Con nota del 17 giugno u.s. dell’E.V. sono state rappresentate una serie di questioni relative al possibile superamento di alcune delle disposizioni contenute nel Protocollo in oggetto.
In particolare, sono state avanzate le richieste in ordine al “derogare all’obbligo dei guanti al momento della distribuzione della Comunione” ed alla “obbligatorietà della mascherina, riguardo alla celebrazione dei matrimoni” per gli sposi.
A seguito della richiesta pervenuta da parte della E.V., questo Dipartimento ha quindi sottoposto all’attenzione del CTS i quesiti sopra citati.
Nella riunione del 23 giugno u.s., il Comitato ha preso in esame la questione e nello stralcio del verbale n. 91, che ad ogni buon fine si allega, viene rappresentato quanto segue:
“Anche sulla base degli attuali indici epidemiologici, il CTS raccomanda che l’officiante, al termine della fase relativa alla consacrazione delle ostie, dopo aver partecipato l’Eucarestia ma prima della distribuzione delle ostie consacrate ai fedeli, proceda ad una scrupolosa detersione delle proprie mani con soluzioni idroalcoliche. Il CTS raccomanda altresì che, in assenza di dispositivi di distribuzione, le ostie dovranno essere depositate nelle mani dei fedeli evitando qualsiasi contatto tra le mani dell’officiante e le mani dei fedeli medesimi. In caso di contatto, dovrà essere ripetuta la procedura di detersione delle mani dell’officiante prima di riprendere la distribuzione della Comunione. Il CTS ritiene auspicabile che la medesima procedura di detersione delle mani venga osservata anche dai fedeli prima di ricevere l’ostia consacrata. Rimane la raccomandazione di evitare la distribuzione delle ostie consacrate portate dall’officiante direttamente alla bocca dei fedeli”.
Quanto alla ulteriore questione posta da codesta Conferenza episcopale, “in relazione al quesito concernente l’obbligatorietà dell’uso dei dispositivi di protezione delle vie aeree da parte degli sposi durante le ‘celebrazioni dei matrimoni, il CTS osserva che, non potendo certamente essere considerati estranei tra loro, i coniugi possano evitare di indossare le mascherine, con l’accortezza che l’officiante mantenga l’uso del dispositivo di protezione delle vie respiratorie e rispetti il distanziamento fisico di almeno i metro. Il CTS ritiene che tale raccomandazione possa estendersi anche alla celebrazione del matrimonio secondo il rito civile o secondo le liturgie delle altre confessioni religiose”.
Di tanto, si trasmette all’E.V. perché siano scrupolosamente osservate le prescrizioni sopra riportate.
La nota del Ministero dell'Interno
Grazie a Cei
Le letture liturgiche di questa domenica ci presentano due temi: le condizioni di seguire Gesù, e il tema dell’accoglienza e dell’ospitalità.
Nella prima lettura, tratta dal II libro dei Re, ci viene narrata una storia edificante che dimostra come l’ospitalità data ad un inviato del Signore, è una benedizione. La donna sunammita riceve il profeta Eliseo perchè riconosce in lui un uomo di Dio e Dio la benedice dimostrandosi donatore di vita.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S. Paolo ai Romani, l’apostolo basandosi sul rito del battesimo spiega il suo significato sacramentale. Ora se il segno sacramentale è segno efficace , le conseguenze pratiche sono inevitabili. Fondato su questa fede il cristiano deve considerarsi come Cristo morto al peccato una volta per sempre, per vivere per Dio , in Cristo, cioè come figlio di Dio.
Nel brano tratto dal Vangelo secondo Matteo, leggiamo che non si può anteporre niente e nessuno a Gesù e chi non prende la propria croce e non lo segue, non è degno di Lui.. Deve entrare nel nostro cuore il concetto che l’amore per Gesù non esclude gli altri amori, ma nella totale appartenenza a Lui, che è il compendio di ogni amore, potremo fare ordine nella nostra vita ed amare nel giusto amore tutti i nostri cari: genitori, coniugi,figli, parenti,amici, tutti coloro che possiamo avvicinare.
Dal secondo libro dei Re
Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era un’illustre donna, che lo trattenne a mangiare. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei.Ella disse al marito: «Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare».
Un giorno che passò di lì, si ritirò nella stanza superiore e si coricò.
Egli disse a Giezi, suo servo: «Chiama questa Sunammita». La chiamò e lei si presentò a lui. Eliseo (disse a Giezi, suo servo) «Che cosa si può fare per lei?». Giezi disse: «Purtroppo lei non ha un figlio e suo marito è vecchio».
Eliseo disse:«Chiamala!». La chiamò; ella si fermò sulla porta. Allora disse: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia».
2Re 4,8-11.14-16
Il Secondo libro dei Re, insieme al primo, in origine formavano un unico libro. Entrambi fanno parte dei Libri storici per il canone cristiano e dei cosiddetti “profeti anteriori‘” per il canone ebraico. E’ stato composto, secondo alcuni studiosi, intorno al VI secolo a.C. dallo stesso autore che ha scritto il libro del Deuteronomio; per questo lo si definisce autore ''Deuteronomista'‘. Per ricostruire le vicende dei due regni di Israele, egli attinge a materiali d'archivio, alle tradizioni orali e alla memoria storica del suo popolo. Una delle caratteristiche dell'autore è il continuo ricorso a formule fisse per delineare i regni dei vari sovrani e in particolare, il secondo libro dei Re, descrive la vicenda del popolo ebraico dal IX al VI secolo a.C., cioè dalla fine del regno di Acazia (circa 852 a.C.) fino alla distruzione del regno di Giuda nel 587 a.C..
Le vicende di Elia e di Eliseo sono narrate in due cicli che occupano la parte centrale dei due libri dei Re (1Re 17-22; 2Re 1-17). Eliseo, il quale operò sotto i re Ioram (852-841), Ieu (841-814), Ioacaz (814-798), Ioas (798-783), è protagonista di numerosi racconti popolari spesso interrotti da riferimenti alle vicende politiche. Il suo ciclo si apre con il rapimento di Elia in cielo, del quale egli è l’unico testimone (2Re 2,1-8). Divenuto così erede spirituale del suo maestro, Eliseo compie alcuni miracoli di carattere umanitario.
Il brano liturgico ci presenta Eliseo che viene invitato insistentemente da una donna sunammita benestante a fermarsi presso di lei. Egli accetta e, siccome il fatto si ripete, la donna, rendendosi conto che Eliseo è un uomo di Dio, chiede al marito: “Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare”.
In un’epoca in cui la gente comune dormiva, si sedeva e mangiava per terra, questi oggetti sono chiaramente segni di agiatezza. Eliseo accetta di buon grado questa generosa ospitalità, ma sente anche il desiderio di ricompensare la donna per quanto aveva fatto per lui. Nei versetti non riportati dalla liturgia, sappiamo che egli la fa chiamare e, quando essa si trova davanti a lui, le fa chiedere da Giezi che cosa può fare per lei, ma la donna risponde che non ha bisogno di nulla, perché ha la fortuna di abitare in mezzo al suo popolo.
Eliseo si consulta allora con Giezi, il quale lo informa che la donna non ha figli e suo marito è vecchio. Allora Eliseo la fa nuovamente chiamare e le promette: “L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia”.
Il racconto mette in luce il potere di Eliseo, il quale dimostrerà di avere da Dio il potere non solo di far avere un figlio a una donna sterile, ma anche di risuscitarlo quando morirà. (cfr 2Re 4,17)
Il racconto dell’incontro di Eliseo con la Sunammita presenta aspetti molto importanti. Il primo è quello dell’ospitalità da parte della donna, la quale accoglie spontaneamente Eliseo nella sua casa in quanto uomo di Dio, e gli dà ospitalità senza aspettarsi nulla in cambio.
Anche quando il profeta si dice disposto a ricambiare la sua generosità, lei non chiede nulla per sé: le basta il privilegio di stare in mezzo al suo popolo. Questa figura di donna è un esempio di generosità, determinata unicamente dalla fede nel Dio al cui servizio si trova Eliseo.
Proprio in quanto uomo di Dio, Eliseo appare molto distaccato nei confronti delle persone e delle cose che lo circondano.
Egli non conosce nulla della situazione della donna e ha bisogno di essere informato dal suo servo, e quando la chiama per parlarle, la fa persino restare sulla porta della stanza. In nulla egli permette ai suoi sentimenti di prevalere e non è disposto a familiarizzare con lei, nonostante la generosità dimostrata nei suoi confronti. Egli è tutto dedito unicamente alla sua missione, tuttavia non è insensibile alle attenzioni della donna e le è grato profondamente, tanto che per ricambiare in qualche modo i favori ricevuti sarebbe disposto a procurarle dei benefici materiali. Quando poi viene a sapere che non ha figli, capisce subito che per lei poterne avere uno è la cosa più importante e quasi istintivamente mette in azione i suoi poteri profetici promettendole la nascita di un figlio.
La storia di Eliseo e della Sunammita accenna in modo rilevante le caratteristiche del profeta, ne lascia intendere i limiti e mette in luce i poteri che gli sono conferiti. Ma più ancora rivela la devozione popolare nei confronti dell’uomo di Dio e mostra come proprio attraverso il contatto con uomini che hanno dedicato tutta la loro vita al rapporto con Dio si apre anche per la gente comune la possibilità di avere accesso a una autentica esperienza religiosa.
Salmo 88/89 - Canterò per sempre l’amore del Signore
Canterò in eterno l’amore del Signore,
di generazione in generazione
farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà,
perché ho detto: «È un amore edificato per sempre;
nel cielo rendi stabile la tua fedeltà».
Beato il popolo che ti sa acclamare:
camminerà, Signore, alla luce del tuo volto;
esulta tutto il giorno nel tuo nome,
si esalta nella tua
Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.
Perché tu sei lo splendore della sua forza
e con il tuo favore innalzi la nostra fronte.
19 Perché del Signore è il nostro scudo,
il nostro re, del Santo d’Israele
Il salmo probabilmente è il frutto di più autori, tuttavia non va affatto smembrato, poiché rivela una “unità orante”. Il salmo cosi come si presenta pone come autore un re vilipeso, che va ricercato in Ioacaz (2Re 23,33-34). Il fatto che il salmo presenti una totalità di mura abbattute e di fortezze diroccate, impone di pensare ad una sequenza di rovesci militari subiti da Israele, certamente dalle armate assire ed Egiziane (2Re 18,13, 23,33).
Il salmo esordisce facendo memoria delle promesse di Dio a Davide e alla sua discendenza (2Sam 7,8s), prosegue poi inneggiando alla potenza di Dio, quindi, con estensione, ritorna sulle promesse fatte a Davide; infine manifesta lo sconcerto di fronte alla catastrofe che si è abbattuta su Israele nonostante tutte le promesse di stabilità riguardanti la discendenza di Davide.
Il salmista sottolinea lo scarto infinito tra Dio e gli dei concepiti dai pagani: “Chi sulle nubi è uguale al Signore”; come pure sottolinea la distanza infinita tra lui e la sua corte celeste: “Chi è simile al Signore tra i figli degli dei?”. Non manca poi il salmista di affermare l'unicità di Dio: “Tuoi sono i cieli, tua è la terra, tu hai fondato il mondo e quanto contiene”. D'obbligo poi la menzione della vittoria di Dio su Raab (nome di un mostro mitico personificante il caos primordiale), cioè sull'Egitto: “Tu hai ferito e calpestato Raab”.
Il “consacrato”, cioè il re, è stato ripudiato da Dio: “Ti sei adirato contro il tuo consacrato; hai infranto l'alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona”. Egli è ricoperto di ingiurie mentre dal faraone Necao, suo vincitore, è condotto prima a Ribla e poi in Egitto: “I tuoi nemici insultano, insultano i passi del tuo consacrato”.
Il re, che ha visto le mura della reggia abbattute, come pure le sue fortezze, è nella più acuta sofferenza e domanda a Dio fin quando tutto questo continuerà: “Fino a quando, Signore, ti terrai nascosto: per sempre? Arderà come fuoco la tua collera?”. Afflitto, chiede a Dio di ricordarsi che la sua vita è breve e che forse non potrà vedere neppure giorni di pace, e lo interroga sul perché ha creato l'uomo, visto che a volte sembra che non ci sia disegno di pace per lui: “invano forse hai creato ogni uomo?”. L'uomo è ben poca cosa, eppure Dio dispone che debba sopportare lungamente pene e disagi prima di ridargli giorni di pace e di gioia. Al salmista pare che Dio abbia delle lentezze nell'intervenire, visto anche che i tempi di Dio sorpassano spesso i brevi anni di un uomo: “Chi è l'uomo che vive e non vede la morte? Chi potrà sfuggire alla mano degli inferi?".
Ma certo il salmista non rimane fermo a questo - le lentezze di Dio, infatti, sono unicamente causate dalle lentezze degli uomini nel ritornare a lui -, poiché conclude il suo salmo benedicendo Dio: “Benedetto il Signore in eterno. Amen, amen”.
Commento “ di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?
Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.
Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo
che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui.
Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio.
Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in
Cristo Gesù.
Rm 6,3-4.8-11
Nei primi 5 capitoli della sua lettera ai Romani, S.Paolo ha portato molte argomentazioni sulla dottrina della giustificazione per mezzo della fede, ed ha delineato i problemi più importanti:
se questo è il piano di Dio, perché il popolo eletto non ha accettato il vangelo? L’abbandono della legge non rischia di aumentare il peccato? Per allontanarsi dal peccato e ottenere una nuova vita è sufficiente aderire a Cristo? Investire tutto sulla fede piuttosto che sulle opere non significa mettere in pericolo
la possibilità stessa di essere fedeli a Dio?
Paolo affronta questo problema a partire dall’esperienza del battesimo, nel quale egli vede una svolta radicale. La morte al peccato richiama alla mente di Paolo il segno battesimale, al quale si riferisce con la domanda che troviamo all’inizio del brano: “Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?”
Agli inizi del cristianesimo i neofiti venivano battezzati per immersione, come dice il verbo stesso (battezzare = immergere). Il battesimo era conferito ”nel nome di Gesù Cristo” (At 2,38) perché ricevendolo il credente entra in un profondo rapporto di comunione con Lui. Ciò avviene in quanto, ricevendo il battesimo, egli è stato immerso “nella sua morte”, cioè è stato coinvolto in un’intima partecipazione al dono supremo di sé che Egli ha compiuto sulla croce. Il fatto che il verbo sia all’aoristo (dal greco ἀόριστος χρόνος "tempo indefinito") significa che questo evento, capitato nel passato, è definitivo e irrevocabile. L’apostolo sviluppa questa immagine affermando che, “Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte “anche qui l’uso dell’aoristo significa che si tratta di un gesto che ha creato una situazione irreversibile. Ciò è avvenuto “affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova”.
L’Apostolo interpreta quindi il rito battesimale, in forza del quale il neofita si immerge nell’acqua e poi ne esce, come un morire e risuscitare con Cristo. La risurrezione di Gesù, e di conseguenza anche la vita nuova del credente, vengono viste come una manifestazione speciale della potenza di Dio Padre.
Nei successivi vv. 5-7 non riportati dal brano, Paolo approfondisce queste riflessioni osservando come i credenti siano “completamente uniti a Cristo”,un po’ come un ramo che viene innestato in un altro e cresce fino a formare con esso un’unica cosa; questa compartecipazione avviene “a somiglianza della sua morte”, in quanto la Sua morte in croce diventa il modello a cui essi devono ispirare la loro vita
. Di conseguenza anch’essi riceveranno un giorno una risurrezione simile alla sua; il loro “uomo vecchio”, è stato crocifisso con Lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, ossia scomparisse tutto ciò che aveva a che fare con il peccato “Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato” (Rm, 6,7) . L’uso del verbo al perfetto significa che il battesimo, una volta ricevuto, conferisce una liberazione dal peccato i cui effetti si fanno sentire durante tutta la vita.
Nella seconda parte del brano Paolo approfondisce ulteriormente il significato del battesimo, sottolineando però questa volta l’impegno che esso richiede da parte del credente.
Egli afferma “Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui!”, Egli riprende qui quanto aveva affermato, ponendo però l’accento sul fatto che il credente parteciperà un giorno pienamente a quella vita che non avrà mai fine e che Cristo ha acquistato con la Sua morte e risurrezione.
A questo punto l’Apostolo approfondisce il significato della risurrezione di Cristo. “Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui”. egli infatti “morì per il peccato una volta per tutte” e di conseguenza ora “vive per Dio”.
La vittoria sul peccato (che però Cristo, diversamente dal cristiano, non ha mai sperimentato in se stesso), consiste nel rifiuto di “vivere per sé”, e di conseguenza apre la strada alla vita piena, che consiste nel “vivere per Dio”.
Dopo questa precisazione sulla vita di Cristo risorto, il discorso di Paolo passa all’esortazione: “anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù”
È chiaro che per l’uomo “morire con Cristo” significa sostanzialmente lasciarsi coinvolgere, mediante la fede, nell’amore che Egli ha dimostrato morendo sulla croce, al punto tale da accettare liberamente ed anche gioiosamente la propria morte fisica, quando e come essa si verificherà.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse: Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.
Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa.
Mt 10,30-42
Continua il discorso missionario con cui Gesù invia in missione i dodici apostoli. Dopo le raccomandazioni che il brano liturgico non riporta riguardanti le discordie che vi possono essere in famiglia a causa dell'adesione alla fede, il discorso continua sul tema dei legami famigliari e sul dono della vita
“Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me”; Quanto detto si riallaccia ai versetti precedenti in cui Gesù diceva di essere venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera (vv35-36). Non si tratta qui di fare una graduatoria di chi amare per prima, ma dell’adesione personale a Cristo e della totale appartenenza a Lui, che è il compendio di ogni amore. E’ amando Lui per primo che potremo amare nel giusto amore tutti i nostri cari: genitori, coniugi,figli, parenti,amici, tutti coloro che possiamo avvicinare.
Gesù prosegue affermando: “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me”.
Questa è la prima volta che nel testo evangelico compare la parola croce che ricomparirà in Mt 16,24, in un detto simile a questo e poi ovviamente nella scena della crocifissione. Il supplizio della crocifissione era ben nota ai Giudei dei tempi di Gesù, ma la croce che il discepolo è chiamato a prendere su di sé non è certo quella di Gesù, ma la propria. Ognuno nella propria vita ha la sua croce, cioè le sue sofferenze e rinunce, che il più delle volte non implicano la morte fisica, ma il dono di sé nel servizio degli altri.
“Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”.
Questo detto sul perdere la propria vita per trovarla è il più citato di tutti i detti di Gesù, lo ritroviamo sei volte in tutti e quattro i vangeli. Senza dubbio è quello cha caratterizza meglio di ogni altro il suo insegnamento. La sequela di Gesù comporta che il discepolo perda e ritrovi la propria vita e questo non indica che si debba desiderare una morte prematura per conseguire un’eternità beata, ma una radicale trasformazione del senso della propria vita. Seguendo Gesù, il discepolo impara a staccarsi da una vita proiettata su se stesso per mettere al centro il Regno di Dio e i rapporti nuovi che esso implica.
“Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”.
Il discorso ora si sposta sull'accoglienza che spetta all'inviato e sul risultato positivo della missione. Fino ad ora si sono elencate soprattutto le difficoltà, le persecuzioni, le divisioni familiari, ora l'accento è posto sulla ricompensa dovuta a chi "accoglie“. L'inviato del Signore deve essere accolto perché è Gesù che lo manda, quindi è come se si accogliesse Lui stesso. Ma chi accoglie Gesù, accoglie il Padre che l'ha mandato.
“Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto”.
Quindi l'accoglienza avrà la sua ricompensa proporzionata al valore di colui che è stato accolto.
La ricompensa del profeta non è tanto quella che riceverà un profeta, ma quella che ci si spetta da un profeta (cf. 2 Re 4,13: Eliseo ottiene da Dio che la sua ospite abbia il figlio che tanto desiderava).
“Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.
Colpisce come anche il semplice dare un “bicchiere d’acqua” diventa un atto prezioso degno della “ricompensa” divina. Secondo la tradizione durante le feste ebraiche, la porta di ogni casa doveva restare socchiusa. Infatti se il Messia avesse deciso di venire, l’avrebbe trovata aperta e si sarebbe seduto a mensa con quella famiglia fortunata. Ma se non fosse venuto il Messia, i poveri che vagano per le strade anche nei giorni di festa avrebbero potuto varcare quella soglia prendendo parte alla comune allegria. E sarebbe stato come accogliere il Messia, nascosto nella loro sofferenza.
*****
“L’odierna liturgia ci presenta le ultime battute del discorso missionario del capitolo 10 del Vangelo di Matteo, con il quale Gesù istruisce i dodici apostoli nel momento in cui per la prima volta li invia in missione nei villaggi della Galilea e della Giudea.
In questa parte finale Gesù sottolinea due aspetti essenziali per la vita del discepolo missionario: il primo, che il suo legame con Gesù è più forte di qualunque altro legame; il secondo, che il missionario non porta sé stesso, ma Gesù, e mediante Lui l’amore del Padre celeste. Questi due aspetti sono connessi, perché più Gesù è al centro del cuore e della vita del discepolo, più questo discepolo è “trasparente” alla sua presenza. Vanno insieme, tutti e due.
«Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me…», dice Gesù. L’affetto di un padre, la tenerezza di una madre, la dolce amicizia tra fratelli e sorelle, tutto questo, pur essendo molto buono e legittimo, non può essere anteposto a Cristo. Non perché Egli ci voglia senza cuore e privi di riconoscenza, anzi, al contrario, ma perché la condizione del discepolo esige un rapporto prioritario col maestro. Qualsiasi discepolo, sia un laico, una laica, un sacerdote, un vescovo: il rapporto prioritario. Forse la prima domanda che dobbiamo fare a un cristiano è: “Ma tu ti incontri con Gesù? Tu preghi Gesù?”. Il rapporto. Si potrebbe quasi parafrasare il Libro della Genesi: Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a Gesù Cristo e i due saranno una sola cosa (cfr Gen 2,24).
Chi si lascia attrarre in questo vincolo di amore e di vita con il Signore Gesù, diventa un suo rappresentante, un suo “ambasciatore”, soprattutto con il modo di essere, di vivere. Al punto che Gesù stesso, inviando i discepoli in missione, dice loro: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Bisogna che la gente possa percepire che per quel discepolo Gesù è veramente “il Signore”, è veramente il centro della sua vita, il tutto della vita.
Non importa se poi, come ogni persona umana, ha i suoi limiti e anche i suoi sbagli – purché abbia l’umiltà di riconoscerli –; l’importante è che non abbia il cuore doppio - e questo è pericoloso. Io sono cristiano, sono discepolo di Gesù, sono sacerdote, sono vescovo, ma ho il cuore doppio. No, questo non va. Non deve avere il cuore doppio, ma il cuore semplice, unito; che non tenga il piede in due scarpe, ma sia onesto con se stesso e con gli altri. La doppiezza non è cristiana. Per questo Gesù prega il Padre affinché i discepoli non cadano nello spirito del mondo. O sei con Gesù, con lo spirito di Gesù, o sei con lo spirito del mondo.
E qui la nostra esperienza di sacerdoti ci insegna una cosa molto bella, una cosa molto importante: è proprio questa accoglienza del santo popolo fedele di Dio, è proprio quel «bicchiere d’acqua fresca» di cui parla il Signore oggi nel Vangelo, dato con fede affettuosa, che ti aiuta ad essere un buon prete! C’è una reciprocità anche nella missione: se tu lasci tutto per Gesù, la gente riconosce in te il Signore; ma nello stesso tempo ti aiuta a convertirti ogni giorno a Lui, a rinnovarti e purificarti dai compromessi e a superare le tentazioni. Quanto più un sacerdote è vicino al popolo di Dio, tanto più si sentirà prossimo a Gesù, e quanto più un sacerdote è vicino a Gesù, tanto più si sentirà prossimo al popolo di Dio.
La Vergine Maria ha sperimentato in prima persona che cosa significa amare Gesù distaccandosi da sé stessa, dando un nuovo senso ai legami familiari, a partire dalla fede in Lui. Con la sua materna intercessione, ci aiuti ad essere liberi e lieti missionari del Vangelo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 2 luglio 2017
Tv2000, InBlu Radio, Avvenire, Sir, Federazione dei settimanali cattolici e Corallo, d’intesa con la Segreteria generale della Cei, invitano i fedeli, le famiglie e le comunità religiose a ritrovarsi oggi, 24 giugno, alle 21, per recitare insieme il Rosario che verrà trasmesso da Tv2000 (canale 28 e 157 Sky), InBlu Radio, e sulla pagina Facebook della Cei.
La preghiera sarà guidata dall’arcivescovo di Cosenza-Bisignano, mons. Francesco Nolè e avrà luogo dalla cappella della Madonna del Pilerio della cattedrale di Cosenza
Qui il Sussidio in PDF
Grazie a Cei
Le letture liturgiche di questa domenica, ci presentano il tema della persecuzione e della missione profetica
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Geremia, nelle pagine delle sue “confessioni”, il profeta denuncia le insidie dei suoi calunniatori che lo deridono mentre egli mette in guardia il suo popolo dalla sventura: la conquista di Gerusalemme e la deportazione in Babilonia. La fedeltà alla vocazione è per Geremia una conquista quotidiana che conosce dubbi e crisi e che talora pesa come una maledizione, soprattutto quando si sperimenta il silenzio di Dio.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S.Paolo ai Romani, l’apostolo afferma che Cristo è l’uomo nuovo, l’iniziatore di una nuova umanità e fa risaltare questa verità contrapponendo l’opera di Cristo all’opera di Adamo
Nel brano tratto dal Vangelo secondo Matteo, Gesù parla ai suoi discepoli delle sofferenze che dovranno affrontare e lo fa con tale concretezza di particolari che sembra descrivere la Chiesa dei nostri tempi. Il centro dell’annuncio cristiano può portare derisione, persecuzione, tutto ciò comunque non deve stupire i discepoli del Signore, perchè anche i profeti hanno vissuto questo e Gesù stesso è passato attraverso l’incomprensione e la persecuzione.
La fede dei cristiani si fonda sul grande paradosso che anche quando per il mondo si è perdenti, nessuno è mai perduto da Dio.
Dal libro del profeta Geremìa
Sentivo la calunnia di molti:«Terrore all’intorno!Denunciatelo! Sì, lo denunceremo».
Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,ci prenderemo la nostra vendetta».
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,per questo i miei persecutori vacilleranno
e non potranno prevalere;arrossiranno perché non avranno successo,
sarà una vergogna eterna e incancellabile.
Signore degli eserciti, che provi il giusto,che vedi il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di loro,
poiché a te ho affidato la mia causa!
Cantate inni al Signore,lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.
Ger 20,10-13
Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico. Il momento più difficile sicuramente fu quando si sente tradito persino da Dio e cade in una crisi dolorosa che lo porta quasi a rifiutare la sua vocazione. Dio però, senza togliergli le sue sofferenze, anzi annunziandogliene di più grandi, gli rinnova la sua chiamata, chiedendogli di abbandonarsi interamente a Lui.
In una drammatica e celebre “confessione” (20,7-18) che precede di qualche versetto questo brano, il profeta si lamenta con Dio di averlo sedotto, e lui di essersi lasciato sedurre, di averlo attratto con l'inganno, affidandogli un annunzio di sventura che non si è attuato, e di averlo così abbandonato allo scherno dei suoi avversari (vv. 7-8). Egli afferma poi di aver voluto rinunziare a parlare in nome di DIO, ma sentiva nel suo cuore come un fuoco ardente, chiuso nelle sue ossa; si sforzava di contenerlo, ma non poteva. …
A questo punto inizia il brano liturgico in cui Geremia denunzia le macchinazioni che vengono fatte contro di lui. Anzitutto rivela che molti riprendono con sarcasmo il suo messaggio di minaccia:
«Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo”. La sventura che egli annunzia è l’imminente conquista di Gerusalemme da parte dei babilonesi e la sua distruzione, che egli presenta come castigo di DIO per i peccati del popolo.
Geremia immagina il pensiero dei suoi amici che spiano la sua caduta: ”Forse si lascerà trarre in inganno,così noi prevarremo su di lui,ci prenderemo la nostra vendetta”. Se questi “amici” erano le persone di cui lui si fidava, Geremia sperimentò anche l'offesa e il dolore atroce del tradimento. L’abbattimento morale del profeta dovette durare a lungo ed essere ben visibile ai suoi avversari, i quali osservano le sue sofferenze con l’intento di coglierlo in fallo, cioè di fargli dire qualcosa di compromettente per riferirlo poi alle autorità e così demolirlo definitivamente.
“Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere;arrossiranno perché non avranno successo,sarà una vergogna eterna e incancellabile”. Qui però il profeta esprime la sua fiducia incrollabile in Dio, che sente al suo fianco come un prode valoroso.
Geremia aveva certamente presente la promessa fattagli dal Signore al momento della sua vocazione (Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti” (1.19) e questo lo rende sicuro della sua vittoria.
Guidato dalla sua incrollabile fiducia in Dio, Geremia fa una preghiera,
“Signore degli eserciti, che provi il giusto,che vedi il cuore e la mente,possa io vedere la tua vendetta su di loro,poiché a te ho affidato la mia causa!”
Il profeta sa che il Signore è “colui che prova il giusto e scruta il cuore e la mente” ( la prerogativa del Dio di Israele è precisamente quella di non fermarsi alle apparenze, ma di scrutare il cuore e la mente, cioè l’intimo dell’uomo) ed è certo di fare gli interessi di Dio e quindi non ha paura del Suo giudizio. A Dio egli chiede di poter vedere la sua vendetta sui suoi avversari, poiché a Lui ha affidato la sua causa. Egli non pensa di vendicarsi personalmente, ma attende da Dio la vendetta, cioè la giusta punizione dei suoi persecutori. E per di più chiede una vendetta che riguarda non lui personalmente, ma Dio. Egli si è talmente identificato con Lui da ritenere che la sua causa non è altro che la causa di Dio e la sua vendetta la vendetta di Dio!!. Qui è evidente che il profeta sembra avere un eccesso di zelo, in quanto dimentica che Dio non vuole arrivare alla vendetta, ma al perdono.
Il brano termina con un invito a cantare inni al Signore “perché ha liberato la vita del povero
dalle mani dei malfattori”.
Ma subito dopo, nei versetti non riportati dalla liturgia, il profeta prorompe in una terribile maledizione, imprecando persino contro il giorno in cui è nato (vv. 14-18).
Questo brano è il più drammatico delle confessioni, perché vi appare il rifiuto non solo della vita, ma anche e soprattutto della vocazione profetica, che aveva ricevuto fin dal seno materno (1,5).
Le confessioni di Geremia mettono in luce la profonda umanità del profeta. Egli non è un uomo violento o aggressivo, se ne starebbe volentieri per proprio conto, non cerca notorietà o potere. Invece è coinvolto in una situazione drammatica, nella quale è costretto, per il bene dei suoi connazionali, ad annunziare una terribile sciagura che potrà essere evitata solo con un gesto che poteva sembrare un tradimento della patria: aprire le porte ai nemici. La sofferenza più grande del profeta non è stata quella di essere incompreso e perseguitato, ma di vedere avvicinarsi la rovina del suo popolo senza poterla impedire.
Geremia si può dire che è il profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù. Quando si sente abbandonato sembra scorgere in lui il Cristo nell’orto del Getsemani. Egli rimane per il suo popolo, ed anche per tutti i cristiani, un testimone della speranza e fedeltà alla propria vocazione nonostante le sofferenze fisiche e morali.
Salmo 68 - Nella tua grande bontà rispondimi, o Dio.
Per te io sopporto l’insulto e la vergogna mi copre la faccia;
sono diventato un estraneo ai miei fratelli,
uno straniero per i figli di mia madre.
Perché mi divora lo zelo per la tua casa,
gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me.
Ma io rivolgo a te la mia preghiera,
Signore, nel tempo della benevolenza.
O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi,
nella fedeltà della tua salvezza.
Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore;
volgiti a me nella tua grande tenerezza
Vedano i poveri e si rallegrino;
voi che cercate Dio, fatevi coraggio,
perché il Signore ascolta i miseri
non disprezza i suoi che sono prigionieri.
A lui cantino lode i cieli e la terra,
i mari e quanto brùlica in essi.
La lettura attenta del salmo porta a datarlo al tempo di Ezechia, dopo la campagna di Sennacherib contro la Giudea e il fallito assedio di Gerusalemme (ca. 701) a causa di un’epidemia nell’esercito (2Re 18,13s.35). L’azione militare di Sennacherib aveva devastato la Giudea. Gli annali di Sennacherib rivelano che furono espugnate 46 città. In questo contesto il pio giudeo del salmo si trova ad urtare contro coloro che guardano all’Egitto come soluzione dei mali nazionali mettendo in dubbio Dio, la fedeltà di Dio, e abbracciando il relativismo religioso. Il pio giudeo prega, digiuna, indossa un abito di sacco, segno penitenziale, e zela per la “casa del Signore”, cioè il tempio, e ciò che il tempio significa. Egli propone la conversione a Dio e ha un certo numero di persone che guardano a lui. E’ il tempo della benevolenza, cioè l’anno sabbatico, ed egli spera la pace nei cuori: “Ma io rivolgo a te la mia preghiera, Signore, nel tempo della benevolenza”. Per noi il tempo della benevolenza è quello che ha promulgato Cristo e che durerà sino alla fine del mondo (Cf. Mt 4,19). Il pio giudeo però è osteggiato e perseguitato da molti; proprio a causa della sua fede. Viene beffeggiato e deriso nella sua azione penitenziale, e quando entra a Gerusalemme quelli che mercanteggiano e sostano divertendosi alla porta, dalla quale passa per entrare in città, lo deridono, senza che alcuno si metta dalla sua parte: “Sparlavano di me quanti sedevano alla porta, gli ubriachi mi deridevano”. La sua situazione si presenta drammatica perché viene calunniato di furto: “Quanto non ho rubato, dovrei forse restituirlo?”. Tutto ciò gli ha creato il vuoto attorno: “Sono diventato un estraneo ai miei fratelli, un straniero per i figli di mia madre“. Egli avverte tutta la sua debolezza e invoca Dio affinché gli dia forza, poiché non vuole diventare una delusione per coloro che fanno riferimento a lui: “Per causa mia non si vergogni chi ti cerca, Dio d’Israele”. Le espressioni che usa per presentare a Dio la sua situazione sono di un’intensità pari alla drammaticità della sua situazione: “L’acqua mi giunge alla gola. Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno... Sono sfinito dal gridare, la mia gola è riarsa…”. Ma il pio giudeo non desiste dalla preghiera, dalla fiducia in Dio; ed è sostenuto dalla speranza che Dio continuerà a difendere Sion, e che le città di Giuda saranno riedificate: “Perché Dio salverà Sion, ricostruirà le città di Giuda”. Questa speranza rimarrà nel nucleo fervente d’Israele anche quando, a causa dei peccati e della loro mancata penitenza, Israele sperimenterà la distruzione di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Riguardo la Chiesa, di cui Sion è una figura, risuonano queste parole di Gesù: (Mt 16,18) “Le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”.
Questo salmo è ricco di profezia riguardo le sofferenze di Cristo (Cf. Gv 2,17; 15,25).
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato…
Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti.
Rm 5,12-15
San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme. La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali.
Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
Questo brano tratto dal capitolo 5 rappresenta l’ultimo anello della lunga esposizione riguardante la giustificazione mediante la fede che aveva avuto inizio al capitolo 1. In esso l’apostolo, dopo aver messo in luce la prospettiva escatologica della giustificazione (vv. 1-11), passa a trattare il tema della vittoria sul peccato che essa comporta (vv. 12-21). Egli aveva già affrontato questo secondo tema quando, dopo aver descritto la rivelazione dell’ira di Dio, causata appunto dal peccato dell’uomo, aveva presentato l’opera di Cristo come una redenzione e una espiazione (3,21-26). Ora lo riprende sottolineando come la liberazione dal peccato implichi il passaggio dell’uomo dalla solidarietà con l’umanità peccatrice (vv. 12-14) alla solidarietà con Cristo (vv. 15-19).
Il brano inizia con questa affermazione: “come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato”.
In questo versetto la situazione in cui si trovava l’umanità prima di Cristo viene descritta alla luce di quanto la Genesi dice di colui che è stato il primo peccatore. Il brano inizia con un “come” esemplificativo, mediante il quale Paolo ricollega quanto sta per dire al brano precedente, indicando così l’intenzione di dare ulteriori spiegazioni circa il ruolo svolto da Cristo nella riconciliazione dell’umanità con Dio. L’apostolo prosegue con un “così”, che introduce il confronto tra Adamo e Cristo.
Dopo aver qualificato Adamo come colui che ha introdotto il peccato e la morte nel mondo, Paolo prosegue con il secondo termine di paragone, cioè la figura e il ruolo di Cristo, ma approfondisce ulteriormente le conseguenze del gesto di Adamo. Il peccato di Adamo ha avuto effetti devastanti in quanto tutti gli uomini, con i loro peccati personali, si sono resi partecipi e corresponsabili di quella situazione di morte a cui egli ha dato inizio.
Dopo aver segnalato l’ingresso nel mondo del peccato e della morte, Paolo prosegue: “Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, …La situazione di peccato e di morte determinata dal primo uomo si è protratta fino al momento in cui Dio ha conferito la legge a Israele.
Paolo pone però un’obiezione: come è possibile ciò “se il peccato non può essere imputato quando manca la legge?” Se non c’è una legge che proibisce una certa azione, il commetterla non può essere considerato come peccato, se si intende per peccato la trasgressione di un precetto. Ma per Paolo non esiste nessun essere umano che non abbia avuto, se non la legge mosaica, almeno qualcosa di simile: tutti infatti hanno conosciuto Dio, venendo così a conoscere quella legge morale che hanno trasgredito. Perciò risponde all’obiezione osservando che “la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo”. Ossia siccome la morte, vista come un fatto non solo fisico ma anche spirituale, ha manifestato i suoi effetti devastanti anche su coloro che non avevano ricevuto come Adamo un precetto esplicito, ciò è sufficiente per dire che anch’essi non sono esenti dal peccato.
Dopo aver nominato espressamente due volte il nome di Adamo, Paolo aggiunge che egli “è figura di colui che doveva venire”. Con queste parole riporta il discorso all’intenzione originaria, che era quella di confrontare Adamo con Cristo.
Tutti gli uomini si sono resi corresponsabili del peccato commesso dal primo uomo, cioè si sono lasciati liberamente coinvolgere nella situazione che da lui ha avuto origine.
Paolo sviluppa la sua dimostrazione mediante tre argomenti. Anzitutto egli afferma: “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti”.
La superiorità di Cristo su Adamo appare anzitutto dal fatto che “il dono di grazia”non è come la “caduta”: infatti se la caduta di uno solo ha fatto sì che “tutti” morissero, molto di più grazie a un solo uomo, Gesù Cristo, la grazia di Dio ha abbondato “su tutti”. In altre parole, proprio per la sua funzione di Uomo (Figlio dell’uomo, nuovo Adamo), Cristo ha portato a tutta l’umanità una realtà di grazie che supera immensamente la realtà di morte di cui è stato portatore Adamo.
Paolo non pensa dunque che il peccato di Adamo si trasmetta misteriosamente da lui a ognuno dei suoi discendenti, ma lo considera come l’inizio di una “situazione di peccato” in cui tutti, non senza loro colpa e con le debite eccezioni, sono coinvolti.
Circa Adamo e il suo peccato, Paolo riprende questa suggestiva immagine biblica per mostrare come Dio abbia inviato un nuovo Adamo, capostipite di un’umanità riconciliata, al quale ognuno è chiamato ad associarsi mediante la fede.
Riguardo al rapporto tra peccato e morte, Paolo non vuole certo affermare che, senza il peccato di Adamo, la morte in senso fisico non sarebbe esistita, al contrario egli ritiene che, a causa del peccato, la morte cambi profondamente significato: senza di esso l’uomo avrebbe terminato la sua esistenza terrena nella comunione con Dio e nella serena fiducia di una sopravvivenza in Lui; il peccato, invece, fa sì che la morte diventi il simbolo e il marchio del suo fallimento, trasformandola quindi in una realtà ostile, che l’uomo tende continuamente a rimuovere.
In questa sua opera, che lo accomuna al Servo del Signore, Gesù appare come il nuovo Adamo da cui ha origine un’umanità riconciliata con Dio.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.
E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:voi valete più di molti passeri!
Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Mt 10,26-33
Questo brano tratto dal capitolo 10 del Vangelo di Matteo riporta il discorso apostolico che Gesù fa ai suoi discepoli prima di inviarli in missione. Matteo raccoglie una serie di massime, che mettono in luce l’atteggiamento che il discepolo deve assumere di fronte alle pressioni che gli vengono dall’esterno.
Gesù inizia con l’invitare il discepolo a non temere coloro che lo perseguitano:
“Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto”.
Dai termini usati possiamo capire che quanto viene detto si rifà al genere apocalittico: Dio rivela gli avvenimenti futuri al suo inviato, affinché li scriva in un libro che sarà letto quando staranno per avverarsi. La persecuzione degli apostoli, come è detto nel versetto precedente, sarà inevitabile: “è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (Mt 10,25).
Quello che si afferma in questo versetto è in sintonia con quanto detto nei versetti precedenti. Il discepolo deve raggiungere il livello del suo maestro, deve essere disponibile ad annunciare il vangelo con tutta franchezza, senza lasciarsi intimorire dalle minacce dei suoi oppositori.
Gesù fa un altro invito ai discepoli: “Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze”.
L'insegnamento di Gesù ha sempre qualcosa di misterioso, qualcosa che Egli dice ai suoi discepoli e non alle folle (es. l'utilizzo delle parabole invece dei discorsi espliciti, Mt 13,10-11), ma questo messaggio Lui vuole che deve essere poi predicato dalle terrazze che fanno da tetto alle case della Palestina, cioè da luoghi alti e scoperti, in modo che tutti lo possano sentire.
Infine Gesù invita i discepoli a non avere “paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”; ma piuttosto di “colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo”.
Egli così prospetta loro la possibilità di una morte violenta, ma li esorta a non temere gli uomini che possono al massimo privarli della vita fisica. Devono temere piuttosto Dio che nel giudizio può condannarli alla dannazione eterna nell'inferno (= geenna). La vita terrena non è nulla in confronto alla vita imperitura che il Padre darà loro in cielo.
Benché Matteo distingua l'anima dal corpo, non prende in considerazione l'esistenza dell'anima separata dal corpo dopo la morte, cioè nel tempo intermedio prima della parusia di Gesù. Per il semita è inconcepibile la vita senza il corpo. Il detto si riferisce quindi alla totalità della vita dell'uomo, che può essere conservata da Dio anche dopo la morte.
L’esortazione si prolunga in un detto riguardante positivamente la fiducia.
Gesù afferma: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro”
Il "soldo" è la moneta romana più piccola. Il passero, il piccolo uccello mangiato dai poveri, era il genere di carne meno cara che si poteva trovare sul mercato. Eppure la caduta a terra del passero, cioè la sua morte, non avverrà senza che Dio lo sappia e lo permetta. Se Dio si prende cura dei passeri, quanta maggiore cura avrà per gli uomini!
E prosegue “Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:voi valete più di molti passeri!
Gesù illustra con questi esempi la cura premurosa di Dio per i discepoli: essi non potranno subire alcun danno senza che egli lo permetta, e se lo permette ciò è certamente per poter attribuire loro un bene maggiore.
Gli ultimi due versetti contengono un parallelismo antitetico: “chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Il detto riguarda la confessione pubblica di Gesù, (quella che Pietro non aveva saputo fare al momento del processo), e nell’annunzio del vangelo. Si può notare che mentre nel detto precedente Gesù parlava di Dio come “Padre vostro”, ora lo definisce “Padre mio”. Il richiamo insistente del Padre richiama il motivo della paternità divina che rappresenta la novità centrale del messaggio evangelico: Gesù ha fatto per primo l’esperienza del rapporto speciale che Dio ha stabilito con l’umanità e l’ha comunicata ai suoi discepoli.
La bontà di Dio deve essere di conforto e di incoraggiamento nelle sofferenze e nella morte che aspettano i discepoli. Nei confronti di Dio la paura non ha più ragione di essere. È vero che Gesù accenna al timore che bisogna avere per colui che può mandare l’anima e il corpo nella geenna, ma questo riferimento alla paura serve a sottolineare la responsabilità del discepolo e a fargli capire che il rinnegare può avere conseguenze dannose sia per lui stesso che per gli altri. Non deve però essere la paura a motivare le sua scelte ma la fiducia nel Padre e soprattutto la solidarietà con Gesù, il quale ha dimostrato che proprio attraverso la sofferenza si attua la salvezza.
In questo senso Gesù è il modello e la guida di tutti coloro che cercano Dio. Rinnegare Gesù, quando lo si è adeguatamente conosciuto, significa rifiutare il progetto divino di salvezza.
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“Nel Vangelo di oggi il Signore Gesù, dopo aver chiamato e inviato in missione i suoi discepoli, li istruisce e li prepara ad affrontare le prove e le persecuzioni che dovranno incontrare. Andare in missione non è fare turismo, e Gesù ammonisce i suoi: “Troverete persecuzioni”. Così li esorta: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato […]. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce. […] E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima» (vv. 26-28). Possono uccidere soltanto il corpo, non hanno il potere di uccidere l’anima: di questi non abbiate paura. L’invio in missione da parte di Gesù non garantisce ai discepoli il successo, così come non li mette al riparo da fallimenti e sofferenze. Essi devono mettere in conto sia la possibilità del rifiuto, sia quella della persecuzione. Questo spaventa un po’, ma è la verità.
Il discepolo è chiamato a conformare la propria vita a Cristo, che è stato perseguitato dagli uomini, ha conosciuto il rifiuto, l’abbandono e la morte in croce. Non esiste la missione cristiana all’insegna della tranquillità! Le difficoltà e le tribolazioni fanno parte dell’opera di evangelizzazione, e noi siamo chiamati a trovare in esse l’occasione per verificare l’autenticità della nostra fede e del nostro rapporto con Gesù. Dobbiamo considerare queste difficoltà come la possibilità per essere ancora più missionari e per crescere in quella fiducia verso Dio, nostro Padre, che non abbandona i suoi figli nell’ora della tempesta. Nelle difficoltà della testimonianza cristiana nel mondo, non siamo mai dimenticati, ma sempre assistiti dalla sollecitudine premurosa del Padre. Per questo, nel Vangelo di oggi, per ben tre volte Gesù rassicura i discepoli dicendo: «Non abbiate paura!».
Anche ai nostri giorni, fratelli e sorelle, la persecuzione contro i cristiani è presente. Noi preghiamo per i nostri fratelli e sorelle che sono perseguitati, e lodiamo Dio perché, nonostante ciò, continuano a testimoniare con coraggio e fedeltà la loro fede. Il loro esempio ci aiuta a non esitare nel prendere posizione in favore di Cristo, testimoniandolo coraggiosamente nelle situazioni di ogni giorno, anche in contesti apparentemente tranquilli. In effetti, una forma di prova può essere anche l’assenza di ostilità e di tribolazioni. Oltre che come «pecore in mezzo ai lupi», il Signore, anche nel nostro tempo, ci manda come sentinelle in mezzo a gente che non vuole essere svegliata dal torpore mondano, che ignora le parole di Verità del Vangelo, costruendosi delle proprie effimere verità. E se noi andiamo o viviamo in questi contesti e diciamo le Parole del Vangelo, questo dà fastidio e ci guarderanno non bene.
Ma in tutto questo il Signore continua a dirci, come diceva ai discepoli del suo tempo: “Non abbiate paura!”. Non dimentichiamo questa parola: sempre, quando noi abbiamo qualche tribolazione, qualche persecuzione, qualche cosa che ci fa soffrire, ascoltiamo la voce di Gesù nel cuore: “Non abbiate paura! Non avere paura, vai avanti! Io sono con te!”. Non abbiate paura di chi vi deride e vi maltratta, e non abbiate paura di chi vi ignora o “davanti” vi onora ma “dietro” combatte il Vangelo. Ci sono tanti che davanti ci fanno sorrisi, ma da dietro combattono il Vangelo. Tutti li conosciamo. Gesù non ci lascia soli perché siamo preziosi per Lui. Per questo non ci lascia soli: ognuno di noi è prezioso per Gesù, e Lui ci accompagna.
La Vergine Maria, modello di umile e coraggiosa adesione alla Parola di Dio, ci aiuti a capire che nella testimonianza della fede non contano i successi, ma la fedeltà, la fedeltà a Cristo, riconoscendo in qualunque circostanza, anche le più problematiche, il dono inestimabile di essere suoi discepoli missionari.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 25 giugno 2017
Tv2000, InBlu Radio, Avvenire, Sir, Federazione dei settimanali cattolici e Corallo, d’intesa con la Segreteria generale della Cei, invitano i fedeli, le famiglie e le comunità religiose a ritrovarsi, mercoledì 17 giugno, alle 21, per recitare insieme il Rosario che verrà trasmesso da Tv2000 (canale 28 e 157 Sky), InBlu Radio, e sulla pagina Facebook della Cei.
La preghiera sarà guidata dall'arcivescovo di Matera-Irsina Antonio Giuseppe Caiazzo e avrà luogo nella Cattedrale di Maria Santissima della Bruna e Sant'Eustachio a Matera (nella foto il presbiterio)
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Le famiglie e i sacerdoti sono al centro delle intenzioni di preghiera dei lettori del Sir, pubblicate sulla pagina Facebook, in occasione del Rosario per l’Italia in tempo di coronavirus, organizzato dai media Cei
Qui il Sussidio in PDF
Grazie alla Cattedrale di Maria Santissima della Bruna e Sant'Eustachio a Matera e alla sua relativa pagina facebook
Grazie a Cei
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)