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Ott 9, 2020

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - "Gli invitati alle nozze" - 11 ottobre 2020

La liturgia di questa domenica ha come tema un banchetto di nozze, una festa un po’ speciale a cui il Signore in tempi e in modi diversi invita tutti.
Nella prima lettura tratta dal Libro del profeta Isaia, il brano si apre con un annuncio insperato: sul monte Sion, il Signore prepara un pranzo sontuoso e gli invitati sono tutti gli uomini senza distinzione di razza e ceto sociale. Essi però prima di accedere al banchetto devono far cadere dagli occhi la loro cecità, è il velo delle lacrime che appanna la vista, è la miseria umana che deve essere annientata. Anzi, muore la stessa morte e si apre un orizzonte di felicità e di speranza per questi invitati che sono posti sotto la guida della “mano del Signore”.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Filippesi, Paolo, ringrazia gli amici per il loro aiuto, ma il suo grazie non è tanto per il dono ricevuto, quanto piuttosto per il grande cuore di chi lo ha donato, che a sua volta il Signore colmerà di ogni bene.
Nel Vangelo di Matteo, troviamo due parabole connesse tra di loro: la prima è quella degli invitati alle nozze, la seconda prende lo spunto dal simbolismo della “veste” indicativo di uno stile di vita coerente con la fede. Per far parte degli eletti bisogna meritarselo, non importa se convocati al primo o al secondo appello. La parabola è chiara: bisogna indossare la veste nuziale! Chi, pur avendo formalmente accolto la chiamata di Gesù, continua a vivere come se la rivoluzione evangelica dovesse ancora venire, verrà rifiutato. E Gesù conclude con una frase che ci deve far pensare: “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”

Dal libro del profeta Isaia
Preparerà il Signore degli eserciti
per tutti i popoli, su questo monte,
un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre distesa su tutte le nazioni.
Eliminerà la morte per sempre.
Il Signore Dio asciugherà le lacrime
su ogni volto,l’ignominia del suo popolo
farà scomparire da tutta la terra,
poiché il Signore ha parlato.
E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.
Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,
poiché la mano del Signore si poserà
su questo monte».
Is 25,6-9

Questa parte del libro del profeta Isaia è una sezione di oracoli chiamata “grande Apocalisse” perché riguarda la fine del mondo e il giudizio finale. Al centro di questa raccolta troviamo l’oracolo che preannunzia il banchetto degli ultimi tempi.
Il banchetto viene così descritto: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte,un banchetto di grasse vivande,un banchetto di vini eccellenti,di cibi succulenti, di vini raffinati”.
Il simbolismo del banchetto è noto nella Bibbia, ma qui Isaia si riferisce anzitutto al banchetto dell’alleanza, che i capi di Israele avevano consumato sul monte Sinai al cospetto di DIO, ma in questo caso però il convito viene preparato direttamente da Dio. Anche qui il banchetto viene imbandito sulla montagna, che indica simbolicamente il luogo in cui Dio ha messo la Sua dimora.
Diversamente dal banchetto del Sinai però qui sono presenti non solo i rappresentanti di Israele, ma ”tutte le nazioni”. L’alleanza escatologica quindi non sarà più limitata a un solo popolo, ma si estenderà a tutta l’umanità. Dalla magnificenza dei cibi serviti nel banchetto, si può comprendere l’importanza decisiva nella storia della salvezza.
Nel corso del banchetto il Signore indica ai convitati, sotto forma di doni simbolici, gli scopi che intende perseguire. Anzitutto Dio “strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni”.
Sul monte avviene dunque una nuova rivelazione, analoga a quella avvenuta sul Sinai.. Poi” Eliminerà la morte per sempre” Secondo la Genesi la morte era stata la prima conseguenza del peccato di Adamo (V.Gen 3,19), . non si tratta però semplicemente della morte fisica, ma della lontananza da Dio che la morte fisica simboleggia. Oltre a cancellare per sempre la morte, “Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto” Anche la sofferenza sia fisica che morale fa parte della triste relazione tra peccato e morte, per questo nel banchetto finale anch’essa verrà eliminata per sempre. (L’Apocalisse al cap. 21 ne farà riferimento nel v.4 “E tergerà ogni lacrima dai loro occhi;non ci sarà più la morte),
Infine “l’ignominia del suo popolo farà scomparire da tutta la terra, poiché il Signore ha parlato”.
Alla promessa fatta da Dio per mezzo del profeta, il popolo reagisce con un piccolo inno di lode che verrà pronunziato quando le promesse si saranno realizzate: “Ecco il nostro Dio;in lui abbiamo sperato perché ci salvasse. Questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,”
In questa preghiera predomina la speranza in una salvezza che può venire solo dal Signore. Il popolo esprime la sua fede nella parola di DIO e aspetta solo da Lui l’eliminazioni di quei mali che gli impediscono di godere fino in fondo della Sua comunione.
Il testo termina con queste parole: “poiché la mano del Signore si poserà su questo monte”.
La “mano del Signore” rappresenta la Sua potenza che gli permette di intervenire in modo straordinario ed efficace nella storia e negli eventi di questo mondo. Ma questa potenza non si esercita più nella guerra contro i Suoi nemici, bensì nella riconciliazione di tutte le nazioni con Lui e tra di loro.

Salmo 22 Abiterò per sempre nella casa del Signore.

Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce..
Rinfranca l’anima mia.

Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.

L’orante ha fatto l’esperienza di come il Signore lo guidi in mezzo a numerose difficoltà tesegli dai nemici. Egli dichiara che non manca di nulla perché Dio in tutto l’aiuta. Le premure del suo Pastore sono continue e si sente curato come un pastore cura il suo gregge conducendolo a pascoli erbosi e ad acque tranquille. L’orante riconosce che tutto ciò viene dalla misericordia di Dio, che agisce “a motivo del suo nome”, ma egli corrisponde con amore all’iniziativa di Dio nei suoi confronti. La consapevolezza che Dio lo ama per primo gli dà una grande fiducia in lui, cosicché se dovesse camminare nel buio notturno di una profonda valle non temerebbe le incursioni di briganti o persecutori, piombanti dall’alto su di lui. La valle oscura è poi simbolo di ogni situazione difficile nella quale tutto sembra avverso. Dio, buon Pastore, lo difende con il suo bastone e lo guida dolcemente con il suo vincastro, che è quella piccola bacchetta con cui i pastori indirizzano il gregge con piccoli colpetti. Non solo lo guida in mezzo alle peripezie, ma anche gli dona accoglienza, proprio davanti ai suoi nemici, i quali pensano di averlo ridotto ad essere solo uno sconvolto e disperato fuggiasco. Egli, al contrario, è uno stabile ospite del Signore che gli prepara una mensa e gli unge il capo con olio per rendere lucenti i suoi capelli e quindi rendere bello e fresco il suo aspetto. E il calice che ha davanti è traboccante, ma non perché è pieno fino all’orlo, ma perché è traboccante d'amore. Quel calice di letizia è nel sensus plenior del salmo il calice del sangue di Cristo, mentre la mensa è la tavola Eucaristica, e l’olio è il vigore comunicato dallo Spirito Santo.
Il cristiano abita nella casa del Signore, l’edificio chiesa, dove c’è la mensa Eucaristica. Quella casa, giuridicamente, è della Diocesi, della Curia, ma è innanzi tutto del Signore, e quindi egli, per dono del Signore, vi è perenne legittimo abitante.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Filippesi
Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.
Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.
Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Fil 4,12-14.19-20

Paolo, quando scrisse la lettera ai Filippesi era prigioniero probabilmente a Efeso ed è durante questo circostanza che riceve la visita di Epafrodito (Fil 2,25) il quale, oltre a prestargli la sua assistenza, gli aveva portato un aiuto in denaro da parte dei cristiani di Filippi (4,18).
Nella parte precedente questo brano, (vv. 10-14), Paolo manifesta la sua gratitudine per gli aiuti ricevuti perché vede in essi una nuova manifestazione dei sentimenti che i filippesi hanno per lui. Per quanto lo riguarda, egli non ha una necessità urgente dei loro aiuti, e all’inizio di questo brano manifesta la sua autonomia con queste parole: “so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza”. I tre abbinamenti di concetti contrapposti, povertà e ricchezza, sazietà e fame, abbondanza e indigenza, indicano gli estremi di tutta una serie di esperienze, positive e negative, considerate di secondaria importanza che Paolo ha saputo affrontare facendo ricorso al concetto stoico di “autocontrollo”, che consiste nella capacità di accontentarsi del necessario e di sapersene procurare quanto è sufficiente per vivere, mantenendo uno stato d’animo sereno e tranquillo.
Egli però aggiunge: “Tutto posso in colui che mi dà la forza”. Diversamente dai filosofi, Paolo basa la sua serenità, non su qualità dell’anima acquisita mediante un lungo esercizio, ma sulla fiducia in Dio che gli dà la forza di accettare con coraggio ogni situazione, positiva o negativa, che la vita apostolica presenta.
Dopo aver sottolineato questo suo atteggiamento interiore, egli ritorna al concetto iniziale:
“Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni”. Gli aiuti dei filippesi gli sono graditi nella misura in cui sono un segno di partecipazione alle sofferenze che egli sopporta per il vangelo
Nei versetti non riportati dal brano (vv. 15-20). Paolo ricorda il contributo che i filippesi gli hanno dato in diverse occasioni: quando, dopo aver evangelizzato Filippi, aveva lasciato la Macedonia, solo loro lo avevano aiutato finanziariamente, e quando si trovava a Tessalonica gli avevano inviato per due volte il necessario. Per evitare equivoci, l’apostolo soggiunge, che non è il loro dono che ricerca, “ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio”.
Adesso poi ha ricevuto mediante Epafrodito i loro doni, che considera come “un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio”, e di conseguenza ha il necessario e anche il superfluo (vv. 15-18). Ciò significa che il dono ricevuto non è stato fatto direttamente a lui, ma a Dio stesso.
Nei versetti finali, riportati dal brano liturgico, Paolo aggiunge che al dono dei filippesi corrisponderà un ulteriore dono da parte di Dio a loro vantaggio: “Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù”. Aiutando Paolo essi in realtà hanno offerto un sacrificio a Dio, quindi si sono messi nella condizione di ricevere da parte sua per mezzo di Cristo doni ancora più grandi, di carattere sia spirituale che materiale. Dio è infinitamente più generoso degli uomini!.
Il brano termina con l’invocazione:”Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen”. Sia il dono fatto a Paolo, sia gli ulteriori doni che i filippesi riceveranno, tutto deve servire alla gloria di Dio Padre.
In sintesi, Paolo anche se non dimostra di essere troppo contento per gli aiuti finanziari, apprezza non tanto l’aspetto materiale del dono, quanto piuttosto il sentimento che lo ha provocato. Per lui gli aiuti che gli sono pervenuti sono anzitutto un’offerta sacrificale fatta a Dio, e solo secondariamente un servizio alla sua persona. Il fatto di averglieli mandati, in un momento in cui egli soffre per il vangelo, significa aver capito l’importanza dell’annunzio e il desiderio di collaborare con lui in questa opera.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:
«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.
Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. ]
Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Mt 22,1-14

In questo brano del Vangelo di Matteo troviamo ancora Gesù che continua a parlare alla gente in parabole. Aveva terminato di esporre la parabola dei vignaioli omicidi e per essere ancora più esplicito ora racconta una splendida parabola la cui scena ha come sfondo un solenne banchetto nuziale. Si tratta in realtà di due parabole collegate tra loro: la prima è quella degli invitati alla grande cena, (riferita anche da Luca) la seconda è presente solo in Matteo e prende lo spunto dalla veste di cerimonia, simbolo della dignità di una persona.
Matteo inizia la parabola dicendo che “Gesù, riprese a parlare con parabole ” Con questa frase egli intende allacciare la nuova parabola alle due precedenti e chi lo ascolta sono sempre i sommi sacerdoti e i farisei (rappresentati dai loro scribi), cioè i due gruppi che, insieme agli anziani, erano membri del sinedrio e formavano l’autorità giudaica.
Il racconto prosegue con l’espressione tipica delle parabole: “Il regno dei cieli è simile a…”e questa volta il termine di paragone è “un re, che fece una festa di nozze per suo figlio”.
Sullo sfondo è chiaro il tema sponsale dell’alleanza, in cui lo sposo non è più Dio stesso, ma Suo figlio, l’erede, mediante il quale si attua il regno di Dio
Quando i preparativi furono completati, il re “mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire”
Si può suppone che gli invitati fossero persone che erano state avvertite per tempo e avevano accettato l’invito, ma all’ultimo momento si tirano indietro. Proprio loro, i primi, i privilegiati , rispondono con indifferenza, con fastidio, persino con ostilità e disprezzo.
Non conoscendo il motivo del loro rifiuto il re insiste e manda agli stessi invitati altri servi con questo messaggio: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”.
Ma anche questa volta “quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.”
La ripetizione dell’invito sottolinea la sollecitudine del re, ma anche la determinazione degli invitati a rifiutare. Questa volta al rifiuto si unisce oltre all’insulto anche l’uccisione degli inviati per un motivo umanamente non comprensibile, ma per Matteo rappresenta la persecuzione fatta prima dei profeti, poi del Messia e dei primi cristiani da parte del popolo giudaico (Mt 5,11; 21,35-39).
Il racconto prosegue riportando l’indignazione del re che “mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”. Questo particolare appare piuttosto inverosimile in quanto lascia intendere che, mentre il banchetto è pronto, il re fa una guerra, ovviamente non breve, per punire quelli che avevano rifiutato, e poi va in cerca di altri invitati.
Si tratta dunque evidentemente di un dettaglio allegorico, aggiunto da Matteo, con l’intenzione di inserire l’evento della guerra giudaica e della distruzione di Gerusalemme da parte dei romani nel 70 d.C., considerata come il castigo inflitto da Dio al Suo popolo per aver rifiutato il dono della salvezza.
Dopo la parentesi della punizione dei primi invitati, il racconto riprende con un nuovo invio dei servi. Avendo constatato che il banchetto nuziale era ormai pronto, ma gli invitati non ne erano degni, il re manda i servi ai crocicchi delle strade con l’ordine di invitare alle nozze tutti quelli che avessero trovati.
I servi fanno come era stato loro ordinato e “radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali”.
Prima di arrivare all’epilogo del racconto si può dedurre che chiunque arrivi alla soglia della salaa del banchetto riceva un abito di festa donato gratuitamente, per indicare di aver accettato liberamente l’invito del re. Anche l’abito nuziale basta accoglierlo e indossarlo, non va meritato né comprato. C’è però ancora chi si oppone: non accetta quel dono, non vuole quell’abito, non lo indossa e nello stesso tempo entra al banchetto ! Eppure il re, regalando quel vestito, chiede solo a chi entra di essere in tenuta di festa, di essere pulito e ordinato, di dare un segno di miglioramento …
A questo punto possiamo leggere la finale del racconto: “Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. …Il linguaggio della parabola, dai tratti tipicamente orientali, ora si fa duro, persino crudele “Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti»“. Si tratta però di immagini che servono ad esprimere una realtà fondamentale: nell’ultimo giorno ci sarà un giudizio decisivo, che verterà sull’aver accettato o rifiutato il dono di Dio. Dio ci dona la vita, mai la morte definitiva: quest’ultima, la seconda morte (Ap. 21,8), con le sue conseguenze la scegliamo noi. E Dio, che rispetta fino in fondo la nostra libertà, con sofferenza ci lascia fare, e così ci vede vagare lontano da sé e preferire la prigione alla libertà, la distruzione alla vita vissuta in pienezza.


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Le parole di Papa Francesco

“La parabola che abbiamo ascoltato ci parla del Regno di Dio come di una festa di nozze.
Protagonista è il figlio del re, lo sposo, nel quale è facile intravedere Gesù. Nella parabola, però, non si parla mai della sposa, ma dei molti invitati, desiderati e attesi: sono loro a vestire l’abito nuziale. Quegli invitati siamo noi, tutti noi, perché con ognuno di noi il Signore desidera “celebrare le nozze”. Le nozze inaugurano la comunione di tutta la vita: è quanto Dio desidera con ciascuno di noi. Il nostro rapporto con Lui, allora, non può essere solo quello dei sudditi devoti col re, dei servi fedeli col padrone o degli scolari diligenti col maestro, ma è anzitutto quello della sposa amata con lo sposo. In altre parole, il Signore ci desidera, ci cerca e ci invita, e non si accontenta che noi adempiamo i buoni doveri e osserviamo le sue leggi, ma vuole con noi una vera e propria comunione di vita, un rapporto fatto di dialogo, fiducia e perdono.
Questa è la vita cristiana, una storia d’amore con Dio, dove il Signore prende gratuitamente l’iniziativa e dove nessuno di noi può vantare l’esclusiva dell’invito: nessuno è privilegiato rispetto agli altri, ma ciascuno è privilegiato davanti a Dio. Da questo amore gratuito, tenero e privilegiato nasce e rinasce sempre la vita cristiana. Possiamo chiederci se, almeno una volta al giorno, confessiamo al Signore il nostro amore per Lui; se ci ricordiamo, fra tante parole, di dirgli ogni giorno: “Ti amo Signore. Tu sei la mia vita”. Perché, se si smarrisce l’amore, la vita cristiana diventa sterile, diventa un corpo senz’anima, una morale impossibile, un insieme di princìpi e leggi da far quadrare senza un perché. Invece il Dio della vita attende una risposta di vita, il Signore dell’amore aspetta una risposta d’amore. Rivolgendosi a una Chiesa, nel Libro dell’Apocalisse, Egli fa un rimprovero preciso: «Hai abbandonato il tuo primo amore» (2,4). Ecco il pericolo: una vita cristiana di routine, dove ci si accontenta della “normalità”, senza slancio, senza entusiasmo, e con la memoria corta. Ravviviamo invece la memoria del primo amore: siamo gli amati, gli invitati a nozze, e la nostra vita è un dono, perché ogni giorno è la magnifica opportunità di rispondere all’invito.
Ma il Vangelo ci mette in guardia: l’invito però può essere rifiutato. Molti invitati hanno detto no, perché erano presi dai loro interessi: «non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari», dice il testo . Una parola ritorna: proprio; è la chiave per capire il motivo del rifiuto. Gli invitati, infatti, non pensavano che le nozze fossero tristi o noiose, ma semplicemente «non se ne curarono»: erano distolti dai loro interessi, preferivano avere qualcosa piuttosto che mettersi in gioco, come l’amore richiede. Ecco come si prendono le distanze dall’amore, non per cattiveria, ma perché si preferisce il proprio: le sicurezze, l’auto-affermazione, le comodità... Allora ci si sdraia sulle poltrone dei guadagni, dei piaceri, di qualche hobby che fa stare un po’ allegri, ma così si invecchia presto e male, perché si invecchia dentro: quando il cuore non si dilata, si chiude, invecchia. E quando tutto dipende dall’io – da quello che mi va, da quello che mi serve, da quello che voglio – si diventa pure rigidi e cattivi, si reagisce in malo modo per nulla, come gli invitati del Vangelo, che arrivarono a insultare e perfino uccidere (cfr v. 6) quanti portavano l’invito, soltanto perché li scomodavano.
Allora il Vangelo ci chiede da che parte stare: dalla parte dell’io o dalla parte di Dio? Perché Dio è il contrario dell’egoismo, dell’autoreferenzialità. Egli – ci dice il Vangelo –, davanti ai continui rifiuti che riceve, davanti alle chiusure nei riguardi dei suoi inviti, va avanti, non rimanda la festa. Non si rassegna, ma continua a invitare. Di fronte ai “no”, non sbatte la porta, ma include ancora di più. Dio, di fronte alle ingiustizie subite, risponde con un amore più grande. Noi, quando siamo feriti da torti e rifiuti, spesso coviamo insoddisfazione e rancore. Dio, mentre soffre per i nostri “no”, continua invece a rilanciare, va avanti a preparare il bene anche per chi fa il male. Perché così è l’amore, fa l’amore; perché solo così si vince il male. Oggi questo Dio, che non perde mai la speranza, ci coinvolge a fare come Lui, a vivere secondo l’amore vero, a superare la rassegnazione e i capricci del nostro io permaloso e pigro.
C’è un ultimo aspetto che il Vangelo sottolinea: l’abito degli invitati, che è indispensabile. Non basta infatti rispondere una volta all’invito, dire “sì” e basta, ma occorre vestire l’abito, occorre l’abitudine a vivere l’amore ogni giorno. Perché non si può dire: “Signore, Signore” senza vivere e mettere in pratica la volontà di Dio (cfr Mt 7,21). Abbiamo bisogno di rivestirci ogni giorno del suo amore, di rinnovare ogni giorno la scelta di Dio.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia del 15 ottobre 2017

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
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