partire da un piccolo spiraglio di luce.
Cari fratelli e sorelle, scendiamo dai piedistalli del nostro orgoglio – tutti abbiamo la tentazione dell’orgoglio – e chiediamo la benedizione alla Santa Madre di Dio, l’umile Madre di Dio. Lei ci mostra Gesù: lasciamoci benedire, apriamo il cuore alla sua bontà. Così l’anno che inizia sarà un cammino di speranza e di pace, non a parole, ma attraverso gesti quotidiani di dialogo, di riconciliazione e di cura del creato.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 gennaio 2020

Pubblicato in Liturgia

Questa domenica, la prima che viene tra il Natale e il primo dell'anno, la Chiesa ci invita a celebrare la festa della santa Famiglia di Nazareth. Dio, per farsi uomo, ha dovuto assumere la nostra natura umana e nascere in una famiglia, ha voluto così avere una madre e un padre come noi.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, ad Abramo che si lamenta di non avere figli, Dio promette una discendenza numerosa. Abramo, contro ogni logica umana, ha fede nella promessa del Signore, egli avrà una discendenza numerosa come le stelle del cielo: Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, facendo l’elogio della fede dei padri, ricorda Abramo, il padre dei credenti, che si affida a Dio anche nella prova suprema di sacrificare il figlio Isacco, che Dio risparmia. Abramo ha vissuto un’anticipata esperienza di morte e di vita, che l’autore vede come simbolo della morte e risurrezione di Cristo .
Il brano del Vangelo di Luca ci propone la presentazione al tempio e l’incontro con Simeone e la profetessa Anna che indicano in Gesù il Salvatore, la luce per illuminare le genti. Maria riceve da Simeone la rivelazione del destino doloroso a cui va incontro il Figlio per la salvezza dell’umanità.

Dal Libro della Genesi
In quei giorni, fu rivolta ad Abram, in visione, questa parola del Signore: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». Rispose Abram: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede».
Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza».
Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva fissato. Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato, che Sara gli aveva partorito.
Gen 15,1-6. 21,1-2

Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte.
Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
In questo brano, tratto dal capitolo 15, Dio si presenta in visione ad Abramo e gli dice: ”Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande”. Abram risponde sfiduciato: “Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Al colmo della prova Abram è dunque ormai rassegnato ad adottare come erede, il suo domestico, facendo di lui il depositario delle promesse divine. Ma Dio non è di questo parere e gli dice: “Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede”.
Poi il Signore conduce Abram all’aperto e gli dice: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza »” L’erede sarà dunque un figlio di Abram, e da lui nascerà una discendenza numerosa come le stelle del cielo.
Dio non dà ad Abram nessuna garanzia, se non la Sua parola. Di fronte all’evidenza dei fatti, Abram avrebbe potuto tirarsi indietro, abbandonando ogni speranza di avere un figlio, ma egli si affida a Dio divenendo l’emblema del credere puro e senza incrinature, anche nei momenti più ardui dell’esistenza. Il celebre versetto che è il punto focale di questo brano, “Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.” diverrà infatti la base su cui Paolo costruirà la grande meditazione della Lettera ai Romani.
Alla fine la promessa divina ha la sua attuazione, la fede giunge alla meta della pace e della gioia. E’ all’interno di quella piccola creatura nata da due coniugi molto in là con gli anni, Isacco, che Dio rivela il Suo amore e la Sua fedeltà. La famiglia diventa, quindi, il segno della fede dell’uomo e dell’amore di Dio.

Salmo 104 Il Signore è fedele al suo patto.
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome,
proclamate fra i popoli le sue opere.
A lui cantate, a lui inneggiate,
meditate tutte le sue meraviglie.

Gloriatevi del suo santo nome:
gioisca il cuore di chi cerca il Signore.
Cercate il Signore e la sua potenza,
ricercate sempre il suo volto.

Ricordate le meraviglie che ha compiuto,
i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca,
voi, stirpe di Abramo, suo servo,
figli di Giacobbe, suo eletto.

Il salmo lo si ritrova pure nel primo libro delle Cronache (18,8-22), ed è fatto risalire a Davide.
Il salmo inizia con un invito a lodare Dio e a proclamarne le opere tra le genti.
Nessun complesso di inferiorità devono avere gli Israeliti di fronte al fasto e alla potenza delle nazioni pagane, poiché essi conoscono il vero Dio e da lui sono stati eletti a suo popolo: “Gloriatevi del suo santo nome”.
“Chi cerca il Signore”, cioè l'intima conoscenza di lui ottenuta con la fede, con l'amore, con l'obbedienza alla sua Parola, non può essere triste: “Gioisca il cuore di che cerca il Signore”.
Il salmo invita così a “cercare” il Signore: “Cercate il Signore e la sua potenza, ricercate sempre il suo volto”. E' un cercare dopo essere stati raggiunti da Dio; è un cercare che nasce dall'aver trovato; ed è un trovare che porta ancora a cercare, all'infinito.
Il salmista invita a ricordare le meraviglie che Dio ha compiuto. E' un ricordare che attiva, promuove la corrispondenza fattiva all'amore di Dio. Dio pure “si è sempre ricordato della sua alleanza...”, cioè vi è fedele, indubitabilmente fedele.
Il salmo procede poi facendo memoria di quanto Dio ha fatto per il suo popolo a partire da Abramo, Isacco e Giacobbe. Gli Israeliti furono liberati dall'Egitto, e Dio “castigò i re per causa loro”, affinché avessero "le terre delle nazioni".
Gli Israeliti sono presentati come “consacrati” (unti), perché eletti da Dio in virtù delle promesse fatte ad Abramo, dell'alleanza del Sinai, e della fede in lui, in attesa del futuro Messia. Essi sono designati come “profeti” (Cf. Gn 20,7), perché depositari delle promesse.
Il salmo non viene recitato nella Liturgia delle Ore, solo perché ripete la grande storia di Israele, già presentata, in sintesi, in altri salmi.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.
Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.
Eb 11,8.11-12.17-19 .

Il capitolo 11 della lettera agli Ebrei, inizia con un versetto non riportato da questo brano, che definisce in poche parole che cosa è la fede: La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede.
Con queste parole la fede è presentata come la certezza di ottenere un giorno quelle realtà che, proprio perché non si vedono, sono oggetto di speranza. L’autore intende qui affermare che il credente è colui che non si ferma alle realtà visibili e materiali, ma si orienta con piena fiducia verso beni futuri (trascendenti), non ancora visibili ma testimoniati dalla parola di Dio e quindi sicuramente godibili.
Dopo aver dato la sua definizione della fede, l’autore soggiunge “Per mezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza”. Con queste parole egli lascia intendere che non farà un discorso astratto sulla natura della fede, ma presenterà esempi concreti per guidare i suoi lettori nel loro cammino di fede. Nella rassegna dei testimoni della fede (che il brano liturgico tralascia) sono ricordati alcuni personaggi come: Abele, Enoc e Noè, esistiti prima che il popolo ebraico apparisse alla ribalta della storia.
Dopo i personaggi della storia primordiale, l’autore presenta: “Abramo che per fede, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava”.
Questa prima fase, in cui predomina la tensione tra quello che è posseduto a quello che non lo è ancora, tra quello che si vede e quello che non si vede, si concretizza la promessa divina..
La seconda fase si svolge attorno al tema della “discendenza” oggetto della seconda promessa fatta da Dio ad Abramo. : “Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso”. Anche qui è sottolineato il contrasto tra la sterilità di Sara e la potenza di generare che è superato grazie alla “fede”, che spinge a far affidamento sulla potenza e fedeltà di Dio.
“Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare”.
Il terzo momento, quello della prova manifesta al massimo la forza della fede.
“Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo”.
La crisi viene superata da Abramo, il quale si fida della “potenza” di Dio, sapendo che è capace anche di risuscitare i morti: perciò riottene il figlio come un “simbolo” cioè come caparra della pienezza futura.
L’esperienza di Abramo mostra chiaramente che la fede, vissuta come apertura a un futuro che Dio promette, consiste in un rapporto personale con Lui, in forza del quale è possibile superare la fragilità e la miseria di una vita segnata inesorabilmente dalla morte.
È così che Abramo. proprio per aver accettato per fede la morte del figlio, ottiene una specie di risurrezione anticipata, che troverà compimento nella risurrezione di Cristo e di coloro che crederanno in Lui. La fede dei patriarchi è quindi solo una prefigurazione della fede di cui godono i credenti in Cristo.

Dal Vangelo secondo Luca
Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, (Maria e Giuseppe) portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
Lc 2,22-40

Nel suo Vangelo, Luca ci presenta la vita di Gesù anche all'interno delle pratiche religiose giudaiche, e in questo brano porta la nostra attenzione sulla presentazione al Tempio al quarantesimo giorno dalla Sua nascita. E’ un quadro pieno di personaggi in cui si intravedono tutti i misteri contemplati nell'Incarnazione e nella Natività.
Il brano inizia riportando che:“Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore»” –
Anche la famiglia di Gesù si sottopone alla Legge in tutte le sue prescrizioni. La legge consisteva anzitutto nella circoncisione del primogenito, che prevedeva il rito del "riscatto" del bambino e dell’imposizione del nome (Gen 17,9-14;). Il nome è importante perché indica il mistero irripetibile della persona umana. Rivelare il nome, imporre il nome, chiamare per nome, afferma la relazione con l’altro, così Gesù entra anche giuridicamente nella comunità degli uomini,.
“e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore”
Per le famiglie benestanti questa offerta imponeva il sacrificio di un grosso animale, mentre per le famiglie povere, l’offerta poteva consistere in colombi o tortore (Lv 12,1-8). Luca qui precisa che Giuseppe e Maria offrirono il sacrificio dei poveri e con questo gesto vengono annoverati tra i poveri di Israele.
“Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui”.
Simeone viene presentato con tre qualità: giusto, pio e paziente e “che aspettava la consolazione d'Israele”. Simeone dunque è un uomo dall’attesa speranzosa e in questi suoi atteggiamenti troviamo in lui il dono dello Spirito Santo.
“Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio”,
E’ lo Spirito Santo stesso che agisce in Simeone perché lo spinge a recarsi al tempio e nel gesto di prendere tra le braccia il bambino e benedire Dio, accoglie il mistero del Dio incarnato. Esprime poi la gioia di questo incontro preannunciando una straordinaria profezia su Gesù e Maria.
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui.
L’esultanza di Simeone è paragonabile a quella di Maria e di Zaccaria; egli percepisce di aver finalmente realizzato l’incontro della sua vita! Simeone si pone dinanzi a Dio in rapporto di servo in totale dipendenza dal Signore, Creatore del mondo al quale Simeone è stato fedele durante tutta la sua esistenza. Ora egli non dovrà più attendere: i suoi occhi hanno potuto vedere la salvezza, la luce e la gloria, nella estrema debolezza di un bambino! Soltanto colui che ha saputo attendere nella fede, ora può esultare nella lode!
Simeone poi, sempre spinto dallo Spirito Santo, preannuncia la Passione e la Resurrezione di Gesù, e dice rivolgendosi a Maria: “egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l'anima–, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».”
Nel mondo giudaico l'immagine della spada veniva usata per indicare la Parola di Dio. Paolo userà spesso questo termine e nella lettera agli Ebrei il suo autore affermerà “la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio”(Eb 4,12). Gesù sarà quella spada che dividerà quanti l'accolgono da coloro che lo rifiutano.
“C'era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”
Luca introducendo questa parte fa uscire di scena Simeone per sostituirlo con un'altra figura profetica:, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser, citata subito col raro titolo di profetessa come Debora (Gdc 4,4) . L’evangelista ci dice che Anna era vissuta con il marito per 7 anni e poi rimasta vedova aveva 84 anni. Non è un caso che citi proprio questo numero perché nella simbologia dei numeri il 7 significa compiutezza e perfezione, richiamandosi ai giorni che ha impiegato Dio per creare il mondo, la cui importanza simbolica deriva dal fatto che il 7 è la somma di tre e 4, che rappresentano rispettivamente il cielo e la terra. Perciò il 7 è il risultato dell’unione del mondo spirituale con quello materiale. Come per il 7 l’importanza simbolica del 12 deriva dal 3 moltiplicato per 4 che danno per risultato appunto 12 che sta ad indicare la fusione della sfera spirituale e materiale (12 è anche il numero delle tribù di Israele e del numero degli apostoli). Non è ardito pensare che questo numero sia stato messo per la sua forte valenza simbolica per confermare due eventi importanti e simultanei: il primo ingresso di Gesù nel tempio e il suo riconoscimento come salvatore di Israele, il Messia..
“Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
In quest’ultima espressione di Luca, c’è la conclusione in cui possiamo intravedere l'umanità di Gesù, che cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, l'umanità di Maria, che meditando le parole del vecchio Simeone, vive la sua maternità, in vista della Passione redentrice del Figlio Gesù, che è anche la sua passione dolorosa di corredentrice del genere umano, l'umanità di Giuseppe che provvede a formare con Gesù e Maria una famiglia terrena alla luce della grazia di Dio.

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“In questa prima domenica dopo il Natale, celebriamo la Santa Famiglia di Nazaret, e il Vangelo ci invita a riflettere sull’esperienza vissuta da Maria, Giuseppe e Gesù, mentre crescono insieme come famiglia nell’amore reciproco e nella fiducia in Dio. Di questa fiducia è espressione il rito compiuto da Maria e Giuseppe con l’offerta del figlio Gesù a Dio. Il Vangelo dice: «Portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore» , come richiedeva la legge mosaica. I genitori di Gesù vanno al tempio per attestare che il figlio appartiene a Dio e che loro sono i custodi della sua vita e non i proprietari. E questo ci fa riflettere. Tutti i genitori sono custodi della vita dei figli, non proprietari, e devono aiutarli a crescere, a maturare.
Questo gesto sottolinea che soltanto Dio è il Signore della storia individuale e familiare; tutto ci viene da Lui. Ogni famiglia è chiamata a riconoscere tale primato, custodendo ed educando i figli ad aprirsi a Dio che è la sorgente stessa della vita. Passa da qui il segreto della giovinezza interiore, testimoniato paradossalmente nel Vangelo da una coppia di anziani, Simeone e Anna. Il vecchio Simeone, in particolare, ispirato dallo Spirito Santo dice a proposito del bambino Gesù: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione […] affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
Queste parole profetiche rivelano che Gesù è venuto per far cadere le false immagini che ci facciamo di Dio e anche di noi stessi; per “contraddire” le sicurezze mondane su cui pretendiamo di appoggiarci; per farci “risorgere” a un cammino umano e cristiano vero, fondato sui valori del Vangelo. Non c’è situazione familiare che sia preclusa a questo cammino nuovo di rinascita e di risurrezione. E ogni volta che le famiglie, anche quelle ferite e segnate da fragilità, fallimenti e difficoltà, tornano alla fonte dell’esperienza cristiana, si aprono strade nuove e possibilità impensate.
L’odierno racconto evangelico riferisce che Maria e Giuseppe, «quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva – dice il Vangelo – e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» . Una grande gioia della famiglia è la crescita dei figli, tutti lo sappiamo. Essi sono destinati a svilupparsi e fortificarsi, ad acquisire sapienza e accogliere la grazia di Dio, proprio come è accaduto a Gesù. Egli è veramente uno di noi: il Figlio di Dio si fa bambino, accetta di crescere, di fortificarsi, è pieno di sapienza e la grazia di Dio è sopra di Lui. Maria e Giuseppe hanno la gioia di vedere tutto questo nel loro figlio; e questa è la missione alla quale è orientata la famiglia: creare le condizioni favorevoli per la crescita armonica e piena dei figli, affinché possano vivere una vita buona, degna di Dio e costruttiva per il mondo.
È questo l’augurio che rivolgo a tutte le famiglie oggi, accompagnandolo con l’invocazione a Maria, Regina della Famiglia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 31 dicembre 2017

Pubblicato in Liturgia
Martedì, 22 Dicembre 2020 15:58

NATALE DEL SIGNORE -25 dicembre 2020

Siamo giunti a Natale con tutto il carico di preoccupazioni, gioie e dolori che abbiamo accumulato nell’anno che fra poco terminerà. Per questo giorno di festa un’antica consuetudine prevede tre messe, dette la prima “della notte”, la seconda “dell’aurora” e la terza “del giorno”. In ognuna, tramite le letture proposte, viene presentato un’immagine diversa del mistero, in modo da avere di esso una visione in un certo senso tridimensionale.
La Messa della Notte, ci presenta la nascita di Gesù e le circostanze in cui avvenne.
La Messa dell’aurora, con i pastori che vanno a Betlemme, ci indica quale deve essere la nostra risposta al richiamo degli angeli: andare senza indugio anche noi ad adorare il bambino.
La Messa del giorno è riservata ad una riflessione più approfondita del mistero.
Nelle prime due messe era l’evangelista Luca a narrarci la nascita di Gesù da Maria, mentre la Messa del giorno, è l’evangelista Giovanni con il glorioso inno del Prologo del suo Vangelo a rivelarci la realtà di Colui che è nato: il Verbo eterno di Dio esistente prima della creazione del mondo.
Sta terminando un anno in cui abbiamo vissuto l’inimmaginabile, siamo stati messi alla prova e non sappiamo quando questa condizione dovuta alla pandemia terminerà. Ma da questa dolorosa esperienza che ha colpito il mondo intero, possiamo però trarre un prezioso insegnamento: abbiamo avuto la possibilità di sentire con più intensità il mistero del nostro limite e fare cosi un passo in più verso il mistero del cuore di Dio. Ogni Natale, e questo ancora con più forza, ci ricorda che Dio è presente nella storia per condurla al suo fine ultimo, per condurla alla sua pienezza. Egli è l’Emmanuele il “Dio con noi”! Dio non è lontano, è sempre con noi, al punto che tante volte bussa alle porte del nostro cuore, anche quando è passato e non lo abbiamo riconosciuto.

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Messa della Notte

Dal libro del profeta Isaia
Il popolo che camminava nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia,hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete
e come si esulta quando si divide la preda.
Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva,
la sbarra sulle sue spalle,
e il bastone del suo aguzzino,
come nel giorno di Madian.
Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando
e ogni mantello intriso di sangue
saranno bruciati, dati in pasto al fuoco.
Perché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace.
Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine
sul trono di Davide e sul suo regno,
che egli viene a consolidare e rafforzare
con il diritto e la giustizia, ora e per sempre.
Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.
Is 9,1-6

Il profeta Isaia, dopo le minacce e i tristi presagi che prima aveva espresso nel capitolo precedente, in questo celebre brano, sprigiona un canto di speranza e di liberazione per confortare gli ebrei deportati dal Re di Assiria nel 732 a.C. (2Re 15,29).
“Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia,hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda. “
Questi versetti ci presentano la speranza con quattro immagini; le prime due sono luce e gioia: “ha visto una grande luce …una luce rifulse”. Le tenebre, simbolo del nulla e della morte, sono cancellate dalla luce. Isaia vuole predire una creazione nuova, una vita nuova, e l’uomo può tornare a guardarsi attorno, a vedere, a realizzarsi perché non si sente più minacciato, c’è Dio con lui. Poi viene ripetuto il concetto della gioia, “hai moltiplicato la gioia…aumentato la letizia”. Il termine gioia è sempre strettamente legato alla luce e le altre due immagini sono quelle della mietitura e della battuta di caccia. Sono due immagini che nel nostro tempo ci dicono poco, ma solo 50-70 anni fa si facevano feste al momento della mietitura e della caccia ed in entrambi i casi, sia i contadini che i cacciatori, condividevano il lavoro ed i suoi risultati, e questo dava gioia.
Isaia nei versetti seguenti presenta la ragione di tanta gioia: “Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Madian”.
Quel “tu” si riferisce a Dio perché la speranza non può che venire da Dio. Il primo motivo della speranza è il dono della libertà. Le immagini si riferiscono alla deportazione degli Israeliti del nord dove, agli uomini veniva messo un giogo o una trave perché non scappassero ed erano spronati a camminare a bastonate.
Dio annienterà l’avversario, in un modo così sorprendente che Isaia lo paragona alla notte di Madian (Gdc.7-8) dove Gedeone, con pochi soldati, riesce, nella notte e solamente con l’aiuto della luce delle torce, a mettere in fuga un intero accampamento nemico
“Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco”. Tutto ciò che ricorderà la guerra come le calzature impolverate dei soldati o la loro divisa sporca di sangue, sarà ridotto in polvere come qualcosa da struggere che appartiene solo al comandante divino. Il fuoco cancella tutta la sofferenza che c’è stata!
“Perché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.”
È Dio stesso che dona un bambino, il motivo più grande di speranza! Questo lo si capisce dal passivo “ci è stato dato” perché nella Bibbia ogni volta che si incontra un passivo, si sottintende che l’autore è Dio.
Dio sta facendo un’opera unica e definitiva e in questo versetto si sottolineano gli attributi di questo bambino
.“Consigliere ammirabile”. È un titolo che rimanda alla politica interna. Questo bambino sarà saggio come Salomone, capace di grandi decisioni e non folle e temerario come i suoi predecessori, e farà meraviglie cioè governerà in piena sintonia col Signore
“Dio potente”. È un titolo che riguarda la funzione politica estera e militare. Chiamarlo Dio, per gli Ebrei, voleva indicare lo stretto legame che il bambino avrebbe avuto col Signore; indica la capacità di portare a termine i suoi progetti senza che alcuno glielo possa impedire. Dio lo proteggerà e lo guiderà a favore del suo popolo.
“Padre per sempre”. È un appellativo di taglio sociale. Essendo re è “padre della patria” ma la sua paternità è duratura. È un padre e quindi a servizio del suo popolo, se ne prenderà cura. Sarà padre e non padrone!.
“Principe della pace”, principe non di nuove conquiste ma di pace e questa porta tutti quei beni personali e comunitari che rendono la vita degna di essere vissuta;
“Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre. Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.
Grazie a questo amore senza limiti di Dio che noi riceviamo tutti i doni anche quello della pace, della libertà e della luce che sono portati dal Messia.
Il profeta Isaia, otto secoli prima di Cristo, oltre ad anticiparci il giubilo per i giorni in cui il Messia si manifesterà e dissiperà le tenebre, per la natività di Colui che porterà sulla terra la pace, ci lascia intravedere qualcosa del mistero e della missione del Cristo.

Salmo 96 (95) Oggi è nato per noi il Salvatore.

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.

Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.

Gioiscano i cieli, esulti la terra,
risuoni il mare e quanto racchiude;
sia in festa la campagna e quanto contiene,
acclamino tutti gli alberi della foresta

Davanti al Signore che viene:
sì, egli viene a giudicare la terra;
giudicherà il mondo con giustizia
e nella sua fedeltà i popoli.

Il salmo è un invito all'assemblea dei popoli a riconoscere la grandezza di Dio. L'universalismo del salmo ha come base l'unicità di Dio, e la consapevolezza che tutti i popoli della terra hanno un'origine comune, e che, allontanatisi da Dio, ne hanno in qualche misura un ricordo nelle loro concezioni religiose, infettate di politeismo e di idolatria. Ora Dio chiama a raccolta tutte le famiglie dei popoli a ritornare a lui (Cf. Ps 21,28), che ha formato un popolo quale suo testimone, radunato attorno al tempio di Gerusalemme.
Il popolo di Israele è invitato a diffondere la conoscenza del vero Dio in mezzo ai popoli. Una certezza deve avere Israele, che egli è “terribile sopra tutti gli dei”, e che “tutti gli dei dei popoli sono un nulla”. Dietro gli dei concepiti dalle nazioni sono presenti i demoni sui quali Dio esercita pieno dominio.
L'invito ai popoli non è solo quello di aprirsi a Dio, ma di andare pellegrini “nei suoi atri”, e prostrarsi davanti a lui. Il “suo atrio santo”, sono quelli del tempio di Gerusalemme. I “sacri ornamenti”, sono vesti degne del tempio.
Tutta la terra deve essere presa dal timore di Dio: “Tremi davanti a lui tutta la terra”.
L'annuncio di Israele ai popoli deve affermare la regalità di Dio su di loro: “Dite tra le genti: ”.
Egli è colui che con la sua provvidenza regge il mondo, e agisce con giustizia sui popoli: “È stabile il mondo, non potrà vacillare! Egli giudica i popoli con rettitudine”.
Il Signore “viene a giudicare la terra”; questo avverrà con la venuta di Cristo, re di giustizia e di pace il quale affermerà la giustizia (Cf. Ps 93). “Viene”, dice il salmista. Ora è venuto il Cristo, il Figlio di Dio incarnatosi nel grembo verginale di Maria. Egli viene continuamente con la sua grazia (Ap 1,8); poi, alla fine del mondo, verrà per il giudizio finale: “Giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli”. “Nella sua fedeltà”, cioè per dare la risurrezione gloriosa a coloro che lo hanno accolto.
Difficile poter dire la data di composizione del salmo; probabilmente è stato scritto in un tempo di grande compattezza di Israele, poco dopo la costruzione del tempio di Salomone, prima che avvenisse lo scisma delle tribù del nord (1Re 11,26s).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito
Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.
Tt 2,11-14

Durante la sua prigionia a Roma attorno all’anno 66, è possibile che Paolo, o un suo discepolo qualche anno dopo, abbia scritto questa lettera a Tito, collaboratore di Paolo e da lui convertito. Tito fu presente alla grande assemblea di Gerusalemme (50 d.C.) e Paolo lo prepose alla comunità cristiana di Creta quale “vescovo”. La lettera a Tito fa parte del gruppo delle tre lettere "pastorali" (La lettera a Tito e le due a Timoteo), così chiamate perché rivolte a dei capi responsabili di comunità con un discorso di carattere ufficiale e autorevole che riguarda l'intera comunità. Più che delle lettere sembrano delle raccolte di norme per l'organizzazione della comunità, di consigli per le varie categorie di persone e suggerimenti generali per la vita pratica o la soluzione di problemi ecclesiali..
Nella lettera a Tito si trovano due brani che fanno riferimento all'incarnazione del Verbo di Dio e per questo motivo sono inserite nella liturgia di Natale.
In questo brano Paolo indica a Tito il motivo per cui deve impegnarsi a fondo nella sua opera pastorale. Egli si riferisce a un evento di importanza determinante per tutta l’umanità: “è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”. Tutto è cominciato per iniziativa di Dio, il quale ha manifestato la Sua grazia, cioè la Sua bontà e il Suo amore conferendo la “salvezza” a tutti gli uomini. Tramite la Sua grazia, Dio ha dato una profonda regola di vita: “ ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo”. L’insegnamento di Dio non consiste in norme o leggi imposte con la sua autorità, ma in una istruzione analoga a quella data dai saggi, che si incarna nella vita e nell’esperienza umana. L’insegnamento di Dio ha come effetto una rottura con il passato, che consiste nel rinnegamento dell’empietà, cioè della negazione di Dio, e dei desideri mondani cioè dell’attaccamento alle cose di questo mondo. In positivo esso dà al credente la possibilità di vivere in questo mondo con sobrietà, giustizia e pietà, cioè esercitando correttamente il proprio rapporto con se stesso, con il prossimo e con Dio. Da questo dono di Dio in Cristo deriva per i credenti la possibilità di distaccarsi dai desideri egoistici tipici dell’umanità per vivere una vita santa. L’esercizio delle virtù non deriva dunque né dalla legge né dallo sforzo della volontà, ma da un dono interiore che trasforma l’uomo cambiando in profondità la sua mentalità e spingendolo spontaneamente al bene.

Dal Vangelo secondo Luca
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.
Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».
Lc 2,1-14

Luca, riporta nel secondo capitolo del suo Vangelo fatti storici paralleli a quelli umili in cui stava per nascere il Figlio di Dio. Non si può fare a meno di considerare che mentre a Roma si decidevano le sorti del mondo, mentre le legioni romane mantenevano la pace con la spada, in questo meccanismo burocraticamente e apparentemente perfetto, capita qualcosa imprevisto dai potenti: nasce un bambino, che cambia la direzione della storia.
“In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra.”
Luca è il primo a collocare la nascita di Gesù all'interno della storia. Le indicazioni che dà però non sono precise e hanno fatto molto discutere gli studiosi. Il suo intento forse non era tanto quello della precisione storica, quanto quello di inserire la nascita di Gesù nella storia universale. L'imperatore era certamente Ottaviano Augusto, poiché egli regnò dal 27 a.C. al 14 d.C. Egli ordinò due censimenti dei cittadini romani, nel 27 e nell'8 a.C.. Il censimento di cui parla Luca dovette essere piuttosto il giuramento di fedeltà che Erode chiese ai suoi sudditi nel 6/7 a.C. (ricordiamo che Gesù non è nato proprio nell'anno 0, come aveva calcolato Dionigi il Piccolo, bensì qualche anno prima cioè nel 6/7 a.C.).
Le parole di Luca hanno però un senso teologico. Gesù doveva essere compreso nel censimento di tutta la terra, anche lui ormai faceva parte dell'umanità.
“ Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria.”
Il primo censimento fatto sotto Erode sicuramente doveva interessare la Palestina, però anche qui possiamo far prevalere il senso teologico, il primo censimento del Primogenito Gesù, la primizia della salvezza che interessa tutta la terra!
Anche la menzione di Quirinio pone qualche problema perchè egli fu legato in Siria solo dal 6 d.C. ed effettivamente in quel periodo fece un censimento. Può darsi che Luca si sia confuso un po' nell'attribuzione dei censimenti. E’ da tenere presente che egli scriveva 70 anni dopo i fatti e le informazioni storiche non erano così facilmente reperibili come al giorno d'oggi.
“Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.”
Non era usuale che per il censimento si andasse nella propria città di origine. Probabilmente, assecondando l'importanza che gli orientali davano al proprio clan, Erode chiese il giuramento in questa forma.
“Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta”
Tutte queste indicazioni preliminari permettono comunque a Luca di affermare due elementi molto importanti riguardo la nascita di Gesù: egli era discendente di Davide e nacque a Betlemme, così che si compisse la profezia di Michea
“E tu, Betlemme di Efrata…da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele” (5,2): .
“Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”
Il termine alloggio non è facile tradurlo. Si può pensare ad un ricovero di passaggio per i viaggiatori, una specie di caravanserraglio. Ma nel racconto di Luca sembra che l’unico luogo possibile potesse essere una povera abitazione con accanto una stalla. Questo per sottolineare che non c'era posto per loro a Betlemme e che quindi Gesù, pur essendo discendente di Davide, viene al mondo in una situazione di povertà e insicurezza.
“C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge”.
Dal luogo chiuso della stalla si passa ai campi nei dintorni di Betlemme dove vi erano dei pastori che vegliavano il proprio gregge. E’ poco verosimile che Gesù sia nato in inverno, visto che i greggi passavano la notte all'aria aperta da marzo a novembre (la festa del Natale è stata fissata al 25 dicembre per soppiantare la festività pagana del Sol invictus che celebrava dopo il solstizio di inverno, il riprendersi della luce del sole dopo la notte più lunga dell'anno).
“Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore,”
i pastori allora erano considerati gli ultimi nella scala sociale, erano disprezzati e considerati gente rude e ignorante e persino la loro testimonianza non era ammessa in tribunale. Solo Dio poteva scegliere proprio loro per il primo annuncio dell'incarnazione!. E’ probabile che questo annuncio ai pastori è motivato anche dal fatto che pure Davide fosse pastore prima di diventare re di Israele. Quindi la presenza dei pastori, come la città di Betlemme e la sua discendenza da Davide, sottolinea nuovamente la messianicità di Gesù.
“ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo”:
L'angelo li rassicura, come Gabriele ha rassicurato Zaccaria (Lc 1,13) e Maria (1,30).. L'annuncio è di gioia, la gioia caratteristica dei tempi nuovi e che percorre tutto il vangelo. Anche il popolo ha una parte importante nel vangelo di Luca. E' lo spettatore delle opere di Gesù e lo segue nel suo cammino verso Gerusalemme, fin sotto la croce (Lc 23,35).
“ oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”
Il tema dell'oggi chiude tutto il periodo delle promesse e delle attese. E' l'oggi che diventa presente in ogni epoca nella Chiesa. Il lieto annuncio riguarda la nascita del Messia. Per ora l'annuncio degli angeli rimane nell'ambito delle attese di Israele.
“Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”
Il segno dato dagli angeli ai pastori contrasta con quanto essi hanno annunciato: la gloria di Dio si rivela nella povertà terrena, in un neonato “avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”.
E' il mistero di un Dio che si avvicina all'umanità nel bisogno, un segno che prefigura l'insegnamento, il comportamento e la morte di Gesù. Un segno che mette l'uomo davanti alla scelta di convertirsi. Appare il rovesciamento dei valori che costituisce la base della fede cristiana: Gesù crocifisso.
“E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».”
Improvvisamente lo schema dell'annunciazione si apre in un inno di lode cantato dalle schiere angeliche: il cantico nuovo della liturgia celeste che celebra la nascita del Messia, sul modello della lode che nella letteratura giudaica accompagna l'opera divina della creazione.
La parola "pace" esprime tutto il contenuto della salvezza che è iniziata a Betlemme. Questa PACE non è assenza di guerra, ma comunione piena con Dio che si ripercuote in rapporti giusti e pieni tra gli uomini e con se stessi.
La pace scende sugli uomini che Dio ama, cioè coloro che Dio ha scelto, non solo l'Israele storico, ma il popolo di Dio al quale tutte le nazioni sono chiamate ad aderire.

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NATALE del Signore 2020
Messa del giorno

Dal libro del profeta Isaia
Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace,
del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce,
insieme esultano,
poiché vedono con gli occhi
il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutte le nazioni;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.
Is 52,7-10

Questo brano fa parte dei testi contenuti nei capitoli 40-55, attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Di lui si sa solo che il suo messaggio si colloca attorno al 538 a.C., l’anno in cui Ciro, re dei Persiani, ha permesso agli Ebrei, esiliati a Babilonia, di ritornare al loro paese. Gli è stato dato questo nome perchè il suo pensiero s’ispirava a una tradizione che risale al grande profeta Isaia (740-700 a.C.).
Questo brano, in particolare, fa parte del libro della Consolazione, e annunzia come nei due precedenti brani della Messa “della notte” e “dell’aurora”, la buona novella. Si apre con l’immagine di un messaggero che, correndo sui monti, porta a Gerusalemme il lieto messaggio del ritorno degli esuli. La bellezza di questo messaggio viene proiettata sui piedi stessi del messaggero, che gli permettono di raggiungere velocemente la città santa. Il messaggio che egli porta ha direttamente come oggetto la salvezza, che si attua mediante un nuovo esodo non più dall’Egitto ma da Babilonia. Questa salvezza coincide con la pace, intesa qui come simbolo di prosperità e di gioia. Infine questa salvezza viene attribuita al fatto che il Signore regna. Nel versetto successivo viene ripreso il tema del messaggero, ma questa volta non si tratta però di un messaggero che giunge correndo, ma delle sentinelle, poste a custodia della città, le quali prorompono di gioia e lanciano forti grida perché vedono l’arrivo degli esuli. Il profeta però non parla direttamente delle carovane che giungono a Gerusalemme, ma del ritorno del Signore in Sion.
(Secondo Ezechiele (10,18-22) prima della caduta di Gerusalemme il Signore aveva abbandonato il tempio e la città e si era diretto nel luogo in cui si trovavano gli esiliati; ora è il Signore stesso che ritorna portando con sé coloro che ritornano dall’esilio).
Alla gioia delle sentinelle fa eco quella della città santa, di cui sono rimaste solo delle rovine. Il profeta immagina che queste rovine cantino di gioia perché il Signore ha consolato il suo popolo (Is 40,1), e ha riscattato Gerusalemme, cioè le ha dato nuovamente il privilegio di essere il luogo della sua dimora.
La regalità del Signore si manifesta non tanto nel fatto di aver reso possibile il ritorno dei giudei nella loro patria, quanto piuttosto nell’aver riunito un popolo ormai disperso, incapace di ritrovare la sua identità. La sua forza, rappresentata nel suo santo braccio snudato che si alza contro i nemici, non si riferisce come altre volte ad eventi di guerra, ma alla rinascita religiosa e civile del Suo popolo.
Per noi cristiani la risposta di Dio ai problemi del mondo è un bambino nella mangiatoia, il segno della misericordia di Dio sulla storia dell'umanità e di ogni singolo uomo. Segno che, se rimane rifiutato e ignorato, lascia nel buio e nella solitudine; mentre se é compreso e accolto, fa rinascere la gioia di sapere che la vita – ogni vita dal suo sorgere fino al suo spegnersi - è nelle mani del Signore.

Salmo 98 (97) - Tutta la terra ha veduto la salvezza del nostro Dio

Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Cantate inni al Signore con la cetra,
con la cetra e al suono di strumenti a corde;
con le trombe e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19):
“I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo. La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto:
«Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»?
E ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»?
Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice:
«Lo adorino tutti gli angeli di Dio».
Eb 1,1-6

L’ autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
Questo brano, presenta la venuta di Cristo come il culmine della rivelazione che Dio ha fatto agli uomini. Inizia con una frase magistrale: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti,”
In questo primo versetto il protagonista è Dio, che durante i secoli ha parlato di sé agli uomini. Si tratta di una lunga storia, fatta di diverse tappe, diversi incontri tra Dio e i nostri padri. ossia i nostri antenati. Ha parlato attraverso degli intermediari, cioè i profeti e a tutti coloro con cuore sincero che si avvicinavano a Lui.
“ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo”
Ultimamente e definitivamente Dio ha parlato attraverso il Figlio, che è la Sua parola vivente. Nella tradizione biblica l'eredità era molto importante e già a partire da Abramo il popolo di Israele viveva in situazioni precarie in cui avere un erede non era sempre facile (la storia di Abramo ce lo insegna). Il Figlio qui è l'erede universale, il legittimo Signore dell'universo ma anche Colui nel quale si compiono le promesse messianiche di pace e libertà. Inoltre il Figlio sta all'origine dell'universo creato e della storia, poiché è associato in modo intimo e unico al primo gesto salvifico di Dio: la creazione del mondo.
“Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli,”
Vengono qui date le indicazioni fondamentali per comprendere il rapporto tra il Padre e il Figlio. Il Figlio è irradiazione della gloria di Dio: questa espressione è presa dal Libro della Sapienza (7,25-26) e sottolinea il rapporto inseparabile che esiste tra Dio e il Figlio. Il culmine della descrizione del Figlio si raggiunge nell’espressione “e tutto sostiene con la sua parola potente”.
Quanto qui viene affermato lo si comprenderà meglio nel corso della lettera agli Ebrei che dà molto spazio all'idea di Gesù come del sacerdote perfetto che compie il sacrificio di espiazione per i peccati una volta per tutte.
Questo atto di espiazione ha tolto di mezzo i peccati, cioè tutto quello che ostacolava il rapporto tra Dio e gli uomini. Perciò egli è degno di sedere sul trono accanto al Padre
“divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato”.
Il Figlio è superiore alle creature celesti che circondano il trono divino, perché ben più importante è il nome che egli ha ricevuto.
“Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? E ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? “
Il Figlio è superiore agli angeli proprio perché è Figlio, è stato “generato” da Dio. Gli angeli invece fanno parte di tutte le realtà del mondo, ma sempre “create” da Dio.
Gli esperti notano qui una certa polemica verso l'angelologia giudaica che assegnava agli esseri celesti un ruolo mediatore nel governo del mondo o nella creazione, nel dono della legge, nell'intercessione a favore degli uomini. Tutte queste attribuzioni anche se sono legittime, non rendono gli angeli superiori al Figlio, il mediatore perfetto.
“Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio».”
Con questo ultimo versetto l'autore ribadisce la superiorità del Figlio rispetto agli angeli che lo hanno adorato nella notte di Natale, quando hanno portato l'annuncio ai pastori della nascita di Gesù.

Dal vangelo secondo Giovanni
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue né da volere di carne
né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: “Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me è avanti a me,
perché era prima di me”.
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità
vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.
Gv 1, 1-18

L’Antico Testamento conosceva il tema della Parola (Verbo) di Dio e quello della Sapienza, che, in Dio, esisteva prima della creazione del mondo. Mediante la Sapienza ogni cosa è stata creata, ed è stata mandata sulla terra per rivelare i segreti della volontà divina.
In questo mirabile prologo, c’è il riassunto concentrato del contenuto del vangelo di Giovanni. L’evangelista presenta il Verbo in Dio, sottolineandone la preesistenza eterna, l'intimità di vita con il Padre e la Sua natura divina. Il Verbo non solo è vicino al Padre, ma rivolto verso il Padre in atteggiamento di ascolto e di obbedienza. Giovanni afferma con chiarezza, fin dalle prime parole del suo vangelo, che nel Dio unico esiste una pluralità di persone.
Dopo i primi due versetti introduttivi, Giovanni ci presenta il ruolo del Verbo nella creazione dell'universo e nella storia della salvezza: " tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.”Tutta la storia appartiene a Lui: tutte le cose sono opera del Figlio di Dio, di Gesù di Nazareth! Ogni uomo è fatto per la luce ed è chiamato ad essere illuminato dal Verbo con la luce eterna di Dio, che è la vita stessa del Padre donata al Figlio. La luce di Cristo splende su ogni uomo che viene nel mondo e le tenebre combattono per eliminarla. Tuttavia l'ambiente del male, che si oppone alla luce di Dio e alla parola di Gesù-Verbo, non riesce ad avere il sopravvento e a vincere.
La luce venuta nel mondo è preceduta da un testimone, Giovanni il Battista, che ha la missione di parlare a favore della luce. Il ruolo del Battista è unico: " Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.” Giovanni è il testimone di Gesù che riceve la testimonianza che il Padre dà al Figlio nel battesimo e che vede lo Spirito scendere e rimanere su Gesù . Gesù è la luce autentica e perfetta che appaga le aspirazioni umane; la sola che dà senso a tutte le altre luci che appaiono nella scena del mondo.
Gesù-Verbo, presente tra gli uomini con la Sua venuta, è vicino ad ogni uomo. Benché fosse già nel mondo come creatore e come centro della storia, "… il mondo non lo ha riconosciuto, cioè gli uomini non hanno creduto nel Verbo incarnato e nella Sua missione di Salvatore. Al rifiuto del mondo, c’è un rifiuto ancora più grave: " Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.“ ossia la Parola del Signore è venuta nel popolo ebraico, ma Israele l'ha respinta. Vediamo qui il lungo cammino dell'umanità che, nonostante il progetto di amore e di vita voluto da Dio, ha perso col peccato l'orientamento di tutto il suo essere e non ha riconosciuto il piano salvifico di Dio.
Se il comportamento dell'umanità, e in particolare quello d'Israele, è stato di netto rifiuto di Gesù-Verbo, tuttavia, un gruppo di persone, un "resto di Israele", l'ha accolto e ha risposto al Suo messaggio, stabilendo un nuovo rapporto con Dio: " A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” Solo coloro che accolgono il Verbo e credono nella Sua persona divina diventano figli di Dio, perché sono nati da Dio.
Questo dono della figliolanza divina si accoglie credendo nel Cristo e approfondendo la nostra vita di fede in Lui. Accogliere il Verbo significa "credere nel nome" di Gesù, ossia aderire pienamente alla Sua persona, impegnare la propria vita al Suo servizio.
Ciò che segue è come la sintesi di tutto l'inno perchè vi si afferma solennemente l'incarnazione del Figlio di Dio. Il vangelo afferma che " E il Verbo si fece carne “cioè che la Parola si è fatta uomo, nella sua fragilità e impotenza come ogni creatura, nascendo da una donna, Maria.
L'espressione " e venne ad abitare in mezzo a noi” sottolinea lo scopo dell'incarnazione: Dio dimora con il Suo popolo stabilmente e per sempre . La Sua presenza è nella vita stessa dell'uomo e nella carne visibile di Gesù..
I discepoli hanno contemplato nella fede il mistero di Gesù-Verbo, cioè la gloria che Egli possiede come Unigenito venuto dal Padre. Gesù è la rivelazione di Dio, ma in un modo nascosto e umile. Nel vangelo di Giovanni la gloria del Signore è qualcosa di interiore che solo l'uomo di fede può comprendere.
“Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia”. Le due grazie sono la legge di Mosè e quella di Cristo. Per Giovanni, la storia della salvezza abbraccia due momenti fondamentali: il dono della legge nella rivelazione provvisoria del Sinai e "la grazia della verità" nella rivelazione definitiva di Gesù. Le due tappe della rivelazione non sono in contrasto tra loro: Mosè è il rivelatore imperfetto della legge e il mediatore umano tra Dio e Israele, Gesù invece è il Rivelatore perfetto e definitivo della Parola e il Mediatore umano-divino tra il Padre e l'umanità.
Infine il versetto finale del prologo offre un'ulteriore spiegazione: Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
Il "seno" del Padre nel linguaggio biblico è l'immagine tipica dell'amore e dell'intimità: tutta la vita di Gesù si svolse come vita filiale in un atteggiamento di ascolto e di obbedienza al Padre, in un rapporto di amore con il Padre e come Sua manifestazione.


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Le Parole di Papa Francesco

Dal grembo della madre Chiesa, questa notte è nato nuovamente il Figlio di Dio fatto uomo. Il suo nome è Gesù, che significa Dio salva. Il Padre, Amore eterno e infinito, lo ha mandato nel mondo non per condannarlo, ma per salvarlo (cfr Gv 3,17). Il Padre lo ha dato, con immensa misericordia. Lo ha dato per tutti. Lo ha dato per sempre. Ed Egli è nato, come piccola fiammella accesa nel buio e nel freddo della notte.
Quel Bambino, nato dalla Vergine Maria, è la Parola di Dio fatta carne. La Parola che ha orientato il cuore e i passi di Abramo verso la terra promessa, e continua ad attirare coloro che si fidano delle promesse di Dio. La Parola che ha guidato gli ebrei nel cammino dalla schiavitù alla libertà, e continua a chiamare gli schiavi di ogni tempo, anche di oggi, ad uscire dalle loro prigioni. È Parola più luminosa del sole, incarnata in un piccolo figlio di uomo, Gesù, luce del mondo.
Per questo il profeta esclama: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1). Sì, ci sono tenebre nei cuori umani, ma più grande è la luce di Cristo. Ci sono tenebre nelle relazioni personali, familiari, sociali, ma più grande è la luce di Cristo. Ci sono tenebre nei conflitti economici, geopolitici ed ecologici, ma più grande è la luce di Cristo.
Cristo sia luce per i tanti bambini che patiscono la guerra e i conflitti in Medio Oriente e in vari Paesi del mondo. Sia conforto per l’amato popolo siriano che ancora non vede la fine delle ostilità che hanno lacerato il Paese in questo decennio. Scuota le coscienze degli uomini di buona volontà. Ispiri oggi i governanti e la comunità internazionale a trovare soluzioni che garantiscano la sicurezza e la convivenza pacifica dei popoli della Regione e ponga fine alle loro indicibili sofferenze. Sia sostegno per il popolo libanese, perché possa uscire dall’attuale crisi e riscopra la sua vocazione ad essere un messaggio di libertà e di armoniosa coesistenza per tutti.
Il Signore Gesù sia luce per la Terra Santa dov’Egli è nato, Salvatore dell’uomo, e dove continua l’attesa di tanti che, pur nella fatica ma senza sfiduciarsi, aspettano giorni di pace, di sicurezza e di prosperità.
Sia consolazione per l’Iraq, attraversato da tensioni sociali, e per lo Yemen, provato da una grave crisi umanitaria.
Sia speranza il piccolo Bambino di Betlemme per tutto il Continente americano, in cui diverse Nazioni stanno attraversando una stagione di sommovimenti sociali e politici.
Rinfranchi il caro popolo venezuelano, lungamente provato da tensioni politiche e sociali e non gli faccia mancare l’aiuto di cui abbisogna.
Benedica gli sforzi di quanti si stanno prodigando per favorire la giustizia e la riconciliazione e si adoperano per superare le varie crisi e le tante forme di povertà che offendono la dignità di ogni persona.
Sia luce, il Redentore del mondo, per la cara Ucraina, che ambisce a soluzioni concrete per una pace duratura. Il Signore che è nato sia luce per i popoli dell’Africa, dove perdurano situazioni sociali e politiche che spesso costringono le persone ad emigrare, privandole di una casa e di una famiglia.
Sia pace per la popolazione che vive nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo, martoriata da persistenti conflitti. Sia conforto per quanti patiscono a causa delle violenze, delle calamità naturali o delle emergenze sanitarie. Sia conforto a quanti sono perseguitati a causa della loro fede religiosa, specialmente i missionari e i fedeli rapiti, e a quanti cadono vittime di attacchi da parte di gruppi estremisti, soprattutto in Burkina Faso, Mali, Niger e Nigeria.
Il Figlio di Dio, disceso dal Cielo sulla terra, sia difesa e sostegno per quanti, a causa di queste ed altre ingiustizie, devono emigrare nella speranza di una vita sicura. È l’ingiustizia che li obbliga ad attraversare deserti e mari, trasformati in cimiteri. È l’ingiustizia che li costringe a subire abusi indicibili, schiavitù di ogni tipo e torture in campi di detenzione disumani. È l’ingiustizia che li respinge da luoghi dove potrebbero avere la speranza di una vita degna e fa loro trovare muri di indifferenza.
L’Emmanuele sia luce per tutta l’umanità ferita. Sciolga il nostro cuore spesso indurito ed egoista e ci renda strumenti del suo amore. Attraverso i nostri poveri volti, doni il suo sorriso ai bambini di tutto il mondo: a quelli abbandonati e a quelli che hanno subito violenze. Attraverso le nostre deboli braccia, vesta i poveri che non hanno di che coprirsi, dia il pane agli affamati, curi gli infermi. Per la nostra fragile compagnia, sia vicino alle persone anziane e a quelle sole, ai migranti e agli emarginati. In questo giorno di festa, doni a tutti la sua tenerezza e rischiari le tenebre di questo mondo.

Papa Francesco Angelus 25 dicembre 2019

 

Pubblicato in Liturgia

Siamo ormai arrivati alla IV Domenica di Avvento, l'ultima prima del Santo Natale. Le letture che la liturgia ci fa meditare ci aiutano a comprendere meglio il senso della festa del Natale: non siamo più soli dopo che il Figlio di Dio, assumendo la nostra natura umana, ha posto la Sua tenda in mezzo a noi.
Nella prima lettura, tratta dal secondo libro di Samuele, vediamo come al desiderio di Davide di costruire un tempio, il Signore mediante il profeta Natan, risponde che sarà Lui stesso, il Signore, a costruire la sua casa, e la costruisce con pietre vive. Questa promessa si realizzerà con la nascita del Messia, dalla discendenza di Davide.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Romani, l’apostolo Paolo fa una lode a Dio, che ha finalmente rivelato il mistero di Gesù Cristo. Mistero per secoli e millenni rimasto avvolto nel silenzio, ma ora “manifestato mediante le scritture dei profeti”. Ciò che la prima lettura e il vangelo di oggi presentano in forma narrativa, diventano preghiera in questo scritto di Paolo
Nel Vangelo di Luca, che già abbiamo sentito proclamare nella solennità dell’Immacolata Concezione, l’angelo Gabriele rivela che il Messia atteso non sarà chiamato semplicemente figlio di Davide, ma Figlio di Dio e il suo regno non avrà mai fine, perchè non avrà i confini dei regni umani, ma attuerà la signoria di Dio su ogni realtà. Maria con il suo sì diventa la nuova Gerusalemme, al cui interno non c’è più un tempio di pietra, come era quello di Salomone, ma il tempio perfetto della carne di Cristo, Nel grembo di Maria si rivela in pienezza la presenza di Dio attraverso il Figlio. Su di lei, perciò “si stende l’ombra dell’Altissimo”. In Maria c’è Colui che è veramente rifugio, riparo e fortezza per l’intera umanità.
Dobbiamo sempre tenere in mente che la proposta dell’angelo a Maria è la stessa che la Parola di Dio fa a ciascuno di noi. Quando rispondiamo “Sì”, abbiamo la gioia di concepire l’inconcepibile, perché la sua Parola diventa vita in noi.

Dal secondo libro di Samuèle.
Il re Davide, quando si fu stabilito nella sua casa, e il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all’intorno, disse al profeta Natan: «Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda». Natan rispose al re: «Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te».
Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: «Va’ e di’ al mio servo Davide: “Così dice il Signore: Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo per Israele, mio popolo, e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo opprimano come in passato e come dal giorno in cui avevo stabilito dei giudici sul mio popolo Israele. Ti darò riposo da tutti i tuoi nemici. Il Signore ti annuncia che farà a te una casa.
Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me, il tuo trono sarà reso stabile per sempre”».
2Sam 7,1-5, 8b-11, 16

I due Libri di Samuele costituiscono, con i successivi due libri dei Re, un'opera continua ed hanno lo scopo di tratteggiare la vicenda storica del popolo di Israele dalla fine dell'epoca dei Giudici fino alla fine della monarchia con l'invasione babilonese di Nabucodonosor: un arco di tempo di circa sei secoli. La redazione definitiva dell’intera opera risale al VI secolo a.C.
Il nome "Libri di Samuele" deriva dal fatto che un'opinione talmudica tardiva ne attribuiva la compilazione al profeta Samuele, il quale però occupa un ruolo di primo piano solo nei primi 15 capitoli del primo libro.
Il secondo libro di Samuele è dominato interamente dalla grandiosa figura del re Davide, nella sua grandezza di sovrano e di guerriero così come nelle sue miserie di uomo. Esso abbraccia un arco di tempo pari a quello dell'intero regno di Davide sulle dodici tribù, che tradizionalmente va dal 1010 fino al 970 a.C..In tutto comprende 24 capitoli, in cui si raccontano le vicende del re Davide, a partire dalla sua ascesa al trono fino alla morte.
In questo brano, uno dei fondamentali nell'Antico Testamento, vediamo che Davide, giunto all’apice del suo potere, quando ormai sono terminate le sue imprese militari, si rivolge al profeta Natan con queste parole: “Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda”.
La sua idea probabilmente non aveva solo motivazioni religiose ma anche politiche: costruendo infatti un grande santuario in onore al Dio di Israele avrebbe reso più legittimo il suo regno e la sua dinastia.
Davide poteva essere visto dal popolo come un usurpatore del trono che apparteneva a Saul e alla sua famiglia: è naturale quindi che abbia cercato una legalizzazione del suo regno e della sua dinastia, non solo portando a Gerusalemme l’arca dell’alleanza, ma anche costruendo un grande santuario in onore del Dio di Israele.
Natan in un primo momento approva il progetto di Davide, ma subito dopo, in seguito a una visione, ritorna da lui per comunicargli quanto il Signore gli avesse detto. Per prima cosa gli comunica che Dio non ha bisogno di un santuario in muratura perchè Egli ha camminato accanto al Suo popolo e lo ha guidato abitando in una tenda, senza mai pretendere la costruzione di un tempio.
Poi fa osservare a Davide che è stato Dio stesso a sceglierlo, per questo lo ha protetto e ancora lo proteggerà, rendendolo grande e potente. Il Signore prosegue poi assicurando che darà un luogo stabile a Israele perché vi risieda e non sia più oppresso dai suoi nemici come all’epoca dei giudici. Davide quindi non ha bisogno di cercare un espediente per legittimare la sua regalità: Dio è totalmente dalla sua parte e di tutto il popolo che governa.
Il Signore, per bocca del profeta poi soggiunge:
“Il Signore ti annuncia che farà a te una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno”.
Giocando sul duplice significato del termine ebraico “bajît” (casa e casato), proprio nel momento in cui rifiuta la costruzione di una casa in proprio onore, Dio gli promette di dargli Lui stesso una casa, cioè una discendenza. Dio dunque conferisce a Davide e alla sua dinastia quella continuità che egli avrebbe voluto garantirsi costruendo un tempio al Signore.
Poi prevede l’immediato successore di Davide: Salomone. Sarà lui a costruire per il Signore quella casa che a Davide non è stato consentito di edificare. Queste parole, in contrasto con quanto detto precedentemente, che attribuiscono a Dio il desiderio di avere un tempio, sono probabilmente un’aggiunta successiva,fatta al tempo del regno di Salomone, allo scopo di legittimare la costruzione del tempio.
Il Signore prosegue : ”Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me, il tuo trono sarà reso stabile per sempre”.
Infine Dio assicura a Davide che punirà i re colpevoli ma non li ripudierà come aveva fatto con Saul, rimuovendolo dal trono e conclude:”La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me, il tuo trono sarà reso stabile per sempre”.
Con questa ripetizione la volontà di Dio viene confermata in modo irrevocabile.
Purtroppo la storia dei regni di Giuda e di Israele dovrà registrare molte infedeltà proprio da parte dei re, che porterà le due nazioni israelitiche alla rovina e poi alla scomparsa della stessa dinastia davidica (2Re 17,7-23). Nasce così l’attesa di un re, discendente di Davide, chiamato “Messia” che alla fine dei tempi dovrà portare la salvezza al suo popolo e a tutta l’umanità.
Il Signore più che essere inquadrato nello spazio sacro di un tempio, edificato anche in concorrenza con i santuari pagani delle altre nazioni, ama essere presente nella realtà più vicina all’uomo, cioè il tempo, la storia, espressa nella dinastia davidica dalla quale sarebbe fiorito il Messia. Alla casa materiale che Davide voleva progettare per il suo Dio si sostituisce la casa fatta di pietre vive, cioè di persone, che lo “adoreranno in spirito e verità” (v. Gv 4,23 ) .

Salmo 88 Canterò per sempre l’amore del Signore.
Canterò in eterno l’amore del Signore,
di generazione in generazione
farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà,
perché ho detto: «È un amore edificato per sempre;
nel cielo rendi stabile la tua fedeltà».

«Ho stretto un’alleanza con il mio eletto,
ho giurato a Davide, mio servo.
Stabilirò per sempre la tua discendenza,
di generazione in generazione edificherò il tuo trono».

Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre,
mio Dio e roccia della mia salvezza”.
Gli conserverò sempre il mio amore,
la mia alleanza gli sarà fedele».

Il salmo probabilmente è il frutto di più autori, tuttavia non va affatto smembrato, poiché rivela una “unità orante”. Il salmo cosi come si presenta pone come autore un re vilipeso, che va ricercato in Ioacaz (2Re 23,33-34). Il fatto che il salmo presenti una totalità di mura abbattute e di fortezze diroccate, impone di pensare ad una sequenza di rovesci militari subiti da Israele, certamente dalle armate assire ed Egiziane (2Re 18,13, 23,33).
Il salmo esordisce facendo memoria delle promesse di Dio a Davide e alla sua discendenza (2Sam 7,8s), prosegue poi inneggiando alla potenza di Dio, quindi, con estensione, ritorna sulle promesse fatte a Davide; infine manifesta lo sconcerto di fronte alla catastrofe che si è abbattuta su Israele nonostante tutte le promesse di stabilità riguardanti la discendenza di Davide.
Il salmista sottolinea lo scarto infinito tra Dio e gli dei concepiti dai pagani: “Chi sulle nubi è uguale al Signore”; come pure sottolinea la distanza infinita tra lui e la sua corte celeste: “Chi è simile al Signore tra i figli degli dei?”. Non manca poi il salmista di affermare l'unicità di Dio: “Tuoi sono i cieli, tua è la terra, tu hai fondato il mondo e quanto contiene”. D'obbligo poi la menzione della vittoria di Dio su Raab (nome di un mostro mitico personificante il caos primordiale), cioè sull'Egitto: “Tu hai ferito e calpestato Raab”. Il “consacrato”, cioè il re, è stato ripudiato da Dio: “Ti sei adirato contro il tuo consacrato; hai infranto l'alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona”. Egli è ricoperto di ingiurie mentre dal faraone Necao, suo vincitore, è condotto prima a Ribla e poi in Egitto: “I tuoi nemici insultano, insultano i passi del tuo consacrato”.
Il re, che ha visto le mura della reggia abbattute, come pure le sue fortezze, è nella più acuta sofferenza e domanda a Dio fin quando tutto questo continuerà: “Fino a quando, Signore, ti terrai nascosto: per sempre? Arderà come fuoco la tua collera?”. Afflitto, chiede a Dio di ricordarsi che la sua vita è breve e che forse non potrà vedere neppure giorni di pace, e lo interroga sul perché ha creato l'uomo, visto che a volte sembra che non ci sia disegno di pace per lui: “invano forse hai creato ogni uomo?”. L'uomo è ben poca cosa, eppure Dio dispone che debba sopportare lungamente pene e disagi prima di ridargli giorni di pace e di gioia. Al salmista pare che Dio abbia delle lentezze nell'intervenire, visto anche che i tempi di Dio sorpassano spesso i brevi anni di un uomo: “Chi è l'uomo che vive e non vede la morte? Chi potrà sfuggire alla mano degli inferi?".
Ma certo il salmista non rimane fermo a questo - le lentezze di Dio, infatti, sono unicamente causate dalle lentezze degli uomini nel ritornare a lui -, poiché conclude il suo salmo benedicendo Dio: “Benedetto il Signore in eterno. Amen, amen”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, a colui che ha il potere di confermarvi
nel mio vangelo, che annuncia Gesù Cristo,
secondo la rivelazione del mistero,
avvolto nel silenzio per secoli eterni,
ma ora manifestato mediante le scritture dei Profeti,
per ordine dell’eterno Dio,
annunciato a tutte le genti
perché giungano all’obbedienza della fede,
a Dio, che solo è sapiente,
per mezzo di Gesù Cristo,
la gloria nei secoli. Amen.
Rm 16,25-27

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme. La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità
Questo brano, con cui la lettera si conclude, è un canto di lode rivolto a Dio e ripercorre le motivazioni fondamentali dell'intervento di Dio nella storia dell'umanità. In particolare si riferisce al "mistero" divino, colto nella sua struttura di realtà prima nascosta e poi svelata.
“a colui che ha il potere di confermarvi nel mio vangelo, che annuncia Gesù Cristo,
secondo la rivelazione del mistero,avvolto nel silenzio per secoli eterni”
Dio è colui che può rendere sempre più forti i credenti, e lo ha fatto attraverso il Vangelo predicato da Paolo: è quindi attraverso la predicazione che si cresce e ci si rafforza nella fede. Ma questa buona notizia (Vangelo) altro non è che l'annuncio, la proclamazione di una persona, Gesù Cristo, con i Suoi gesti, le Sue parole, la Sua morte e la Sua risurrezione. Questa buona notizia e questo annuncio però erano un mistero, una realtà profonda che è rimasta nascosta per lunghissimi anni. Dopo questo lungo tempo però è stata rivelata.
“ma ora manifestato mediante le scritture dei Profeti,per ordine dell’eterno Dio,
annunciato a tutte le genti perché giungano all’obbedienza della fede”
Tale manifestazione è avvenuta attraverso le scritture dei profeti, che avevano anticipato il mistero divino nascosto e non ancora del tutto rivelato. Questi profeti hanno agito per volere di Dio, il quale voleva ottenere la fede di tutte le genti. É una fede che si manifesta necessariamente attraverso l'obbedienza: solo chi ha fede, chi si poggia su Dio, è capace di essere obbediente e di compiere la Sua volontà.
“a Dio, che solo è sapiente,per mezzo di Gesù Cristo,la gloria nei secoli. Amen”
Con queste parole l’Apostolo conclude l canto di lode, la glorificazione di Dio, per questo splendido disegno di comunione e di salvezza.
Il brano è una stupenda lode liturgica che arriva a Dio per mezzo di Gesù Cristo, Colui per mezzo del quale la Parola si è pienamente rivelata.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
Lc 1, 26-38

Il nostro cammino di Avvento termina con la narrazione dell'annuncio a Maria. L’evangelista Marco, che ci accompagna in quest’anno liturgico, non dedica nemmeno una riga alle vicende legate all'incarnazione e alla nascita di Gesù, quindi la Liturgia per accompagnare in modo coerente l'itinerario dell'Avvento, si può dire che“prende in prestito” una pagina dal vangelo di Luca.
L’evangelista “della tenerezza”, inizia così il suo racconto:“l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.”
L’angelo Gabriele, il cui nome derivante dall’ebraico significa “la forza di Dio” “Dio è forte”, viene mandato da Dio a Nazareth, che era allora un piccolo villaggio rurale della Galilea, ad una vergine , e al tempo stesso promessa sposa. Nell’ambiente di allora, e soprattutto in Galilea, una ragazza di poco più di dodici anni poteva essere già data in sposa, ma rimaneva per un certo tempo nella casa paterna, prima che il marito la portasse a vivere in casa sua. Non sorprende quindi che Maria sia designata contemporaneamente come promessa sposa e vergine. Del suo fidanzato (sposo) si dice semplicemente che portava il nome di Giuseppe, nome di uno dei grandi patriarchi di Israele, e che apparteneva alla casa di Davide, alla quale erano state fatte le grandi promesse messianiche,
L’angelo apparendo a Maria si rivolge a lei con l’usuale saluto greco: kaire, vale a dire “Rallègrati” e aggiunge un elogio inusuale, unico “piena di grazia: il Signore è con te”. Maria è dunque la donna “ricolma del favore di Dio”!
Questa espressione riguarda non tanto il momento del suo concepimento, ma il momento attuale, in cui Dio le conferisce una missione che fa di lei la Sua collaboratrice nella grande opera della redenzione. Il saluto dell’angelo esprime quindi la gioia messianica che esplode nei tempi nuovi che stanno ora iniziando, ma Maria è prima di tutto la figlia di Sion, la degna rappresentante del popolo eletto, che porta in sé il Messia.
Le parole che le sono rivolte la turbano, ma l’angelo la invita a non temere, dicendole:“hai trovato grazia presso Dio”, cioè Maria ha ottenuto il Suo favore perchè Dio vuole stabilire un rapporto particolare con lei per assegnarle un compito speciale nel Suo progetto di salvezza.
L’angelo glielo presenta con queste parole: “Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”.
Queste parole alludono all’oracolo di Isaia (7,14): Maria è dunque la vergine di cui parla il profeta e suo figlio non sarà un semplice discendente della casa davidica, ma il Messia atteso per gli ultimi tempi. In sintonia con il testo ebraico dell’oracolo e in forza del ruolo di madre che le è assegnato, sarà lei che gli darà il nome.
Si tratta però non di un nome qualsiasi, ma di un nome deciso da Dio, nel quale è indicata la missione futura del bambino (Gesù = JHWH salva).
A differenza di Giovanni, il quale “sarà grande davanti al Signore”, egli sarà grande in senso assoluto, perchè sarà chiamato “figlio dell’Altissimo”. A lui infatti Dio conferirà il trono di suo padre Davide (V.2Sam 7,12), ma non si tratterà di un regno limitato nel tempo e nello spazio, bensì di un regno che durerà in eterno. Mentre Giovanni Battista sarà il profeta degli ultimi tempi e il precursore del Messia, il figlio di Maria sarà il Messia stesso, nel quale troverà il suo compimento definitivo il regno di Davide.
All’annunzio dell’angelo Maria risponde con una domanda: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo”. Letteralmente la domanda sembrerebbe simile in parte a quella di Zaccaria (“Come posso conoscere questo?”), ma mentre Zaccaria chiedeva ulteriori garanzie, Maria chiede spiegazioni sulle modalità in cui si realizzerà, dal momento che “non conosce uomo”.
Alla domanda di Maria l’angelo risponde “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Dopo aver rivelato che il nascituro sarà il Figlio dell’Altissimo, l’angelo spiega che questo appellativo è dovuto al fatto che lo Spirito santo interverrà in modo speciale nel momento stesso del suo concepimento.
Al termine del suo annunzio l’angelo rivela a Maria la gravidanza di Elisabetta, sua parente. Questo evento, tenuto gelosamente segreto dai diretti interessati, diventa il segno visibile che conferma l’autenticità della rivelazione dell’angelo. Esso infatti mostra nel modo più convincente che “nulla è impossibile a Dio”.
Alle parole dell’angelo Maria risponde: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”. Maria si rende così disponibile al progetto di Dio e ne diventa partecipe fino in fondo. Ella apre così la via all’intervento dello Spirito santo e rende possibile la nascita straordinaria del Figlio di Dio.
Luca, primo tra gli evangelisti, legge il destino di Maria nella prospettiva del ruolo salvifico di Gesù, presentandola come la nuova Eva, madre del Messia e di quella umanità rigenerata che da Lui prende origine. Ella è paragonata al nuovo tempio, all’arca dell’alleanza, nella quale Dio risiede con la Sua potenza per trasformare tutte le cose. Con la sua disponibilità Maria diventa anche il modello del credente che si abbandona al suo Dio, mettendosi al seguito di Gesù e adeguandosi fino in fondo alla logica della croce.

*****

“In questa domenica che precede immediatamente il Natale, ascoltiamo il Vangelo dell’Annunciazione.
In questo brano evangelico possiamo notare un contrasto tra le promesse dell’angelo e la risposta di Maria. Tale contrasto si manifesta nella dimensione e nel contenuto delle espressioni dei due protagonisti. L’angelo dice a Maria: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» .
È una lunga rivelazione, che apre prospettive inaudite. Il bambino che nascerà da questa umile ragazza di Nazareth sarà chiamato Figlio dell’Altissimo: non è possibile concepire una dignità più alta di questa. E dopo la domanda di Maria, con cui lei chiede spiegazioni, la rivelazione dell’angelo diventa ancora più dettagliata e sorprendente.
Invece, la risposta di Maria è una frase breve, che non parla di gloria, non parla di privilegio, ma solo di disponibilità e di servizio: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».
Anche il contenuto è diverso. Maria non si esalta di fronte alla prospettiva di diventare addirittura la madre del Messia, ma rimane modesta ed esprime la propria adesione al progetto del Signore. Maria non si vanta. E' umile, modesta. Rimane come sempre.
Questo contrasto è significativo. Ci fa capire che Maria è veramente umile e non cerca di mettersi in mostra. Riconosce di essere piccola davanti a Dio, ed è contenta di essere così. Al tempo stesso, è consapevole che dalla sua risposta dipende la realizzazione del progetto di Dio, e che dunque lei è chiamata ad aderirvi con tutta sé stessa.
In questa circostanza, Maria si presenta con un atteggiamento che corrisponde perfettamente a quello del Figlio di Dio quando viene nel mondo: Egli vuole diventare il Servo del Signore, mettersi al servizio dell’umanità per adempiere al progetto del Padre. Maria dice: «Ecco la serva del Signore»; e il Figlio di Dio, entrando nel mondo dice: «Ecco, io vengo […] per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10,7.9). L’atteggiamento di Maria rispecchia pienamente questa dichiarazione del Figlio di Dio, che diventa anche figlio di Maria. Così la Madonna si rivela collaboratrice perfetta del progetto di Dio, e si rivela anche discepola del suo Figlio, e nel Magnificat potrà proclamare che «Dio ha innalzato gli umili» (Lc 1,52), perché con questa sua risposta umile e generosa ha ottenuto una gioia altissima, e anche una gloria altissima.
Mentre ammiriamo la nostra Madre per questa sua risposta alla chiamata e alla missione di Dio, chiediamo a lei di aiutare ciascuno di noi ad accogliere il progetto di Dio nella nostra vita, con sincera umiltà e coraggiosa generosità.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 24 dicembre 2017

Pubblicato in Liturgia

La liturgia di questa terza domenica di Avvento, più di tutte le altre, è all’insegna della gioia e ci invita perciò alla letizia, alla gioia di saper vicina la nascita del Salvatore che recherà a tutti una grande speranza.
Nella prima lettura, il profeta Isaia vede nel futuro un inviato di Dio sul quale riposa lo Spirito del Signore per inaugurare un tempo di grazia e portare il lieto annuncio ai miseri. Nella Sinagoga di Nazareth, Gesù proclamerà cinque secoli dopo il compimento di questa profezia.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Tessalonicesi l’apostolo Paolo li incoraggia a essere lieti e propone un vero e proprio codice di comportamento per tutta l’esistenza quotidiana: gioia, preghiera incessante, riconoscenza, impegno missionario, sapiente ricerca dei veri valori, purezza, e santità
Nel Vangelo di Giovanni, la sublime figura di Giovanni Battista ci ricorda di essere sempre vigili e pronti a superare la tentazione “originale”, sempre in agguato davanti alla nostra porta: metterci al posto di Dio. Egli, il più grande tra i nati di donna, presenta se stesso come continuatore della missione di Isaia e annuncia solennemente: In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».
La missione di Giovanni dovrebbe essere quella di ogni discepolo: proclamare al mondo il Signore e la Sua azione perchè è Cristo che deve crescere ed è l’annunciatore che deve diminuire, lasciando il Signore al centro della scena.

Dal libro del profeta Isaia
Lo spirito del Signore Dio è su di me,
perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;
mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,
a proclamare la libertà degli schiavi,
la scarcerazione dei prigionieri,
a promulgare l’anno di grazia del Signore. …
Io gioisco pienamente nel Signore,
la mia anima esulta nel mio Dio,
perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza,
mi ha avvolto con il mantello della giustizia,
come uno sposo si mette il diadema
e come una sposa si adorna di gioielli.
Poiché, come la terra produce i suoi germogli
e come un giardino fa germogliare i suoi semi,
così il Signore Dio farà germogliare la giustizia
e la lode davanti a tutte le genti.
Is 61,1-2a, 10-11

Questo capitolo è tratto dalla terza parte del libro del Profeta Isaia,(Terzo Isaia o Trito Isaia – titolo dato ad un personaggio non identificato ritenuto discepolo spirituale del secondo Isaia).
E’ stato scritto verso la fine dell’esilio di Babilonia (537-520 a.C.) e contiene una raccolta di oracoli che si differenziano non solo da quelli della prima, ma anche da quelli della seconda parte del libro.
Il brano inizia con la descrizione dell’intervento divino: “Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione”.È stato quindi lo Spirito a compiere sul profeta il rito dell’unzione che per i re veniva fatto dal sommo sacerdote. Di conseguenza colui che si esprime con queste parole, si presenta non solo come una figura profetica, ma anche come un autorevole capo religioso che prefigura il futuro Messia di Israele.
Dopo aver dichiarato pubblicamente l’intervento dello Spirito, il profeta descrive il compito che gli è stato affidato: “mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri”.
Il profeta dovrà rivolgersi anche ai rimpatriati, tra i quali si verificano ancora situazioni simili a quelle da loro patite in esilio. Inoltre egli deve “fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, cioè ridare coraggio a persone deluse e depresse; infine il suo compito consiste nel “proclamare la libertà degli schiavi e la scarcerazione dei prigionieri”.
(Si erano manifestati in quel periodo fatti molto gravi tra i rimpatriati, alcuni infatti si erano indebitati fino al punto di vendersi come schiavi ai loro connazionali (Ne 5,1-13; Is 58,10). Tra di loro l’inviato di Dio dovrà eliminare le ingiustizie e le eccessive differenze sociali ed economiche , per fare di essi una comunità degna del suo Dio).
Infine il profeta indica come suo compito quello di “promulgare l’anno di misericordia del Signore” . Con queste parole si intende proclamare un giubileo straordinario. Quando il popolo ebraico era nella sua terra, ogni cinquant’anni celebrava la solennità del giubileo. Per questa occasione un araldo suonava il corno (in ebraico “jobel” che era un corno d'ariete, e questo termine ha dato origine alla parola giubileo) e annunziava che in quell’anno tutti gli schiavi dovevano essere liberati e i debiti condonati, la pace proclamata.
Il profeta si sente come quell’araldo e il giubileo che sta per inaugurarsi è destinato all’Israele dell’esilio babilonese. Il suo è un messaggio di speranza per i malati, è una promessa di liberazione per gli schiavi e i prigionieri è un appello alla consolazione per i poveri e per gli emarginati.
Il brano alla fine riprende l’inno conclusivo di ringraziamento a DIO:
“Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli”.
Il motivo di tanta gioia consiste nel fatto che la comunità ha fatto l’esperienza della salvezza, che si identifica essenzialmente con la giustizia, che è preziosa come il diadema dello sposo o i gioielli della sposa durante la cerimonia nuziale. La Vergine Maria ha fatto sue nel Magnificat le parole:”la mia anima esulta nel mio Dio”!
Infine il motivo della gioia viene così approfondito: “Poiché, come la terra produce i suoi germogli e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti”.
Il popolo viene immaginato come una terra in cui Dio fa germogliare non prodotti agricoli, ma la giustizia e la lode che si manifestano davanti a tutti i popoli.
L’alleanza perenne che Dio instaura con il Suo popolo consiste dunque in un rapporto sponsale, che comporta nel popolo un profondo rinnovamento interiore. Gli altri popoli assistono e sono anche loro, almeno in parte, coinvolti nella nuova situazione che si prospetta per Israele.
Impressiona come cinque secoli dopo, in una modesta sinagoga del villaggio di Nazareth, un’altra voce si leverà e ripeterà queste stesse parole citandole proprio dal rotolo di Isaia.
Gesù a quelle righe piene di speranza aggiungerò un commento folgorante fatto di una frase decisiva e scandalosa per gli uditori di quel sabato: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi”Lc 4,21

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi. Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male.
Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!
1Ts 5,16-24

La 1^ Lettera ai Tessalonicesi è probabilmente la più antica tra le lettere di S.Paolo e fu scritta dall’Apostolo all’inizio degli anni cinquanta. Paolo era stato a Tessalonica nel suo secondo viaggio (circa 20 anni dopo la morte di Gesù) e come spesso gli accadeva, era dovuto fuggire e pertanto aveva passato nella città poco tempo per svolgere una missione completa e approfondita (negli Atti 17,1-9 è riportato ciò che avvenne a Tessalonica). Paolo dunque è preoccupato della comunità che ha dovuto lasciare in fretta e manda Timoteo a constatare di persona come stavano le cose e le notizie positive che gli sono giunte lo rallegrano. Con questo stato d’animo scrive la sua lettera
Il brano che la liturgia ci presenta fa parte delle esortazioni che l’apostolo fa e che concludono le direttive su temi specifici. Dopo aver raccomandato ai tessalonicesi di avere rispetto per i responsabili della comunità, di correggere gli indisciplinati e incoraggiare i deboli, di non rendere male per bene, Paolo dopo li invita alla gioia e li esorta a far sì che questa gioia, che deve andare di pari passo con la preghiera, non venga mai meno, neppure in futuro.
Poi l’apostolo pone la sua attenzione sulle manifestazioni carismatiche della Chiesa e con tono deciso dichiara: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate i doni della profezia”.
Dal suo modo di esprimersi sembra che Paolo non si limiti a mettere in guardia circa un pericolo possibile, ma esorti a interrompere un comportamento deviante già in atto. È probabile che nella comunità di Tessalonica si fosse già verificata una repressione nei confronti dello slancio profetico suscitato dallo Spirito. L’apostolo, sapendo che in questo campo si possono commettere errori o restare confusi, esorta: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male”. Non ci dovrà essere perciò nessuna preclusione, ma neppure una indiscriminata accettazione di ciò che viene proposto, bensì una saggia verifica per fare ciò che è bene e astenersi da ogni male.
Infine Paolo pronunzia una preghiera di supplica e si rivolge al Dio della pace perché porti a compimento nei destinatari la sua opera santificatrice: “Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!”
La fiducia dei credenti non deve perciò avere la presuntuosa sicurezza di chi confida nelle proprie risorse, ma si deve basare unicamente sulla affidabilità del Padre.
Il tempo di Avvento ci mette quindi a confronto con l'azione di Dio che vuole "santificarci", e ci invita a corrispondere, a lasciarci trasformare, e soprattutto a non estrometterlo dalla nostra esistenza.

Dal vangelo secondo Giovanni
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose:
«Io sono voce di uno che grida nel deserto:
Rendete diritta la via del Signore,
come disse il profeta Isaìa».
Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.
Gv 1, 6-8,19-28

Il Vangelo di Giovanni, ossia il quarto Vangelo, fu scritto in greco, ed è alquanto differente dai tre Vangeli sinottici che riportano racconti, miracoli, parole di Gesù fino a darcene un aspetto familiare che tutti conosciamo. Si presenta come il frutto della testimonianza del "discepolo che Gesù amava”, ma oggi molti studiosi fanno spesso riferimento ad una scuola giovannea nella quale sarebbe maturata la redazione del vangelo tra il 60 ed il 100 e delle lettere attribuite all'apostolo.
E’ composto da 21 capitoli e come gli altri vangeli narra il ministero di Gesù. Anche se è notevolmente diverso dagli altri tre vangeli sinottici, sembra presupporre la conoscenza almeno del Vangelo di Marco, di cui riproduce talvolta espressioni particolari. Mentre i Vangeli sinottici sono più orientati sulla predicazione del Regno di Dio da parte di Gesù, il quarto vangelo approfondisce la questione dell'identità del Cristo, inserendo ampie parentesi teologiche.
Origene, scrittore di Alessandria d’Egitto del III secolo, uno dei primi e migliori commentatori di S.Giovanni, definisce così il lettore ideale di questo vangelo: “Nessuno può comprendere il senso del vangelo di Giovanni se non si è chinato sul petto di Gesù e non ha ricevuto da Gesù, Maria come madre”.
Il brano che la liturgia propone, presenta con i primi versetti del prologo, la figura di Giovanni: “Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce”. Giovanni è dunque il testimone che deve introdurre non solo Israele, ma tutta l’umanità alla fede al Dio dell’alleanza che si manifesta nel Suo “Verbo incarnato”. .
Poi c’è una serie di domande che i sacerdoti, mandati dai farisei, fanno a Giovanni il Battista. “«Tu, chi sei?». …Sei tu Elia. «Sei tu il profeta?». «…Che cosa dici di te stesso?». Perchè battezzi?".
Gli interlocutori vorrebbero subito definire e giudicare questo strano profeta che si agita e grida nel deserto al di là del Giordano; e sono dunque infastiditi dalle ripetute negazioni che il Battista oppone alle loro domande. Giovanni rifiuta così di identificarsi con una delle due figure, l’una messianica e l’altra profetica, la cui comparsa era attesa come immediata preparazione alla venuta finale di Dio.
I membri della delegazione non sono soddisfatti delle parole evasive di Giovanni e gli ripropongono la domanda, chiedendogli questa volta una risposta soddisfacente da riferire a coloro che li avevano inviati. ma egli risponde loro semplicemente applicando a sé il detto di Isaia (40,3) “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore,”
Secondo l’evangelista il Battista riconosce a se stesso la funzione dell’araldo, analoga a quella degli ignoti messaggeri che nel Deuteroisaia dovevano annunziare a Gerusalemme la fine dell’esilio e il ritorno degli esuli. Egli esclude così di essere uno dei mediatori escatologici attesi dai giudei, anzi nega qualsiasi importanza alla sua persona: ciò che conta è esclusivamente la sua missione.
Non soddisfatti, gli inviati di Gerusalemme pongono un’ultima domanda: “Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?”.
In risposta Giovanni afferma: “Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo”.
Affermando che la sua autorità deriva da un altro che si trova ormai in mezzo a loro, sebbene essi non lo conoscano, egli lo presenta come uno che viene “dopo” di lui, ma nonostante venga dopo di lui, è più importante di lui. Per indicare ciò, egli usa la stessa metafora a lui attribuita dai sinottici: egli non è neppure degno di svolgere nei suoi confronti il ruolo dello schiavo, al quale competeva il compito di slacciare i sandali del suo padrone.
Il brano mette in luce, con le parole stesse del Battista, già anticipate nel prologo, il ruolo che innegabilmente il Battista ha svolto nel preparare la venuta di Gesù.
Egli resta per tutti i tempi il testimone perfetto, modello di tutti coloro che, credendo in Gesù, lo presentano come l’unico capace di dare un senso pieno alla vita e alla storia umana.

*****

“Nelle scorse domeniche la liturgia ha sottolineato che cosa significhi porsi in atteggiamento di vigilanza e che cosa comporti concretamente preparare la strada del Signore. In questa terza domenica di Avvento, detta “domenica della gioia”, la liturgia ci invita a cogliere lo spirito con cui avviene tutto questo, cioè, appunto, la gioia. San Paolo ci invita a preparare la venuta del Signore assumendo tre atteggiamenti. Sentite bene: tre atteggiamenti. Primo, la gioia costante; secondo, la preghiera perseverante; terzo, il continuo rendimento di grazie. Gioia costante, preghiera perseverante e continuo rendimento di grazie.
Il primo atteggiamento, gioia costante: «Siate sempre lieti» , dice San Paolo. Vale a dire rimanere sempre nella gioia, anche quando le cose non vanno secondo i nostri desideri; ma c’è quella gioia profonda, che è la pace: anche quella è gioia, è dentro. E la pace è una gioia “a livello del suolo”, ma è una gioia. Le angosce, le difficoltà e le sofferenze attraversano la vita di ciascuno, tutti noi le conosciamo; e tante volte la realtà che ci circonda sembra essere inospitale e arida, simile al deserto nel quale risuonava la voce di Giovanni Battista, come ricorda il Vangelo di oggi .
Ma proprio le parole del Battista rivelano che la nostra gioia poggia su una certezza, che questo deserto è abitato: «In mezzo a voi – dice – sta uno che voi non conoscete». Si tratta di Gesù, l’inviato del Padre che viene, come sottolinea Isaia, «a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» (61,1-2). Queste parole, che Gesù farà sue nel discorso della sinagoga di Nazareth, chiariscono che la sua missione nel mondo consiste nella liberazione dal peccato e dalle schiavitù personali e sociali che esso produce. Egli è venuto sulla terra per ridare agli uomini la dignità e la libertà dei figli di Dio, che solo Lui può comunicare, e a dare la gioia per questo.
La gioia che caratterizza l’attesa del Messia si basa sulla preghiera perseverante: questo è il secondo atteggiamento. San Paolo dice: «Pregate ininterrottamente». Per mezzo della preghiera possiamo entrare in una relazione stabile con Dio, che è la fonte della vera gioia. La gioia del cristiano non si compra, non si può comprare; viene dalla fede e dall’incontro con Gesù Cristo, ragione della nostra felicità. E quanto più siamo radicati in Cristo, quanto più siamo vicini a Gesù, tanto più ritroviamo la serenità interiore, pur in mezzo alle contraddizioni quotidiane. Per questo il cristiano, avendo incontrato Gesù, non può essere un profeta di sventura, ma un testimone e un araldo di gioia. Una gioia da condividere con gli altri; una gioia contagiosa che rende meno faticoso il cammino della vita.
Il terzo atteggiamento indicato da Paolo è il continuo rendimento di grazie, cioè l’amore riconoscente nei confronti di Dio. Egli infatti è molto generoso con noi, e noi siamo invitati a riconoscere sempre i suoi benefici, il suo amore misericordioso, la sua pazienza e bontà, vivendo così in un incessante ringraziamento.
Gioia, preghiera e gratitudine sono tre atteggiamenti che ci preparano a vivere il Natale in modo autentico. Gioia, preghiera e gratitudine. Diciamo tutti insieme: gioia, preghiera e gratitudine [la gente in Piazza ripete] Un’altra volta! [ripetono]. In questo ultimo tratto del tempo di Avvento, ci affidiamo alla materna intercessione della Vergine Maria. Lei è “causa della nostra gioia”, non solo perché ha generato Gesù, ma perché ci rimanda continuamente a Lui.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 dicembre 2017

Pubblicato in Liturgia

Celebriamo oggi, la solennità dell’Immacolata Concezione della beata Vergine Maria, il cui dogma fu promulgato da Pio IX nel 1854, ma già nel IX secolo si celebrava in Inghilterra e Normandia una festa della Concezione di Maria e il Concilio di Basilea (1439) sancì questo evento come verità di fede. Si afferma che Maria è nata senza colpa originale, concepita senza peccato: colei che doveva dare alla luce il Figlio di Dio fu preservata da ogni macchia di peccato per essere la degna dimora di Gesù.
Celebrare l’Immacolata Concezione nel tempo di Avvento è quanto mai rilevante perché ci prepara a rivivere il “mistero della Redenzione” in avvenimenti dove la grazia fa irruzione in modo sovrabbondante sull’umanità.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Genesi al primo peccato, dovuto alla disobbedienza di Adamo ed Eva, Dio non rimane indifferente e nella pienezza dei tempi manda la nuova Eva, Maria, che schiaccerà la testa al serpente.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S. Paolo agli Efesini, possiamo comprendere che ciò che si è realizzato in Maria attende oggi di realizzarsi in ciascuno di noi, anche se non come lei al momento del concepimento, ma a quello del battesimo. E’ un dono e una chiamata che ci proietta nella meravigliosa avventura della costruzione prima di noi stessi e poi del mondo, secondo il progetto di Dio e quindi nella direzione dell’amore che non conosce tramonto.
Nel Vangelo di Luca troviamo il racconto dell’annunciazione dell’Angelo Gabriele a Maria, che obbedì totalmente all’annunzio della sua maternità divina.
In questa giornata che celebra la sua concezione, e quindi tutta la sua esistenza immacolata e gradita a Dio, la liturgia ci conduce nelle viuzze di questa cittadina della Galilea, alla ricerca delle tracce di Maria e di quel grande giorno in cui ha pronunciato il suo sì e nella onniscienza di Dio tutti noi eravamo presenti.

Dal Libro della Genesi
Dopo che l'uomo ebbe mangiato del frutto dell'albero, il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente:
«Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici!
Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.
Gen 3,9-15.20

Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano tratto dal Capitolo 3 descrive la convinzione d’Israele che la condizione umana (quale appariva allora) fosse una partecipazione alla punizione meritata dalla prima trasgressione.
La scena inizia subito dopo che Adamo ebbe mangiato dell’albero, quando Dio scende nel giardino e l'uomo e la donna si nascondono per non farsi vedere. La venuta di Dio evidenzia l'intimità, ormai distrutta, che univa Dio ai nostri progenitori! Dio chiama l'uomo come se non sapesse cosa fosse successo e gli chiede persino “Dove sei?”. L'uomo risponde di aver avuto paura e di essersi nascosto perché era nudo. Più che la paura del castigo, possiamo anche pensare che ciò che lo trattiene dal presentarsi a Dio è anche il timore reverenziale, lo stesso che in Israele impediva di esporre il proprio corpo in un luogo sacro (v. Es 20,26).
Dio allora gli chiede: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”. L'uomo però non si assume la responsabilità di ciò che ha fatto e risponde: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”, quasi per evidenziare che il vero colpevole è Dio stesso, che gliel'ha data come compagna. Il peccato, invece di provocare solidarietà fra coloro che lo commettono, li pone inevitabilmente l'uno contro l'altro.
Anche la donna non assume la sua responsabilità quando risponde: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato” gettando la colpa sul serpente.
Dio emettendo la sentenza comincia col condannare il serpente, anche se non era stato neppure interrogato, che viene maledetto con una sentenza irrevocabile: “Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita”. Poi Dio continua affermando: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”,
Leggendo questo brano nel contesto di tutta la Bibbia, che narra la storia della salvezza, il testo diventa un annunzio di speranza per l'umanità peccatrice. Il racconto termina riportando alcuni dettagli complementari.: “L’’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi”.
La donna è chiamata Eva (vita), poiché è destinata a diventare la madre di tutti i viventi: nonostante il peccato continua dunque la vita, che è il più grande dono di Dio!
Leggiamo poi che l'uomo e la donna sono rivestiti da Dio con tuniche di pelle, e ciò vuol dire che l’amore di Dio per loro non è venuto meno. Infine, perché l'uomo non abbia accesso all'albero della vita, Dio lo scaccia dal giardino e lo manda a coltivare la terra “perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto” (3,23)
I cherubini posti a custodia del giardino e dell'albero della vita sono figure mitologiche reminiscenza delle figure babilonesi, mentre la fiamma della spada folgorante rappresenta il fulmine (vv. 22-24). L'allontanamento dal giardino si ispira al tema della rottura dell'alleanza, che comportava per Israele l'abbandono della terra donatagli da Dio (Vv. Dt 11,17; 28,15-68).
L’autore con questo racconto ha voluto dirci qualcosa riguardo l’uomo di tutti i tempi e di tutte le culture, e cioè ha voluto spiegare la sua situazione di sofferenza e di morte. A tale scopo egli ha immaginato che all’inizio della storia l’uomo si trovasse in una situazione ideale, dalla quale è decaduto a causa di un suo peccato. Così facendo egli vuol far vedere che la presenza del male, in tutti i suoi aspetti, non deriva da Dio, ma dall’uomo stesso, il quale si è precluso quella felicità che Dio gli aveva concesso all’inizio. Questo modo di raccontare, tendente in qualche modo a scagionare Dio, ha uno scopo ben preciso: mostrare come Dio, non essendo responsabile del male presente in questo mondo, continua ad offrire all’uomo la possibilità di superare i suoi limiti e di raggiungere una condizione di vita adeguata alla sua dignità.
I profeti annunzieranno una salvezza piena che si attuerà in un futuro imprecisato (vv. Is 11,6-9) e quello che per l’autore della Genesi era un paradiso perduto, per i profeti diventa un paradiso che Dio donerà un giorno al Suo popolo e a tutta l’umanità: agli esseri umani non resta che prepararsi a questo evento finale. Mediante questi due modi simbolici di esprimersi gli autori biblici vogliono semplicemente far comprendere che l’uomo è chiamato alla felicità, ma la raggiunge solo se saprà distaccarsi da tutta una serie di pesanti condizionamenti, che provengono dal suo intimo e dalla società in cui vive.
Il rapporto con Dio ha quindi significato e deve essere vissuto in questa prospettiva: il “paradiso terrestre” è sempre disponibile a tutta l’umanità, pur in mezzo a tante difficoltà e sofferenze, a patto però che sia fedele a quei principi di amore e di giustizia che Dio ha scritto nel cuore di ogni uomo.

Salmo 98 (97) Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19): “I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo.
La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Benedetto Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati
di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui siamo stati fatti anche eredi,
predestinati – secondo il progetto di colui
che tutto opera secondo la sua volontà –
a essere lode della sua gloria,
noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
Ef 1,3-6.11-12

La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato
Il brano che abbiamo, è uno dei tre grandi inni Cristologici, che preghiamo anche durante i Vespri ogni settimana e che ci fa riflettere sul ruolo di Gesù nel progetto di amore del Padre. In particolare questo inno ci parla della predestinazione dei credenti. E' il Padre che sin dall'inizio dei tempi aveva pensato a noi, per renderci santi, per renderci suoi figli. Questo inno si adatta bene in particolare a Maria che nel piano della creazione-redenzione del mondo ha avuto un ruolo molto importante perché Dio Padre l‘ha scelta per essere santa e immacolata sin dal concepimento.
Il brano inizia con una invocazione benedicente: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.”
La benedizione di Dio significa comunicazione di vita, e trova il suo compimento quando torna a Dio sotto forma di benedizione da parte dell'uomo. Il movimento della benedizione è prima discendente, poi ascendente: il dono è infatti completo solo quando è riconosciuto come tale, e il segno del riconoscimento è la lode. La comunicazione di vita, la benedizione, consiste nella chiamata alla santità. C’è un invito a contemplare in Maria la primizia, colei in cui il sogno di Dio ha trovato piena attuazione.
“In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”,
Paolo ci spiega ora in cosa consista questa benedizione: Dio ci ha scelti, ci ha eletto, come aveva scelto il popolo di Israele. C'è un'iniziativa gratuita di Dio che previene ogni pretesa umana. E' una gratuità che parte dal Padre e ha avuto inizio prima della creazione del mondo!
“predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”.
Il progetto di Dio si attua per mezzo di Gesù Cristo e consiste nel far partecipare tutti i credenti alla sua condizione di figlio unico e amato. Se si parla di adozione, non è per sminuire la realtà dell'essere figli ma per sottolineare la differenza con la figliolanza di Gesù, che è modello e fonte di quella di tutti gli altri figli. C'è un amore gratuito che si espande in tutta la sua pienezza!
“In lui siamo stati fatti anche eredi,predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo”
Non sono riportati i vv 7-10, che parlano del perdono dei peccati che abbiamo ricevuto grazie a Cristo. Con il v. 11 torniamo all'argomento dell'adozione e dell'eredità che riceviamo in quanto figli di Dio.
L’essere preservata immacolata fin dal concepimento non ha esonerato Maria dall’impegno di corrispondere alla grazia. Se l’onda che aveva preso a scorrere in lei ha potuto diventare torrente e traboccare benefica su tutta l’umanità, è stato per il suo incondizionato abbandonarsi allo Spirito. Questo è il potere di un “Sì” che eleva a collaboratori di Dio, non solo nel tessere la nostra santità, ma anche nel portare avanti il Suo disegno di salvezza a favore dell’umanità intera.
Ciò che si è realizzato in Maria attende oggi di realizzarsi in ciascuno di noi, anche se non come lei al momento del concepimento, ma a quello del battesimo. Ognuno di noi è chiamato a questa via di santità, cioè a quella relazione di amore forte e incondizionato che ha legato Maria con il Signore. Riflettendo su di lei, sulla sua esperienza di vita e di fede riusciremo a camminare nelle vie che portano alla nostra pienezza e felicità.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Sato scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
Lc 1,26-38

L’evangelista Luca inizia così il suo racconto:“l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.” L’angelo Gabriele, il cui nome derivante dall’ebraico significa “la forza di Dio” “Dio è forte”, viene mandato da Dio a Nazareth, che era in realtà un piccolo villaggio rurale della Galilea, ad una vergine , e al tempo stesso promessa sposa.
L’angelo apparendo a Maria si rivolge a lei con l’usuale saluto greco: kaire, che significa “Rallègrati” e aggiunge un elogio inusuale, unico “piena di grazia: il Signore è con te”. Le parole che l’angelo le rivolge, provocano il turbamento di Maria, per cui l’angelo la invita a non temere, sottolineando che ha “trovato grazia presso Dio” per cui Dio vuole stabilire un rapporto speciale con lei per assegnarle un compito unico e straordinario nel Suo progetto di salvezza.
L’angelo glielo annunzia con queste parole: “concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”
Queste parole alludono all’oracolo di Isaia 7,14: Maria è dunque la vergine di cui parla il profeta e suo figlio, non è un semplice discendente della casa davidica, ma il Messia atteso per gli ultimi tempi. In sintonia poi con il testo ebraico dell’oracolo e in forza del ruolo di madre che le è assegnato, sarà lei che gli darà il nome.
All’annunzio messianico dell’angelo, Maria risponde con una domanda: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?”
In risposta alla domanda di Maria, l’angelo dà i chiarimenti che, solo chi è immerso completamente nel mistero di Dio, può accettare senza comprendere pienamente: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Dopo aver indicato nel nascituro il Figlio dell’Altissimo, l’angelo spiega che questo appellativo è dovuto al fatto che lo Spirito santo interverrà in modo speciale nel momento stesso del suo concepimento.
Al termine del suo annunzio l’angelo rivela a Maria la gravidanza di Elisabetta, sua parente. Questo evento, tenuto gelosamente segreto dai diretti interessati, diventa il segno visibile che conferma l’autenticità della rivelazione dell’angelo. Esso infatti mostra nel modo più convincente che ”nulla è impossibile a Dio” (Gen 18,14).
Alle parole dell’angelo Maria risponde: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.
Maria si rende così disponibile al progetto di Dio e ne diventa partecipe fino in fondo.
Il termine“serva” con cui Maria si autodefinisce non deve far pensare ad esortazioni sull’umiltà, la modestia, o il nascondimento. Maria ha la coscienza che in lei donna semplice e comune, Dio ha realizzato l’intervento definitivo e grandioso del suo progetto di salvezza “atteso da tutte le generazioni”.
Nella sua preghiera, il “Magnificat” che pronuncerà nell’incontro con Elisabetta, Maria intuisce di essere il terreno ideale in cui Dio celebrerà i trionfi e offrirà la salvezza del Suo Regno: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente …” L’immacolata concezione è, allora, la storia di una donazione totale ad un piano tracciato da Dio, è la storia di una grazia e di una vocazione eccezionale.
Alla luce di questo modello di “serva del Signore”, oggi l’Adamo-Eva che è in ognuno di noi è invitato a ritornare allo splendore del paradiso terrestre, cioè alla grazia. Là potrà incontrare Dio in un dialogo familiare, intimo, di amore, là potrà vivere in armonia con il creato e con il suo prossimo.
totalmente trasformato in figlio, in una nuova creatura , in erede della gloria divina.

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“Oggi [l‘8 dicembre] celebriamo la solennità di Maria Immacolata, che si colloca nel contesto dell’Avvento, tempo di attesa: Dio compirà ciò che ha promesso. Ma nell’odierna festa ci è annunciato che qualcosa è già compiuto, nella persona e nella vita della Vergine Maria. Di questo compimento noi oggi consideriamo l’inizio, che è ancora prima della nascita della Madre del Signore. Infatti, la sua immacolata concezione ci porta a quel preciso momento in cui la vita di Maria cominciò a palpitare nel grembo di sua madre: già lì era presente l’amore santificante di Dio, preservandola dal contagio del male che è comune eredità della famiglia umana.
Nel Vangelo di oggi risuona il saluto dell’Angelo a Maria: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te» Dio l’ha pensata e voluta da sempre, nel suo imperscrutabile disegno, come una creatura piena di grazia, cioè ricolma del suo amore. Ma per essere colmati occorre fare spazio, svuotarsi, farsi da parte. Proprio come ha fatto Maria, che ha saputo mettersi in ascolto della Parola di Dio e fidarsi totalmente della sua volontà, accogliendola senza riserve nella propria vita. Tanto che in lei la Parola si è fatta carne. Questo è stato possibile grazie al suo “sì”. All’Angelo che le chiede la disponibilità a diventare la madre di Gesù, Maria risponde: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» . Maria non si perde in tanti ragionamenti, non frappone ostacoli al Signore, ma con prontezza si affida e lascia spazio all’azione dello Spirito Santo. Mette subito a disposizione di Dio tutto il suo essere e la sua storia personale, perché siano la Parola e la volontà di Dio a plasmarli e portarli a compimento. Così, corrispondendo perfettamente al progetto di Dio su di lei, Maria diventa la “tutta bella”, la “tutta santa”, ma senza la minima ombra di autocompiacimento. È umile. Lei è un capolavoro, ma rimanendo umile, piccola, povera. In lei si rispecchia la bellezza di Dio che è tutta amore, grazia, dono di sé.
Mi piace anche sottolineare la parola con cui Maria si definisce nel suo consegnarsi a Dio: si professa «la serva del Signore». Il “sì” di Maria a Dio assume fin dall’inizio l’atteggiamento del servizio, dell’attenzione alle necessità altrui. Lo testimonia concretamente il fatto della visita ad Elisabetta, che segue immediatamente l’Annunciazione.
La disponibilità verso Dio si riscontra nella disponibilità a farsi carico dei bisogni del prossimo. Tutto questo senza clamori e ostentazioni, senza cercare posti d’onore, senza pubblicità, perché la carità e le opere di misericordia non hanno bisogno di essere esibite come un trofeo. Le opere di misericordia si fanno in silenzio, di nascosto, senza vantarsi di farle. Anche nelle nostre comunità, siamo chiamati a seguire l’esempio di Maria, praticando lo stile della discrezione e del nascondimento. La festa della nostra Madre ci aiuti a fare di tutta la nostra vita un “sì” a Dio, un “sì” fatto di adorazione a Lui e di gesti quotidiani di amore e di servizio.”
Papa Francesco Angelus dell’’8 dicembre 2019

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Madre Immacolata,
nel giorno della tua festa, tanto cara al popolo cristiano,
vengo a renderti omaggio nel cuore di Roma.
Nel mio animo porto i fedeli di questa Chiesa
e tutti coloro che vivono in questa città, specialmente i malati
e quanti per diverse situazioni fanno più fatica ad andare avanti.
Prima di tutto vogliamo ringraziarti
per la premura materna con cui accompagni il nostro cammino:
quante volte sentiamo raccontare con le lacrime agli occhi
da chi ha sperimentato la tua intercessione,
le grazie che chiedi per noi al tuo Figlio Gesù!
Penso anche a una grazia ordinaria che fai alla gente che vive a Roma:
quella di affrontare con pazienza i disagi della vita quotidiana.
Ma per questo ti chiediamo la forza di non rassegnarci, anzi,
di fare ogni giorno ciascuno la propria parte per migliorare le cose,
perché la cura di ognuno renda Roma più bella e vivibile per tutti;
perché il dovere ben fatto da ognuno assicuri i diritti di tutti.
E pensando al bene comune di questa città,
ti preghiamo per coloro che rivestono ruoli di maggiore responsabilità:
ottieni per loro saggezza, lungimiranza, spirito di servizio e di collaborazione.
Vergine Santa,
desidero affidarti in modo particolare i sacerdoti di questa Diocesi:
i parroci, i viceparroci, i preti anziani che col cuore di pastori
continuano a lavorare al servizio del popolo di Dio,
i tanti sacerdoti studenti di ogni parte del mondo che collaborano nelle parrocchie.
Per tutti loro ti chiedo la dolce gioia di evangelizzare
e il dono di essere padri, vicini alla gente, misericordiosi.
A te, Donna tutta consacrata a Dio, affido le donne consacrate nella vita religiosa e in quella secolare,
che grazie a Dio a Roma sono tante, più che in ogni altra città del mondo,
e formano un mosaico stupendo di nazionalità e culture.
Per loro ti chiedo la gioia di essere, come te, spose e madri,
feconde nella preghiera, nella carità, nella compassione.
O Madre di Gesù,
un’ultima cosa ti chiedo, in questo tempo di Avvento,
pensando ai giorni in cui tu e Giuseppe eravate in ansia
per la nascita ormai imminente del vostro bambino,
preoccupati perché c’era il censimento e anche voi dovevate lasciare il vostro paese, Nazareth, e andare a Betlemme…
Tu sai, Madre, cosa vuol dire portare in grembo la vita
e sentire intorno l’indifferenza, il rifiuto, a volte il disprezzo.
Per questo ti chiedo di stare vicina alle famiglie che oggi
a Roma, in Italia, nel mondo intero vivono situazioni simili,
perché non siano abbandonate a sé stesse, ma tutelate nei loro diritti,
diritti umani che vengono prima di ogni pur legittima esigenza.
O Maria Immacolata,
aurora di speranza all’orizzonte dell’umanità,
veglia su questa città,
sulle case, sulle scuole, sugli uffici, sui negozi,
sulle fabbriche, sugli ospedali, sulle carceri;
in nessun luogo manchi quello che Roma ha di più prezioso,
e che conserva per il mondo intero, il testamento di Gesù:
“Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (cfr Gv 13,34).
Amen.

preghiera che Papa Francesco ha recitato l’8 dicembre 2018
all’Immacolata a Piazza di Spagna

Pubblicato in Liturgia

Le letture liturgiche della prima domenica di Avvento, ci invitavano a vegliare, questa domenica invece ci esortano “a preparare la via del Signore” . Seguendo le indicazioni del profeta Isaia e di San Giovanni Battista cerchiamo di raddrizzare le vie del nostro cuore. Non importa se attorno a noi vediamo il deserto, se ci sembra che non funzioni niente, se ci sentiamo disorientati in questo tempo così oscuro. Fidiamoci di Dio! Con Lui possiamo fare tutto, anche ciò che prima ci sembrava impossibile!
Nella prima lettura, il profeta Isaia esorta al coraggio e alla speranza e annuncia agli ebrei deportati il ritorno in patria. Dio stesso ritorna a camminare con il suo popolo come il grande pastore d’Israele, e dietro a Lui, come un gregge il popolo eletto.
Nella seconda lettura san Pietro nella sua lettera ci invita alla preghiera e alla santità della vita nell’attesa del compimento della promessa del Signore: il suo ritorno definitivo.
Nel Vangelo di Marco, viene presentato Giovanni il Battista, che punta un indice verso l’ingresso decisivo del Signore nelle strade del mondo. Colpisce la forza con la quale proclama il suo messaggio, l’umiltà con la quale ripete che sta per venire uno infinitamente più potente e forte di lui, tanto che lui non si sente neanche degno di chinarsi per slegare i lacci dei suoi sandali. Il Battista, dichiarandosi indegno persino di compiere questo atto estremo di venerazione, riconosce nel Cristo una regalità altissima, quella stessa di Dio.

Dal libro del profeta Isaia
«Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio –.
Parlate al cuore di Gerusalemme
e gridatele che la sua tribolazione è compiuta,
la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore
il doppio per tutti i suoi peccati».
Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore,
spianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in vallata.
Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno,
perché la bocca del Signore ha parlato».
Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion!
Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme.
Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda:
«Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza,
il suo braccio esercita il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri».
Is 40,1-5, 9-11

Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Infatti a partire dal 550 a.C. compare un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re: Ciro. Egli in 10 anni sottomette l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, egli appare come un liberatore. Il Deuteroisaia non si limita a presentarlo come lo strumento scelto da Dio per portare a termine il suo piano in favore di Israele, ma gli attribuisce prerogative tipiche dei re di Giuda, ponendolo così in una prospettiva “messianica”.
Il brano che la liturgia ci propone si apre con un oracolo nel quale Dio stesso esorta a “consolare” il Suo popolo. Le prime parole sono ripetute con insistenza:“Consolate, consolate il mio popolo”…
Il messaggio, che è un vero e proprio annuncio di gioia, è indirizzato direttamente a Gerusalemme, la città santa, personificazione del popolo giudaico. I messaggeri devono “parlare al cuore” di Gerusalemme per annunziarle che la sua esistenza è profondamente trasformata perché il Signore ha deciso di ripristinare quel legame d’amore che lo univa al Suo popolo.
Il motivo della consolazione di Gerusalemme sta nel fatto che:”la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati”.
Il popolo che si era allontanato da Dio ha ormai scontato ampiamente la pena dovuta alla sua iniquità, ha ricevuto un doppio castigo per i suoi peccati, cioè in termini di sofferenza ha pagato un prezzo persino superiore alle sue colpe.
Il profeta comunica poi quanto dice “una voce”, cioè un anonimo messaggero di Dio ordina:
“Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio….”
Ciò significa che l’evento del ritorno richiederà un profondo cambiamento nella mentalità di tutti i giudei.
La fede di Israele in questo periodo è cambiata e dovrà ancora cambiare in profondità, coinvolgendo in questa trasformazione anche coloro che erano rimasti in patria e avevano continuato le attività dei loro padri.(Proprio l’incapacità da parte di costoro di accettare il nuovo, di cui i rimpatriati erano portatori, provocherà tutta una serie di tensioni che renderanno difficile la restaurazione del popolo di Dio).
Il ritorno degli esuli comporterà una meravigliosa rivelazione della gloria di Dio:
“Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato”.
Il termine “gloria” indica il fulgore che nell’immaginazione popolare accompagna la manifestazione di Dio. Vedere la gloria del Signore significa sperimentare in prima persona gli effetti dell’intervento divino. Ora la rivelazione della gloria di Dio sarà disponibile non solo agli israeliti, ma a tutti gli uomini e secondo il profeta nell’evento del ritorno saranno coinvolti tutti i popoli.
Vediamo ora nella narrazione un araldo che viene inviato con un compito specifico:
“Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio! “
L’araldo, che deve annunziare a Gerusalemme e alle città di Giuda il ritorno del Signore alla testa degli esiliati, è descritto come “colui che annuncia liete notizie”. Da questa espressione tradotta in greco (euangelizomenos) “colui che evangelizza” deriverà il termine “vangelo”, con cui i primi cristiani designeranno la predicazione di Gesù.
Il Signore che ritorna è poi presentato con due immagini. La prima è quella del re potente e vittorioso, che ritorna dalla guerra portando con sé il bottino tolto ai nemici (e questo bottino è il popolo stesso che il Signore ha sottratto alla dominazione straniera).
La seconda immagine è quella del pastore che “fa pascolare il gregge” (V.Sal 23; Ez 34), “e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri”.
Tutto il brano esprime meraviglia, gioia ed esaltazione per la svolta improvvisa che sta prendendo la storia della salvezza. Il messaggio fondamentale di questo carme è la fiducia nel Dio che dirige gli eventi della storia umana piegandoli a quelli che sono i Suoi piani di salvezza. Anche quando sembra che le vicende umane sfuggano al Suo controllo, Dio non rinunzia al Suo potere e non viene mai meno alle Sue promesse. L’importante per l’uomo è di saper vedere la Sua gloria quando si manifesta.

Salmo 85 (84) Mostraci, Signore, la tua misericordia e donaci la tua salvezza.

Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annuncia la pace per il suo popolo,
per i suoi fedeli. Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra

Amore e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra
e giustizia si affaccerà dal cielo.

Certo, il Signore donerà il suo bene
e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui:
i suoi passi tracceranno il cammino.

Il salmista ricorda come Dio ha ricondotto "hai ristabilito la sorte di Giacobbe" da Babilonia. I peccati commessi Dio li ha perdonati, mettendo fine alla sua grande ira.
Questa memoria del perdono di Dio alimenta nel salmista la fiducia che Dio perdonerà le mancanze del popolo, che, ritornato nella Giudea, dimostra tiepidezza nei confronti di Dio e per questo incontra sofferenze (Cf. Ag 1,7).
Il salmista, fortificato dal ricordo della misericordia di Dio, innalza quindi la sua supplica: ”Ritorna a noi, Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi".
Il salmista passa a considerare le profezie, ad ascoltare “cosa dice Dio”, e conclude che Dio presenta un futuro di pace “per chi ritorna a lui con fiducia”. Egli guarda ai tempi messianici, e può dire che “la sua gloria abiti la nostra terra” (Is 60,1s); e che “amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. “Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo”, quando verrà il Messia. La sua presenza farà si che “la nostra terra darà il suo frutto”, cioè il frutto di santità per il quale Israele è stato creato. Davanti al “bene” che Dio elargirà, cioè il Messia, “giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla seconda lettera di S.Pietro apostolo
Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno. Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta.
Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia.
Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia.
2Pt 3,8-14

La seconda lettera di Pietro è probabilmente l’ultimo scritto, in ordine di tempo, del Nuovo Testamento, e come la prima lettera, è tradizionalmente attribuita a San Pietro, ma molti esperti hanno ritenuto che sia stata scritta da un altro autore che aveva preso lo pseudonimo di Pietro. Probabilmente fu scritta in greco antico tra il 100 e il 160, da chi conosceva sia la Prima lettera che la lettera di Giuda, con lo scopo di esortare i credenti ad essere costanti nella pratica degli impegni connessi con la loro fede, e di denunciare gli spacciatori di dottrine pericolose che seminavano il disordine. Lo scritto è anche è una lezione importante per il cristianesimo che deve sapere accettare la durata della storia con la consapevolezza che tutto è provvisorio.
In questo brano l’autore preannunzia la venuta di falsi profeti che metteranno in dubbio la fine del mondo e la seconda venuta del Signore. Nei versetti precedenti non riportati dal brano liturgico, egli riafferma la fede tradizionale: “i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima Parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della rovina dei malvagi” (v.7) Dopo questa premessa l'autore affronta l'obiezione riguardante il ritardo della parusia. Egli afferma: “Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno”. Il tempo ha davanti a Dio un valore completamente diverso da quello che ha davanti a noi, quindi davanti a Lui non ha senso il nostro calcolo del tempo perchè per Lui un giorno è come mille anni.. Poi parla sull’agire di Dio: “Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi.” In questa frase si fa allusione al tema della pazienza di Dio per spiegare il ritardo con cui adempie le promesse. Questo comportamento inaspettato di Dio viene visto come espressione della sua pazienza nei confronti dei peccatori, ai quali vuole dare una possibilità di convertirsi prima del giudizio finale.
Poi c’è la descrizione delle modalità con cui si attuerà la fine del mondo: “Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi, consumati dal calore, si dissolveranno e la terra, con tutte le sue opere, sarà distrutta.”Con un'immagine già familiare nel N.T. (Mt 24,43; Lc 12,39;1Ts 5,2), la venuta del giorno del Signore, cioè dell’evento finale e conclusivo della storia viene paragonata all’irruzione di un ladro: ciò significa che si tratta di un evento del tutto imprevedibile. Anzitutto i cieli passeranno “in un grande boato”: questo termine esprime il carattere agghiacciante della fine con il senso di orrore che essa ispira.
Gli “elementi, consumati dal calore si dissolveranno” ossia i quattro elementi cosmici:acqua, fuoco, aria, terra, oppure gli elementi celesti (costellazioni, sole, luna). Allora la terra con quanto c'è in essa sarà distrutta.
È certamente una visione apocalittica vista non come un compimento della storia, ma come distruzione di un mondo caduto in preda di poteri satanici.
L’attesa della fine deve incidere profondamente sul comportamento dei credenti: “Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! “
Il ritardo con cui Dio attua le Sue promesse non deve provocare un rilassamento, ma al contrario invitare a condurre una vita improntata a santità e pietà. Alle prese col mondo in cui vivono i credenti non devono farsi abbagliare da esso dimenticando l’impegno che hanno preso nei confronti di Dio. Anzi con la loro attesa fiduciosa e solerte potranno contribuire addirittura ad abbreviare i tempi che li separano dall’evento finale.
I credenti però devono aspettare non tanto la fine, quanto piuttosto quello che verrà dopo: “Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia” L'espressione “cieli nuovi e terra nuova” è tratta da Isaia (Is 65,17; 66,22) e sta per indicare una nuova creazione, che ha luogo dopo la distruzione del vecchio mondo peccatore. In questi cieli e terra nuovi sarà ormai prevalente la giustizia, che consiste in un'armonia, perfetta degli uomini tra loro, con Dio e con le cose. Tutte le ingiustizie di questa terra saranno allora definitivamente rimosse.
Al termine del brano c’è una breve esortazione: “Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia”. Riferendosi a quanto detto prima l’autore riassume le sue esortazioni incitando chi legge a vivere in conformità all'attesa della parusia, con la piena comprensione del significato salvifico che ha il periodo di attesa, e con una coerenza di vita pratica più perfetta possibile.
L’autore di questo brano adotta senza dubbio le antiche idee apocalittiche circa la fine del mondo, immaginando che il mondo un giorno dovrà dissolversi in una specie di conflagrazione universale.
C’è da tener presente però che nei primi decenni del cristianesimo era molto forte l’idea che la fine del mondo sarebbe stata imminente. Di fronte alla delusione provocata dal “ritardo”, l’autore intende perciò tener viva nel cuore dei credenti la tensione escatologica. La parusia ci sarà e comporterà da una parte la distruzione di tutto quanto c'è adesso di difettoso e di malvagio, dall'altra un potenziamento all'infinito di tutto quello che è bene.
Per rendere comprensibile il significato dell’attesa, l’autore fa appello al concetto della pazienza di Dio: la lentezza con cui Dio manda avanti la storia della salvezza è solo apparente ed è dovuta alla complessità della Sua opera salvifica e soprattutto alla Sua intenzione di salvare tutti. Davanti a questa prospettiva, il cristiano, se vorrà essere coerente, dovrà tenere una condotta santa, in un atteggiamento di attesa intensa e continua per contribuire così anche allo sviluppo di tutto il piano di salvezza.

Dal vangelo secondo Marco
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.
Come sta scritto nel profeta Isaìa:
«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
egli preparerà la tua via.
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri»,
vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
Mc 1, 1-8

Questo brano ci riporta i primi versetti del vangelo di Marco che intende trasmettere alcune informazioni circa l’identità di Gesù e alcuni fatti che hanno caratterizzato l'inizio del suo ministero. Marco inizia il suo scritto con una breve frase che dà il titolo a tutta la sua opera:
“Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”.
Il termine “inizio” è lo stesso con cui si apre la Bibbia (Gen 1,1) e il Vangelo di Giovanni (Gv 1,1) e forse è stato scelto di proposito per presentare l’annunzio evangelico come una nuova creazione .
L’espressione “vangelo di Gesù” non significa tanto che la buona novella ha Gesù come oggetto, ma piuttosto che essa, è stata proclamata da Lui. Dopo il titolo dell’opera, Marco entra subito nel vivo del racconto presentando la predicazione di Giovanni il Battista e nello stesso tempo introduce la sua figura in un modo un po’ asciutto con una citazione biblica preceduta dall’indicazione del libro da cui è stata ricavata: “Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore,raddrizzate i suoi sentieri”
Anche se si dice che il testo citato è una profezia di Isaia, in realtà Marco ha inserito due brani diversi. Il primo è ricavato dal profeta Malachia, in cui il Signore stesso annunzia che sta per venire nel suo tempio per purificarlo e manda davanti a sé un messaggero che gli prepari la via (Ml 3,1); e subito dopo questo messaggero è identificato con Elia, il profeta escatologico atteso dai giudei.
Il secondo brano è ricavato dall’inizio del Deuteroisaia (Is 40,3), dove si dice che un anonimo messaggero (una “voce”) annunzia agli abitanti di Gerusalemme la venuta del Signore alla testa degli esuli che ritornano da Babilonia, e li invita a preparargli la strada nel deserto.
Anche questo scritto è interpretato da Marco in funzione della situazione che sta descrivendo: il deserto non è più il luogo in cui la via deve essere preparata, ma quello in cui si fa sentire la “voce”, che è quella di Giovanni che annuncia al popolo, come l’anonimo messaggero di Isaia , di preparare la via del Signore; ma subito dopo questo Signore non è più identificato con “il nostro Dio”, come nel testo di Isaia (40,3) , ma è designato con il pronome possessivo: “i suoi sentieri”. In questo modo ancora una volta l’evangelista dimostra di avere in mente Gesù, di cui Giovanni annunzia la venuta.
Le due profezie citate hanno per Marco un significato di vitale importanza: con esse egli vuole fare risaltare come in Giovanni si adempiano le attese di Israele
Dopo le due citazioni profetiche, l’evangelista presenta l’attività di Giovanni: “vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.”
Anche se non è indicato il deserto in cui operava Giovanni, si può dedurre che si tratti del deserto di Giuda, che si estende ad est di Gerusalemme fino al Giordano; ma il “deserto” ha qui una forte significato teologico, in quanto secondo le attese giudaiche era questo il luogo in cui il popolo eletto degli ultimi tempi avrebbe dovuto rifare il cammino dell’esodo sotto la guida di Dio.
Nel deserto Giovanni “battezzava” e “proclamava un battesimo di conversione …” egli richiedeva perciò un cambiamento di mentalità, e come diceva il profeta Geremia , un ritorno interiore al Dio dell’alleanza mediante l’obbedienza alla Sua volontà. (Ger 3,14). La conversione nel battesimo, consisteva in un bagno purificatore, simile a quelli compiuti frequentemente dai farisei e dagli esseni, o a quello che veniva amministrato ai pagani che si convertivano al giudaismo (proseliti); da queste abluzioni però il battesimo di Giovanni si distingueva in quanto era amministrato dall’inviato di Dio e doveva essere ricevuto una volta per tutte come segno di una conversione radicale e definitiva.
“Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.” Non vengono menzionati pellegrini provenienti dalla Galilea, dalla quale fra poco Gesù giungerà a farsi battezzare, o da altri territori: l’annunzio di Giovanni è dunque confinato, diversamente da quello di Gesù, al popolo dell’alleanza.
Marco riporta che “Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico”. Questo strano abbigliamento, simile a quello dei profeti (V. Zc 13,4) e in particolare di Elia (V.2Re 1,8), sottolinea il ruolo profetico di Giovanni. Le cavallette e il miele selvatico, sono il cibo di cui potevano disporre gli abitanti del deserto ed è quindi un simbolo di austerità e di penitenza.
Marco dà una sintesi della predicazione di Giovanni riportando le sue parole: “Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo”. Giovanni parla di uno che viene “dopo”di lui, ma pur arrivando dopo, egli è “più forte” di lui, e questo titolo nella Bibbia è riservato prima di tutto a Dio, le cui opere sono efficaci e non transitorie come quelle dell’uomo. Giovanni non si ritiene degno di “slegare i lacci dei suoi sandali”, un compito ritenuto tanto umile da non poter essere imposto neppure a uno schiavo ebreo, e il Battista, dichiarandosi indegno persino di compiere questo atto estremo di venerazione, riconosce nel Cristo una regalità altissima, quella stessa di Dio.
Ciò che Giovani Battista aveva amministrato sulle acque del Giordano dunque era un “battesimo nell’acqua”, espressione di una semplice purificazione dalle colpe, mentre il battesimo del Cristo, sarà nello Spirito Santo, nell’effusione della presenza e dell’azione di Dio all’interno dell’uomo che verrà totalmente trasformato in figlio, in una nuova creatura , in erede della gloria divina.

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“Domenica scorsa abbiamo iniziato l’Avvento con l’invito a vigilare; oggi, seconda domenica di questo tempo di preparazione al Natale, la liturgia ce ne indica i contenuti propri: è un tempo per riconoscere i vuoti da colmare nella nostra vita, per spianare le asperità dell’orgoglio e fare spazio a Gesù che viene.
Il profeta Isaia si rivolge al popolo annunciando la fine dell’esilio in Babilonia e il ritorno a Gerusalemme. Egli profetizza: «Una voce grida: “Nel deserto preparate la via al Signore […]. Ogni valle sia innalzata”»
Le valli da innalzare rappresentano tutti i vuoti del nostro comportamento davanti a Dio, tutti i nostri peccati di omissione. Un vuoto nella nostra vita può essere il fatto che non preghiamo o preghiamo poco. L’Avvento è allora il momento favorevole per pregare con più intensità, per riservare alla vita spirituale il posto importante che le spetta. Un altro vuoto potrebbe essere la mancanza di carità verso il prossimo, soprattutto verso le persone più bisognose di aiuto non solo materiale, ma anche spirituale. Siamo chiamati ad essere più attenti alle necessità degli altri, più vicini. Come Giovanni Battista, in questo modo possiamo aprire strade di speranza nel deserto dei cuori aridi di tante persone.
«Ogni monte e ogni colle siano abbassati», esorta ancora Isaia. I monti e i colli che devono essere abbassati sono l’orgoglio, la superbia, la prepotenza. Dove c’è orgoglio, dove c’è prepotenza, dove c’è superbia non può entrare il Signore perché quel cuore è pieno di orgoglio, di prepotenza, di superbia. Per questo, dobbiamo abbassare questo orgoglio. Dobbiamo assumere atteggiamenti di mitezza e di umiltà, senza sgridare, ascoltare, parlare con mitezza e così preparare la venuta del nostro Salvatore, Lui che è mite e umile di cuore (cfr Mt 11,29). Poi ci viene chiesto di eliminare tutti gli ostacoli che mettiamo alla nostra unione con il Signore: «Il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore - dice Isaia - e tutti gli uomini insieme la vedranno» . Queste azioni però vanno compiute con gioia, perché sono finalizzate alla preparazione dell’arrivo di Gesù. Quando attendiamo a casa la visita di una persona cara, predisponiamo tutto con cura e felicità. Allo stesso modo vogliamo predisporci per la venuta del Signore: attenderlo ogni giorno con sollecitudine, per essere colmati della sua grazia quando verrà.
Il Salvatore che aspettiamo è capace di trasformare la nostra vita con la sua grazia, con la forza dello Spirito Santo, con la forza dell’amore. Lo Spirito Santo, infatti, effonde nei nostri cuori l’amore di Dio, fonte inesauribile di purificazione, di vita nuova e di libertà. La Vergine Maria ha vissuto in pienezza questa realtà, lasciandosi “battezzare” dallo Spirito Santo che l’ha inondata della sua potenza. Ella, che ha preparato la venuta del Cristo con la totalità della sua esistenza, ci aiuti a seguire il suo esempio e guidi i nostri passi incontro al Signore che viene.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 10 dicembre 2017

Pubblicato in Liturgia

Con questa prima Domenica di Avvento si apre il nuovo anno liturgico che nelle sue varie tappe sarà unito dalla lettura del Vangelo di Marco che vuole proporci un viaggio dello spirito nella storia e nel mistero di Gesù, passando dall’oscurità alla luce.
La Liturgia di questa domenica ci presenta:
Nella prima lettura, il profeta Isaia, che davanti alla desolazione del peccato, dell’ingiustizia e delle miserie che toccano il popolo, implora l’intervento di Dio chiedendogli di non lasciare andare in rovina la sua opera, ma di liberarla dall’oppressione del male.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, scrivendo ai Corinzi, ringrazia Dio delle grazie ricevute dalla giovane comunità di Corinto, ed è certo che lo stesso Dio, che ha arricchito i corinzi di tanti doni, li aiuterà ad essere saldi e irreprensibili sino alla fine.
Nel Vangelo di Marco, Gesù ci invita a vegliare, ma la nostra attesa non deve divenire un’attesa di paura perchè essa riguarda non tanto l’incontro con il Signore, ma l’eventualità di non trovarsi preparati quando questo incontro si realizzerà. La vigilanza deve avere come base la necessità di vivere quotidianamente secondo i valori del Vangelo, annunziati da Gesù.
L’Avvento è il tempo della vigilanza, Vegliare in obbedienza al pressante invito di Gesù comporta non cedere alla stanchezza e stare all’erta per non lasciarsi ingannare dalle seduzioni del mondo.

Dal libro del profeta Isaia
Tu, Signore, sei nostro padre,
da sempre ti chiami nostro redentore.
Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie
e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?
Ritorna per amore dei tuoi servi,
per amore delle tribù, tua eredità.
Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
Davanti a te sussulterebbero i monti.
Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo,
tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti.
Mai si udì parlare da tempi lontani,
orecchio non ha sentito, occhio non ha visto
che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui.
Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia
e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato
contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli.
Siamo divenuti tutti come una cosa impura,
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia;
tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
Nessuno invocava il tuo nome,
nessuno si risvegliava per stringersi a te;
perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
ci avevi messo in balìa della nostra iniquità.
Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci plasma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.
Is 63,16-17.19; 64,2-7

La terza parte del libro di Isaia (capitoli 56-66) contiene una raccolta di oracoli che, per lo stile e lo sfondo storico, sono attribuiti ad un anonimo profeta del postesilio, al quale perciò è stato dato il nome di Trito (Terzo) Isaia. Alcuni hanno ritenuto che egli fosse un discepolo del Deuteroisaia, mentre altri hanno pensato a un profeta vissuto più di un secolo dopo di lui. Il profeta si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia a Gerusalemme; il suo centro di interesse non è più il nuovo esodo, ma il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da agenti esterni, ma dalla infedeltà del popolo.
Il brano liturgico, che è una commovente e fiduciosa preghiera, una delle più belle dell’Antico Testamento, inizia con un’accorata invocazione:
“Tu, Signore, sei nostro padre,da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità”.
Il profeta si rivolge direttamente a Dio con accenti di grande intensità facendo proprio il grido di tutta la comunità. Dio qui viene invocato come “Padre” e “redentore” in ebraico “go’el”. Il termine “go’el” sta ad indicare il parente prossimo che interviene in soccorso di chi si trova in una situazione di grande pericolo o necessità. (Sia nel momento dell’uscita dall’Egitto, sia in quello del ritorno dall’esilio JHWH ha assunto nei confronti di Israele il ruolo del go’el, liberandolo e acquistandolo per sé con le sue azioni prodigiose).
Il profeta nello stesso tempo rivolge a Dio un velato rimprovero: se Dio è padre e redentore, perché lascia che il suo popolo cammini lontano dalle sue vie? Perché lascia che il cuore di tutti si indurisca così da non temere più Lui, che è il padre e il redentore? E’ messa in evidenza con una intensità crescente la disperazione di Israele: non solo è stato distrutto il suo santuario, distrutto dai babilonesi nel 587, ma Israele ha la sensazione di essere stato abbandonato completamente da Dio.
Infine torna la richiesta pressante e accorata affinché Dio intervenga direttamente dall'alto:
“ Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti”.
I cieli chiusi sono un’immagine per indicare la mancanza di comunicazione tra Dio e il Suo popolo. La richiesta di un nuovo intervento di Dio evoca le immagini tipiche della teofania, quando DIO era disceso sul Sinai e il monte era stato scosso dal terremoto (Es 19,18).
Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo,tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti”. La preghiera prosegue con il ricordo degli interventi prodigiosi di Dio in favore di Israele. Di fronte alla manifestazione di DIO le nazioni hanno tremato perché Egli compiva cose terribili e inaudite, e commenta: “Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui”.
Anche qui si può notare un riferimento alla tradizione del Sinai dove viene affermata l’unicità di DIO: egli è l’unico che ha dimostrato una potenza così grande da liberare Israele (Es 20,3; Dt 6,4).
Da queste esperienze viene ricavato un principio generale circa il comportamento di Dio:
“Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie”
Poi il profeta confessa a nome del popolo: “Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento”.
La preghiera non termina però con espressioni così disperate e alla fine ritorna il sentimento di fiducia: “Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani”.
Come si era aperta, così la preghiera termina con l’attribuzione a DIO della qualifica di “Padre” (Avinu Malkeinu). Questa gli compete perché è stato Lui a plasmare Israele, perciò il popolo è per Lui come l’argilla su cui è intervenuto per dargli la vita. Su questo rapporto originario e indissolubile si basa la fiducia del popolo in un avvenire migliore. Ma ciò che interessa maggiormente il profeta è il ristabilimento della comunione con Dio. Le sventure materiali sono dolorose non in se stesse, ma perché sono viste come il segno della lontananza di Dio. Se Dio dà un segno della Sua presenza in mezzo al popolo, allora anche le prove non saranno più così insostenibili.
Dio in Gesù Cristo ha totalmente infranto il suo splendido isolamento, “è disceso” in mezzo a noi “ è andato incontro a quanti si ricordano delle sue vie”, ha svelato il Suo volto di “Padre” e di “redentore”. La rivelazione e l’incarnazione sono la testimonianza più reale di questo movimento di Dio senza il quale l’uomo resterebbe solitario in questo universo indifferente alle sue speranze, ai dolori, ai suoi misfatti.

Salmo 79 (80) Signore, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi.
Tu, pastore d’Israele, ascolta,
seduto sui cherubini, risplendi.
Risveglia la tua potenza
e vieni a salvarci.

Dio degli eserciti, ritorna!
Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna,
proteggi quello che la tua destra ha piantato,
il figlio dell’uomo che per te hai reso forte.

Sia la tua mano sull’uomo della tua destra,
sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte.
Da te mai più ci allontaneremo,
facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.

Il salmo venne scritto quando ancora l’arca non era distrutta, il che avvenne con la distruzione di Gerusalemme. Probabilmente è stato scritto dopo la presa di Samaria da parte dell’Assiro Sargon (721), e dopo che Gerusalemme, assediata dall’Assiro Sennacherib dopo la devastazione della Giudea, rimase indenne (701). Questo evento fece risaltare la potenza di Dio nel suo tempio di Gerusalemme, e rese sensibile la Samaria verso Gerusalemme, cosa che permetterà l’azione riformista di Giosia (640-609) anche in territorio Samaritano.
Il salmista è un pio Israelita delle tribù del nord (Samaria) che desidera che le tribù di Efraim, Beniamino e Manasse siano benedette da Dio, la cui gloria sta sui cherubini dell’arca, posta nel tempio di Gerusalemme; desidera la fine dello scisma samaritano: “Seduto sui cherubini, risplendi davanti a Efraim, Beniamino e Manasse. Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci”.
A Dio, che guida Giuseppe “come un gregge”, il salmista chiede di manifestare nuovamente quella potenza che esercitò quando fece uscire “Giuseppe” dall’Egitto; intendendo per Giuseppe tutto Israele, finito in Egitto proprio a partire da lui (Gn 37,38).
Egli attraverso la bella immagine della vigna rievoca la storia di Israele: “Hai sradicato un vite dall’Egitto…”. Questa vite curata da lui ha esteso i suoi rami fino al Mediterraneo e fino al Libano: “La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli”. “Il fiume”, è l’Eufrate. Esso era lontano dalla Terra Promessa, ma indica fin dove giungeva l’influenza di Israele.
Il salmista è stordito di fronte alle sventure che si sono abbattute su Israele: “Signore, Dio degli eserciti, fino a quando fremerai di sdegno contro le preghiere del tuo popolo?”; “Perché hai aperto brecce nella sua città e ne fa vendemmia ogni passante ?”, ma non desiste dalla preghiera e invoca Dio, “Dio degli eserciti”, perché forte in battaglia per difendere i suo popolo: “Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell'uomo che per te hai reso forte”.
Il salmista riconosce la dinastia di Davide e ha la speranza che il re di Gerusalemme saprà risollevare le sorti di Israele, costui al presente era Ezechia (716-687): “Sia la tua mano sull’uomo della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte”, ma nel futuro sarà il Cristo. Quell’uomo reso forte è ora ogni pontefice, ogni vescovo, ogni sacerdote, ogni diacono, ogni fedele, che tutti sono uno, nell’uno che è la Chiesa, corpo mistico di Cristo, e che si adoperano per portare nel mondo la vera pace, cioè Cristo.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!
Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza. La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!
1 Cor 1,3-9

Paolo scrisse la prima lettera ai Corinzi durante la sua permanenza ad Efeso negli anni 54-55. E’ una delle più lunghe scritte dall’apostolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli. Paolo si era deciso a scriverla dopo aver ricevuto notizie sulla comunità da parte di conoscenti della famiglia di Cloe e dopo che gli era anche pervenuta una lettera dagli stessi Corinzi. Corinto era un’importante grande città, (famosa per il suo porto), centro di cultura greca, dove si affrontavano correnti di pensiero e di religione molto differenti tra loro. Il contatto della fede cristiana con questa capitale del paganesimo, anche celebre per il rilassamento dei costumi, poneva nei neofiti numerosi e delicati problemi. Pur essendo passati solo pochi anni dalla sua fondazione, la comunità di Corinto si era dimostrata molto vivace e nello stesso tempo anche molto problematica.
In questo brano, in cui viene riportato l’inizio della lettera, Paolo comincia con il saluto: “grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!” in cui sono concentrati due stili, quello tipico del mondo ebraico “shalôm” (pace) e del mondo greco “chaire” (salve) poi continua con il rendimento di grazie:. “Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza.”
In questa frase Paolo, riprendendo uno dei termini dell’augurio appena fatto, ringrazia Dio per aver conferito ai corinzi la sua “grazia” in forza della quale possono entrare in un rapporto personale e vissuto con Lui; Dio l’ha data loro per mezzo del Signore Gesù Cristo, avendoli inseriti in Lui come membra di un corpo. Questa grazia porta con sé non solo la salvezza, ma una ricchezza di doni che riguardano sia la “parola” che la “conoscenza”.
Poi Paolo continua esprimendo l’altro motivo di ringraziamento: “La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”.
Tra i cristiani di Corinto si è molto rafforzata la “testimonianza di Cristo” ossia il Vangelo di Cristo, testimoniato dall’apostolo, ha messo radici profonde tra i corinzi. Di conseguenza essi non mancano ”di nessun carisma”, cioè di nessuno dei doni che lo Spirito conferisce a ciascuno per l’utilità comune . Al tema dei carismi l’apostolo dedicherà ben tre capitoli della sua lettera (cc. 12-14).
Ciò che i corinzi hanno già ricevuto lascia ben sperare anche per il futuro: “Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo”. Paolo è dunque certo che lo stesso Dio, che ha arricchito i corinzi di tanti doni, li aiuterà ad essere saldi sino alla fine e irreprensibili “nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo”: con queste parole egli identifica il “giorno del Signore” annunziato dai profeti con quello della manifestazione gloriosa di Gesù Cristo, alla quale i credenti si preparano fin d’ora mediante una vita santa.
In questa prospettiva la fine non suscita più sentimenti di paura, ma di fiducia. Con queste parole Paolo vuole rassicurare i suoi corrispondenti, facendo loro capire che con i forti richiami che farà , non intende certo dubitare dell’autenticità del loro cammino di fede.
L’apostolo conclude il ringraziamento affermando: “Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!”
L’affermazione “degno di fede è Dio”, è uno dei pilastri su cui si poggia la fede biblica! È vero che l’uomo può allontanarsi da Dio, attirando su di sé sofferenze e insuccessi, ma nello stesso tempo Dio non può venire meno alle Sue promesse. Per il fatto che li ha “chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo,” Egli non li potrà mai abbandonare a se stessi, perciò se anche in qualcosa hanno sbagliato, non per questo devono sentirsi abbandonati da Dio.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
Mc 13, 33-37

Il Vangelo di Marco, che ci accompagnerà nella varie tappe di questo nuovo anno liturgico, è il primo dei Vangelo scritti, composto tra il 60 e il 70. E’ il più corto dei vangeli, (ha circa 11.230 parole) e a differenza di Matteo e Luca, non riporta alcuna informazione sulla vita di Gesù prima dell’inizio del Suo ministero; non vi è riportato neanche un accenno alla natività, né si fa menzione della genealogia di Gesù. Marco più che scrivere una biografia di Gesù, ha voluto attirare l’attenzione di chi legge il suo Vangelo sul mistero della persona del Cristo, sembra quasi che voglia porre il lettore di fronte all’avvenimento facendolo partecipare all’azione.
Questo brano, che è parallelo al Vangelo di Matteo, fa parte del così detto discorso escatologico. Gesù aveva fatto accenno prima al fico per indicare la necessità di saper discernere la venuta degli eventi finali, (vv. 28-29) sottolineando che essi sono imminenti, ma si attueranno secondo tempi che non sono noti a nessuno, neppure al Figlio. Gesù aveva concluso, nei versetti precedenti non riportati dal brano liturgico, invitando a stare attenti e vigilare per mantenersi sempre pronti e per far comprendere quanto sia importante il messaggio, suggella quanto ha detto con le parole: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. Mc 13,31
Per sottolineare ancora la necessità dell’attesa vigilante, Gesù in questo brano fa ricorso a una similitudine: “È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.”
E una piccola parabola che ricorda la parabola dei talenti di Matteo (Mt 25,14-15) o delle monete d'oro in Luca (Lc 19,12-13), ma con un diverso intento. Poiché il padrone ha dato un compito preciso a ciascun servo per cui ognuno deve stare attento per poter ricevere un giudizio positivo al suo ritorno. L'accenno al portiere ci riporta il verbo vegliare, parola chiave del nostro piccolo brano.
Dopo questa similitudine, Gesù conclude:”Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Questo versetto riporta le diverse veglie in cui i romani dividevano la notte, corrispondenti ai turni di guardia; il padrone di casa nel contesto di Marco potrebbe identificarsi con il Figlio dell'uomo, e il suo ritorno con il tempo del giudizio finale. Anche l'affermazione finale ”non vi trovi addormentati” ha un significativo rimando al racconto della passione (Mc 14,37.40.41) dove i discepoli si addormentano.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”
Tutto il capitolo, ma in particolare questi versetti finali, hanno l'intento di mantenere viva l'aspettativa del ritorno glorioso di Cristo, ma nello stesso tempo di frenare eccessive fantasie riguardo al come accadrà tale evento e al tempo in cui avverrà.
Gesù ci invita a vegliare, ma la nostra attesa non deve divenire un’attesa di paura perché essa riguarda non tanto l’incontro con il Signore, ma l’eventualità di trovarsi impreparati quando questo incontro si realizzerà. La vigilanza quindi ha per oggetto la necessità di vivere quotidianamente secondo i valori del Vangelo, annunziati da Gesù.
Sebbene la piena realizzazione di tutto questo avrà luogo solo alla fine dei tempi, essa è già presente nel cuore di ogni credente la cui vita deve svolgersi nella dimensione del “già” e del “non ancora”: quello che non si è ancora attuato nella sua pienezza, è presente già ora come risultato delle nostre scelte.

*****

“Oggi iniziamo il cammino dell’Avvento, che culminerà nel Natale. L’Avvento è il tempo che ci è dato per accogliere il Signore che ci viene incontro, anche per verificare il nostro desiderio di Dio, per guardare avanti e prepararci al ritorno di Cristo. Egli ritornerà a noi nella festa del Natale, quando faremo memoria della sua venuta storica nell’umiltà della condizione umana; ma viene dentro di noi ogni volta che siamo disposti a riceverlo, e verrà di nuovo alla fine dei tempi per «giudicare i vivi e i morti». Per questo dobbiamo sempre essere vigilanti e attendere il Signore con la speranza di incontrarlo. La liturgia odierna ci introduce proprio in questo suggestivo tema della vigilanza e dell’attesa.
Nel Vangelo Gesù esorta a fare attenzione e a vegliare, per essere pronti ad accoglierlo nel momento del ritorno. Ci dice: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento […]; fate in modo che giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati».
La persona che fa attenzione è quella che, nel rumore del mondo, non si lascia travolgere dalla distrazione o dalla superficialità, ma vive in maniera piena e consapevole, con una preoccupazione rivolta anzitutto agli altri. Con questo atteggiamento ci rendiamo conto delle lacrime e delle necessità del prossimo e possiamo coglierne anche le capacità e le qualità umane e spirituali. La persona attenta si rivolge poi anche al mondo, cercando di contrastare l’indifferenza e la crudeltà presenti in esso, e rallegrandosi dei tesori di bellezza che pure esistono e vanno custoditi. Si tratta di avere uno sguardo di comprensione per riconoscere sia le miserie e le povertà degli individui e della società, sia per riconoscere la ricchezza nascosta nelle piccole cose di ogni giorno, proprio lì dove il Signore ci ha posto.
La persona vigilante è quella che accoglie l’invito a vegliare, cioè a non lasciarsi sopraffare dal sonno dello scoraggiamento, della mancanza di speranza, della delusione; e nello stesso tempo respinge la sollecitazione delle tante vanità di cui trabocca il mondo e dietro alle quali, a volte, si sacrificano tempo e serenità personale e familiare. È l’esperienza dolorosa del popolo di Israele, raccontata dal profeta Isaia: Dio sembrava aver lasciato vagare il suo popolo lontano dalle sue vie (cfr 63,17), ma questo era un effetto dell’infedeltà del popolo stesso (cfr 64,4b). Anche noi ci troviamo spesso in questa situazione di infedeltà alla chiamata del Signore: Egli ci indica la via buona, la via della fede, la via dell’amore, ma noi cerchiamo la nostra felicità da un’altra parte.
Essere attenti e vigilanti sono i presupposti per non continuare a “vagare lontano dalle vie del Signore”, smarriti nei nostri peccati e nelle nostre infedeltà; essere attenti ed essere vigilanti sono le condizioni per permettere a Dio di irrompere nella nostra esistenza, per restituirle significato e valore con la sua presenza piena di bontà e di tenerezza. Maria Santissima, modello nell’attesa di Dio e icona della vigilanza, ci guidi incontro al suo figlio Gesù, ravvivando il nostro amore per Lui.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 3 dicembre 2017

Pubblicato in Liturgia

In ogni ultima domenica dell’Anno liturgico, la Chiesa celebra Cristo Re dell'Universo. La storia di questa festa parte dal 1899 con papa Leone XIII, ma fu PIO XI che la confermò come festa con l'enciclica Quas Primas dell'11 dicembre 1925. Gesù Cristo è re, perché è l'unico mediatore della salvezza di tutta la creazione. Solo in Lui, tutte le cose trovano il loro compimento, la loro vera consistenza secondo il disegno creatore di Dio.
Nella prima lettura tratta dal libro del profeta Ezechiele, troviamo una luminosa in cui il Signore appare come il pastore del suo popolo. Un pastore che non si comporta da sovrano distaccato, ma che è amoroso compagno di viaggio dei suoi figli.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nella sua prima lettera ai Corinzi, afferma che con la Sua risurrezione Gesù ha inaugurato il regno di Dio e mediante la risurrezione finale dai morti, vincerà l’ultima delle potenze del male, la morte, e solo allora Egli consegnerà il regno a Dio Padre, il quale regnerà come unico sovrano per sempre.
Il Vangelo di Matteo, ci offre un’immagine del giudizio universale con Cristo che tornerà nella gloria con tutti i suoi angeli. Cristo non è paragonato ad un giudice simile a quelli umani, ma a un pastore. Egli compirà una divisione tra pecore e capri, tra buoni e cattivi. Il Suo giudizio non sarà altro che un riconoscere il comportamento di ogni uomo nel confronti del fratello. E’ l’uomo, quindi che si condanna o si salva a seconda di come ha condotta la propria vita, se nell’egoismo, alla ricerca del proprio interesse, o invece nella attenzione verso i piccoli, gli indifesi, i bisognosi, nei quali riconosce il volto di Cristo.
Oggi ricorre la giornata di sensibilizzazione per il sostentamento del clero. Il regno di Cristo non è fondato sul dominio ma sull’amore. La Chiesa deve testimoniare questo regno nella giustizia e nella carità

Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine.
Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.
A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.
Ez 34,11-12,15-17

Il profeta Ezechiele, il cui nome significa “El (Dio) fortifica”, nacque intorno al 620 a.C. al crepuscolo del regno di Giuda. Suo padre era un sacerdote, e sacerdote fu egli stesso fin da giovane, e questo segnerà per sempre il suo stile e il suo pensiero. Fu tra i primi deportati a Babilonia per opera di Nabucodonosor nel 597 a. C., e visse con la comunità giudaica stanziata a sud di Babilonia, a Tel-abib, vicino al fiume Chebar (1,1-3; 3,15). Nel 593, sulle rive di questo fiume, ha una visione grandiosa della gloria di JHWH e ode una voce che gli ordina di essere profeta. Ezechiele è certamente un profeta meno importante di Isaia o Geremia, ma ha una sua originalità, una sincerità e un abbandono alla sua missione che possono farlo ingiustamente apparire ingenuo, quando in realtà vuole solo cercare di riportare il più fedelmente possibile il messaggio di cui è latore, e per non mettere a rischio l'efficacia del suo messaggio, preferisce essere talvolta semplice e ripetitivo.
Il libro che porta il suo nome contiene due raccolte di oracoli, quelli composti prima della caduta di Gerusalemme (cc. 1-24) e quelli posteriori ad essa (cc. 33-39). Tra queste due raccolte si situano gli oracoli contro le nazioni (cc. 25-32). Al termine è riportata una sezione chiamata «Torah di Ezechiele» (cc. 40-48), dove sono descritte le istituzioni future. Gli oracoli posteriori alla caduta di Gerusalemme hanno come tema la conversione di Israele e il ritorno degli esuli nella loro terra. Questa raccolta si apre con un oracolo nel quale viene delineato il ruolo del profeta come sentinella (33,1-9), già descritto negli stessi termini dopo la visione inaugurale (cfr. 3,16-21), e una raccolta di oracoli riguardanti la svolta che sta per verificarsi. Segue una serie di oracoli che trattano i seguenti temi: JHWH unico pastore di Israele (Ez 34), rinnovamento del popolo (Ez 35-37), la vittoria finale sui nemici di Israele (Ez 38-39).
Nel brano liturgico,tratto dal capitolo 34, vediamo Ezechiele, riprendere il tema caro a Geremia, accusa i capi del popolo, che secondo una metafora orientale chiama "pastori“, dei loro crimini e poi annuncia:
Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore…. dove erano disperse …. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.”
Dunque sarà il Signore stesso a condurre le pecore al pascolo e a farle riposare . Per prima cosa andrà in cerca della pecora perduta e ricondurrà all'ovile quella smarrita; poi fascerà quella ferita e curerà quella malata, senza con ciò perdere di vista quella grassa e quella forte, infine pascerà tutte le pecore con giustizia, cioè senza far mancare loro nulla di ciò che hanno bisogno. Infine il Signore giudicherà fra pecora e pecora, fra montoni e capri, impedendo ai capi più forti di far del male ai più deboli. In questi quatto tipi di intervento sono descritti simbolicamente i compiti di chi detiene l’autorità: tenere uniti i membri del popolo, fare sì che a tutti siano assicurati i mezzi di sussistenza, evitare la sopraffazione dei poveri da parte dei ricchi, risolvere con giustizia le controversie che dovessero sorgere fra la gente.
E’ da notare la bellissima serie dei verbi della “premura” di Dio: “cercare, curare, passare in rassegna, condurre al pascolo, far riposare, cercare la pecora perduta”. La frase finale “A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.“ prepara poi la grandiosa scena del re-pastore-giudice del Vangelo di Matteo.

Salmo 23 (22) - Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare.
Ad acque tranquille mi conduce.

Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.

L’orante ha fatto l’esperienza di come il Signore lo guidi in mezzo a numerose difficoltà tesegli dai nemici. Egli dichiara che non manca di nulla perché Dio in tutto l’aiuta. Le premure del suo Pastore sono continue e si sente curato come un pastore cura il suo gregge conducendolo a pascoli erbosi e ad acque tranquille. L’orante riconosce che tutto ciò viene dalla misericordia di Dio, che agisce “a motivo del suo nome”, ma egli corrisponde con amore all’iniziativa di Dio nei suoi confronti. La consapevolezza che Dio lo ama per primo gli dà una grande fiducia in lui, cosicché se dovesse camminare nel buio notturno di una profonda valle non temerebbe le incursioni di briganti o persecutori, piombanti dall’alto su di lui. La valle oscura è poi simbolo di ogni situazione difficile nella quale tutto sembra avverso. Dio, buon Pastore, lo difende con il suo bastone e lo guida dolcemente con il suo vincastro, che è quella piccola bacchetta con cui i pastori indirizzano il gregge con piccoli colpetti. Non solo lo guida in mezzo alle peripezie, ma anche gli dona accoglienza, proprio davanti ai suoi nemici, i quali pensano di averlo ridotto ad essere solo uno sconvolto e disperato fuggiasco. Egli, al contrario, è uno stabile ospite del Signore che gli prepara una mensa e gli unge il capo con olio per rendere lucenti i suoi capelli e quindi rendere bello e fresco il suo aspetto. E il calice che ha davanti è traboccante, ma non perché è pieno fino all’orlo, ma perché è traboccante d'amore. Quel calice di letizia è nel sensus plenior del salmo il calice del sangue di Cristo, mentre la mensa è la tavola Eucaristica, e l’olio è il vigore comunicato dallo Spirito Santo.
Il cristiano abita nella casa del Signore, l’edificio chiesa, dove c’è la mensa Eucaristica. Quella casa, giuridicamente, è della Diocesi, della Curia, ma è innanzi tutto del Signore, e quindi egli, per dono del Signore, vi è perenne legittimo abitante.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.
E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.
1Cor 15,20-26,28

Paolo scrisse la prima lettera ai Corinzi durante la sua permanenza ad Efeso negli anni 54-55. E’ una delle più lunghe scritte dall’apostolo, paragonabile a quella scritta ai Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli. Paolo si era deciso a scriverla dopo aver ricevuto notizie sulla comunità da parte di conoscenti della famiglia di Cloe e dopo che gli era anche pervenuta una lettera dagli stessi Corinzi. Corinto era un’importante grande città, (famosa per il suo porto), centro di cultura greca, dove si affrontavano correnti di pensiero e di religione molto differenti tra loro. Il contatto della fede cristiana con questa capitale del paganesimo, anche celebre per il rilassamento dei costumi, poneva nei neofiti numerosi e delicati problemi.
Nel 15 capitolo della lettera, da dove è tratto il brano liturgico, rispondendo a problemi che gli avevano posto, Paolo affronta il tema della risurrezione finale, affermando che il rifiuto della risurrezione dei credenti porterebbe all’assurdo di negare la risurrezione stessa di Cristo. Perciò Paolo riafferma il punto centrale di questa fede: “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”.
Il termine “primizia”, usato da lui anche in altre occasioni (V.. Rm 8,23; 11,16), è di origine cultuale e indica i primi frutti che anticipano e garantiscono l’abbondanza del raccolto. La risurrezione di Cristo è una primizia non solo perché precede la risurrezione di tutti i credenti, ma anche e soprattutto perché ne è il modello e la causa. Il concetto di primizia viene ancora approfondito da Paolo alla luce della concezione biblica secondo cui i membri di un gruppo formano una sola cosa con colui che ne è il capo e che li rappresenta. Questo principio sta alla base del racconto della caduta (cfr. Gen 3), nel quale il primo uomo è presentato come il progenitore dell’umanità peccatrice, che egli da una parte rappresenta e dall’altra coinvolge nel suo stesso peccato e nella sua conseguenza immediata, la morte (V. Rm 5,21).
Rifacendosi a questa concezione Paolo prosegue affermando: “Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita”.
In quanto solidale con Adamo l’umanità fa fin d’ora l’esperienza della morte. La risurrezione dai morti invece per ora si è attuata solo in Cristo; per quanto riguarda i credenti, che “riceveranno la vita in Cristo” si tratta invece di un evento escatologico. Il termine “tutti” usato in riferimento ad Adamo indica l’intera umanità, mentre in riferimento a Cristo designa solo coloro che aderiscono a Lui mediante la fede. La risurrezione finale dei credenti è dunque una conseguenza della comunione con Cristo, di cui la solidarietà in Adamo appare solo come una realtà negativa ormai passata.
A questo punto l’apostolo per fare una precisazione circa i tempi della salvezza, afferma: “Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo”. Tra la risurrezione di Cristo, che è un evento già attuato, e quella dei credenti, che avrà luogo alla fine, c’è non solo una diversità di tempo, ma anche di “ordine”, cioè di importanza, come tra i diversi gradi di un esercito.
Questa diversità proviene dal fatto che Cristo è la “primizia”: la Sua risurrezione preannuncia perciò quella dei credenti, la quale però avrà luogo solo “alla sua venuta”, cioè al momento del Suo ritorno glorioso.
Nella seconda parte del brano Paolo collega strettamente il regno di Cristo con il regno di Dio, mettendo in luce il loro avvicendarsi nel piano della salvezza. Egli ritiene che con la risurrezione di Cristo abbia avuto inizio il Suo regno messianico (V. At 2,34-36), che deve durare fino alla fine, “quando egli consegnerà il regno a Dio Padre”, e ciò avverrà “dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza”.Questa progressiva vittoria viene descritta con le parole del Sal 110,1, dove Dio rivolgendosi al re di Giuda, figura del Messia, dice: “Siedi alla mia destra,finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”. I nemici di Cristo e di Dio non sono realtà esterne all’uomo, ma tutto ciò che lo separa da Dio (ingiustizia, violenza, odio, ecc.) procurandogli la morte eterna. Paolo sottolinea espressamente che “l’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte”, la cui sconfitta avrà luogo appunto mediante la risurrezione dei morti. Se Cristo non fosse capace di eliminarla, non sarebbe veramente il Signore nel quale la comunità professa la sua fede. La vittoria di Cristo viene poi nuovamente affermata con le parole del Sal 8,7, dove il salmista, parlando dell’uomo dice: “Tutto hai posto sotto i suoi piedi. L’apostolo precisa però che da questo “tutto” è escluso Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, cioè il Padre.
E infine soggiunge: “quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.” (*)
Quando Cristo si sottometterà al Padre, sarà la fine, cioè la conclusione e il compimento di tutta la storia. Allora infatti Dio sarà finalmente “tutto in tutti” perchè ci sarà la piena comunione con Dio, alla quale è chiamata l’umanità redenta, e con essa tutto il creato.
Secondo Paolo dunque con la Sua risurrezione Gesù ha inaugurato il regno di Dio che aveva annunziato durante la Sua vita terrena. Egli è divenuto così come un re che è già stato incoronato, ma non ha ancora portato a termine la conquista dei territori che gli sono stati affidati; deve quindi combattere per vincere tutte le potenze che dominano in questo mondo. Mediante la risurrezione finale dai morti, Gesù vincerà l’ultima di queste potenze, la morte, e solo allora Egli consegnerà il regno a Dio Padre, il quale regnerà come unico sovrano per sempre.
In altre parole Dio manifesterà pienamente il Suo regno solo quando tutta l’umanità entrerà nella vita nuova che per primo Cristo ha ricevuto. La risurrezione di Cristo e quella dei credenti sono quindi due realtà indivisibili: se si nega la seconda, si nega perciò per coerenza anche la prima. Sottomettersi a Cristo “re” non significa dunque lottare per far prevalere il punto di vista della Chiesa nella società, ma impegnarsi a fondo per il bene vero di tutti, affinché la realtà escatologica del regno possa essere già chiaramente visibile, anche se non ancora pienamente realizzata.
(*) Nota . Questa teoria di Paolo ha dato origine alla dottrina dell'apocatastasi sostenuta da Origene, ma che fu condannata come eresia nel V Concilio ecumenico, il Concilio di Costantinopoli del 553.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.»
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
Mt 25, 31-46

Questo brano del Vangelo di Matteo riporta l’ultima settimana trascorsa da Gesù a Gerusalemme prima della passione. Gesù prima aveva raccontato la parabola delle dieci vergini, poi la parabola dei talenti, che abbiamo meditato nelle precedenti domeniche, ed ora più che una parabola il brano inizia presentando una vera e propria profezia su quello che sarà il nostro incontro con Dio.
“Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria”.
La descrizione ricorda la teofania descritta da Zaccaria: Verrà allora il Signore mio Dio e con lui tutti i suoi santi. (Zc 14,5). Ma mentre nell’AT Dio non si faceva vedere da nessuno, Gesù al contrario apparirà visibilmente dinanzi a tutte le genti. Egli verrà per giudicare il mondo, avvolto dallo splendore della divinità (la “sua” gloria) e attorniato da tutti gli angeli, che costituiranno la Sua corte celeste. Gesù dunque si manifesterà come il Figlio dell’uomo, al quale Dio “diede potere, gloria e regno” (Dn 7,14) e sarà presentato con le Sue qualità di re e di pastore.
La venuta del giudice supremo dà inizio a una grande convocazione: Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli.”Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.”
Alla grandiosa manifestazione escatologica del Figlio dell’uomo sono chiamate tutte le genti e il giudizio non riguarderà le nazioni come collettività, bensì le singole persone che le compongono, le quali verranno giudicate secondo le loro opere.
La sentenza viene emessa in due parti, riguardanti rispettivamente i giusti e gli empi: Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”, Il regno, promesso da Gesù ai poveri, ai perseguitati, nel giorno del giudizio viene trasmesso da Cristo giudice con il conferimento della salvezza totale e definitiva a coloro che hanno usato misericordia verso i bisognosi.
Vengono poi date le motivazioni della sentenza: “perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Alla sentenza del giudice, i giusti reagiscono con una certa sorpresa dicendo: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”
E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.La risposta dimostra che anche dopo la glorificazione Gesù continua a manifestare la Sua presenza nelle persone più bisognose, mantenendo una comunione particolare con esse, perché prive d’ogni altro appoggio e d’ogni sicurezza terrena.
La condanna di quelli che stanno alla sinistra costituisce il risvolto negativo del giudizio che è la contrapposizione del dialogo con i giusti. Dio nell’Eden aveva maledetto il serpente ma non l’uomo, anche se venne assoggettato per punizione al lavoro faticoso. Ora la maledizione del Figlio dell’uomo segna la condanna definitiva dei malvagi e la privazione eterna della comunione con Dio. Gesù infatti dice: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
È rilevante però che, mentre nella parte precedente i giusti sono benedetti dal Padre, in questa il Padre non viene nominato come colui che maledice. Inoltre non si afferma che il fuoco sia stato preparato per l’uomo, bensì per il diavolo e per i suoi angeli. Quindi l’uomo, facendo buon uso della sua libertà, può sfuggire alla perdizione, ed essere così salvato.
La parabola termina con :”E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”.
Le parole di Gesù sono severe e serene allo stesso tempo, ci invitano ad un impegno serio e faticoso, ma sono anche fonte di gioia e di speranza. Ci fanno capire che Gesù non è un re distante e impassibile, relegato alle dimore celesti, ma è vicino a noi, più di quanto noi possiamo sperare ed immaginare.
Le stupende parole di S.Agostino ce ne dipingono un po’ la sua vera fisionomia:
“tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace” (Confessioni 27,38)

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“In questa ultima domenica dell’anno liturgico celebriamo la solennità di Cristo Re dell’universo. La sua è una regalità di guida, di servizio, e anche una regalità che alla fine dei tempi si affermerà come giudizio. Oggi abbiamo davanti a noi il Cristo come re, pastore e giudice, che mostra i criteri di appartenenza al Regno di Dio. Qui stanno i criteri.
La pagina evangelica si apre con una visione grandiosa. Gesù, rivolgendosi ai suoi discepoli, dice: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» . Si tratta dell’introduzione solenne del racconto del giudizio universale. Dopo aver vissuto l’esistenza terrena in umiltà e povertà, Gesù si presenta ora nella gloria divina che gli appartiene, circondato dalle schiere angeliche. L’umanità intera è convocata davanti a Lui ed Egli esercita la sua autorità separando gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre.
A quelli che ha posto alla sua destra dice: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». I giusti rimangono sorpresi, perché non ricordano di aver mai incontrato Gesù, e tanto meno di averlo aiutato in quel modo; ma Egli dichiara: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»
Questa parola non finisce mai di colpirci, perché ci rivela fino a che punto arriva l’amore di Dio: fino al punto di immedesimarsi con noi, ma non quando stiamo bene, quando siamo sani e felici, no, ma quando siamo nel bisogno. E in questo modo nascosto Lui si lascia incontrare, ci tende la mano come mendicante. Così Gesù rivela il criterio decisivo del suo giudizio, cioè l’amore concreto per il prossimo in difficoltà. E così si rivela il potere dell’amore, la regalità di Dio: solidale con chi soffre per suscitare dappertutto atteggiamenti e opere di misericordia.
La parabola del giudizio prosegue presentando il re che allontana da sé quelli che durante la loro vita non si sono preoccupati delle necessità dei fratelli. Anche in questo caso costoro rimangono sorpresi e chiedono: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?» . Sottinteso: “Se ti avessimo visto, sicuramente ti avremmo aiutato!”. Ma il re risponderà: «Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me» .
Alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, cioè sul nostro concreto impegno di amare e servire Gesù nei nostri fratelli più piccoli e bisognosi. Quel mendicante, quel bisognoso che tende la mano è Gesù; quell’ammalato che devo visitare è Gesù; quel carcerato è Gesù; quell’affamato è Gesù. Pensiamo a questo.
Gesù verrà alla fine dei tempi per giudicare tutte le nazioni, ma viene a noi ogni giorno, in tanti modi, e ci chiede di accoglierlo. La Vergine Maria ci aiuti a incontrarlo e riceverlo nella sua Parola e nell’Eucaristia, e nello stesso tempo nei fratelli e nelle sorelle che soffrono la fame, la malattia, l’oppressione, l’ingiustizia.
Possano i nostri cuori accoglierlo nell’oggi della nostra vita, perché siamo da Lui accolti nell’eternità del suo Regno di luce e di pace.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 26 novembre 2017

 

Pubblicato in Liturgia

Questa domenica, la penultima dell’anno liturgico, le letture che la liturgia ci propone ci aiutano a comprendere che il Signore ci vuole responsabili dei “beni della creazione e della grazia affidati dal Padre alle mani dell’uomo”.
Nella prima lettura, tratta dal Libro dei Proverbi, elogia i meriti della donna di casa e la gioia di cui essa sa colmare il suo focolare. La qualità della donna perfetta sono la laboriosità, l’interesse per i poveri, il parlare con saggezza e bontà, il timore di Dio e la donazione totale al marito e ai figli che possono solo lodarla.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Tessalonicesi, Paolo paragona la venuta del giorno del Signore a quella di un ladro, che non si sa quando viene, ed afferma che se saremo vigilanti e vivremo nella speranza, quali figli della luce e del giorno, non avremo nulla da temere.
Nel Vangelo di Matteo, possiamo meditare sulla famosa parabola dei talenti, che un padrone consegna ai propri servi a seconda di quanto pensa possa oguno farli fruttare. Come i servi che hanno avuto in dotazione i vari talenti, anche noi siamo chiamati a non considerare mai i doni di Dio come fredde pietre preziose, ma come semi da piantare e coltivare perchè portino a suo tempo frutto.
Questa domenica si celebra anche la IV giornata mondiale dei poveri, promossa da Papa Francesco, che ha per tema “Non amiamo a parole, ma con i fatti”. Papa Francesco ci dice: “Tendi la tua mano al povero” (cfr Sir 7,32) . La sapienza antica ha posto queste parole come un codice sacro da seguire nella vita. Esse risuonano oggi con tutta la loro carica di significato per aiutare anche noi a concentrare lo sguardo sull’essenziale e superare le barriere dell’indifferenza. La povertà assume sempre volti diversi, che richiedono attenzione ad ogni condizione particolare: in ognuna di queste possiamo incontrare il Signore Gesù, che ha rivelato di essere presente nei suoi fratelli più deboli (cfr Mt 25,40).

Dal libro dei Proverbi
Una donna forte chi potrà trovarla?
Ben superiore alle perle è il suo valore.
In lei confida il cuore del marito
e non verrà a mancargli il profitto.
Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita.
Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani.
Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso.
Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero.
Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.
Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città.
Pr 31,10-13,19-20,30-1

Il Libro dei Proverbi è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica che cristiana e appartiene al blocco letterario dei “libri” sapienziali”, che intendono insegnare l’arte del ben vivere fra gli uomini, a dirigere bene la società,. È stato scritto in ebraico, intorno al V secolo a.C., raccogliendo testi scritti da autori ignoti lungo i secoli precedenti fino al periodo monarchico (XI-X secolo a.C.). È composto da 31 capitoli contenenti vari proverbi e detti sapienziali. Se è attribuito tutto al re Salomone, che ha regnato dal 970 al 931 a.C. , ciò è dovuto al fatto che questo re è considerato il “Saggio di Israele” , però solo la seconda e la quinta, le più antiche, delle raccolte possono rivendicare il suo intervento., le altre sono più recenti soprattutto la prima e l’ultima potrebbero risalire al V secolo.
La sapienza che proviene dai Proverbi non rimane tesa ad una virtù puramente umana, conquista della ragione e nell’insieme del Libro essa assume un senso religioso e morale assai profondo, poiché questa condotta di vita è intesa come esigenza di fedeltà verso Dio, come “timore di Dio”. Ancora di più: il comportamento umano che si predica vuole essere come un riflesso del pensiero e dello stile di Dio, ossia della Sapienza divina, che, eterna, presiede alla creazione e all’ordine del mondo.
In questo brano, tratto dall’ultimo capitolo del Libro, è l’inno alla donna ideale, perfetta padrona di casa, quale figura della Sapienza,.
L’autore, presentando questo ritratto di donna perfetta, presenta un autentico modello di vita per le donne lungo i secoli. Vediamo a mano a mano dipinta a parole un quadro di una donna oculata, pronta ad ogni evenienza, capace di destreggiarsi in qualunque circostanza. Anche il lavoro non è visto come compito degli schiavi, come avveniva invece in Grecia, bensì come obbedienza al comando di Dio su ogni persona umana. Perciò è cosa buona cercare di vivere del lavoro delle proprie mani, come pure il volere custodire la famiglia senza però dimenticarsi del povero. La donna del libro dei Proverbi non è infatti preoccupata soltanto di arricchire la propria casa, ma anche della carità verso il bisognoso.
C’è anche un richiamo al tema della bellezza di scarsa durata: ”Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare”. Non si deve intendere un disprezzo per la bellezza fisica, che la Scrittura invece apprezza quale segno della gloria di Dio, bensì un richiamo a valori ancora più veri e duraturi: la bellezza interiore di una vita vissuta secondo il timore di Dio. Tale bellezza non conosce né rughe né decadimento, anzi si accresce della gloria di Dio e suscita la lode in tutti coloro che la incontrano.
Il brano termina con un ammonimento:“Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani e le sue opere la lodino alle porte della città”. E’ un invito diretto a noi oggi, che ci esorta a lodarla, come già facevano i membri della sua famiglia.
Per concludere si può dire di trovarci di fronte ad una lettura nuova di un modello di donna: capace di amministrare la casa, di prendersi cura dei figli, di contribuire al ménage familiare anche dal punto di vista strettamente economico, autonoma e sapiente. Di donne così, generose ed accorte, ce ne sono non poche anche oggi, anche se non sempre vengono notate, lodate e gratificate.

Salmo 128 (127) Beato chi teme il Signore.
Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.

La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.

Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
Tutti i giorni della tua vita!

Il salmo presenta l'intima gioia famigliare concessa da Dio all'uomo che lo teme e cammina nelle sue vie. “Teme il Signore”; non è qui il timor servile, cioè il timore di incorrere nella punizione che ha il servo di fronte al padrone, ma è il timore che un figlio deve avere verso un Padre buono. Il timore di Dio è principio di sapienza (Pr 1,7; 9,10; 15,23; Gb 28,28; Sir 1,14.16.18.20), cioè di conoscenza della parola di Dio nell'impegno di tradurla in viva esistenza, camminando così “nelle sue vie”.
"Della fatica delle tue mani ti nutrirai" cioè il tuo lavoro avrà buon esito.
“Nell'intimità della casa”, avrà gioia dalla sposa, presentata nella bella immagine di una vite feconda; feconda di gioia, di vivacità, di operosità e di affetto. A ciò si aggiunge la gioia data dai figli presentati come virgulto d'ulivo attorno alla mensa.
Il salmo presenta un'invocazione di benedizione sull'uomo giusto: “Ti benedica il Signore da Sion...”, dove Sion è il monte simbolo della stabilità delle promesse di Dio.
Veramente è giunta a noi la benedizione di Dio da Sion nel sacrifico redentore del Figlio.
Tale benedizione è per tutti i popoli, e ha costituito la Chiesa, chiamata ad estendersi su tutta la terra per l'avvento globale della civiltà dell'amore, che è la Gerusalemme messianica (Ap 21,9s), la Gerusalemme senza le mura (Zc 2,8) .
“Pace su Israele”, invoca il salmo. E noi diciamo pace sulla Chiesa, l'Israele di Dio (Gal 6,16); come pace - quella che sgorga dall'accoglienza di Cristo - invochiamo su l'Israele etnico, cioè secondo la carne (1Cor 10,18), e su tutti i popoli.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.
1Ts 5,1-6

Paolo, continuando la sua lettera ai Tessalonicesi, dopo aver trattato il tema del ritorno imminente del Signore (che abbiamo approfondito la scorsa domenica ), in questo brano si ricollega a questo insegnamento per dare direttive pratiche circa l’atteggiamento da assumere nel periodo dell’attesa.
Riferendosi forse al desiderio di coloro che volevano conoscere il momento preciso della fine, dichiara che a questo proposito non ha nulla da aggiungere a quello che ha già spiegato oruna. Paolo si limita perciò a ripetere brevemente il suo insegnamento che coincide con quello della chiesa a primitiva: “sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire”.
Quelli perciò che si poggiano solo sulle proprie sicurezze, essi non sfuggiranno al giorno del Signore. Proprio perché non erano in atteggiamento di vigilanza questo giorno sarà per loro una rovina e non potranno sfuggirvi. Il profeta Amos (VIII a.C,) descriveva il giorno del Signore, al quale è impossibile sfuggire, dandocene una visione impressionante: “Che sarà per voi il giorno del Signore?Sarà tenebre e non luce. Come quando uno fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde”.(V.5,18-19)
Ma per rincuorare i destinatari del suo messaggio, Paolo afferma : “Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro”.
Emerge ancora la contrapposizione tra i credenti e i non-credenti. La vocazione cristiana ha sottratto i credenti al mondo tenebroso dell'ignoranza e della chiusura di fronte al futuro, per collocarli nella nuova situazione luminosa di apertura positiva alla salvezza di Dio. Paolo sfrutta il motivo del dualismo luce-tenebre, cioè bene-male, salvezza-perdizione, conosciuto nell'ambiente giudaico di Qumran, variandolo con l'antitesi di giorno e notte
“Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre”
Paolo ribadisce il concetto: i tessalonicesi sono figli della luce. Questo non è in virtù di una predestinazione come lo era per i membri di Qumran, piuttosto i tessalonicesi sono ammessi alla salvezza per il semplice fatto di aver aderito al Vangelo. Allo stesso modo coloro che sono esclusi dalla salvezza, i figli delle tenebre, lo sono poiché hanno rifiutato di credere al Vangelo e a Paolo che lo aveva loro annunciato.
“Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri”.
Paolo ritorna qui all'esortazione a distinguersi dagli altri, a non lasciarsi andare al torpore e alle ubriachezze, ma ad impegnarsi ad essere sempre vigili e pronti ad ogni evento. In questo contesto ha molta importanza la preghiera, vista come un efficace mezzo con cui il credente ricupera ogni giorno il senso della sua vita e il rapporto con Dio e con gli altri.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».
Mt 25, 14-30

Questo brano riporta l’ultima settimana trascorsa da Gesù a Gerusalemme prima della passione. Fa parte del discorso escatologico che Gesù aveva iniziato e questa parabola dei talenti è collegata all'insegnamento della parabola precedente delle dieci vergini, con la quale ha in comune il tema del regno di Dio.
Il brano inizia con una breve introduzione, con cui Gesù racconta ai suoi discepoli la parabola dei talenti: “Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì”.
Prima di partire per un viaggio quest’uomo chiama dunque i suoi servi e consegna loro i suoi beni: a uno dà cinque talenti, ad un altro due, ad un altro ancora uno, ciascuno secondo la sua capacità.
“Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone”.
Vediamo che questo padrone ha lasciato ai suoi servi ampia libertà di autonomia e di azione. Ognuno di loro poteva agire secondo il proprio stile per impegnare il capitale ricevuto.
L’assenza del padrone è lunga ma non definitiva infatti :“Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro”
La parabola di Gesù ha qui la sua conclusione. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presenta altri cinque, e presentandosi al padrone dice; “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” e negli stessi termini si svolge il dialogo con il servo che aveva ricevuto due talenti e che ne riporta altri due.
Viene infine il turno del terzo servo che si giustifica dicendo: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”.
Ma il Signore gli risponde: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti “
Ciò che innervosisce il padrone probabilmente non è tanto la faccenda che il servo non abbia fatto fruttificare il talento ricevuto, ma il motivo che porta: egli non aveva una buon concetto del padrone, lo considerava duro e avido, e quindi non ha avuto il coraggio di rischiare per non incorrere in una punizione.
La risposta del padrone è chiaramente condizionata da questa falsa motivazione: se il servo pensava che egli fosse così rigido ed esoso, a maggior ragione avrebbe dovuto darsi da fare per far fruttificare il talento che gli era stato affidato. La severità del padrone è quindi determinata non tanto dalla mancanza di profitto, ma piuttosto dal giudizio negativo che il servo si era fatto di lui..
L’interpretazione della parabola viene fatta mediante un detto di Gesù: “Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha , verrà tolto anche quello che ha”. Infine vengono riportate le parole di condanna del padrone: “E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti
La punizione consiste dunque non solo nella privazione del talento ricevuto, ma, come nella parabola delle dieci vergini, nell’esclusione dal banchetto celeste, la “gioia” del Signore.
In questa parabola, è chiaramente evidenziato il dovere imposto a tutti i credenti, di lavorare all'avanzamento del regno di Cristo e della Sua gloria, come pure il fatto che, alla Sua venuta, il Signore ci chiederà conto dei “talenti” che ci ha affidato, secondo le capacità di ognuno di noi, perché essi non sono nostri per diritto, Lui ce li ha dati solo in prestito, affinché li possiamo investire nel bene. Non dovremmo mai dimenticare che tutto abbiamo avuto in prestito, tutto, anche la vita che dobbiamo restituire, con tanto di interessi, quando Lui la richiederà.

Nota: Nel primo secolo, un talento valeva seimila denari. Per comprendere la proporzione, basti pensare che un legionario romano aveva uno stipendio di trenta denari. Quanto avrebbe dovuto lavorare per guadagnare un talento? Comprendiamo allora che anche un talento è una cifra piuttosto alta, anche se è la più piccola somma menzionata nella distribuzione dei beni del padrone ai suoi servi. Un talento è una somma da investimento, un capitale adatto a chi voglia fare l'imprenditore. I doni di Dio non sono mai piccoli, hanno sempre uno spessore e una profondità immensa, perché sono dati in previsione di un "investimento".


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“In questa penultima domenica dell’anno liturgico, il Vangelo ci presenta la parabola dei talenti .
Un uomo, prima di partire per un viaggio, consegna ai suoi servi dei talenti, che a quel tempo erano monete di notevole valore: a un servo cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno. Il servo che ha ricevuto cinque talenti è intraprendente e li fa fruttare guadagnandone altri cinque. Allo stesso modo si comporta il servo che ne ha ricevuti due, e ne procura altri due. Invece il servo che ne ha ricevuto uno, scava una buca nel terreno e vi nasconde la moneta del suo padrone.
È questo stesso servo che spiega al padrone, al suo ritorno, il motivo del suo gesto, dicendo: «Signore, io so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra» . Questo servo non ha col suo padrone un rapporto di fiducia, ma ha paura di lui, e questa lo blocca. La paura immobilizza sempre e spesso fa compiere scelte sbagliate. La paura scoraggia dal prendere iniziative, induce a rifugiarsi in soluzioni sicure e garantite, e così si finisce per non realizzare niente di buono. Per andare avanti e crescere nel cammino della vita, non bisogna avere paura, bisogna avere fiducia.
Questa parabola ci fa capire quanto è importante avere un’idea vera di Dio. Non dobbiamo pensare che Egli sia un padrone cattivo, duro e severo che vuole punirci. Se dentro di noi c’è questa immagine sbagliata di Dio, allora la nostra vita non potrà essere feconda, perché vivremo nella paura e questa non ci condurrà a nulla di costruttivo, anzi, la paura ci paralizza, ci autodistrugge. Siamo chiamati a riflettere per scoprire quale sia veramente la nostra idea di Dio. Già nell’Antico Testamento Egli si è rivelato come «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). E Gesù ci ha sempre mostrato che Dio non è un padrone severo e intollerante, ma un padre pieno di amore, di tenerezza, un padre pieno di bontà. Pertanto possiamo e dobbiamo avere un’immensa fiducia in Lui.
Gesù ci mostra la generosità e la premura del Padre in tanti modi: con la sua parola, con i suoi gesti, con la sua accoglienza verso tutti, specialmente verso i peccatori, i piccoli e i poveri – come oggi ci ricorda la 1^ Giornata Mondiale dei Poveri –; ma anche con i suoi ammonimenti, che rivelano il suo interesse perché noi non sprechiamo inutilmente la nostra vita. È segno infatti che Dio ha grande stima di noi: questa consapevolezza ci aiuta ad essere persone responsabili in ogni nostra azione. Pertanto, la parabola dei talenti ci richiama a una responsabilità personale e a una fedeltà che diventa anche capacità di rimetterci continuamente in cammino su strade nuove, senza “sotterrare il talento”, cioè i doni che Dio ci ha affidato, e di cui ci chiederà conto.
La Vergine Santa interceda per noi, affinché restiamo fedeli alla volontà di Dio facendo fruttificare i talenti di cui ci ha dotato. Così saremo utili agli altri e, nell’ultimo giorno, saremo accolti dal Signore, che ci inviterà a prendere parte alla sua gioia.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 19 novembre 2017

Pubblicato in Liturgia
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