Dove siamo:
Vedi sulla carta
S.Messe (settimana)
9:00  18:30

KRZYZ

Elena Tasso

Elena Tasso

Lunedì, 19 Ottobre 2020 16:47

PRIME COMUNIONI - 17 Ottobre 2020

Qui sotto le foto

2

 

3

 

4

 

Altre foto sotto nella galleria

La liturgia di questa domenica ci invita a comprendere meglio che vivere da veri cristiani è anche vivere da cittadini giusti rispettosi delle leggi dello Stato.
Nella prima lettura, il profeta Isaia si rivolge al popolo in esilio perchè accolga la proposta di Ciro, re dei Persiani, di ritornare nella terra dei padri. Anche un re pagano può diventare per Dio strumento di liberazione ed esecutore della sua volontà.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Tessalonicesi, Paolo saluta la comunità di Tessalonica chiamandola Chiesa, e afferma che lo Spirito di Cristo è all’opera per confermarla nella fede e costituirla segno di speranza.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù, ai farisei che lo interpellavano sul tributo, afferma la distinzione tra i doveri verso Dio e i doveri verso lo stato. “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” è l’unico pronunciamento esplicito di Gesù su una questione politica. Cesare e Dio, la Chiesa e lo Stato, sono percorsi che portano alla stessa meta: non si può essere bravi cristiani senza essere di conseguenza anche bravi cittadini.

Dal libro del profeta Isaia
Dice il Signore del suo eletto, di Ciro:
«Io l’ho preso per la destra,
per abbattere davanti a lui le nazioni,
per sciogliere le cinture ai fianchi dei re,
per aprire davanti a lui i battenti delle porte
e nessun portone rimarrà chiuso.
Per amore di Giacobbe, mio servo,
e d’Israele, mio eletto,
io ti ho chiamato per nome,
ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore e non c’è alcun altro,
fuori di me non c’è dio;
ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci,
perché sappiano dall’oriente e dall’occidente
che non c’è nulla fuori di me.
Io sono il Signore, non ce n’è altri».
Is 45,1, 4-6

Questo brano fa parte dei testi (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “Deutero Isaia ”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Infatti a partire dal 550 a.C. compare un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re: Ciro. Egli in 10 anni sottomette l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, egli appare come un liberatore. Il Deutero Isaia non si limita a presentarlo come lo strumento scelto da Dio per portare a termine il suo piano in favore di Israele, ma gli attribuisce prerogative tipiche dei re di Giuda, ponendolo così in una prospettiva “messianica”.
Il brano liturgico inizia riportando l’oracolo: “Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: «Io l’ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso»
Ciro viene presentato come l’eletto di Dio, vale a dire il messia, titolo che competeva al re di Giuda in quanto consacrato con l’unzione regale, che faceva di lui il rappresentante di Dio in mezzo al suo popolo.
È questa l’unica volta in cui questo titolo viene attribuito a un personaggio che non ha nulla a che fare con il popolo eletto. Conferendogli questo titolo il profeta vuole dimostrare che a Ciro è stata conferita una missione speciale come strumento e rappresentante di Dio, il quale perciò lo sostiene e lo aiuta.
L’assistenza di Dio nei suoi confronti viene riferita con l’espressione “l’ho preso per la destra” , utilizzata in precedenza anche per il Servo del Signore, che è una figura profetico-messianica (V. 42,6), e questo dimostra che le imprese militari di Ciro sono state guidate da Dio verso uno scopo da Lui prestabilito: la restaurazione del popolo giudaico nella sua terra.
L’intervento di Dio in favore di Ciro viene descritto con tre immagini:
“abbattere davanti a lui le nazioni”, “ sciogliere le cinture ai fianchi dei re” e “aprire davanti a lui i battenti delle porte”. Con queste espressioni Isaia vuole spiegare la rapida ascesa di questo re, che, sfruttando la decadenza di Babilonia sotto il re Nabonide, che regnò dal 556 al 539 a.C, diventato sgradito ai suoi sudditi per aver sostituito il dio Marduk con la dea lunare Sin, era entrato quasi senza colpo ferire in Babilonia, dove le porte della città gli erano state aperte spontaneamente dai sacerdoti e dai governanti locali.
In un testo babilonese, chiamato “cilindro di Ciro”, redatto dai sacerdoti al momento della marcia vittoriosa di Ciro nel 538 a.C., si dice che il dio babilonese Marduk “ha nominato il nome di Ciro e l’ha chiamato al dominio su tutta la terra”.
Nei versetti successivi (omessi dalla liturgia) viene raccontato che il Signore marcerà davanti a Ciro, spianerà le asperità del terreno, spezzerà le porte di bronzo, romperà le spranghe di ferro. Gli consegnerà tesori nascosti e le ricchezze ben celate, perché egli sappia che Lui solo è il Signore, Dio di Israele, che lo chiama per nome.
Il fatto di riconoscere che il Signore è il Dio di Israele non significa la conversione di Ciro alla religione ebraica, ma semplicemente il riconoscersi, in modo anche inconsapevole, come esecutore di un progetto che è stato deciso dal Dio di Israele (V. Esd 1,2-3).
Il brano liturgico continua riportando l’intervento divino in favore di Ciro con espressioni che si ispirano al rito di investitura regale: “Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca”.
Ciò che ha spinto il Signore a rivolgersi a Ciro è stato l’amore per il Suo popolo, che viene indicato con il nome del patriarca Giacobbe, che riceve la qualifica di “servo” e di “Israele”, altro nome di Giacobbe, che viene considerato l’eletto di Dio.
In forza del Suo amore per Israele Dio “ha chiamato per nome” Ciro, cioè lo ha scelto tra tanti come la persona più adatta a attuare i suoi progetti, e gli “ha dato un titolo” cioè un nome nuovo, forse appunto quello di Messia, che indica la sua missione, e tutto questo Dio lo ha fatto sebbene Ciro non lo conoscesse. Questo re non appartiene al popolo ebraico, quindi non può sapere chi è il Signore e tanto meno rendersi conto che è Lui a guidarlo nelle sue campagne vittoriose in vista di un fine che egli non può neppure immaginare. Nonostante il suo coinvolgimento in un preciso progetto del Signore, Ciro resta dunque quello che è, e sappiamo che non si convertì alla religione ebraica che neppure conosceva.
L’oracolo termina con queste parole: “Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri».
È qui sintetizzato il tema fondamentale del Deutero Isaia: l’unicità di Dio, un Dio che è capace di muovere la storia secondo i Suoi disegni, facendo ritornare gli israeliti nella loro terra, e dimostra questa Sua prerogativa proprio servendosi di un personaggio che neppure lo conosce.
È quanto mai paradossale dunque che Dio si serva proprio di Ciro per far sapere dall’oriente all’occidente, cioè in tutto il mondo, che non esiste altro Dio fuori di Lui.

Salmo 96 (95) Grande è il Signore e degno di ogni lode.

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.

Grande è il Signore e degno di ogni lode,
terribile sopra tutti gli dèi.
Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla,
il Signore invece ha fatto i cieli.

Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Portate offerte ed entrate nei suoi atri.

Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine.

Il salmo è un invito all'assemblea dei popoli a riconoscere la grandezza di Dio. L'universalismo del salmo ha come base l'unicità di Dio, e la consapevolezza che tutti i popoli della terra hanno un'origine comune, e che, allontanatisi da Dio, ne hanno in qualche misura un ricordo nelle loro concezioni religiose, infettate di politeismo e di idolatria. Ora Dio chiama a raccolta tutte le famiglie dei popoli a ritornare a lui (Cf. Ps 21,28), che ha formato un popolo quale suo testimone, radunato attorno al tempio di Gerusalemme.
Il popolo di Israele è invitato a diffondere la conoscenza del vero Dio in mezzo ai popoli. Una certezza deve avere Israele, che egli è “terribile sopra tutti gli dei”, e che “tutti gli dei dei popoli sono un nulla”. Dietro gli dei concepiti dalle nazioni sono presenti i demoni sui quali Dio esercita pieno dominio.
L'invito ai popoli non è solo quello di aprirsi a Dio, ma di andare pellegrini “nei suoi atri”, e prostrarsi davanti a lui. Il “suo atrio santo”, sono quelli del tempio di Gerusalemme. I “sacri ornamenti”, sono vesti degne del tempio.
Tutta la terra deve essere presa dal timore di Dio: “Tremi davanti a lui tutta la terra”.
L'annuncio di Israele ai popoli deve affermare la regalità di Dio su di loro: “Dite tra le genti: ”.
Egli è colui che con la sua provvidenza regge il mondo, e agisce con giustizia sui popoli: “È stabile il mondo, non potrà vacillare! Egli giudica i popoli con rettitudine”.
Il Signore “viene a giudicare la terra”; questo avverrà con la venuta di Cristo, re di giustizia e di pace il quale affermerà la giustizia (Cf. Ps 93). “Viene”, dice il salmista. Ora è venuto il Cristo, il Figlio di Dio incarnatosi nel grembo verginale di Maria. Egli viene continuamente con la sua grazia (Ap 1,8); poi, alla fine del mondo, verrà per il giudizio finale: “Giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli”. “Nella sua fedeltà”, cioè per dare la risurrezione gloriosa a coloro che lo hanno accolto.
Difficile poter dire la data di composizione del salmo; probabilmente è stato scritto in un tempo di grande compattezza di Israele, poco dopo la costruzione del tempio di Salomone, prima che avvenisse lo scisma delle tribù del nord (1Re 11,26s).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace.
Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro.
Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.
1Ts 1,1-5b

La I^ Lettera ai Tessalonicesi è probabilmente la più antica tra le lettere di S.Paolo e fu scritta dall’Apostolo all’inizio degli anni 50. Paolo è stato a Tessalonica (oggi Salonicco) nel suo secondo viaggio(circa 20 anni dopo la morte di Gesù) e come spesso gli accadeva, era dovuto fuggire e pertanto aveva passato nella città poco tempo per poter svolgere bene una missione completa e approfondita (negli Atti 17,1-9 è riportato ciò che avvenne a Tessalonica).
Paolo dunque è preoccupato per la comunità che ha dovuto lasciare in fretta e manda Timoteo e Sila, suoi collaboratori, a constatare di persona come stavano le cose. Il rapporto che riceve è buono. Quella comunità che si poteva pensare fragile, si era sviluppata, viveva in un sorprendente spirito di speranza, di fede e di carità. Paolo resta sorpreso anche dopo 15 anni di esperienza missionaria ed esprime la sua gioia. scrivendo questa lettera il cui breve prescritto è riportato nel brano che la liturgia di presenta.
“Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace.”
Paolo qui si esibisce con il suo nome, senza aggiungere nessuna delle sue qualifiche apostoliche, e aggiunge anche il nome dei suoi due collaboratori, Silvano e Timoteo. Il primo è lo stesso personaggio, chiamato Sila, che secondo gli Atti egli ha scelto come compagno nel secondo viaggio missionario dopo essersi separato da Barnaba (V. At 15,40). Timoteo invece è un cristiano di madre ebraica che l’apostolo ha preso con sé, sempre nel secondo viaggio, a Listra, dopo averlo fatto circoncidere (V. At 16,1-3). Sia l’uno che l’altro avevano partecipato attivamente all’evangelizzazione di Tessalonica (V. At 17,1) . Paolo non dice che essi abbiano scritto la lettera con lui, ma li sente così vicini e partecipi della sua attività da parlare anche a nome loro.
Ricordiamo che Paolo era contrario alla pratica della circoncisione per i cristiani, ma Timoteo fu circonciso "a causa dei Giudei che erano in quei luoghi", che sapevano che Timoteo aveva la madre giudea e il padre non giudeo, per evidenziare che Timoteo come vero Giudeo poteva dare in modo più evidente una buona testimonianza verso i Giudei. E’ stato perciò un caso di regolare la situazione di Timoteo, che era legalmente un Giudeo ma non aveva vissuto da Giudeo, e non di imporre che un non Giudeo diventasse un Giudeo prima di diventare un Cristiano, come era il caso di Tito (Gal 2:3-5)
Paolo scrive alla “Chiesa dei Tessalonicesi” perché egli suppone che il gruppetto di persone che in Tessalonica hanno aderito a Cristo sia la rappresentanza, in quella città, del popolo di Israele, ormai entrato nella fase finale della salvezza inaugurata da Cristo. Questa loro dignità proviene dal fatto di essere “in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace”. Il prescritto termina con l’usuale augurio di grazia e di pace. Il termine “pace” (eirêne, shalôm) rappresenta il saluto tipico del mondo ebraico e significa la pienezza di ogni bene, spirituale e materiale, in un rapporto di comunione con l’unico Dio.
Una volta terminato il prescritto Paolo inizia il ringraziamento: “Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro”. Paolo si presenta qui come un uomo di preghiera, che porta nel cuore davanti a Dio i cristiani da lui convertiti. “l’operosità della vostra fede” sta ad indicare quell’operare che ha origine dalla fede, cioè la fede che opera mediante l’amore (V. Gal 5,6); la fatica della vostra carità (fatica dell’amore), è quell’affaticarsi per gli altri che è espressione di amore. Infine ”la fermezza della vostra speranza”(la pazienza della speranza) è la capacità di sopportare le tribolazioni della vita, continuamente alimentata dalla speranza nel compimento finale. Appaiono qui per la prima volta le tre virtù “teologali”, le quali indicano uno stretto rapporto con Dio che dà origine a un impegno d’amore e di servizio nei confronti dei fratelli.
L’intensità della vita cristiana dei tessalonicesi viene fatta risalire da Paolo a un dono speciale di Dio: perciò li chiama “fratelli amati da Dio che siete stati scelti da lui.” L’elezione era prerogativa del popolo di Israele (Dt 7,7) ma in forza dell’elezione ricevuta, ora i tessalonicesi sono diventati il popolo eletto degli ultimi tempi.
Infine Paolo mette in luce il motivo per cui si sente di fare affermazioni così elevate circa la vita cristiana dei tessalonicesi: “Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione”.
I tessalonicesi ne sono consapevoli perché sanno bene come egli (con i suoi collaboratori) si sono comportati in mezzo ad essi per il loro bene. La potenza che ha accompagnato la parola da lui annunziata non consiste in opere miracolose, ma nella sua capacità di provocare quella fede viva e spontanea che rivela l’azione dello Spirito Santo

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi.
Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare».
Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Mt 22, 15-21

Matteo, dopo le tre “parabole di rottura”,riporta altre quattro “controversie” tra Gesù e i rappresentanti di vari gruppi religiosi dell’epoca, controversie avvenute nel tempio di Gerusalemme in prossimità della Sua passione e morte.
Questa volta sono i farisei che tentano di mettere Gesù in contraddizione con la Sua fede e la Sua predicazione. A questo scopo gli inviano dei loro discepoli insieme a dei partigiani di Erode. Entrambi i gruppi volevano l’instaurazione di un regno teocratico in Israele: i farisei attraverso il dominio della loro Legge e del Re Messia, gli erodiani attraverso l’estensione del regno di Erode a tutta la terra santa, in autonomia dall’impero romano. Ma l’intenzione profonda degli uni e degli altri è quella di tendere un tranello a Gesù, per questo si avvicinano a lui con l’adulazione:
«Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno”. Dopo questa premessa adulatoria gli inviati fanno a Gesù la loro domanda: “Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. E’ evidente la loro intenzione di far cadere Gesù in un trabocchetto per indurlo a dichiararsi o idolatra di Cesare o contestatore di Cesare e così la colpa di Gesù sarebbe stata evidente in un caso agli occhi dell’autorità religiosa ebraica, nell’altro a quelli dell’autorità politica romana.
Il tributo personale all’imperatore romano, consisteva in una tassa annuale (spesso alquanto esosa), che costituiva anche un tacito riconoscimento del dominio straniero e la rinunzia implicita alla speranza messianica. Il pagamento di questa tassa rappresentava quindi un problema di coscienza, data la concezione teocratica in Israele, che determinò la ribellione di alcuni rivoluzionari, contrari al versamento del tributo.
Gesù, dopo aver messo in luce l’ipocrisia dei suoi interlocutori, si fa portare la moneta del tributo, su cui è scritto: “Tiberio Cesare, figlio del dio Augusto”, con l’effigie dell’imperatore.
A questo punto Gesù non può sottrarsi dal rispondere alla domanda rivoltagli, che pure è formulata in modo ambiguo, perché se infatti affermasse: “Sì, è lecito pagare il tributo”, si mostrerebbe a favore di Cesare, anzi idolatra dell’impero totalitario, e così il popolo che attendeva il Messia liberatore dal giogo romano lo sentirebbe come un traditore. Se, al contrario, rispondesse negativamente, allora gli erodiani avrebbero motivo per denunciarlo come un pericoloso agitatore sociale anti-romano.
Ma ecco che Gesù, tenendo in mano la moneta, ribatte a sorpresa con una domanda: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. Al sentirsi rispondere: “Di Cesare”, può dunque concludere con una sentenza divenuta celeberrima: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Queste poche parole sono un’affermazione sapiente che necessita di essere interpretata a seconda dei tempi e delle situazioni mutevoli della storia del mondo. Occorre anche fare attenzione per non rendere queste parole uno slogan, come tante volte è successo e succede nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, tra l’autorità politica e i cristiani. Dobbiamo perciò chiederci se abbiamo veramente compreso bene queste parole di Gesù: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare”.
Secondo la sacra Scrittura, il potere esercitato sulla terra viene da Dio e vediamo come anche Ciro, il re dei persiani che ha sconfitto Babilonia, era un “unto”, un messia di Dio, il quale, pur senza conoscere il Dio di Israele e senza credere in Lui, aveva compiuto azioni volute da Dio stesso, diventando Suo strumento (V. Is 45,1-7). Nel Nuovo Testamento l’Apostolo Paolo applica la medesima convinzione alla situazione dei cristiani nell’impero: occorre prestare obbedienza leale alle autorità dello Stato ( Rm 13,1-7) Da questo potremmo dedurre che l’autorità politica è assolutamente necessaria e che le città abitate dagli uomini e dalle donne hanno bisogno di ordine, di legalità, di giustizia, e dunque la politica non può essere ignorata, né si può vivere in società senza un’autorità cui rispondere lealmente.
Gesù ha rifiutato di essere un Messia politico (Mt 4,8-10), non ha accettato di essere fatto re ( Gv 6,14-15) e ha rimproverato Pietro per la sua incomprensione della propria identità di Messia mite, umile e anche sofferente (Mt 16,21-23; 11,29). Egli è Re – come dirà a Pilato – ma non di questo mondo (Gv 18,36)!
Dare a Cesare ciò che è di Cesare, allora, significa riconoscerne l’autorità e rispettarla lealmente. Pagare lealmente le tasse per un cristiano (ma anche per ogni persona onesta) è un dovere di giustizia e quindi un obbligo di coscienza. Il cristiano, obbediente alle leggi dello Stato, deve tuttavia riconoscere sempre “ciò che è di Dio”. Ed è di Dio la persona umana, perché l’uomo, non Cesare, è immagine di Dio (Gen 1,26-27) dunque è ciò che occorre rendere a Dio. Così il potere nella Stato è riconosciuto, ma non in modo assoluto, senza limiti: va obbedito fino a che non opprima, (ricordiamo quante leggi inique sono state emesse) non schiacci la persona nella sua libertà, nella sua dignità, nella sua coscienza.
A Cesare, dunque, va pagato il tributo, ciò che deriva dal suo potere; ma ciò che appartiene a Dio, la vita umana, va data a Dio. E quando le due autorità entrano in conflitto, occorre ricordare le parole degli apostoli: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29).

*****

“Il Vangelo di questa domenica ci presenta un nuovo faccia a faccia tra Gesù e i suoi oppositori. Il tema affrontato è quello del tributo a Cesare: una questione “spinosa”, circa la liceità o meno di pagare la tassa all’imperatore di Roma, al quale era assoggettata la Palestina al tempo di Gesù. Le posizioni erano diverse. Pertanto, la domanda rivoltagli dai farisei: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» costituisce una trappola per il Maestro. Infatti, a seconda di come avesse risposto, sarebbe stato accusabile di stare o pro o contro Roma.
Ma Gesù, anche in questo caso, risponde con calma e approfitta della domanda maliziosa per dare un insegnamento importante, elevandosi al di sopra della polemica e degli opposti schieramenti. Dice ai farisei: «Mostratemi la moneta del tributo». Essi gli presentano un denaro, e Gesù, osservando la moneta, domanda: «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». I farisei non possono che rispondere: «Di Cesare». Allora Gesù conclude: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Da una parte, intimando di restituire all’imperatore ciò che gli appartiene, Gesù dichiara che pagare la tassa non è un atto di idolatria, ma un atto dovuto all’autorità terrena; dall’altra – ed è qui che Gesù dà il “colpo d’ala” – richiamando il primato di Dio, chiede di rendergli quello che gli spetta in quanto Signore della vita dell’uomo e della storia.
Il riferimento all’immagine di Cesare, incisa nella moneta, dice che è giusto sentirsi a pieno titolo – con diritti e doveri – cittadini dello Stato; ma simbolicamente fa pensare all’altra immagine che è impressa in ogni uomo: l’immagine di Dio. Egli è il Signore di tutto, e noi, che siamo stati creati “a sua immagine” apparteniamo anzitutto a Lui.
Gesù ricava, dalla domanda postagli dai farisei, un interrogativo più radicale e vitale per ognuno di noi, un interrogativo che noi possiamo farci: a chi appartengo io? Alla famiglia, alla città, agli amici, alla scuola, al lavoro, alla politica, allo Stato? Sì, certo. Ma prima di tutto – ci ricorda Gesù – tu appartieni a Dio. Questa è l’appartenenza fondamentale. È Lui che ti ha dato tutto quello che sei e che hai. E dunque la nostra vita, giorno per giorno, possiamo e dobbiamo viverla nel ri-conoscimento di questa nostra appartenenza fondamentale e nella ri-conoscenza del cuore verso il nostro Padre, che crea ognuno di noi singolarmente, irripetibile, ma sempre secondo l’immagine del suo Figlio amato, Gesù. E’ un mistero stupendo.
Il cristiano è chiamato a impegnarsi concretamente nelle realtà umane e sociali senza contrapporre “Dio” e “Cesare”; contrapporre Dio e Cesare sarebbe un atteggiamento fondamentalista. Il cristiano è chiamato a impegnarsi concretamente nelle realtà terrene, ma illuminandole con la luce che viene da Dio. L’affidamento prioritario a Dio e la speranza in Lui non comportano una fuga dalla realtà, ma anzi un rendere operosamente a Dio quello che gli appartiene. È per questo che il credente guarda alla realtà futura, quella di Dio, per vivere la vita terrena in pienezza, e rispondere con coraggio alle sue sfide.
La Vergine Maria ci aiuti a vivere sempre in conformità all’immagine di Dio che portiamo in noi, dentro, dando anche il nostro contributo alla costruzione della città terrena.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’22 ottobre 2017

Sabato 10 ottobre 2020 durante la Messa vespertina, 12 ragazzi della nostra parrocchia hanno ricevuto il Sacramento della Confermazione.

Alla presenza del nostro Vescovo di settore S E. Monsignor Paolo Selvadagi, tutta la comunità si è stretta intorno ai nostri emozionatissimi ragazzi e ragazze.

Come loro catechista debbo dire che ero davvero fiera di loro e della loro compostezza. I 5 anni di cammino spirituale fatti insieme, hanno consegnato alla Chiesa 12 giovani adulti pronti a testimoniare nel mondo la gioia di essere cristiani.

Ringrazio il Signore per avermeli affidati, ora cammineranno nella vita forti della loro fede.

Che Dio li benedica.

La catechista Aurora
che ha scritto per loro questa preghiera

"Signore, ti prego per questi ragazzi

che mi affidasti un giorno poco più che bambini.

Sono diventati, oggi, giovani uomini e giovani donne maturi e responsabili,

pronti a testimoniare al mondo, con le loro vite, la gioia di essere cristiani,

ed io sono felice di offrirli di nuovo a Te che li hai chiamati a seguirTi in questi anni di preparazione.

Continua a proteggerli con il Tuo Amore,

che possano sempre camminare nella vita con la forza e con la determinazione che hanno oggi davanti a Te.

Ti ringrazio per avermeli affidati, il mio compito finisce qui, da oggi sarai Tu a guidarli con la Tua Parola e con i doni del Tuo Santo Spirito."

 

2

 

3

 

4

 

Altre foto sotto in galleria

1. Domenica 18 ottobre si celebra la Giornata missionaria mondiale 2020 “La fede, infatti, per sua natura è missionaria e la celebrazione della Giornata missionaria mondiale serve a tenere viva in tutti i fedeli questa dimensione essenziale della fede cristiana”

2. Domenica 18 ottobre il Papa ha incoraggiato l’iniziativa “Per l’unità e la pace, un milione di bambini recita il Rosario” promossa dalla Fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre. Questa manifestazione coinvolge i bambini di tutto il mondo, i quali pregheranno specialmente per le situazioni di criticità causate dalla pandemia.

La liturgia di questa domenica ha come tema un banchetto di nozze, una festa un po’ speciale a cui il Signore in tempi e in modi diversi invita tutti.
Nella prima lettura tratta dal Libro del profeta Isaia, il brano si apre con un annuncio insperato: sul monte Sion, il Signore prepara un pranzo sontuoso e gli invitati sono tutti gli uomini senza distinzione di razza e ceto sociale. Essi però prima di accedere al banchetto devono far cadere dagli occhi la loro cecità, è il velo delle lacrime che appanna la vista, è la miseria umana che deve essere annientata. Anzi, muore la stessa morte e si apre un orizzonte di felicità e di speranza per questi invitati che sono posti sotto la guida della “mano del Signore”.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo, ringrazia gli amici per il loro aiuto, ma il suo grazie non è tanto per il dono ricevuto, quanto piuttosto per il grande cuore di chi lo ha donato, che a sua volta il Signore colmerà di ogni bene.
Nel Vangelo di Matteo, troviamo due parabole connesse tra di loro: la prima è quella degli invitati alle nozze, la seconda prende lo spunto dal simbolismo della “veste” indicativo di uno stile di vita coerente con la fede. Per far parte degli eletti bisogna meritarselo, non importa se convocati al primo o al secondo appello. La parabola è chiara: bisogna indossare la veste nuziale! Chi, pur avendo formalmente accolto la chiamata di Gesù, continua a vivere come se la rivoluzione evangelica dovesse ancora venire, verrà rifiutato. E Gesù conclude con una frase che ci deve far pensare: “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”

Dal libro del profeta Isaia
Preparerà il Signore degli eserciti
per tutti i popoli, su questo monte,
un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre distesa su tutte le nazioni.
Eliminerà la morte per sempre.
Il Signore Dio asciugherà le lacrime
su ogni volto,l’ignominia del suo popolo
farà scomparire da tutta la terra,
poiché il Signore ha parlato.
E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.
Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,
poiché la mano del Signore si poserà
su questo monte».
Is 25,6-9

Questa parte del libro del profeta Isaia è una sezione di oracoli chiamata “grande Apocalisse” perché riguarda la fine del mondo e il giudizio finale. Al centro di questa raccolta troviamo l’oracolo che preannunzia il banchetto degli ultimi tempi.
Il banchetto viene così descritto: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte,un banchetto di grasse vivande,un banchetto di vini eccellenti,di cibi succulenti, di vini raffinati”.
Il simbolismo del banchetto è noto nella Bibbia, ma qui Isaia si riferisce anzitutto al banchetto dell’alleanza, che i capi di Israele avevano consumato sul monte Sinai al cospetto di DIO, ma in questo caso però il convito viene preparato direttamente da Dio. Anche qui il banchetto viene imbandito sulla montagna, che indica simbolicamente il luogo in cui Dio ha messo la Sua dimora.
Diversamente dal banchetto del Sinai però qui sono presenti non solo i rappresentanti di Israele, ma ”tutte le nazioni”. L’alleanza escatologica quindi non sarà più limitata a un solo popolo, ma si estenderà a tutta l’umanità. Dalla magnificenza dei cibi serviti nel banchetto, si può comprendere l’importanza decisiva nella storia della salvezza.
Nel corso del banchetto il Signore indica ai convitati, sotto forma di doni simbolici, gli scopi che intende perseguire. Anzitutto Dio “strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni”.
Sul monte avviene dunque una nuova rivelazione, analoga a quella avvenuta sul Sinai.. Poi” Eliminerà la morte per sempre” Secondo la Genesi la morte era stata la prima conseguenza del peccato di Adamo (V.Gen 3,19), . non si tratta però semplicemente della morte fisica, ma della lontananza da Dio che la morte fisica simboleggia. Oltre a cancellare per sempre la morte, “Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto” Anche la sofferenza sia fisica che morale fa parte della triste relazione tra peccato e morte, per questo nel banchetto finale anch’essa verrà eliminata per sempre. (L’Apocalisse al cap. 21 ne farà riferimento nel v.4 “E tergerà ogni lacrima dai loro occhi;non ci sarà più la morte),
Infine “l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato”.
Alla promessa fatta da Dio per mezzo del profeta, il popolo reagisce con un piccolo inno di lode che verrà pronunziato quando le promesse si saranno realizzate: “Ecco il nostro Dio;in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,”
In questa preghiera predomina la speranza in una salvezza che può venire solo dal Signore. Il popolo esprime la sua fede nella parola di DIO e aspetta solo da Lui l’eliminazioni di quei mali che gli impediscono di godere fino in fondo della Sua comunione.
Il testo termina con queste parole: “poiché la mano del Signore si poserà su questo monte”.
La “mano del Signore” rappresenta la Sua potenza che gli permette di intervenire in modo straordinario ed efficace nella storia e negli eventi di questo mondo. Ma questa potenza non si esercita più nella guerra contro i Suoi nemici, bensì nella riconciliazione di tutte le nazioni con Lui e tra di loro.

Salmo 22 Abiterò per sempre nella casa del Signore.

Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce..
Rinfranca l’anima mia.

Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.

L’orante ha fatto l’esperienza di come il Signore lo guidi in mezzo a numerose difficoltà tesegli dai nemici. Egli dichiara che non manca di nulla perché Dio in tutto l’aiuta. Le premure del suo Pastore sono continue e si sente curato come un pastore cura il suo gregge conducendolo a pascoli erbosi e ad acque tranquille. L’orante riconosce che tutto ciò viene dalla misericordia di Dio, che agisce “a motivo del suo nome”, ma egli corrisponde con amore all’iniziativa di Dio nei suoi confronti. La consapevolezza che Dio lo ama per primo gli dà una grande fiducia in lui, cosicché se dovesse camminare nel buio notturno di una profonda valle non temerebbe le incursioni di briganti o persecutori, piombanti dall’alto su di lui. La valle oscura è poi simbolo di ogni situazione difficile nella quale tutto sembra avverso. Dio, buon Pastore, lo difende con il suo bastone e lo guida dolcemente con il suo vincastro, che è quella piccola bacchetta con cui i pastori indirizzano il gregge con piccoli colpetti. Non solo lo guida in mezzo alle peripezie, ma anche gli dona accoglienza, proprio davanti ai suoi nemici, i quali pensano di averlo ridotto ad essere solo uno sconvolto e disperato fuggiasco. Egli, al contrario, è uno stabile ospite del Signore che gli prepara una mensa e gli unge il capo con olio per rendere lucenti i suoi capelli e quindi rendere bello e fresco il suo aspetto. E il calice che ha davanti è traboccante, ma non perché è pieno fino all’orlo, ma perché è traboccante d'amore. Quel calice di letizia è nel sensus plenior del salmo il calice del sangue di Cristo, mentre la mensa è la tavola Eucaristica, e l’olio è il vigore comunicato dallo Spirito Santo.
Il cristiano abita nella casa del Signore, l’edificio chiesa, dove c’è la mensa Eucaristica. Quella casa, giuridicamente, è della Diocesi, della Curia, ma è innanzi tutto del Signore, e quindi egli, per dono del Signore, vi è perenne legittimo abitante.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.
Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.
Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Fil 4,12-14.19-20

Paolo, quando scrisse la lettera ai Filippesi era prigioniero probabilmente a Efeso ed è durante questo circostanza che riceve la visita di Epafrodito (Fil 2,25) il quale, oltre a prestargli la sua assistenza, gli aveva portato un aiuto in denaro da parte dei cristiani di Filippi (4,18).
Nella parte precedente questo brano, (vv. 10-14), Paolo manifesta la sua gratitudine per gli aiuti ricevuti perché vede in essi una nuova manifestazione dei sentimenti che i filippesi hanno per lui. Per quanto lo riguarda, egli non ha una necessità urgente dei loro aiuti, e all’inizio di questo brano manifesta la sua autonomia con queste parole: “so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza”. I tre abbinamenti di concetti contrapposti, povertà e ricchezza, sazietà e fame, abbondanza e indigenza, indicano gli estremi di tutta una serie di esperienze, positive e negative, considerate di secondaria importanza che Paolo ha saputo affrontare facendo ricorso al concetto stoico di “autocontrollo”, che consiste nella capacità di accontentarsi del necessario e di sapersene procurare quanto è sufficiente per vivere, mantenendo uno stato d’animo sereno e tranquillo.
Egli però aggiunge: “Tutto posso in colui che mi dà la forza”. Diversamente dai filosofi, Paolo basa la sua serenità, non su qualità dell’anima acquisita mediante un lungo esercizio, ma sulla fiducia in Dio che gli dà la forza di accettare con coraggio ogni situazione, positiva o negativa, che la vita apostolica presenta.
Dopo aver sottolineato questo suo atteggiamento interiore, egli ritorna al concetto iniziale:
“Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni”. Gli aiuti dei filippesi gli sono graditi nella misura in cui sono un segno di partecipazione alle sofferenze che egli sopporta per il vangelo
Nei versetti non riportati dal brano (vv. 15-20). Paolo ricorda il contributo che i filippesi gli hanno dato in diverse occasioni: quando, dopo aver evangelizzato Filippi, aveva lasciato la Macedonia, solo loro lo avevano aiutato finanziariamente, e quando si trovava a Tessalonica gli avevano inviato per due volte il necessario. Per evitare equivoci, l’apostolo soggiunge, che non è il loro dono che ricerca, “ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio”.
Adesso poi ha ricevuto mediante Epafrodito i loro doni, che considera come “un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio”, e di conseguenza ha il necessario e anche il superfluo (vv. 15-18). Ciò significa che il dono ricevuto non è stato fatto direttamente a lui, ma a Dio stesso.
Nei versetti finali, riportati dal brano liturgico, Paolo aggiunge che al dono dei filippesi corrisponderà un ulteriore dono da parte di Dio a loro vantaggio: “Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù”. Aiutando Paolo essi in realtà hanno offerto un sacrificio a Dio, quindi si sono messi nella condizione di ricevere da parte sua per mezzo di Cristo doni ancora più grandi, di carattere sia spirituale che materiale. Dio è infinitamente più generoso degli uomini!.
Il brano termina con l’invocazione:”Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen”. Sia il dono fatto a Paolo, sia gli ulteriori doni che i filippesi riceveranno, tutto deve servire alla gloria di Dio Padre.
In sintesi, Paolo anche se non dimostra di essere troppo contento per gli aiuti finanziari, apprezza non tanto l’aspetto materiale del dono, quanto piuttosto il sentimento che lo ha provocato. Per lui gli aiuti che gli sono pervenuti sono anzitutto un’offerta sacrificale fatta a Dio, e solo secondariamente un servizio alla sua persona. Il fatto di averglieli mandati, in un momento in cui egli soffre per il vangelo, significa aver capito l’importanza dell’annunzio e il desiderio di collaborare con lui in questa opera.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:
«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.
Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. ]
Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Mt 22,1-14

In questo brano del Vangelo di Matteo troviamo ancora Gesù che continua a parlare alla gente in parabole. Aveva terminato di esporre la parabola dei vignaioli omicidi e per essere ancora più esplicito ora racconta una splendida parabola la cui scena ha come sfondo un solenne banchetto nuziale. Si tratta in realtà di due parabole collegate tra loro: la prima è quella degli invitati alla grande cena, (riferita anche da Luca) la seconda è presente solo in Matteo e prende lo spunto dalla veste di cerimonia, simbolo della dignità di una persona.
Matteo inizia la parabola dicendo che “Gesù, riprese a parlare con parabole ” Con questa frase egli intende allacciare la nuova parabola alle due precedenti e chi lo ascolta sono sempre i sommi sacerdoti e i farisei (rappresentati dai loro scribi), cioè i due gruppi che, insieme agli anziani, erano membri del sinedrio e formavano l’autorità giudaica.
Il racconto prosegue con l’espressione tipica delle parabole: “Il regno dei cieli è simile a…”e questa volta il termine di paragone è “un re, che fece una festa di nozze per suo figlio”.
Sullo sfondo è chiaro il tema sponsale dell’alleanza, in cui lo sposo non è più Dio stesso, ma Suo figlio, l’erede, mediante il quale si attua il regno di Dio
Quando i preparativi furono completati, il re “mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire”
Si può suppone che gli invitati fossero persone che erano state avvertite per tempo e avevano accettato l’invito, ma all’ultimo momento si tirano indietro. Proprio loro, i primi, i privilegiati , rispondono con indifferenza, con fastidio, persino con ostilità e disprezzo.
Non conoscendo il motivo del loro rifiuto il re insiste e manda agli stessi invitati altri servi con questo messaggio: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”.
Ma anche questa volta “quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.”
La ripetizione dell’invito sottolinea la sollecitudine del re, ma anche la determinazione degli invitati a rifiutare. Questa volta al rifiuto si unisce oltre all’insulto anche l’uccisione degli inviati per un motivo umanamente non comprensibile, ma per Matteo rappresenta la persecuzione fatta prima dei profeti, poi del Messia e dei primi cristiani da parte del popolo giudaico (Mt 5,11; 21,35-39).
Il racconto prosegue riportando l’indignazione del re che “mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”. Questo particolare appare piuttosto inverosimile in quanto lascia intendere che, mentre il banchetto è pronto, il re fa una guerra, ovviamente non breve, per punire quelli che avevano rifiutato, e poi va in cerca di altri invitati.
Si tratta dunque evidentemente di un dettaglio allegorico, aggiunto da Matteo, con l’intenzione di inserire l’evento della guerra giudaica e della distruzione di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 d.C., considerata come il castigo inflitto da Dio al Suo popolo per aver rifiutato il dono della salvezza.
Dopo la parentesi della punizione dei primi invitati, il racconto riprende con un nuovo invio dei servi. Avendo constatato che il banchetto nuziale era ormai pronto, ma gli invitati non ne erano degni, il re manda i servi ai crocicchi delle strade con l’ordine di invitare alle nozze tutti quelli che avessero trovati.
I servi fanno come era stato loro ordinato e “radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali”.
Prima di arrivare all’epilogo del racconto si può dedurre che chiunque arrivi alla soglia della salaa del banchetto riceva un abito di festa donato gratuitamente, per indicare di aver accettato liberamente l’invito del re. Anche l’abito nuziale basta accoglierlo e indossarlo, non va meritato né comprato. C’è però ancora chi si oppone: non accetta quel dono, non vuole quell’abito, non lo indossa e nello stesso tempo entra al banchetto ! Eppure il re, regalando quel vestito, chiede solo a chi entra di essere in tenuta di festa, di essere pulito e ordinato, di dare un segno di miglioramento …
A questo punto possiamo leggere la finale del racconto: “Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. …Il linguaggio della parabola, dai tratti tipicamente orientali, ora si fa duro, persino crudele “Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti»“. Si tratta però di immagini che servono ad esprimere una realtà fondamentale: nell’ultimo giorno ci sarà un giudizio decisivo, che verterà sull’aver accettato o rifiutato il dono di Dio. Dio ci dona la vita, mai la morte definitiva: quest’ultima, la seconda morte (Ap. 21,8), con le sue conseguenze la scegliamo noi. E Dio, che rispetta fino in fondo la nostra libertà, con sofferenza ci lascia fare, e così ci vede vagare lontano da sé e preferire la prigione alla libertà, la distruzione alla vita vissuta in pienezza.


*************************

Le parole di Papa Francesco

“La parabola che abbiamo ascoltato ci parla del Regno di Dio come di una festa di nozze.
Protagonista è il figlio del re, lo sposo, nel quale è facile intravedere Gesù. Nella parabola, però, non si parla mai della sposa, ma dei molti invitati, desiderati e attesi: sono loro a vestire l’abito nuziale. Quegli invitati siamo noi, tutti noi, perché con ognuno di noi il Signore desidera “celebrare le nozze”. Le nozze inaugurano la comunione di tutta la vita: è quanto Dio desidera con ciascuno di noi. Il nostro rapporto con Lui, allora, non può essere solo quello dei sudditi devoti col re, dei servi fedeli col padrone o degli scolari diligenti col maestro, ma è anzitutto quello della sposa amata con lo sposo. In altre parole, il Signore ci desidera, ci cerca e ci invita, e non si accontenta che noi adempiamo i buoni doveri e osserviamo le sue leggi, ma vuole con noi una vera e propria comunione di vita, un rapporto fatto di dialogo, fiducia e perdono.
Questa è la vita cristiana, una storia d’amore con Dio, dove il Signore prende gratuitamente l’iniziativa e dove nessuno di noi può vantare l’esclusiva dell’invito: nessuno è privilegiato rispetto agli altri, ma ciascuno è privilegiato davanti a Dio. Da questo amore gratuito, tenero e privilegiato nasce e rinasce sempre la vita cristiana. Possiamo chiederci se, almeno una volta al giorno, confessiamo al Signore il nostro amore per Lui; se ci ricordiamo, fra tante parole, di dirgli ogni giorno: “Ti amo Signore. Tu sei la mia vita”. Perché, se si smarrisce l’amore, la vita cristiana diventa sterile, diventa un corpo senz’anima, una morale impossibile, un insieme di princìpi e leggi da far quadrare senza un perché. Invece il Dio della vita attende una risposta di vita, il Signore dell’amore aspetta una risposta d’amore. Rivolgendosi a una Chiesa, nel Libro dell’Apocalisse, Egli fa un rimprovero preciso: «Hai abbandonato il tuo primo amore» (2,4). Ecco il pericolo: una vita cristiana di routine, dove ci si accontenta della “normalità”, senza slancio, senza entusiasmo, e con la memoria corta. Ravviviamo invece la memoria del primo amore: siamo gli amati, gli invitati a nozze, e la nostra vita è un dono, perché ogni giorno è la magnifica opportunità di rispondere all’invito.
Ma il Vangelo ci mette in guardia: l’invito però può essere rifiutato. Molti invitati hanno detto no, perché erano presi dai loro interessi: «non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari», dice il testo . Una parola ritorna: proprio; è la chiave per capire il motivo del rifiuto. Gli invitati, infatti, non pensavano che le nozze fossero tristi o noiose, ma semplicemente «non se ne curarono»: erano distolti dai loro interessi, preferivano avere qualcosa piuttosto che mettersi in gioco, come l’amore richiede. Ecco come si prendono le distanze dall’amore, non per cattiveria, ma perché si preferisce il proprio: le sicurezze, l’auto-affermazione, le comodità... Allora ci si sdraia sulle poltrone dei guadagni, dei piaceri, di qualche hobby che fa stare un po’ allegri, ma così si invecchia presto e male, perché si invecchia dentro: quando il cuore non si dilata, si chiude, invecchia. E quando tutto dipende dall’io – da quello che mi va, da quello che mi serve, da quello che voglio – si diventa pure rigidi e cattivi, si reagisce in malo modo per nulla, come gli invitati del Vangelo, che arrivarono a insultare e perfino uccidere (cfr v. 6) quanti portavano l’invito, soltanto perché li scomodavano.
Allora il Vangelo ci chiede da che parte stare: dalla parte dell’io o dalla parte di Dio? Perché Dio è il contrario dell’egoismo, dell’autoreferenzialità. Egli – ci dice il Vangelo –, davanti ai continui rifiuti che riceve, davanti alle chiusure nei riguardi dei suoi inviti, va avanti, non rimanda la festa. Non si rassegna, ma continua a invitare. Di fronte ai “no”, non sbatte la porta, ma include ancora di più. Dio, di fronte alle ingiustizie subite, risponde con un amore più grande. Noi, quando siamo feriti da torti e rifiuti, spesso coviamo insoddisfazione e rancore. Dio, mentre soffre per i nostri “no”, continua invece a rilanciare, va avanti a preparare il bene anche per chi fa il male. Perché così è l’amore, fa l’amore; perché solo così si vince il male. Oggi questo Dio, che non perde mai la speranza, ci coinvolge a fare come Lui, a vivere secondo l’amore vero, a superare la rassegnazione e i capricci del nostro io permaloso e pigro.
C’è un ultimo aspetto che il Vangelo sottolinea: l’abito degli invitati, che è indispensabile. Non basta infatti rispondere una volta all’invito, dire “sì” e basta, ma occorre vestire l’abito, occorre l’abitudine a vivere l’amore ogni giorno. Perché non si può dire: “Signore, Signore” senza vivere e mettere in pratica la volontà di Dio (cfr Mt 7,21). Abbiamo bisogno di rivestirci ogni giorno del suo amore, di rinnovare ogni giorno la scelta di Dio.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia del 15 ottobre 2017

Pagina 78 di 162

Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
e-mail: email
Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice! Accetta i cookie per chiudere avviso. Per saperne di più riguardo ai cookie utilizzati e a come cancellarli, guarda il regolamento Politica sulla Privacy.

Accetto i cookie da questo sito