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Ott 19, 2017

XXIX Domenica – Anno A – Gesù e il potere politico - 22 ottobre 2017

 

La liturgia di questa domenica, in cui si celebra la 91ma Giornata Missionaria mondiale , ci invita a comprendere meglio che vivere da veri cristiani è anche vivere da cittadini onesti, giusti e rispettosi delle leggi dello stato.

Nella prima lettura, il profeta Isaia si rivolge al popolo in esilio perchè accolga la proposta di Ciro, re dei Persiani, di ritornare nella terra dei padri. Anche un re pagano può diventare per Dio strumento di liberazione ed esecutore della sua volontà.

Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Tessalonicesi, Paolo saluta la comunità di Tessalonica chiamandola Chiesa, e afferma che lo Spirito di Cristo è all’opera per confermarla nella fede e costituirla segno di speranza.

Nel Vangelo di Matteo, Gesù, ai farisei che lo interpellavano sul tributo, afferma la distinzione tra i doveri verso Dio e i doveri verso lo stato. “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” è l’unico pronunciamento esplicito di Gesù su una questione politica. Cesare e Dio, la Chiesa e lo Stato, sono percorsi che portano alla stessa meta: non si può essere bravi cristiani senza essere di conseguenza anche bravi cittadini.

Dal libro del profeta Isaia
Dice il Signore del suo eletto, di Ciro:
«Io l’ho preso per la destra,
per abbattere davanti a lui le nazioni,
per sciogliere le cinture ai fianchi dei re,
per aprire davanti a lui i battenti delle porte
e nessun portone rimarrà chiuso.
Per amore di Giacobbe, mio servo,
e d’Israele, mio eletto,
io ti ho chiamato per nome,
ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non c’è alcun altro,
fuori di me non c’è dio;
ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci,
perché sappiano dall’oriente e dall’occidente
che non c’è nulla fuori di me.
Io sono il Signore, non ce n’è altri».
Is 45,1, 4-6
Questo brano fa parte dei testi (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Infatti a partire dal 550 a.C. compare un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re: Ciro. Egli in 10 anni sottomette l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, egli appare come un liberatore. Il Deuteroisaia non si limita a presentarlo come lo strumento scelto da Dio per portare a termine il suo piano in favore di Israele, ma gli attribuisce prerogative tipiche dei re di Giuda, ponendolo così in una prospettiva “messianica”.
Il brano liturgico inizia riportando l’oracolo: Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso»

Ciro viene presentato come l’eletto di Dio, vale a dire il messia, titolo che competeva al re di Giuda in quanto consacrato con l’unzione regale, che faceva di lui il rappresentante di Dio in mezzo al suo popolo.
È questa l’unica volta in cui questo titolo viene attribuito a un personaggio che non ha nulla a che fare con il popolo eletto. Conferendogli questo titolo il profeta vuole dimostrare che a Ciro è stata conferita una missione speciale come strumento e rappresentante di Dio, il quale perciò lo sostiene e lo aiuta.
L’assistenza di Dio nei suoi confronti viene espressa con l’espressione “l’ho preso per la destra” , utilizzata in precedenza anche per il Servo del Signore, che è una figura profetico-messianica (V. 42,6), e questo dimostra che le imprese militari di Ciro sono state guidate da Dio verso uno scopo da Lui prestabilito: la restaurazione del popolo giudaico nella sua terra.

L’intervento di Dio in favore di Ciro viene descritto con tre immagini:
“abbattere davanti a lui le nazioni”, “ sciogliere le cinture ai fianchi dei re” e “aprire davanti a lui i battenti delle porte”. Con queste espressioni Isaia vuole spiegare la rapida ascesa di questo re, che, sfruttando la decadenza di Babilonia sotto il re Nabonide, che regnò dal 556 al 539 a.C, diventato sgradito ai suoi sudditi per aver sostituito il dio Marduk con la dea lunare Sin, era entrato quasi senza colpo ferire in Babilonia, dove le porte della città gli erano state aperte spontaneamente dai sacerdoti e dai governanti locali.
In un testo babilonese, chiamato “cilindro di Ciro”, redatto dai sacerdoti al momento della marcia vittoriosa di Ciro nel 538 a.C., si dice che il dio babilonese Marduk “ha nominato il nome di Ciro e l’ha chiamato al dominio su tutta la terra”.

Nei versetti successivi (omessi dalla liturgia) viene raccontato che il Signore marcerà davanti a Ciro, spianerà le asperità del terreno, spezzerà le porte di bronzo, romperà le spranghe di ferro. Gli consegnerà tesori nascosti e le ricchezze ben celate, perché egli sappia che Lui solo è il Signore, Dio di Israele, che lo chiama per nome.
Il fatto di riconoscere che il Signore è il Dio di Israele non significa la conversione di Ciro alla religione ebraica, ma semplicemente il riconoscersi, in modo anche inconsapevole, come esecutore di un progetto che è stato deciso dal Dio di Israele (V. Esd 1,2-3).
Il brano liturgico continua riportando l’intervento divino in favore di Ciro con espressioni che si ispirano al rito di investitura regale: “Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca”.
Ciò che ha spinto il Signore a rivolgersi a Ciro è stato l’amore per il Suo popolo, che viene indicato con il nome del patriarca Giacobbe, che riceve la qualifica di “servo” e di Israele, altro nome di Giacobbe, che viene considerato l’eletto di Dio.

In forza del Suo amore per Israele Dio “ha chiamato per nome” Ciro, cioè lo ha scelto tra tanti come la persona più adatta a attuare i suoi progetti, e gli “ha dato un titolo” cioè un nome nuovo, forse appunto quello di Messia, che indica la sua missione. Tutto ciò Dio lo ha fatto sebbene Ciro non lo conoscesse. Questo re non appartiene al popolo ebraico, quindi non può sapere chi è il Signore e tanto meno rendersi conto che è Lui a guidarlo nelle sue campagne vittoriose in vista di un fine che egli non può neppure immaginarsi. Nonostante il suo coinvolgimento in un preciso progetto del Signore, Ciro resta dunque quello che è e non si converte alla religione ebraica che neppure conosce.

L’oracolo termina con queste parole: Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio;
ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri».
È qui sintetizzato il tema fondamentale del Deuteroisaia: l’unicità di Dio, un Dio che è capace di muovere la storia secondo i Suoi disegni, facendo ritornare gli israeliti nella loro terra, e dimostra questa Sua prerogativa proprio servendosi di un personaggio che non lo conosce.
È paradossale che Dio si serva proprio di Ciro per far sapere dall’oriente all’occidente, cioè in tutto il mondo, che non esiste altro Dio fuori di Lui.

Salmo 96 (95) Grande è il Signore e degno di ogni lode.

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.

Grande è il Signore e degno di ogni lode,
terribile sopra tutti gli dèi.
Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla,
il Signore invece ha fatto i cieli.

Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Portate offerte ed entrate nei suoi atri.

Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine.

Il salmo è un invito all'assemblea dei popoli a riconoscere la grandezza di Dio. L'universalismo del salmo ha come base l'unicità di Dio, e la consapevolezza che tutti i popoli della terra hanno un'origine comune, e che, allontanatisi da Dio, ne hanno in qualche misura un ricordo nelle loro concezioni religiose, infettate di politeismo e di idolatria. Ora Dio chiama a raccolta tutte le famiglie dei popoli a ritornare a lui (Cf. Ps 21,28), che ha formato un popolo quale suo testimone, radunato attorno al tempio di Gerusalemme.
Il popolo di Israele è invitato a diffondere la conoscenza del vero Dio in mezzo ai popoli. Una certezza deve avere Israele, che egli è “terribile sopra tutti gli dei”, e che “tutti gli dei dei popoli sono un nulla”. Dietro gli dei concepiti dalle nazioni sono presenti i demoni sui quali Dio esercita pieno dominio.

L'invito ai popoli non è solo quello di aprirsi a Dio, ma di andare pellegrini “nei suoi atri”, e prostrarsi davanti a lui. Il “suo atrio santo”, sono quelli del tempio di Gerusalemme. I “sacri ornamenti”, sono vesti degne del tempio.
Tutta la terra deve essere presa dal timore di Dio: “Tremi davanti a lui tutta la terra”.
L'annuncio di Israele ai popoli deve affermare la regalità di Dio su di loro: “Dite tra le genti: ”.
Egli è colui che con la sua provvidenza regge il mondo, e agisce con giustizia sui popoli: “È stabile il mondo, non potrà vacillare! Egli giudica i popoli con rettitudine”.
Il Signore “viene a giudicare la terra”; questo avverrà con la venuta di Cristo, re di giustizia e di pace il quale affermerà la giustizia (Cf. Ps 93). “Viene”, dice il salmista. Ora è venuto il Cristo, il Figlio di Dio incarnatosi nel grembo verginale di Maria. Egli viene continuamente con la sua grazia (Ap 1,8); poi, alla fine del mondo, verrà per il giudizio finale: “Giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli”. “Nella sua fedeltà”, cioè per dare la risurrezione gloriosa a coloro che lo hanno accolto.
Difficile poter dire la data di composizione del salmo; probabilmente è stato scritto in un tempo di grande compattezza di Israele, poco dopo la costruzione del tempio di Salomone, prima che avvenisse lo scisma delle tribù del nord (1Re 11,26s).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace.
Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro.
Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.
1Ts 1,1-5b

La I^ Lettera ai Tessalonicesi è probabilmente la più antica tra le lettere di S.Paolo e fu scritta dall’Apostolo all’inizio degli anni 50. Paolo è stato a Tessalonica (oggi Salonicco) nel suo secondo viaggio(circa 20 anni dopo la morte di Gesù) e come spesso gli accadeva, era dovuto fuggire e pertanto aveva passato nella città poco tempo per poter svolgere bene una missione completa e approfondita (negli Atti 17,1-9 è riportato ciò che avvenne a Tessalonica).
Paolo dunque è preoccupato per la comunità che ha dovuto lasciare in fretta e manda Timoteo e Sila, suoi collaboratori, a constatare di persona come stavano le cose. Il rapporto che riceve è buono. Quella comunità che si poteva pensare fragile, si era sviluppata, viveva in un sorprendente spirito di speranza, di fede e di carità. Paolo resta sorpreso anche dopo 15 anni di esperienza missionaria ed esprime la sua gioia. scrivendo questa lettera il cui breve prescritto è riportato nel brano che la liturgia di presenta.
“Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace.”

Paolo qui si esibisce con il suo nome, senza aggiungere nessuna delle sue qualifiche apostoliche, e aggiunge anche il nome dei suoi due collaboratori, Silvano e Timoteo.
Il primo è lo stesso personaggio, chiamato Sila, che secondo gli Atti egli ha scelto come compagno nel secondo viaggio missionario dopo essersi separato da Barnaba (V. At 15,40). Timoteo invece è un cristiano di madre ebraica che l’apostolo ha preso con sé, sempre nel secondo viaggio, a Listra, dopo averlo fatto circoncidere (V. At 16,1-3). Sia l’uno che l’altro avevano partecipato attivamente all’evangelizzazione di Tessalonica (V. At 17,1). Paolo non dice che essi abbiano scritto la lettera con lui, ma li sente così vicini e partecipi della sua attività da parlare anche a nome loro.

Paolo scrive alla “Chiesa dei Tessalonicesi” perchè egli suppone che il gruppetto di persone che in Tessalonica hanno aderito a Cristo sia la rappresentanza, in quella città, del popolo di Israele, ormai entrato nella fase finale della salvezza inaugurata da Cristo. Questa loro dignità proviene dal fatto di essere “in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo”: Il prescritto termina con l’usuale augurio di grazia e di pace. Il termine “pace” (eirêne, shalôm) rappresenta il saluto tipico del mondo ebraico e significa la pienezza di ogni bene, spirituale e materiale, in un rapporto di comunione con l’unico Dio.

Una volta terminato il prescritto Paolo inizia il ringraziamento: “Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro”. Paolo si presenta qui come un uomo di preghiera, che porta nel cuore davanti a Dio i cristiani da lui convertiti. l’operosità della vostra fede,indica quell’operare che ha origine dalla fede, cioè la fede che opera mediante l’amore (V. Gal 5,6); la fatica della vostra carità (fatica dell’amore), è quell’affaticarsi per gli altri che è espressione di amore. Infine ”la fermezza della vostra speranza”(la pazienza della speranza) è la capacità di sopportare le tribolazioni della vita, continuamente alimentata dalla speranza nel compimento finale. Appaiono qui per la prima volta le tre virtù “teologali”, le quali indicano uno stretto rapporto con Dio che dà origine a un impegno d’amore e di servizio nei confronti dei fratelli.

L’intensità della vita cristiana dei tessalonicesi viene fatta risalire da Paolo a un dono speciale di Dio: perciò li chiama “fratelli amati da Dio che siete stati scelti da lui.” L’elezione era prerogativa del popolo di Israele (Dt 7,7) ma in forza dell’elezione ricevuta, ora i tessalonicesi sono diventati il popolo eletto degli ultimi tempi.
Infine Paolo mette in luce il motivo per cui si sente di fare affermazioni così elevate circa la vita cristiana dei tessalonicesi: Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.
I tessalonicesi ne sono consapevoli perché sanno bene come egli (con i suoi collaboratori) si sono comportati in mezzo ad essi per il loro bene. La potenza che ha accompagnato la parola da lui annunziata non consiste in opere miracolose, ma nella sua capacità di provocare quella fede viva e spontanea che rivela l’azione dello Spirito Santo.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi.
Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare».
Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Mt 22, 15-21

Matteo, dopo le tre “parabole di rottura”,riporta altre quattro “controversie.” In esse Gesù si confronta con i rappresentanti dei movimenti giudaici e il primo tema affrontato è quello del tributo a Cesare.
Matteo introduce il brano con queste parole: i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”. Dopo questa premessa adulatoria gli inviati fanno a Gesù la loro domanda: Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».

Il tributo personale all’imperatore romano, consisteva in una tassa annuale (spesso alquanto esosa), che costituiva anche un tacito riconoscimento del dominio straniero e la rinunzia implicita alla speranza messianica. Il pagamento di questa tassa rappresentava quindi un problema di coscienza, data la concezione teocratica in Israele, che determinò la ribellione di alcuni rivoluzionari, contrari al versamento del tributo.
Da ciò si comprende che il problema posto a Gesù era di carattere politico e al tempo stesso religioso, in quanto riguardava le esigenze di Dio come unico sovrano di Israele. La domanda dei farisei e degli erodiani ha quindi lo scopo di portare Gesù sul terreno delle attese nazionalistiche giudaiche per provocare una risposta che, a seconda dei casi, gli allontanasse la simpatia della gente o permettesse di denunciarlo al tribunale romano.
Gesù è consapevole della loro malizia e reagisce alla loro richiesta chiamandoli “ipocriti” e chiedendo perché lo tentino. Poi facendosi mostrare la moneta del tributo chiede di chi fosse l'immagine e l'iscrizione che vi era impressa. Siccome essi rispondono che era di Cesare, egli allora afferma: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Gesù non rifiuta l'autorità, non è un anarchico, la riconosce, la rispetta, ma le dà il giusto valore.

Il rispetto per le leggi civili, comprese quelle del pagamento delle imposte, è un dovere, spesso, ingrato, ma è pur sempre un dovere, e ad esso nessuno deve sottrarsi, e tanto meno chi dice di esser cristiano, poiché costui è tenuto, in ogni circostanza, a dare una testimonianza credibile del suo impegno religioso. Perciò le parole di Gesù, che comandano di "rendere a Cesare quel che appartiene a Cesare...", suona per tutti come un richiamo forte, anche per noi oggi, in cui l'evasione e corruzione dilagano a molti livelli.
Il discorso di Gesù, però, non si esaurisce col tributo da pagare allo Stato, ma di dare a Dio ciò che è di Dio. Cesare e Dio, la Chiesa e lo Stato, sono percorsi che portano alla stessa meta: non si può essere bravi cristiani senza essere di conseguenza anche bravi cittadini

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Il Vangelo di questa domenica termina con una di quelle frasi lapidarie di Gesù che hanno lasciato un segno profondo nella storia e nel linguaggio umano: "Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". Non più: o Cesare o Dio, ma: e l'uno e l'altro, ognuno nel suo piano. È l'inizio della separazione tra religione e politica, fino ad allora inscindibili presso tutti i popoli e i regimi. Gli ebrei erano abituati a concepire il futuro regno di Dio instaurato dal Messia come una teocrazia, cioè come un governo diretto di Dio su tutta la terra tramite il suo popolo. Ora invece la parola di Cristo rivela un regno di Dio che è in questo mondo, ma non è di questo mondo, che cammina su una lunghezza d'onda diversa e che può perciò coesistere con qualsiasi altro regime, sia esso di tipo sacrale che "laico".
Si rivelano così due tipi qualitativamente diversi di sovranità di Dio sul mondo: la sovranità spirituale che costituisce il regno di Dio e che egli esercita direttamente in Cristo, e la sovranità temporale o politica che Dio esercita indirettamente, affidandola alla libera scelta delle persone e al gioco delle cause seconde.

Cesare e Dio non sono però messi sullo stesso piano, perché anche Cesare dipende da Dio e deve rendere conto a lui. "Date a Cesare quello che è di Cesare" significa dunque: "Date a Cesare quello che Dio stesso vuole che sia dato a Cesare". È Dio il sovrano ultimo di tutti, Cesare compreso. Noi non siamo divisi tra due appartenenze; non siamo costretti a servire "due padroni". Il cristiano è libero di obbedire allo stato, ma anche di resistere allo stato quando questo si mette contro Dio e la sua legge. In questo caso non vale invocare il principio dell'ordine ricevuto dai superiori, come sono soliti fare in tribunale i responsabili di crimini di guerra. Prima che agli uomini, occorre infatti obbedire a Dio e alla propria coscienza. Non si può dare a Cesare l'anima che è di Dio.

Il primo a tirare le conclusioni pratiche di questo insegnamento di Cristo, è stato san Paolo. Egli scrive: "Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio... Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio...Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio" (Rom 13, 1 ss.). Pagare lealmente le tasse per un cristiano (ma anche per ogni persona onesta) è un dovere di giustizia e quindi un obbligo di coscienza. Garantendo l'ordine, il commercio e tutta una serie di altri servizi, lo stato dà al cittadino qualcosa per il quale ha diritto a una contropartita, proprio per poter continuare a rendere questi stessi servizi.

L'evasione fiscale, quando raggiunge certe proporzioni - ci ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica -, è un peccato mortale, al pari di ogni altro furto grave. È un furto fatto non allo "stato", cioè a nessuno, ma alla comunità, cioè a tutti. Questo suppone naturalmente che anche lo stato sia giusto ed equo nell'imporre le sue tasse.
La collaborazione dei cristiani alla costruzione di una società giusta e pacifica non si esaurisce nel pagare le tasse; deve estendersi anche alla promozione dei valori comuni, quali la famiglia, la difesa della vita, la solidarietà con i più poveri, la pace. C'è anche un altro ambito in cui i cristiani dovrebbero dare un contributo più incisivo alla politica. Non riguarda tanto i contenuti quanto i metodi, lo stile. Occorre svelenire il clima di perpetuo litigio, riportare nei rapporti tra i partiti un maggiore rispetto, compostezza e dignità. Rispetto del prossimo, mitezza, capacità di autocritica: sono tratti che un discepolo di Cristo deve portare in tutte le cose, anche in politica. È indegno di un cristiano abbandonarsi a insulti, sarcasmo, scendere a risse con gli avversari. Se, come diceva Gesù, chi dice al fratello "stupido!", è già reo della Geenna, che ne sarà di molti uomini politici?
commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia .

 

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