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S.Messe (settimana)
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Elena Tasso

Elena Tasso

La solennità dell’assunzione in cielo della Beata Vergine Maria – anima e corpo - è un dogma solennemente proclamato da Pio XII il 1 novembre 1950. È l’unico
dogma proclamato da un Papa nel XX secolo. Questo è il passaggio finale del documento, con la solenne definizione dogmatica: «Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta la chiesa, per l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere dogma da Dio rivelato che: l'immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo. Perciò, se alcuno, che Dio non voglia, osasse negare o porre in dubbio volontariamente ciò che da Noi è stato definito, sappia che è venuto meno alla fede divina e cattolica.» (Munificentissimus Deus) Papa Francesco nell’Angelus del 15 agosto 2020 ha detto: Quando l’uomo mise piede sulla luna, fu detta una frase che divenne famosa: «Questo è un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità». In effetti, l’umanità aveva raggiunto un traguardo storico. Ma oggi, nell’Assunzione di Maria in Cielo, celebriamo una conquista infinitamente più grande. La Madonna ha poggiato i piedi in paradiso: non ci è andata solo in spirito, ma anche con il corpo, con tutta sé stessa. Questo passo della piccola Vergine di Nazaret è stato il grande balzo in avanti dell’umanità. …
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Apocalisse, incontriamo l’immagine simbolica di una donna che partorisce un figlio maschio. E’ facile per noi riconoscere in lei Maria che dà alla vita il Signore Gesù. Tuttavia, anche nell’Apocalisse l’immagine si amplifica, per diventare simbolo della Chiesa, che con il suo impegno testimonia nella storia la presenza del Figlio di Dio. Egli è rapito in cielo per renderci partecipi della Sua vittoria sulla morte. La donna continuerà a combattere con noi nel deserto, ma condividendo già la gloria di Dio, ci mostra quale sarà l’esito finale della lotta: tutto, anche la morte, sarà posto sotto i piedi di suo Figlio.
Con la seconda lettura, tratta dalla prima lettera di S.Paolo ai Corinzi, possiamo comprendere di più come l’assunzione al cielo di Maria è il frutto della risurrezione di Cristo, che è la “primizia” dei risorti. Maria anticipa il destino di gloria promesso a “quelli che sono di Cristo”.
Nel Vangelo, Luca ci presenta la visita premurosa di Maria alla cugina Elisabetta. Alla lode della cugina, Maria risponde con un gioioso cantico divenuto la preghiera dei poveri del Signore, la grande lode di ringraziamento per la presenza in mezzo a noi, deboli, poveri, ma credenti, del Signore Salvatore.

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza.
Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito.
Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio.
Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo».
Ap 11,19a – 12,1-6ª.10ab

Il libro dell'Apocalisse, che è stato scritto dall’Apostolo Giovanni o da un suo discepolo nell’Anno 95, quando si trovava in esilio all’isola di Patmos, si compone di 22 capitoli. E’ la rivelazione di Gesù Cristo come Egli è, (da qui il nome Apocalisse=rivelazione) il Signore dei signori, il Re dei re, il quale si riappropria di ciò che gli appartiene: la terra.
Anche nel linguaggio comune si è sentito parlare del "settimo sigillo", questo perché nell'Apocalisse la prima serie di giudizi è dettata dall'apertura di sette sigilli.
In Israele ai tempi dell'Antico Testamento l'atto di proprietà veniva redatto, quindi arrotolato e sigillato, in caso di contestazione l'atto di proprietà veniva aperto.
Ecco, Cristo nell'Apocalisse apre i sigilli perché ha deciso di riprendere possesso della terra.
L'Apocalisse è il libro della Bibbia che completa le informazioni profetiche rispetto al piano di Dio. Descrive in modo molto dettagliato gli eventi futuri dell'umanità. In sostanza l'ultimo libro della Bibbia, forse il più importante per quanto riguarda le profezie e la comprensione del piano di Dio, è diviso in cinque parti:
1. Capitoli da 1 a 3. Lettera alle sette chiese dell'Asia, Dio usa Giovanni, l'autore del libro, per rivelare alla Chiesa le cose che dovranno avvenire.
2. Capitoli 4 e 5. L'affermazione dell'autorità divina di Cristo sulla terra.
3. Capitoli da 6 a 19. Il periodo di sette anni della Tribolazione, descritta attraverso gli eventi ed i giudizi, periodo che inizia con l'apertura del primo sigillo, il cavallo bianco cavalcato dall'Anticristo, con l'arco senza le frecce, prende il potere senza fare la guerra, il cavallo bianco sembra significare che abbia usurpato il ruolo di Cristo. Il periodo termina con Gesù che viene cavalcando un cavallo bianco, seguito dai suoi eserciti, non ci sarà battaglia, viene posta fine alla Tribolazione.
4. Capitolo 20. Il regno dei mille anni governato da Gesù Cristo, al termine dei quali ci sarà l'ultima ribellione dell'umanità, l'apertura dei libri ed il giudizio universale relativo a quelli che non hanno la salvezza di Cristo.
5. Capitoli 21 e 22. La vita eterna con Dio con dei nuovi cieli e la nuova terra, il compimento finale del Piano di Dio.
Questo brano, che la liturgia ci presenta, tratto dal capitolo 12, si può dire è la pagina più bella dell’Apocalisse:
«Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle...».
L’intero capitolo è dominato anche da un altro “segno”, quello «di un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra», ed è tutto intarsiato di allusioni a testi biblici.
E’ grande il contrasto che si scorge in questa visione: da un lato la donna e il figlio, dall’altro il dragone rosso incoronato.
Sono state date nel tempo numerose e valide interpretazioni, la più comune è quella che identifica nella donna, Maria che genera il Cristo. In realtà il pensiero di Giovanni è probabilmente orientato in altra direzione. La donna simboleggia anche il popolo di Dio, prima l’antico Israele, da cui Gesù ha preso carne, l’altro il nuovo Israele, la Chiesa, al cui interno il Cristo è continuamente generalato attraverso l’Eucaristia e la Sua parola.. Maria, la Chiesa, il Cristo sono intimamente connessi e sono segno altissimo del bene e della salvezza
In questo testo sia S.Agostino che S.Bernardo hanno visto nella Donna dell’Apocalisse il simbolo di Maria, come altri testi sacri che richiamano il mistero della Chiesa, possono essere applicati alla Vergine Maria, in quanto il vero mistero che la circonda, s’inserisce nel mistero della Chiesa e insieme lo illumina, come lo ha sottolineato il Concilio Vaticano II.

Salmo 44 - Risplende la Regina, Signore, alla tua destra.
Figlie di re stanno fra le tue predilette;
alla tua destra sta la regina, in ori di Ofir.

Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio,
dimentica il tuo popolo
e la casa di tuo padre.
Il re è invaghito della la tua bellezza.
E’ lui il tuo Signore: rendigli omaggio.

Dietro a lei le vergini sue compagne
Condotte in gioia ed esultanza;
guidate in gioia ed esultanza,
sono presentate nel palazzo del re.

Questo salmo per essere compreso ha bisogno di una precisazione teologica. I re di dinastia davidica erano delle figure del futuro re, il Messia. Così il salmo guarda al futuro Messia mentre celebra le nozze di un re d’Israele. Le lodi che lo scriba presenta al re hanno come ultimo traguardo il Cristo.
Le nozze sono quelle tra Salomone e la figlia del re di Tiro. Non esiste nella storia biblica o extrabiblica una menzione di queste nozze, ma si sa che Davide e poi Salomone ebbero stretti contatti d’amicizia con il re di Tiro circa la costruzione del Tempio, e del resto nel salmo si parla di Tiro, e della “figlia del re”.
Il salmista è uno scriba che ha composto un poema di lode e lo recita davanti al re. Le sue lodi sono splendide, non protocollari, egli celebra nel re il futuro Messia. Tutte le nozze del re Salomone con la figlia del re di Tiro, diventano figura della azioni future del Messia e in questo senso pieno vanno lette.
Lo scriba è pieno di gioia, lodando il re sa di compiere un atto che termina nella lode a Dio.
Il re è detto “il più bello tra i figli dell’uomo”. Bello di una bellezza divina il Cristo. Sulle sue “labbra è diffusa la grazia”, cioè la parola sapiente, la giustizia nel governare, la promozione dell’osservanza alla Legge. “Dio ti ha benedetto per sempre”, perché non ritirerà mai il suo favore alla casa di Davide (2Sam 7,12).
Lo scriba invita il re, chiamato prode, a cingersi la spada al fianco per combattere i suoi nemici, che vogliono ostacolare il suo lottare (“cavalca”) per la causa “della verità, della mitezza e della giustizia”. Così Cristo avanzerà nel mondo per mezzo della verità - lui la Verità -, della mitezza e della giustizia. Egli colpirà alla fine i suoi nemici con la spada della sua condanna (Ps 2,9; Ap 19,15).
Lo scriba afferma che il trono del re dura per sempre, poiché esso è destinato al futuro Messia. Il re è chiamato Dio, perché fa le veci di Dio, ma sarà veramente Dio nel futuro Messia.
“Scettro di rettitudine è il tuo scettro regale”, dice lo scriba. "Di rettitudine" perché fondato sulla Legge, che ha per sostanza l’amore.
Egli, il re, è stato consacrato tale “con olio di letizia”, a preferenza dei suoi uguali, cioè dei suoi fratelli discendenti di Davide. Cristo sarà consacrato re per opera dello Spirito Santo nel Giordano, sarà lui consacrato re tra tutti i discendenti di Davide (Lc 1,32); egli che sarà riconosciuto per la fede nella sua realtà di Figlio di Dio.
Le vesti del re emanano profumi, secondo l’uso orientale. Il profumo indica l’amabilità della persona. C’è festa attorno a lui: “Da palazzi d’avorio ti rallegri il suono di strumenti a corda”. Palazzi d’avorio perché ricchi di mobili intarsiati d’avorio. E’ la festa per lui. E’ la celebrazione della grandezza che ha ricevuto da Dio. Cristo è ben degno che dalle regge dei re si innalzi la celebrazione della sua grandezza, che sorpassa all’infinito ogni grandezza (Cf. Fil 2,9).
Lo scriba fa menzione dell’harem del re, fatto di figlie di re, segno della influenza tra i popoli. I popoli si sono alleati con lui dando a lui le figlie dei re. Ma alla destra del re c’è la regina. Questa regina viene dai pagani. E’ la figlia del re di Tiro, ma è invitata a lasciare ogni ricordo del suo popolo e della sua casa. Così la Chiesa viene anche dai pagani. E i pagani porteranno al Cristo le loro ricchezze: “Gli abitanti di Tiro portano doni”. Mentre “i più ricchi del popolo (Israele)” cercano il favore del re.
Certo Israele si aprirà a Cristo e i più ricchi di dottrina in Israele cercheranno di essere graditi al Re dei re, e ne guarderanno il volto pronti ad obbedire alla sua parola.
La regina è presentata in tutto il suo splendore; è la donna che l’Apocalisse presenta avvolta nel sole (12,1).
Le “vergini, sue compagne”, che facevano corolla alla figlia del re di Tiro, entrano anch’esse nel palazzo regale, diventando partecipi della sua gioia.
Il salmista alla fine della sua composizione guarda decisamente al futuro Messia. Ai suoi padri, cioè ai capi delle dodici tribù d’Israele succederanno “i tuoi figli”, cioè i dodici apostoli, che saranno, nel loro essere a fondamento della Chiesa, capi di tutta la terra.
La grandezza, la gloria del Cristo sarà ricordata da tutte le generazioni; e tutti i popoli lo “loderanno in eterno, per sempre”.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
E’ necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi
1Cor 15,20-27

Paolo scrisse intorno al 53 a.C., da Efeso, questa 1^ lettera ai Corinzi, che è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale. Vi si trovano infatti informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna": purezza dei costumi, svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell'eucaristia, uso dei carismi, sia per i rapporti con il mondo pagano.
Nell’ultimo capitolo della lettera Paolo, rispondendo a problemi che gli avevano posto, affronta il tema della risurrezione finale dei credenti. Nella prima parte egli dimostra la sua tesi sulla risurrezione finale (vv. 1-34), nella seconda (vv. 35-53) ne illustra invece le modalità; egli conclude la sua esposizione con un inno di lode a Cristo vincitore della morte (vv. 54-58).
Il rifiuto della risurrezione dei credenti porterebbe all’assurdo di negare di conseguenza anche la risurrezione stessa di Cristo. Ma questo metterebbe in crisi la loro fede stessa perciò Paolo riafferma il punto centrale di questa fede:
”Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”
Per Paolo la risurrezione di Cristo è una primizia non solo perché precede la risurrezione di tutti i credenti, ma anche e soprattutto perché ne è il modello e la causa. Il concetto di “primizia” viene ulteriormente elaborato da Paolo alla luce della concezione biblica secondo cui i membri di un gruppo formano una sola cosa con colui che ne è il capo e che li rappresenta. Rifacendosi a questa concezione Paolo afferma in due frasi disposte in modo parallelo che, come la morte è originata da un uomo, altrettanto deve essere per la risurrezione; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.
In quanto solidale con Adamo l’umanità fa fin d’ora l’esperienza della morte mentre la risurrezione dai morti invece per ora si è attuata solo in Cristo. La risurrezione finale dei credenti è dunque una conseguenza della comunione con Cristo, di cui la solidarietà in Adamo appare solo come una realtà negativa ormai passata.
A questo punto l’apostolo sente di dover fare una precisazione circa i tempi della salvezza. Egli afferma: “Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo”
Tra la risurrezione di Cristo, che è un evento già attuato, e quella dei credenti, che avrà luogo alla fine, c’è non solo una diversità di tempo, ma anche di “ordine”. Questa diversità proviene dal fatto che Cristo è la “primizia”: la Sua risurrezione prelude perciò a quella dei credenti, la \quale però avrà luogo solo “alla sua venuta”, cioè al momento del Suo ritorno glorioso.
Nella seconda parte del brano Paolo collega strettamente il regno di Cristo con il regno di Dio, mettendo in luce il loro avvicendarsi nel piano della salvezza. Egli ritiene che con la risurrezione di Cristo abbia avuto inizio il Suo regno messianico, che deve durare fino alla fine, quando egli “consegnerà il regno a Dio Padre” e ciò non avverrà però prima che Egli abbia “ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza”. Paolo sottolinea espressamente che l’ultimo nemico ad essere annientato sarà proprio la morte, la cui sconfitta avrà luogo appunto mediante la risurrezione dei morti. Se Cristo non fosse capace di eliminarla, non sarebbe veramente il Signore nel quale la comunità professa la sua fede.
L’apostolo infine precisa (nel versetto successivo non riportato nel brano): “Quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” (1) da questo “tutto” è escluso colui che gli ha sottomesso ogni cosa, cioè il Padre.
Nella prospettiva di Paolo l’attesa della risurrezione finale implica quindi la lotta, insieme con Cristo, contro tutte le realtà negative che condizionano la vita umana, quali l’ingiustizia, la violenza, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
È proprio la speranza della risurrezione, in quanto implica una salvezza che abbraccia tutte le cose create, che spinge il credente a non chiudersi nel suo individualismo, ma ad impegnarsi affinché il mondo nuovo promesso da Gesù cominci ad apparire già ora nel corso della storia.

Dal vangelo secondo Luca
In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.
Allora Maria disse:
“L'anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria rimase con lei circa tre mesi,poi tornò a casa sua.
Lc 1, 39-56

In questo brano Luca sembra dipingere a parole l’episodio della Visitazione, che è il mistero della comunicazione muta di due donne diverse per età, ambiente, caratteristiche.
Maria ha saputo dall’angelo che Elisabetta, “che tutti dicevano sterile” aspettava un bambino. A questa notizia ella decide immediatamente di recarsi da lei: “In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda”. La fretta con cui Maria intraprende questo viaggio rispecchia la sua fede e la sua completa disponibilità al piano divino. Per recarsi da Elisabetta Maria attraversa una delle regioni montagnose che circondano Gerusalemme e raggiunge una “città di Giuda” che la tradizione individua con il villaggio di Ein Karim, a 6 Km ad ovest di Gerusalemme.
“Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo”
Con la discesa dello Spirito su Elisabetta si attua la promessa dell’angelo a Zaccaria: sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre (Lc 1,15). Per bocca di sua madre è lo stesso Giovanni che dà inizio al suo compito profetico di annunziare la venuta del Messia, infatti proprio sotto l’azione dello Spirito Elisabetta
esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!”
La frase ispirata di Elisabetta è una duplice benedizione. Anzitutto ella dichiara Maria “benedetta tra le donne”, cioè dotata di una benedizione superiore a quella delle altre donne. E soggiunge: che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.” Per la prima volta Gesù viene designato qui come “Signore” e ciò sotto l’influsso dello Spirito.
Infine Elisabetta conclude: E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Mentre Zaccaria non aveva avuto fede (Lc. 1,20), Maria ha creduto alla parola di Dio, come aveva fatto Abramo (Gen 15,6). La storia, guidata da Dio sotto il segno della Provvidenza, trova in lei il suo compimento. A queste parole il cuore di Maria si apre alla gioia ed ella rende grazie a Dio pronunziando un inno che, dalla parola iniziale nella traduzione latina, viene chiamato «Magnificat».
Nei primi versetti Maria dice: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. “Maria si rivolge a Dio come suo “salvatore” e gli esprime la sua esultanza e la sua lode per i benefici di cui l’ha colmata. Il primo motivo di questa esultanza consiste nel fatto che ha guardato l'umiltà della sua serva. cioè ha operato una scelta preferendo proprio colei che, per la sua “umiltà” può essere paragonata a una serva. E come serva si era già dichiarata Maria nella risposta all’angelo nell’evento dell’annunciazione
Maria fa poi una considerazione generale circa il suo futuro destino affermando che, in forza della chiamata divina, d’ora in poi tutte le generazioni la diranno beata: l’esaltazione di Maria si estenderà dunque senza limiti di tempo e di spazio. Da questa constatazione Maria passa poi di nuovo ad esaltare l’iniziativa divina a suo riguardo: il Potente ha fatto per lei grandi cose; con ciò ha dimostrato che il Suo nome è santo e che la Sua misericordia si estende “di generazione e generazione” in favore di quelli che Lo temono. La santità del nome divino si manifesta appunto nelle opere che Egli compie per la liberazione del Suo popolo.
Nei versetti seguenti il canto di lode diventa più ampio : “Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”.
Con queste parole Maria mostra che quanto Dio ha fatto in suo favore non è altro che un esempio di come Egli guida le vicende del mondo. Anzitutto Maria esalta la potenza che ha dimostrato stendendo il suo braccio (Es 6,6) e disperdendo i superbi nei “pensieri del loro cuore”, cioè nei loro progetti di grandezza. Poi prosegue con due parallelismi contrapposti: ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, cioè quelli privi di potere, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi.
Gli ultimi versetti contengono un’esaltazione dell’opera di salvezza che Dio ha attuato in favore del Suo popolo: “Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria ricorda l’aiuto dato da Dio ad Israele Suo servo come manifestazione della Sua misericordia e come adempimento delle promesse fatte ai padri: in questa versetto la mente va ancora una volta al tema del servo, che accomuna Maria e Israele; l’accenno alla “discendenza” di Abramo non poteva non ricordare a noi cristiani la figura di Gesù, in funzione del quale erano state fatte le promesse (il concetto lo riprende Paolo nella lettera ai Galati 3,16).
Al termine del Magnificat, Luca annota: “Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua”.
in questo modo termina il racconto della visita ad Elisabetta.
Per riassumere si può dire che il canto del Magnificat è la celebrazione gioiosa e riassuntiva di tutta la storia della salvezza che da Maria, nella quale trova compimento, viene ripresa e rifatta nelle sue tappe risalendo fine alle origini. Questa storia, che sconvolge le situazioni umane, è condotta da Dio senza interruzioni, con il criterio dell’amore misericordioso che non conosce fine.

 

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“Oggi, solennità dell’Assunzione della Vergine Maria, contempliamo lei che sale in anima e corpo alla gloria del Cielo. Anche il Vangelo odierno ce la presenta mentre sale, questa volta verso una «regione montuosa» . E sale perché? Per aiutare la cugina Elisabetta, e là proclama il cantico gioioso del Magnificat. Maria sale e la Parola di Dio ci rivela ciò che la caratterizza mentre va verso l’alto: il servizio al prossimo e la lode a Dio. Ambedue le cose: Maria è la donna del servizio al prossimo e Maria è la donna che loda Dio. L’evangelista Luca, del resto, narra la vita stessa di Cristo come una salita verso l’alto, verso Gerusalemme, luogo del dono di sé sulla croce, e allo stesso modo descrive anche il cammino di Maria. Gesù e Maria percorrono insomma la stessa strada: due vite che salgono in alto, glorificando Dio e servendo i fratelli. Gesù come Redentore, che dà la vita per noi, per la nostra giustificazione; Maria come la serva che va a servire: due vite che vincono la morte e risorgono; due vite i cui segreti sono il servizio e la lode. Soffermiamoci su questi due aspetti: servizio e lode.
Il servizio. È quando ci abbassiamo a servire i fratelli che andiamo in alto: è l’amore che eleva la vita. Andiamo a servire i fratelli e con questo servizio andiamo “in alto”. Ma servire non è facile: la Madonna, che ha appena concepito, percorre quasi 150 chilometri per raggiungere, da Nazareth, la casa di Elisabetta. Aiutare costa, a tutti noi. Lo sperimentiamo sempre nella fatica, nella pazienza e nelle preoccupazioni che il prendersi cura degli altri comporta. Pensiamo, ad esempio, ai chilometri che tanti percorrono ogni giorno per andare e tornare dal lavoro e svolgere molte mansioni a favore del prossimo; pensiamo ai sacrifici di tempo e di sonno per accudire un neonato o un anziano; e all’impegno nel servire chi non ha da ricambiare, nella Chiesa come nel volontariato. Io ammiro il volontariato. È faticoso, ma è salire verso l’alto, è guadagnare il Cielo! Questo è servizio vero.
Però il servizio rischia di essere sterile senza la lode a Dio. Infatti, quando Maria entra in casa della cugina, loda il Signore. Non parla della sua stanchezza per il viaggio, ma dal cuore le prorompe un cantico di giubilo. Perché chi ama Dio conosce la lode. E il Vangelo oggi ci mostra “una cascata di lode”: il bambino sussulta di gioia nel grembo di Elisabetta (cfr Lc 1,44), la quale pronuncia parole di benedizione e “la prima beatitudine”: «Beata colei che ha creduto» (Lc 1,45); e tutto culmina in Maria, che proclama il Magnificat . La lode aumenta la gioia. La lode è come una scala: porta in alto i cuori. La lode eleva gli animi e vince la tentazione di abbattersi. Avete visto che la gente noiosa, quella che vive del chiacchiericcio, è incapace di lodare? Domandatevi: io sono capace di lodare? Quanto fa bene lodare ogni giorno Dio, e anche gli altri! Quanto fa bene vivere di gratitudine e di benedizione anziché di rimpianti e lamentele, alzare lo sguardo verso l’alto invece che tenere il muso lungo! Le lamentele: c’è gente che si lamenta tutti i giorni. Ma guarda che Dio è vicino a te, guarda che ti ha creato, guarda le cose che ti ha dato. Loda, loda! E questo è salute spirituale.
Servizio e lode. Proviamo a interrogarci: io vivo il lavoro e le occupazioni quotidiane con spirito di servizio o con egoismo? Mi dedico a qualcuno gratuitamente, senza ricercare vantaggi immediati? Faccio insomma del servizio il “trampolino di lancio” della mia vita? E pensando alla lode: so, come Maria, esultare in Dio? Prego benedicendo il Signore? E, dopo averlo lodato, diffondo la sua gioia tra le persone che incontro? Ognuno cerchi di rispondere a queste domande.
La nostra Madre, Assunta in Cielo, ci aiuti a salire ogni giorno più in alto attraverso il servizio e la lode.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 agosto 2023

 

(1) Nota. A questo versetto ha fatto riferimento la dottrina dell’Apocatastasi sostenuta da Origene di Alessandria e Gregorio di Nissa, condannata come eresia nel Sinodo di Costantinopoli del 543

Mercoledì, 14 Agosto 2024 12:46

AVVISI - 11 agosto 2024

1. SOLENNITÀ DI SANTA MARIA ASSUNTA, 15 AGOSTO, (giovedì). Le S. Messe seguiranno l’orario festivo (9.00, 11.00, 18.30), comprese le Messe della vigilia del 14 agosto mercoledì.

2. L’UFFICIO PARROCCHIALE RESTERÀ CHIUSO dal 12 al 24 agosto. RIAPRIRÀ LUNEDÌ 26 agosto. In questo periodo sarà comunque presente uno dei sacerdoti.

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore la fede, la vita e la morte.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, troviamo una riflessione sul perchè Dio ci ha creati: per la vita sicuramente, e la morte non può venire da Lui, infatti viene affermato: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo esorta i cristiani di Corinto a dare un significato spirituale cristiano alla generosità materiale della colletta fatta per soccorrere la povertà della chiesa-madre di Gerusalemme.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco descrivendoci i due miracoli intende presentarci diversi livelli della fede: quella imperfetta, come quella della donna che vuole toccare il mantello di Gesù per essere guarita e quella disperata di chi nella disperazione più completa è sicuro che Gesù potrà intervenire a favore della sua figlioletta, ormai moribonda. Di fronte alla sua fede, scatta il miracolo: il Signore Gesù compie ciò che è umanamente impossibile: ridona la vita. I miracoli di Gesù non sono solo segni della Sua potenza, prova della Sua natura divina, sono atti di compassione e d’amore. Lo possiamo notare con quale dolcezza si rivolge all’emorroissa chiamandola: “Figlia…” e all’umanissima premura perchè alla bambina appena risuscitata si dia da mangiare
Gesù è il Signore della vita, che risana dalla malattia fisica e ridà vita ai morti. Ma nulla può dove manchi la fede. Il non aver creduto alla Parola di Dio, per credere a quella del maligno, è il peccato che ha introdotto il dolore e la morte fra gli uomini e solo nella fede, nell’abbandono fiducioso alla Parola di Dio, si può rompere questo ciclo.
Oggi è la giornata per la carità del Papa.

Dal Libro della Sapienza
Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano;
le creature del mondo sono portatrici di salvezza,
in esse non c’è veleno di morte,
né il regno dei morti è sulla terra.
La giustizia infatti è immortale.

Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura.
Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo
e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.
Sa 1,13-15; 2,23-24

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico.
È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) . L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco e si compone di 19 capitoli che si possono ricondurre a tre parti principali:
Nella Prima parte (cap. 1-5), da dove viene tratto il brano che la liturgia ci presenta, viene presentata la possibilità di due diversi atteggiamenti che derivano dal senso che si dà all’esistenza e cioè:
- o siamo nati per caso, per cui dopo questa vita non esiste niente;
- oppure veniamo da Dio e a Lui ritorniamo conducendo una vita santa, restando saldi nel Suo amore.
Al di fuori di tale sapienza vi è la morte, ma Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi, poiché il Signore non vuole la morte ma la vita.
La Seconda parte (cap. 6,1-11,3) ci invita a ricercare la Sapienza di Dio, “amica degli uomini”, così da farne “la compagna della nostra vita”, lasciandoci attirare dalla sua bellezza.
Il re Salomone tesse un elogio alla Sapienza con parole che di fatto non sono sue. L’autore del libro, infatti, per sviluppare il tema, usa la storia del re così come viene riferita nel Primo libro dei Re al cap. 3 e dal secondo libro delle Cronache. In base ai due racconti, Salomone trascorse la notte in preghiera nel santuario in cima al monte Gabon, per chiedere al Signore la saggezza necessaria per governare il suo popolo. In questa seconda parte la Sapienza si rivela come presenza di Dio nel mondo e nell’uomo, per condurre quest’ultimo sulle vie di Dio.
Nella Terza parte (cap. 11,4 - 19,22) la Sapienza sembra quasi scomparire dalla storia del popolo israelita. L’autore allora tenta di dimostrare la grandezza di Dio e la missione del popolo in un momento in cui nuove culture lo stanno seducendo. Secondo l’autore l’uomo saggio è l’uomo giusto chiamato a vivere nell’eternità di Dio. E poiché la Sapienza è una realtà misteriosa nascosta nel cuore del mondo, essa si rivela a chi la ricerca con tutto il cuore ed è concessa proprio come dono di Dio.
Dio partecipa all’uomo la Sapienza con cui ha creato il mondo, ma per riceverla in dono è necessario che l’uomo stia lontano dal male allontanandosi dalle cose terrene effimere, e troppo superficiali.
La Sapienza non è dunque una filosofia che insegna l’arte del vivere, piuttosto indica una scelta di fede che permette di entrare in contatto con Dio e rimanere in relazione con Lui.

Salmo 29 - Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.

Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.

Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza,
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.

L’autore del salmo riconosce di essere stato nel passato ampiamente beneficato da Dio, ma aveva peccato di presunzione dicendo tra sé: “Mai potrò vacillare!”.
Per questo Dio l’aveva abbandonato e gli aveva nascosto per “un istante” il suo volto. Per “un istante” l’aveva esposto ai suoi nemici, i quali giunsero ad un sol passo dal prevalere su di lui, ma Dio gli diede “vita” e così poté sfuggire alla morte. Per questo egli è diventato un testimone della bontà del Signore: “Cantate inni al Signore, o suoi fedeli”.
Permane però nelle insidie ed egli si rivolge a Dio chiedendo di conservarlo in vita, perché non ne trarrebbe nessun vantaggio dalla sua morte: “Quale guadagno dalla mia morte, dalla mia discesa nella fossa? Potrà ringraziarti la polvere e proclamare la tua fedeltà?”. La sua missione, il suo proclamare la fedeltà di Dio, sarebbe interrotta anzitempo. Umile, invoca misericordia, e lascia il lamento sperimentando ancora una volta la fedeltà del Signore. Conclude confermandosi nell’amore per il Signore: “Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
2Cor 8,7,9,13-15

Paolo continuando la sua seconda lettera al Corinzi, dopo aver percorso nei primi 6 capitoli la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto, nel capitolo ottavo esorta gli abitanti di Corinto alla generosità con temi che gli sono cari: la povertà, fonte di arricchimento per gli altri, l’esempio di Cristo, il dono di Dio, che suscita il dono dei cristiani.
Il brano liturgico inizia con l’esortazione:
“Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa”.
Paolo riconosce nella comunità di Corinto una fede viva che travalica i confini della città e si riversa nel mondo circostante perché la comunità ha saputo fondare la propria vita di credenti sulla parola, sulla fede, sulla scienza, sullo zelo, sulla carità. Questa modo di vivere è l’essenza del Vangelo ed è stata insegnata loro da Paolo!
“Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”.
Con questa espressione Paolo passa ad un esame vero e proprio sulla consistenza dell’essere cristiani, perchè tramite l’opera di carità si saprà chi veramente cammina dietro Cristo per imitarlo, e chi invece va dietro di Lui solo per qualche interesse umano. Il cristianesimo è, prima di ogni altra cosa, sequela di Cristo, imitazione di Lui. Chi vuole essere cristiano non solo deve camminare dietro Cristo, deve anche imitarlo, poiché è nell’imitazione di Cristo che si raggiunge la perfezione morale, si raggiunge la pienezza nella fede, nella speranza, nella carità.
Poi nel versetto seguente è più esplicito: “Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza”. La chiesa di Gerusalemme ha dato ai Corinzi i beni spirituali, la verità e la grazia del signore nostro Signore Gesù Cristo, è ben giusto per questo che la comunità dei Corinzi doni alla chiesa di Gerusalemme quanto può perché sopravviva in un momento di così grave carestia.
“Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
L’abbondanza e l’indigenza sono su due piani differenti, si tratta di abbondanza spirituale e di indigenza materiale. La chiesa di Gerusalemme è sempre nell’abbondanza spirituale e questa abbondanza viene riversata sull’indigenza spirituale che accompagna la comunità di Corinto.
Paolo domanda agli abitanti di Corinto in sintesi solo il loro superfluo, mentre i cristiani di Macedonia (citati nei versetti 2-3 non riportati nel brano liturgico) nella loro “estrema povertà” hanno saputo dare “al di là dei loro mezzi” . Ma Paolo, proponendo l’esempio di Cristo, li invita discretamente a imitare la generosità dei loro fratelli macedoni.
Il messaggio che arriva a noi oggi è che solo con la condivisione può esserci la vera comunità che ci salva. Ogni uomo, per piccolo e povero che sia, ha qualcosa da dare agli altri e nessuno è così ricco da non poter più ricevere niente dagli altri

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Mc 5,21-43

L’evangelista Marco in questo brano ci presenta due miracoli di Gesù intrecciati tra loro, quello della donna colpita da emorragia e la resurrezione della figlia di Giàiro, capo della sinagoga di Cafarnao.
Gesù si trova nella cornice vociante e affollata di una località intorno al lago di Tiberiade, punto centrale della prima fase della sua missione. Negli episodi raccontanti precedentemente Marco aveva narrato la tempesta sedata, che aveva lasciato scioccati i discepoli e subito dopo la guarigione dell’indemoniato.
Questo brano dopo aver precisato che “Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, e la molta folla che si era radunata intorno a lui, ci riporta che “venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.”
Ora l’evangelista sposta la nostra attenzione su di un nuovo personaggio emblematico nel quale ognuno di noi si può immedesimare: “una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio“.
Il sangue è la vita, e perdere sangue significa perdere la vita. Una donna in queste condizioni, secondo il Libro del Levitico (15,25), è una donna in perenne condizione di impurità. Se non è sposata non trova nessuno che la sposa, se è sposata non può avere rapporto con il marito, quindi è destinata alla sterilità, anzi il marito la può perfino ripudiare. Quindi è una donna che non ha nessuna speranza; è impura, non può entrare nel tempio, è equiparata a un lebbroso. Allora, per la donna non ci sono speranze; se continua ad osservare la legge va incontro alla morte, ma lei, che “aveva sentito “parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata»”.
Ci prova di nascosto perché una donna che, nelle sue condizioni, pubblicamente e volontariamente, toccava un uomo, era passibile di morte, perché lo rendeva impuro. “E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male”.
Gesù avverte che una “forza era uscita da lui”, una forza di vita e “si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». Gesù però non accetta che tutto si esaurisca in un atto taumaturgico, vuole che da quella fiducia magica fiorisca una fede limpida. I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Il commento che fanno i suoi discepoli è quello di considerare Gesù quasi un insensato. I discepoli sono accanto a Gesù, ma non gli sono vicini, loro lo accompagnano, ma non lo seguono. Non basta stare accanto a Gesù per percepirne e riceverne la forza della vita.
“Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto” impaurita perché sapeva di aver compiuto una trasgressione e quindi si aspettava sicuramente una punizione, “venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità”. Ed è proprio a questo punto che scatta la guarigione completa. A causa della sua fede la donna non è solo guarita ma anche salvata, Gesù, infatti, chiamandola teneramente “Figlia“ le dice «la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. E la donna è subito risucchiata dalla folla e scompare, lasciando viva la sua immagine in questa pagina evangelica.
Ora l’attenzione si sposta di nuovo su Gesù che aveva appena finito di parlare “quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Sicuramente lo sconforto invase l'animo del povero Giàiro e forse anche la sua fede divenne più debole. “Ma Gesù, udito quanto dicevano, gli disse “Non temere, soltanto abbi fede!”. E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo”, ossia i tre discepoli che in seguito saranno presenti alla Sua trasfigurazione e alla Sua angoscia mortale nel Getsemani. Dopo la risurrezione, essi potranno narrare queste cose, e allora anche la risurrezione della figlia di Giàiro apparirà a loro sotto una nuova luce.
L’evangelista: annota: “Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano”.
Gli atti che Gesù compie una volta entrato in quella camera mortuaria, dove giaceva il corpo esamine della bambina, nel silenzio e nella solitudine, dopo aver allontanato il gruppo delle lamentatrici, dei musici, dei parenti afflitti, delle grida tipiche dei funerali orientali, hanno una radice nel divino eterno. Cerchiamo di immaginare la scena: Egli stende la Sua mano, la stessa mano di Dio, e alla mano si aggiunge la parola efficace e creatrice. Bastano solo due parole pronunziate in una lingua umana, quella parlata da Gesù, l’aramaico : "Talità kum", Fanciulla, io ti dico: àlzati!» e la bambina si alzò e si mise a camminare. Davanti alla morte, nemica di Dio e dell’uomo, si è levata la voce di Cristo che ridona la vita. In questa bambina si anticipa simbolicamente il mistero della Pasqua in cui la morte è solo un “sonno”, come l’aveva chiamata Gesù, in attesa dell’incontro con l’eterno di Dio.
Da questi due racconti di miracolo esce un grande richiamo che ci invita ad avere una fede pura e totale, libera da magie e superstizioni, fiduciosa solo nel Dio della vita. Da imperfetta come quella della donna, persino da disperata come quella di Giàiro, la fede può crescere, maturare e diventare totale. E’ questo l’impegno fondamentale del cammino spirituale del cristiano, che non si stanca mai di auspicare Papa Francesco.

 

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Le parole di papa Francesco


Oggi nel Vangelo Gesù si imbatte nelle nostre due situazioni più drammatiche, la morte e la malattia. Da esse libera due persone: una bambina, che muore proprio mentre il padre è andato a chiedere aiuto a Gesù; e una donna, che da molti anni ha perdite di sangue. Gesù si lascia toccare dal nostro dolore e dalla nostra morte, e opera due segni di guarigione per dirci che né il dolore né la morte hanno l’ultima parola. Ci dice che la morte non è la fine. Egli vince questo nemico, dal quale non possiamo liberarci da soli.
Concentriamoci, però, in questo periodo in cui la malattia è ancora al centro delle cronache, sull’altro segno, la guarigione della donna. Più che la sua salute, a essere compromessi erano i suoi affetti. Perché? Aveva perdite di sangue e perciò, secondo la mentalità di allora, era ritenuta impura. Era una donna emarginata, non poteva avere relazioni stabili, non poteva avere uno sposo, non poteva avere una famiglia e non poteva avere rapporti sociali normali perché era “impura”, una malattia che la rendeva “impura”. Viveva sola, con il cuore ferito. La malattia più grande della vita, qual è? Il cancro? La tubercolosi? La pandemia? No. La malattia più grande della vita è la mancanza di amore, è non riuscire ad amare. Questa povera donna era malata sì delle perdite di sangue, ma, per conseguenza, di mancanza di amore, perché non poteva essere socialmente con gli altri. E la guarigione che più conta è quella degli affetti. Ma come trovarla? Noi possiamo pensare ai nostri affetti: sono ammalati o sono in buona salute? Sono malati? Gesù è capace di guarirli.
La storia di questa donna senza nome – la chiamiamo così “la donna senza nome” –, nella quale possiamo vederci tutti, è esemplare. Il testo dice che aveva fatto molte cure, «spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando». Anche noi, quante volte ci buttiamo in rimedi sbagliati per saziare la nostra mancanza di amore? Pensiamo che a renderci felici siano il successo e i soldi, ma l’amore non si compra, è gratuito. Ci rifugiamo nel virtuale, ma l’amore è concreto. Non ci accettiamo così come siamo e ci nascondiamo dietro i trucchi dell’esteriorità, ma l’amore non è apparenza. Cerchiamo soluzioni da maghi, da santoni, per poi trovarci senza soldi e senza pace, come quella donna. Lei, finalmente, sceglie Gesù e si butta tra la folla per toccare il mantello, il mantello di Gesù. Quella donna, cioè, cerca il contatto diretto, il contatto fisico con Gesù. Soprattutto in questo tempo, abbiamo capito quanto siano importanti il contatto, le relazioni. Lo stesso vale con Gesù: a volte ci accontentiamo di osservare qualche precetto e di ripetere preghiere – tante volte come i pappagalli –, ma il Signore attende che lo incontriamo, che gli apriamo il cuore, che, come la donna, tocchiamo il suo mantello per guarire. Perché, entrando in intimità con Gesù, veniamo guariti nei nostri affetti.
Questo vuole Gesù. Leggiamo infatti che, pur stretto dalla folla, si guarda attorno per cercare chi lo ha toccato. I discepoli dicevano: “Ma guarda che la folla ti stringe…”. No: “Chi mi ha toccato?”. È lo sguardo di Gesù: c’è tanta gente, ma Lui va in cerca di un volto e di un cuore pieno di fede. Gesù non guarda all’insieme, come noi, ma guarda alla persona. Non si arresta di fronte alle ferite e agli errori del passato, ma va oltre i peccati e i pregiudizi. Tutti noi abbiamo una storia, e ognuno di noi, nel suo segreto, conosce bene le cose brutte della propria storia. Ma Gesù le guarda per guarirle. Invece a noi ci piace guardare le cose brutte degli altri. Quante volte, quando noi parliamo, cadiamo nel chiacchiericcio, che è sparlare degli altri, “spellare” gli altri. Ma guarda: che orizzonte di vita è questo? Non come Gesù, che sempre guarda il modo di salvarci, guarda l’oggi, la buona volontà e non la storia brutta che noi abbiamo. Gesù va oltre i peccati. Gesù va oltre i pregiudizi, Non si ferma alle apparenze, arriva al cuore Gesù. E guarisce proprio lei, che era scartata da tutti, un’impura. Con tenerezza la chiama «figlia» – lo stile di Gesù era la vicinanza, la compassione e la tenerezza: “Figlia…” – e loda la sua fede, restituendole fiducia in sé stessa.
Sorella, fratello, sei qui, lascia che Gesù guardi e guarisca il tuo cuore. Anch’io devo fare questo: lasciare che Gesù guardi il mio cuore e lo guarisca. E se hai già provato il suo sguardo tenero su di te, imitalo, e fai come Lui. Guardati attorno: vedrai che tante persone che ti vivono accanto si sentono ferite e sole, hanno bisogno di sentirsi amate: fai il passo. Gesù ti chiede uno sguardo che non si fermi all’esteriorità, ma vada al cuore; uno sguardo non giudicante – finiamo di giudicare gli altri – Gesù ci chiede uno sguardo non giudicante, ma accogliente. Apriamo il nostro cuore per accogliere gli altri. Perché solo l’amore risana la vita, solo l’amore risana la vita. La Madonna, Consolatrice degli afflitti, ci aiuti a portare una carezza ai feriti nel cuore che incontriamo sul nostro cammino. E non giudicare, non giudicare la realtà personale, sociale, degli altri. Dio ama tutti! Non giudicare, lasciate vivere gli altri e cercate di avvicinarvi con amore.


Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 27 giugno 2021

Lunedì, 24 Giugno 2024 20:31

AVVISI - 23 giugno 2024

1. Sabato 29, la chiesa celebra la solennità dei santi Pietro e Paolo. Per le messe, qui in parrocchia, seguiremo l’orario festivo (08:30, 10:00, 11:30 e 18:30).

2. Il nostro Diacono Luca Anderloni, M.S., ordinato diacono in questa chiesa parrocchiale l’8 dicembre dell’anno scorso, sarà ordinato sacerdote sabato, 29, alle ore 16:00 a Torino. Il Diacono Luca ha lavorato tanto in questa parrocchia, particolarmente nella catechesi, nella pastorale degli anziani e malati. Allora siamo tutti pregati di sostenerlo con la nostra preghiera e presenza in occasione della sua ordinazione presbiterale.

3. Si celebra domenica 30 giugno la Giornata per la carità del Papa e tutti «siamo invitati ad offrire il nostro contributo per sostenere il Santo Padre nella sua azione di aiuto ai tanti poveri che si rivolgono a lui e che sono in difficoltà in ogni parte del mondo».

4. Domenica 7 luglio avvieremo l’orario estivo delle nostre messe. Per i giorni feriali, le messe alle 09:00 e alle 18:30, mentre per le domeniche e solennità, alle 09:00, 11:00 e alle 18:30.

PROGRAMMA SETTIMANALE 29 Aprile 05 Maggio

Le letture liturgiche di questa domenica per parlarci del Regno di Dio prendono spunto dalla parabola del seme: la Parola di Dio si diffonde tra gli uomini non per la capacità o la bravura degli uomini, che restano solo collaboratori per l’avvento del Regno di Dio, ma l’azione dello Spirito Santo che fa germogliare e crescere il seme, che guida e anima la Chiesa.
Nella prima lettura il profeta Ezechiele si rivolge al popolo ebreo sfiduciato e scoraggiato, deportato in esilio a Babilonia e adopera l’immagine della cima del cedro reciso e trapiantato su di un altro terreno. Il popolo ebreo teme di essere stato abbandonato da Dio, teme di essere destinato alla dispersione, di essere votato allo sterminio. Solo pochi rimangono fedeli e radicati nella speranza, fedeli alle promesse.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, ci esorta ad avere fiducia in Dio ed essere sicuri che Dio non dimentica nulla di quanto facciamo di bene nel suo amore.
Nel Vangelo di Marco, Gesù con le parabole del piccolo seme che germoglia e cresce e del granello di senape che si sviluppa fino a diventare un grande arbusto, mette in evidenza la sproporzione tra gli umili inizi e il grandioso risultato del Regno di Dio che Egli annuncia.
Queste letture ci insegnano che i ritmi di Dio non sono quelli frenetici e impazienti di noi umani. Noi spesso vorremmo che Dio si affrettasse a venire a fare giustizia, vorremmo persino dargli suggerimenti. Ci meravigliamo persino di quanta pazienza usi perché Egli attende, spera, ama le cose piccole che col tempo danno frutto. Se siamo veramente credenti dobbiamo fare nostra l’ottica di Dio che è di fede, pazienza e speranza.

Dal libro del profeta Ezechièle
Così dice il Signore Dio:
«Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami lo coglierò
e lo pianterò sopra un monte alto, imponente;
lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti
e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
Sapranno tutti gli alberi della foresta
che io sono il Signore,
che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso,
faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.
Io, il Signore, ho parlato e lo farò».
Ez 17,22-24

Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo.
Centro del messaggio di Ezechiele è la trascendenza di Dio, caratteristica condivisa con gli altri grandi profeti. Nella grande teofania iniziale e nella seconda grande teofania, evita accuratamente di dare una rappresentazione della divinità, e descrive in termini fantasticamente antropomorfici 'la corte divina',e non la divinità in sé. Ezechiele aveva fatto proprio anche un messaggio di giudizio. Giuda aveva disobbedito alle leggi di Dio, trascurato il sabato, profanato il Tempio, praticato l'impurità, stretto legami con popoli stranieri e per tutto questo doveva essere punito. Ma Ezechiele si fece portatore anche di un messaggio di speranza, perché Giuda si sarebbe risollevato dalla sua caduta come un morto che risuscita dalla tomba.
Questo brano ci porta all’anno 597 a.C. quando Nabucodonosor deportò in Babilonia il re Ioiachin e mise al suo posto Sedecia, il quale non solo ruppe l’alleanza con il re di Babilonia, ma anche con Dio.
Il Signore allora lo castiga, ma senza però interrompere con il popolo di Israele l’opera di salvezza promessa. Infatti tramite Ezechiele annuncia la restaurazione del regno ricorrendo a delle allegorie, (nei versetti precedenti questo brano c’è l’allegoria dell’Aquila che richiamava Nabucodonosor) ora con l’allegoria dell’agricoltore dichiara:
“Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico”.
Ezechiele paragona la storia del suo popolo a un grande cedro nato e cresciuto per iniziativa di Dio. L'albero è divenuto infruttuoso a causa dell'infedeltà, perciò Dio reciderà un ramoscello dalla sua cima per trapiantarlo in un altro terreno (simbolo della deportazione in Babilonia).
In mezzo all'infedeltà generale, però, un "piccolo resto" è rimasto fedele a Dio e alla Sua alleanza e, grazie ad esso, il piano di Dio giungerà a compimento.
Questo "resto fedele“, simboleggiato nel ramoscello che Dio stesso ha reciso “dalla cima del cedro”, e piantato di nuovo sul monte alto d’Israele, metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico” alla cui ombra ogni volatile riposerà.
E’ l’albero messianico, simbolo di vita, di speranza e di protezione, un segno verso il quale volgeranno lo sguardo gli altri popoli per arrivare al culto del vero Dio.
In questa interpretazione dell'esilio babilonese si sente l'eco dell'esodo dall'Egitto: due esperienze distanti nel tempo, ma che hanno aiutato Israele a crescere nella coscienza di popolo di Dio; un Dio che tra le complesse vicende umane è sempre capace di costruire e tracciare una nuova storia per il Suo popolo. E'Dio il garante del futuro soprattutto per chi è debole, piccolo e senza speranza.
Il versetto finale: “Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco” che possiamo collegare alle parole di Maria nel Magnificat: "Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili..“ ci presentano un Dio che vuole anche oggi un futuro, una dignità, per ogni persona anche piccola, per ogni popolo povero e oppresso. Nessuno nella vita può considerarsi un fallito, perché veglia su di lui il Dio della vita che si fa solidale con l'uomo.


Salmo 91 È bello rendere grazie al Signore.
È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte.
Il giusto fiorirà come palma
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore
fioriranno negli atri del nostro Dio

Nella vecchiaia daranno ancora frutti
saranno verdi e rigogliosi
per annunciare quanto è retto il Signore:
mia roccia, in lui non c’è malvagità.

Il salmo esordisce presentando la bellezza del dar lode a Dio, della preghiera che canta contemplando ciò che Dio è: “Al tuo nome, o Altissimo”.
Il salmo è individuale, ma celebra la preghiera liturgica del tempio, dove erano in uso gli strumenti musicali e dove si lodava Dio anche durante veglie notturne. A questa preghiera nel tempio egli partecipava.
Il salmista, probabilmente un levita, riflette sulla grandezza delle opere di Dio: la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai, la conquista della Terra Promessa, la costruzione del tempio.
Egli osserva che i pensieri di Dio hanno una profondità tale che gli uomini non possono esaurirne la comprensione (Cf. Ps 35,7; 39,6).
Gli uomini insensati non sono umili, per questo non possono intendere le cose di Dio, e scelgono i loro vaneggiamenti che li conducono alla rovina eterna, che come tale è irreversibile. Il loro fiorire e affermarsi “è solo per la loro eterna rovina”.
Il salmista ha molti nemici, che sono anche e principalmente nemici di Dio, ma riceve da Dio la forza per la lotta: “Tu mi doni la forza di un bufalo, mi hai cosparso di olio splendete”.
Noi in Cristo la forza la riceviamo dallo Spirito Santo, e l'olio che abbiamo ricevuto è quello del crisma del sacramento della Confermazione.
La forza e la sicurezza che il salmista sente nella fede lo porta a non temere gli uomini, gli avversari: “I miei occhi disprezzeranno i miei nemici”. Per noi cristiani non c'è il disprezzo dei nemici in quanto persone, ma solo disprezzo delle loro lusinghe per travolgerci, delle loro intimidazioni per fiaccarci.
E' certo che gli empi non potranno prosperare che per un attimo, ma poi cadranno in rovina: “Contro quelli che mi assalgono, i miei orecchi udranno sventure”.
Il contrario avverrà per i giusti, che si radicano nella frequentazione del tempio, e per questo fioriranno “negli atri del nostro Dio”, e nella vecchiaia “daranno ancora frutti”. Esempi perfetti di questo sono Simeone ed Anna (Lc 2,25s.36s).
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla Seconda Lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.
Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi.
Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.
2Cor 5,6-10

Paolo sente la necessità di scrivere una seconda lettera ai Corinzi perchè aveva saputo che a Corinto erano arrivati in quel periodo degli evangelizzatori che avevano, non soltanto preso le loro distanze dalla persona di Paolo (anziché riconoscerne l'autorità e il suo ruolo di privilegio nei confronti dei Corinzi, essendo egli il fondatore di quella comunità), ma addirittura erano giunti a contestare la sua autorità di apostolo e di padre della comunità. Erano con tutta probabilità giudeo-cristiani venuti da fuori regione, con delle lettere credenziali che avevano lo scopo di "raccomandarli" presso la comunità di Corinto, e presentandosi, si definivano "servitori di Cristo e suoi apostoli“. Con tutta probabilità si facevano mantenere dalle comunità stesse (per questa ragione Paolo, polemicamente, insiste sul suo lavoro con cui ha provveduto personalmente al proprio mantenimento senza pesare sugli altri). Paolo si mostra dunque molto duro e severo anche con la comunità di Corinto che li ha accettati e seguiti, anziché metterli al bando e restare fedele al suo fondatore.
In questo brano l’Apostolo, continua ad approfondire il tema, già iniziato, di tenere sempre lo sguardo rivolto ai beni eterni, e presenta il desiderio di lasciare il corpo per abitare presso il Signore, cioè giungere alla visione beatifica. Queste parole ci dicono come l'anima fedele dopo la morte salirà a Dio vedendolo così come egli è (Fil 1,23; 1Gv 3,2). La visione beatifica non sarà dunque solo alla risurrezione dei corpi, ma dopo la morte per quelli che sono morti in Cristo. Non si dà assolutamente una sospensione dell'attività dell'anima, (come ad esempio si vede nella parabola del ricco epulone), ma anzi essa è superattiva nella carità perché non cammina più nella fede, ma è nella visione di Dio. (Ap 4,4) . Dio inoltre darà all'anima, con una suprema luce, la possibilità di vederlo faccia a faccia (1Cor 13,12). Inoltre, quando l'anima si separerà dal corpo per la morte, c'è subito un giudizio per ciascuno, il giudizio particolare: “Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male”.
Fa un po’ impressione leggere: “comparire davanti al tribunale di Cristo”, ma dobbiamo pensare che la nostra salvezza è sicura. Noi non compariremo in giudizio, ma tutta la nostra vita sarà ripercorsa, come in un film, rivelando tutto ciò che avremo fatto, “di bene o di male”, e riceveremo o un guadagno o una perdita. Ma, nello stesso tempo, il Signore mostrerà come la sua grazia abbia saputo trarre il suo fulgore anche dai nostri peccati.
Ciò che conta è di essere fin da oggi graditi a Dio rendendosi docili alla Sua volontà, svolgendo sempre bene le proprie azioni quotidiane, per essere pronti a sostenere vittoriosi il giudizio davanti al tribunale di Cristo. L’invito è a vivere quaggiù con la speranza fondata su Cristo e non sulle proprie forze.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
Mc 4,26-34

Da questa domenica riprendiamo la lettura del vangelo di Marco che ci accompagnerà fino al prossimo Avvento Su questo brano meditiamo su due parabole: la prima, è quella del “seme” che germoglia e cresce da solo, tipica di Marco, la seconda è quella della senape, narrata anche da Matteo e Luca, ma con minor apporto di particolari.
La prima parabola inizia parlando di un uomo che getta il seme nella terra “dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura”. Con questo paragone Gesù ci vuole far comprendere come l'agricoltore che semina il buon seme deve anche saper attendere pazientemente il raccolto. Nello stesso modo dobbiamo fare anche noi: dobbiamo cioè seminare il bene attorno a noi e, a suo tempo, raccoglieremo questo bene, moltiplicato, anche se, il più delle volte, saranno gli altri, che verranno dopo di noi, a vedere i frutti.
La seconda parabola Gesù la fa iniziare con una domanda: “A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”.
Nella Terra Santa, ai tempi di Gesù, con il nome di senapa chiamavano, oltre alla pianta che noi conosciamo, anche un albero che raggiunge diversi metri di altezza. Questa parabola ci insegna come il Signore, per diffondere il bene nel mondo, si serve di strumenti umili e semplici. Sono queste le Sue preferenze, e così ha fatto anche quando ha scelto gli Apostoli, umili e semplici pescatori, e li ha fatti diventare evangelizzatori del mondo.
Gesù con le Sue parabole cerca di dare soprattutto una risposta alle idee e alle aspettative messianiche degli Ebrei del Suo tempo. C'erano i Farisei, i quali pensavano che si potesse affrettare l'avvento del Regno di Dio con la penitenza, con i digiuni, con l'osservanza, in genere, della Legge e delle tradizioni. C'erano poi gli Zeloti, che cercavano di impiantare il Regno ricorrendo alla violenza e alla resistenza armata contro i conquistatori romani. C'erano infine gli Apocalittici, che erano convinti di stabilire con precisione, attraverso i loro calcoli complicati, l'ora e il luogo della gloriosa manifestazione del Messia.
Gesù corregge queste varie attese e afferma solennemente che il Regno dei cieli è opera di Dio e non degli uomini. Entrambe le parabole, infatti, mettono in evidenza la inadeguatezza e l' assoluta irrilevanza degli strumenti umani, che Dio usa per realizzare il suo Regno.
La parola di Dio è come il seme, una volta entrata nel cuore non rimane senza effetto, ma germoglia e cresce anche quando tutto sembra spento e morto. Non dobbiamo mai dimenticare che è Dio che lo fa crescere, quando e come vuole.

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“Nell’odierna pagina evangelica (cfr Mc 4,26-34), Gesù parla alle folle del Regno di Dio e dei dinamismi della sua crescita, e lo fa raccontando di due brevi parabole.
Nella prima parabola, il Regno di Dio è paragonato alla crescita misteriosa del seme, che viene gettato sul terreno e poi germoglia, cresce e produce la spiga, indipendentemente dalla cura del contadino, che al termine della maturazione provvede al raccolto. Il messaggio che questa parabola ci consegna è questo: mediante la predicazione e l’azione di Gesù, il Regno di Dio è annunciato, ha fatto irruzione nel campo del mondo e, come il seme, cresce e si sviluppa da sé stesso, per forza propria e secondo criteri umanamente non decifrabili. Esso, nel suo crescere e germogliare dentro la storia, non dipende tanto dall’opera dell’uomo, ma è soprattutto espressione della potenza e della bontà di Dio, della forza dello Spirito Santo che porta avanti la vita cristiana nel Popolo di Dio.
A volte la storia, con le sue vicende e i suoi protagonisti, sembra andare in senso contrario al disegno del Padre celeste, che vuole per tutti i suoi figli la giustizia, la fraternità, la pace. Ma noi siamo chiamati a vivere questi periodi come stagioni di prova, di speranza e di attesa vigile del raccolto. Infatti, ieri come oggi, il Regno di Dio cresce nel mondo in modo misterioso, in modo sorprendente, svelando la potenza nascosta del piccolo seme, la sua vitalità vittoriosa. Dentro le pieghe di vicende personali e sociali che a volte sembrano segnare il naufragio della speranza, occorre rimanere fiduciosi nell’agire sommesso ma potente di Dio. Per questo, nei momenti di buio e di difficoltà noi non dobbiamo abbatterci, ma rimanere ancorati alla fedeltà di Dio, alla sua presenza che sempre salva. Ricordate questo: Dio sempre salva. È il salvatore.
Nella seconda parabola, Gesù paragona il Regno di Dio a un granellino di senape. E’ un seme piccolissimo, eppure si sviluppa così tanto da diventare la più grande di tutte le piante dell’orto: una crescita imprevedibile, sorprendente.
Non è facile per noi entrare in questa logica della imprevedibilità di Dio e accettarla nella nostra vita. Ma oggi il Signore ci esorta a un atteggiamento di fede che supera i nostri progetti, i nostri calcoli, le nostre previsioni. Dio è sempre il Dio delle sorprese. Il Signore sempre ci sorprende. È un invito ad aprirci con più generosità ai piani di Dio, sia sul piano personale che su quello comunitario.
Nelle nostre comunità occorre fare attenzione alle piccole e grandi occasioni di bene che il Signore ci offre, lasciandoci coinvolgere nelle sue dinamiche di amore, di accoglienza e di misericordia verso tutti.
L’autenticità della missione della Chiesa non è data dal successo o dalla gratificazione dei risultati, ma dall’andare avanti con il coraggio della fiducia e l’umiltà dell’abbandono in Dio. Andare avanti nella confessione di Gesù e con la forza dello Spirito Santo. È la consapevolezza di essere piccoli e deboli strumenti, che nelle mani di Dio e con la sua grazia possono compiere opere grandi, facendo progredire il suo Regno che è «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17). La Vergine Maria ci aiuti ad essere semplici, ad essere attenti, per collaborare con la nostra fede e con il nostro lavoro allo sviluppo del Regno di Dio nei cuori e nella storia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 giugno 2018

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
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Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

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