Anche in questa domenica la liturgia ci presenta delle letture ricche di significato, che se anche non hanno un filo conduttore evidente, ci portano a considerare che ogni giorno, qualsiasi sia la nostra situazione di vita, dobbiamo saper discernere quale sia la scelta giusta per seguire il Signore.
Nella prima lettura, tratta dal primo libro dei Re, troviamo Salomone, che all’inizio del suo regno, innalza a Dio una preghiera bellissima in cui non chiede a Dio beni terreni, ma un cuore docile, la capacità di rendere giustizia al popolo e distinguere il bene dal male.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo afferma che Dio ci ama e ci chiama a riprodurre in noi l’immagine del Suo Figlio Gesù, per partecipare alla Sua gloria.
Nel Vangelo di Matteo, come nella precedente domenica, Gesù ci propone tre mini-parabole : un tesoro nascosto nel terreno, una perla di alto valore, e una rete colma di pesci. Al termine delle parabole Gesù pone una domanda valida anche per noi oggi: “Avete compreso tutte queste cose?». Questo perchè Egli esige da noi una comprensione più profonda che possa diventare vita e lode. Questo concetto lo esprimeva molto bene uno dei massimi pensatori del secolo scorso il filosofo Martin Heidegger quando scriveva: “Pensare, capire è già ringraziare,lodare”
Dal primo libro dei Re
In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone disse: «Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi.
Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?». Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te».
1R 3,5.7-12
Il primo, come il secondo libro dei Re, è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana. E‘ stato scritto in ebraico, ad opera di autori ignoti, intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea. Il primo libro è composto da 22 capitoli che descrivono la morte di Davide, la successione del figlio Salomone, e dopo la morte di questi, la scissione del Regno di Israele, dal Regno di Giuda, il ministero del profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C.. Il libro si apre con una sezione nella quale viene presentato il lungo regno di Salomone (cc. 1-11). In essa si fa anzitutto il racconto degli eventi che portano direttamente alla sua ascesa al trono davidico (cc. 1-2). Viene messa poi in luce la sapienza del re (3,1-5,14), che fa da premessa alla descrizione della sua impresa più importante, la costruzione del tempio di Gerusalemme (5,15-9,25). L'ultima parte è dedicata a una sintesi della grandezza di Salomone e alla sua degenerazione (9,26 - 11,43).
La parte riguardante la sapienza di Salomone si apre, dopo l’accenno al suo matrimonio con la figlia del faraone, con il racconto del sogno di Gabaon (3,4-15), mediante il quale la grande sapienza di Salomone viene presentata come un dono di Dio.
Il brano liturgico racconta un episodio il cui scopo è quello di mostrare ancora una volta il gradimento di Dio nei confronti di Salomone. Il re si trova presso l’altura di Gabaon, nei pressi di Gerusalemme, dove offre un numero enorme di olocausti (1000), segno della sua profonda religiosità. Salomone ha un’esperienza diretta di Dio, il quale gli appare in sogno e gli dice di chiedergli pure ciò che gli sta più a cuore. Sia nella Bibbia che nell’antico Oriente il sogno era uno dei mezzi principali di comunicazione tra Dio e l’uomo.
Salomone inizia la sua preghiera con una frase, omessa nel brano liturgico, nella quale il re ricorda la grande benevolenza che il Signore ha dimostrato a Davide, soprattutto facendo sì che un suo figlio sedesse sul suo trono. Nella sua richiesta, egli premette che è diventato re al posto di Davide in un’età ancora giovanile, e si trova a capo di un popolo molto numeroso, che per di più ha la particolarità di essere stato scelto proprio da Dio: perciò non sa ancora bene come comportarsi
In questa premessa è sviluppato il tema della indegnità e dell’incapacità dell’uomo di fronte ai compiti che Dio gli conferisce. Secondo la fede biblica è Dio che agisce nella storia della salvezza e i risultati sono da ascriversi solo a Lui e non alle capacità dell’uomo.
Dopo questa premessa Salomone formula la sua richiesta: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?».
Il cuore è il centro della personalità, là dove si elaborano i sentimenti e le decisioni. Salomone chiede anzitutto un “cuore docile” (che sappia ascoltare) cioè la costante disposizione a compiere la volontà di Dio, contenuta nella legge (Dt 6,4; 17,17-19), e poi la capacità di distinguere il bene dal male. Solo così potrà “rendere giustizia”, giudicare e governare un popolo numeroso, il popolo che Dio ha scelto.
Salomone ha dunque capito che il governo di un popolo deve basarsi da una parte sull’obbedienza alla legge, che per Israele era parte integrante dell’alleanza con Dio, e dall’altra sulla capacità di applicarla alle situazioni concrete della vita (Pr 2,1-10).
La richiesta piacque al Signore che nella Sua risposta sottolinea anzitutto che Salomone avrebbe potuto chiedere una vita lunga, ricchezze, vittoria sui nemici; egli invece ha domandato il “discernimento nel giudicare”. Salomone non ha quindi dato importanza ai tre beni che stavano soprattutto a cuore ai governanti, ma ha chiesto la capacità di comportarsi sempre con giustizia nei confronti dei suoi sudditi.
Per questo Dio si impegna ad esaudire la richiesta di Salomone e a concedergli un “cuore saggio e intelligente” in una misura straordinaria, superiore a quella di chiunque è vissuto prima di lui e vivrà dopo di lui.
Nei versetti (13-14) non riportati dal brano liturgico, per dimostrare la Sua compiacenza Dio si impegna a donare a Salomone, oltre alla sapienza, anche i beni che egli non aveva chiesto, cioè ricchezza, onore e lunga vita, a condizione però che compia la volontà di Dio come ha fatto Davide suo padre. Gli sviluppi successivi del racconto proveranno che Dio gli ha veramente accordato non solo il dono della sapienza, ma anche tutti gli altri doni promessi. Tuttavia alla fine della sua vita Salomone si corromperà, provocando come castigo la divisione del regno (11,1-13).
La sapienza richiesta e ottenuta da Salomone mette l’uomo in sintonia con Dio, gli dà la possibilità di agire in Suo nome. Essa si manifesta nella ricerca del diritto e della giustizia. Non si tratta quindi di una facoltà solamente intellettuale, ma piuttosto di una virtù, che consiste nel saper mettere al primo posto gli interessi di Dio, che sono anche gli interessi veri di tutto il popolo.
Solo chi sa prendere una certa distanza da se stesso e guarda la realtà da un punto di vista superiore, è capace di vedere oggettivamente ciò che è bene e ciò che è male. Questa prospettiva è quella della fede, che per Israele aveva come punto di riferimento costante l’azione di Dio nella storia e le leggi che Egli ha dato al Suo popolo.
Salmo 118 Quanto amo la tua legge, Signore!
La mia parte è il Signore:
ho deciso di osservare le tue parole.
Bene per me è la legge della tua bocca,
più di mille pezzi d’oro e d’argento.
Il tuo amore sia la mia consolazione,
secondo la promessa fatta al tuo servo.
Venga a me la tua misericordia e io avrò vita,
perché la tua legge è la mia delizia.
Perciò amo i tuoi comandi,
più dell’oro, dell’oro più fino.
Per questo io considero retti tutti i tuoi precetti
e odio ogni falso sentiero.
Meravigliosi sono i tuoi insegnamenti:
per questo li custodisco.
La rivelazione delle tue parole illumina,
dona intelligenza ai semplici.
Questo salmo è il più lungo di tutto il salterio. E' un salmo alfabetico; ogni otto distici comincia con una delle 22 lettere dell'alfabeto, risultando così un totale di 176 distici. Come procedimento usa il metodo della variazione concettuale, cioè vengono usati diversi termini per designare la medesima cosa: la legge divina.
La legge per il salmista non sono solo i dieci comandamenti, ma tutte le grandi azioni di Dio per la liberazione del popolo dall'Egitto, la conquista della terra promessa, la liberazione da Babilonia ecc.: “i tuoi giudizi sono giusti".
Il salmo è stato probabilmente scritto poco prima della deportazione a Babilonia.
Vi compare un giovane, che si trova esposto alla pressione di coloro che in Israele hanno aderito agli idoli e sono capeggiati dal re. Il pio giovane è combattuto per la sua fedeltà alla legge; viene calunniato ingiustamente, fatto oggetto di umiliazioni, di stenti, di insulti: “Gli orgogliosi mi insultano aspramente,ma io non mi allontano dalla tua legge.”; “Si vergognino gli orgogliosi che mi opprimono con menzogne”; “E' tempo che tu agisca, Signore, hanno infranto la tua legge”; “Uno zelo ardente mi consuma, perché i miei avversari dimenticano le tue parole”. I suoi persecutori sono giunti fin quasi ad eliminarlo: “Per poco non mi hanno fatto sparire dalla terra”. “Mi hanno scavato fosse gli orgogliosi” Egli, nel suo disagio continuo, si ritiene un forestiero, un pellegrino: “Forestiero sono qui sulla terra”; “nella dimora del mio esilio”. Tuttavia il giovane forte dell'osservanza della legge, che gli dà luce, sapienza, saggezza, non teme e spera che il Signore lo aiuterà: “Quelli che ti temono al vedermi avranno gioia”; “Davanti ai re parlerò dei tuoi insegnamenti e non dovrò vergognarmi”. I re sono, oltre il re di Gerusalemme, quelli dei popoli vicini, e in particolare quelli di Assiria e Babilonia, nonché del faraone. Tutto ciò fa intendere che il giovane doveva avere una certa autorità, e si potrebbe formulare un'identificazione con un sacerdote del tempio legato al movimento profetico.
Il giovane riconosce di essere stato lontano per il passato dalla parola di Dio: “Prima di essere umiliato andavo errando, ma ora osservo la tua promessa”.
Il giovane Giudeo intende, di fronte alla pressione di coloro che hanno abbandonato la legge e lo deridono, confermarsi saldamente nell'obbedienza alla legge, e intende testimoniarlo davanti a tutti; per questo chiede aiuto a Dio: “Mai dimenticherò i tuoi precetti, perché con essi tu mi fai vivere.”; “Ho giurato e lo confermo, di osservare i tuoi giusti giudizi”; “Rendi saldi i miei passi secondo la tua promessa”; “Mi venga in aiuto la tua mano, perché ho scelto i tuoi precetti". "Mi sono perso come pecora smarrita; cerca il tuo servo: non ho dimenticato i tuoi comandi”.
Il salmista presenta la ricchezza della parola di Dio, della sua legge, dei suoi precetti.
Il salmo nella Liturgia delle ore è presentato spezzato seguendo le lettere alfabetiche.
Il salmo è ricchissimo di sfaccettature luminose sul tema dell'osservanza della parola di Dio.
La recitazione cristiana vede la legge nel compimento attuato da Cristo (Mt 5,17).
Commento di P. Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.
Rm 8,28-30
L’apostolo Paolo in questo brano della lettera ai Romani, dopo aver prima affermato che la preghiera del credente è ispirata dallo Spirito che risiede in lui, e perciò non può non essere esaudita, prosegue:” noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno”, infatti proprio mediante il dono dello Spirito i credenti sono stati chiamati alla comunione con Dio, che rappresenta l’attuazione del Suo piano di salvezza.
La sicurezza dei credenti dunque si basa sulla presa di coscienza di quanto Dio ha fatto per loro, per questo Paolo ricorda che sono stati oggetto di un’iniziativa salvifica in forza della quale Dio li ha “predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo perché egli sia il primogenito tra molti fratelli;” e siccome li ha predestinati, Dio li ha anche “chiamati” e di conseguenza li ha giustificati e glorificati. (Anche in Ef 2,6, Col 2,12, Paolo considera come realtà già acquisita (verbi al passato) la resurrezione e il trionfo celeste dei cristiani che a volte esprimeva con verbi usati al futuro). Il processo della salvezza parte dunque da una atto libero e autonomo di Dio che decide di plasmare tutti gli esseri umani ad immagine del suo Figlio.
Il concetto di predestinazione, di cui Paolo si serve rivolgendosi a chi è già cristiano, non implica dunque una decisione divina che comporti l’esclusione di altri. Al contrario, l’apostolo se ne serve per mettere in luce la totale gratuità del dono che essi hanno ricevuto prima ancora che potessero anche lontanamente pensare di meritarlo con le proprie opere. E proprio perché si tratta di un dono gratuito, esso non può essere che universale. Da esso il peccatore è escluso non per volontà di Dio, bensì per un rifiuto personale. Paolo non affronta ora questo tema scottante, lasciando così aperto il mistero del piano salvifico di Dio, che si scontra con la libertà umana ma non può essere da essa minimamente condizionato.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
Mt 13, 44-52
Questo brano del Vangelo di Matteo ha la stessa ambientazione delle domeniche precedenti: Gesù è sulla barca e parla in parabole sul mistero del Regno dei cieli, con la presentazione ancora di tre parabole, che sommate a quelle dei vangeli delle precedenti domeniche, raggiungono il numero di sette, numero che nel linguaggio biblico allude al senso della pienezza.
Il tesoro nascosto e la perla preziosa sono due parabole molto simili e, come quelle del grano di senapa e del lievito, propongono in sostanza lo stesso insegnamento. Mentre nelle due precedenti i protagonisti erano un uomo e una donna, qui abbiamo un contadino e un facoltoso commerciante.
Nella prima si tratta di un tesoro scoperto casualmente nel campo da un contadino, forse un salariato o un lavoratore a giornata. Per potersene impossessare egli deve comperare il campo in cui si trova il tesoro e a tale scopo è costretto a vendere tutto quello che ha.
Viene sottolineata la sua sollecitudine per venire in possesso del tesoro e messo in risalto la gioia nell’aver realizzato il suo desiderio.
Nella parabola della perla preziosa c’è invece un commerciante di perle che, avendo trovato una perla molto preziosa, vende tutti i suoi averi e la compra. Così facendo rinunzia anch’egli a tutta una serie di beni materiali per poter avere qualcosa che egli considera più grande e prezioso.
L’ultima parabola, quella della rete gettata in mare si rifà all’esperienza della pesca, professione molto usuale sulle rive del lago di Galilea. Questa volta il regno dei cieli è paragonato a una rete gettata in acqua che raccoglie ogni tipo di pesci. Alla fine della pesca il pescatore separa i pesci buoni da quelli cattivi. (Nel lago di Galilea vivevano diverse specie di pesci, di alcuni il consumo era vietato dalla Legge, perché privi di pinne e di squame e perciò considerati impuri (Lv 11,10)).
Al termine del discorso Gesù chiede: “Avete compreso tutte queste cose?” I discepoli rispondono affermativamente, e possiamo anche immaginare che Gesù avrà sorriso. .Potevano aver capito fino in fondo quelle persone così semplici di cuore ma ancora pieni di pregiudizi? I Vangeli sono pieni delle loro incomprensioni, dispute e vanterie. Ma certo, qualcosa più di prima ora avranno compreso. Prima erano impastati solo di “cose antiche” , ora grazie a questo straordinario maestro, si sono aperti ad alcune “cose nuove”, ma ne vedranno ancora di altre, tali da sconvolgere la loro vita, da metterli in crisi.
Gesù invita anche noi oggi ad essere come uno scriba, uno che legge e studia, per maturare un discepolato serio e motivato, non basato su emozioni o facili entusiasmi. Allora si diventa "simile a un padrone di casa", non uno schiavo o dipendente, ma un uomo libero, “ che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”, che ha in sé valori e tradizioni, ma che è anche aperto alle novità di Gesù e di un Dio che tutti i giorni non si stanca mai di fare progetti, suscitando vocazioni, idee nuove.
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“l discorso parabolico di Gesù, che raggruppa sette parabole nel capitolo tredicesimo del Vangelo di Matteo, si conclude con le tre similitudini odierne: il tesoro nascosto , la perla preziosa e la rete da pesca .
Mi soffermo sulle prime due che sottolineano la decisione dei protagonisti di vendere ogni cosa per ottenere quello che hanno scoperto. Nel primo caso si tratta di un contadino che casualmente si imbatte in un tesoro nascosto nel campo dove sta lavorando. Non essendo il campo di sua proprietà deve acquistarlo se vuole entrare in possesso del tesoro: quindi decide di mettere a rischio tutti i suoi averi per non perdere quella occasione davvero eccezionale. Nel secondo caso troviamo un mercante di perle preziose; egli, da esperto conoscitore, ha individuato una perla di grande valore. Anche lui decide di puntare tutto su quella perla, al punto da vendere tutte le altre.
Queste similitudini mettono in evidenza due caratteristiche riguardanti il possesso del Regno di Dio: la ricerca e il sacrificio. È vero che il Regno di Dio è offerto a tutti - è un dono, è un regalo, è grazia - ma non è messo a disposizione su un piatto d’argento, richiede un dinamismo: si tratta di cercare, camminare, darsi da fare. L’atteggiamento della ricerca è la condizione essenziale per trovare; bisogna che il cuore bruci dal desiderio di raggiungere il bene prezioso, cioè il Regno di Dio che si fa presente nella persona di Gesù. È Lui il tesoro nascosto, è Lui la perla di grande valore. Egli è la scoperta fondamentale, che può dare una svolta decisiva alla nostra vita, riempiendola di significato.
Di fronte alla scoperta inaspettata, tanto il contadino quanto il mercante si rendono conto di avere davanti un’occasione unica da non lasciarsi sfuggire, pertanto vendono tutto quello che possiedono. La valutazione del valore inestimabile del tesoro, porta a una decisione che implica anche sacrificio, distacchi e rinunce. Quando il tesoro e la perla sono stati scoperti, quando cioè abbiamo trovato il Signore, occorre non lasciare sterile questa scoperta, ma sacrificare ad essa ogni altra cosa.
Non si tratta di disprezzare il resto, ma di subordinarlo a Gesù, ponendo Lui al primo posto. La grazia al primo posto.
Il discepolo di Cristo non è uno che si è privato di qualcosa di essenziale; è uno che ha trovato molto di più: ha trovato la gioia piena che solo il Signore può donare. È la gioia evangelica dei malati guariti; dei peccatori perdonati; del ladrone a cui si apre la porta del paradiso.
La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia (cfr Evangelii Gaudium n. 1).
Oggi siamo esortati a contemplare la gioia del contadino e del mercante delle parabole. È la gioia di ognuno di noi quando scopriamo la vicinanza e la presenza consolante di Gesù nella nostra vita. Una presenza che trasforma il cuore e ci apre alle necessità e all’accoglienza dei fratelli, specialmente quelli più deboli.
Preghiamo, per intercessione della Vergine Maria, perché ciascuno di noi sappia testimoniare, con le parole e i gesti quotidiani, la gioia di avere trovato il tesoro del Regno di Dio, cioè l’amore che il Padre ci ha donato mediante Gesù.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 30 luglio 2017
Le letture che la liturgia di questa domenica ci propone, ci aiutano a capire come Dio sia paziente e giusto e che il regno dei cieli instaurato da Gesù non s’impone con la forza, ma con un’attenzione attiva ai segni dei tempi che puntualmente faranno la loro comparsa.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, Dio viene presentato come il grande paziente, che ha nelle mani la forza e il potere, ma attende che i peccatori si pentano perchè vuole salvarli.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo afferma che alla nostra preghiera, talvolta vuota, viene in aiuto lo Spirito, Egli è realmente in noi: prega dentro di noi e ci suggerisce le parole da rivolgere al Padre.
Nel Vangelo di Matteo troviamo una infinità di parabole: chicchi di senape e di frumento, erbe buone e maligne, terra scavata per nascondere tesori, falò dove si brucia la zizzania, e i relativi personaggi umani: il seminatore e il contadino suo nemico, i servi e il padrone della fattoria. Gesù, servendosi di questi paragoni ci fa crescere nella fede per farci comprendere che Dio non interviene subito, in modo clamoroso, nella storia dell’uomo. Egli è paziente e sa aspettare. Il Regno cresce a poco a poco in silenzio e con efficacia.
Dal libro della Sapienza
Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose,
perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto.
La tua forza infatti è il principio della giustizia,
e il fatto che sei padrone di tutti, ti rende indulgente con tutti.
Mostri la tua forza
quando non si crede nella pienezza del tuo potere,
e rigetti l’insolenza di coloro che pur la conoscono.
Padrone della forza, tu giudichi con mitezza
e ci governi con molta indulgenza,
perché, quando vuoi, tu eserciti il potere.
Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo
che il giusto deve amare gli uomini,
e hai dato ai tuoi figli la buona speranza
che, dopo i peccati, tu concedi il pentimento.
Sap 12,13,16-19
Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico.
È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) .
L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco, anche la prima parte (1-5) , per la quale alcuni hanno ipotizzato, a torto, un originale ebraico. L'unità della composizione è confermata dall'unità della lingua, che risulta flessibile e ricca, scorrevole e senza forzature nelle diverse forme della retorica.
Il brano che la Liturgia ci propone, indirizzato in particolare ai Giudei della diaspora, che si chiedevano perché Dio non intervenisse a distruggere gli idolatri, l’autore, dopo essersi domandato perché il Signore è stato tanto misericordioso con l'Egitto e Canaan nell'Esodo, giunge a concludere: “Non c’è Dio fuori di te, che abbia cura di tutte le cose, perché tu debba difenderti dall’accusa di giudice ingiusto”
Questa affermazione che ribadisce che: “Non c’è Dio fuori di te…” che abbia cura di tutte le cose, ci fa comprendere che Dio non lo si può definire, è al di sopra della nostra comprensione umana, e ci impedisce di chiuderlo in uno schema.
Noi possiamo solo cercare di fare nostro l'atteggiamento di Dio che con la Sua indulgenza e la Sua misericordia ci insegna ad amare il prossimo, e restare aperti al perdono, alla fiducia e all'indulgenza.
In quest’opera, la dottrina biblica sulla sapienza raggiunge gli ultimi sviluppi ed è come il sintomo dell’insegnamento del Nuovo Testamento sulla grazia; a sua volta il Nuovo Testamento aiuta a capire la dottrina dell’antico sulla sapienza.
La speranza beata nell’aldilà è espressa con rara chiarezza, illuminando il problema dell’umano destino. E’ l’ultimo passo verso la rivelazione cristiana: Cristo, sapienza di Dio incarnata tra gli uomini, è la fonte della vita e della felicità eterna.
Questo spiega l’influsso che il libro ha esercitato nella cristologia di Giovanni e di Paolo…
Salmo 85: Tu sei buono, Signore, e perdoni.
Tu sei buono, Signore, e perdoni,
sei pieno di misericordia con chi t’invoca.
Porgi l’orecchio, Signore, alla mia preghiera
e sii attento alla voce delle mie suppliche.
Tutte le genti che hai creato verranno
e si prostreranno davanti a te, Signore,
per dare gloria al tuo nome.
Grande tu sei e compi meraviglie:
tu solo sei Dio.
Ma tu, Signore, Dio misericordioso e pietoso,
lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà,
volgiti a me e abbi pietà.
Al centro Il salmo è stato scritto da un pio Giudeo che resiste intrepido di fronte alla pressione di nemici arroganti e violenti che si gloriano dei loro dei. L'epoca della composizione del salmo è probabilmente quella che precedette la grande reazione dei Maccabei contro la pressione ellenistica.
Il salmista si presenta “povero e misero”, alla ricerca di una via per organizzarsi, per difendersi, e camminare così nella verità in quella situazione nella quale si sente messo al bando. Questa via la chiede a Dio, che già la conosce: “Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini”.
Di fronte agli dei pagani il salmista dichiara che nessuno di loro regge al confronto con Jahvéh: “Fra gli dei nessuno è come te, Signore, e non c'è nulla come le tue opere”; ma non solo afferma la supremazia di Dio, afferma anche l'unicità di Dio: “Tu solo sei Dio”. Gli dei pagani sono inesistenti, sono il prodotto dei vaneggiamenti umani e, pur senza dichiararlo esplicitamente, il salmista fa intendere come all'ombra delle concezioni pagane del divino strisci il serpente ingannatore, autore di prodigi, che però non reggono di fronte allo splendore di quelli di Dio: “Non c'è nulla come le tue opere”. I prodigi dei maghi d'Egitto furono un nulla rispetto al dispiegarsi della potenza di Dio (Cf. Es 15,11).
Il salmista afferma che il tempo in cui tutti i popoli della terra riconosceranno Dio verrà: “Tutti i popoli che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te Signore, per dare gloria al tuo nome”.
Nel pericolo il salmista chiede a Dio di non cadere in dissipazioni: “tieni unito il mio cuore, perché tema il tuo nome”, con ciò avrà una lode autentica, espressa “con tutto il cuore”. Egli si presenta a Dio ringraziandolo per la misericordia che gli ha accordato quando era ormai senza speranza di vita: “dal profondo degli inferi”.
L'assalto degli arroganti è incessante, ma il salmista si rifugia in Dio, che è “Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà”. Egli ha trovato pace e forza nella fiducia in Dio, propria di un cuore semplice che teme Dio.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.
Rm 8,26-27
L’Apostolo Paolo, continuando la sua lettera ai Romani, dopo aver mostrato nella parte precedente come la giustificazione mediante la fede, abbia aperto la strada a una vita nuova, ora sviluppa alcune intuizioni, che aveva già anticipato precedentemente. Nel capitolo 8 l’apostolo mostra anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato (vv. 1-13) e prosegue mettendo in luce come lo Spirito stesso trasformi intimamente non solo il credente ma anche tutto l’universo.
Nel versetto precedente del brano liturgico Paolo aveva parlato della speranza come attesa perseverante delle cose promesse, che ancora non sono oggetto di esperienza. Proprio in questo campo si rivela però tutta la debolezza dei credenti, Paolo infatti in questo brano dopo aver affermato che: lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, continua spiegando il perché,”non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente”. Chi prega, per essere esaudito, deve presentare a Dio richieste che siano conformi alla Sua volontà, ma se non si sa che cosa chiedere la preghiera viene privata di efficacia perché rischia di imporre a Dio qualcosa che Egli non è disposto a concedere. Per pregare efficacemente è quindi necessario sapere prima che cosa Dio è disposto a dare, ma proprio questo non rientra nella facoltà dell’uomo.
Quello che i credenti da soli non possono raggiungere, viene loro conferito da Dio mediante lo Spirito, “che intercede con gemiti inesprimibili”. Lo Spirito non può non conoscere ciò che Dio vuole, perché forma con Lui un’unica cosa. perciò viene incontro ai credenti in quanto, non solo suggerisce loro ciò che devono chiedere a Dio, ma Lui stesso, presente nei loro cuori, prega per loro e in loro usando un linguaggio che è sconosciuto agli esseri umani. La presenza dello Spirito è percepibile ai credenti in quanto si identifica con lo Spirito di Gesù, cioè la forza e il fascino che promanano dalla Sua predicazione e da tutta la Sua vita.
La preghiera ispirata e guidata dallo Spirito perciò ha tutte le garanzie di essere esaudita perché “Egli che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio.”
Dio non si ferma alle apparenze: Egli è l’unico in grado di scrutare i cuori (Sal 139,1; Ger 12,3; 1Cr 29,17), cioè di vedere quali sono veramente i pensieri e le scelte profonde dell’uomo. Guardando l’intimo dei cuori, Dio vede se in essi vi siano veramente i desideri, cioè il modo di pensare e di agire suggerito dallo Spirito. In questo caso è lo Spirito stesso che intercede per i credenti “secondo i disegni di Dio”, cioè in sintonia con i Suoi disegni e la Sua volontà.
In altre parole una preghiera autentica non può scaturire se non da un cuore immerso in Dio e nel Suo piano di salvezza che riguarda tutta l’umanità. Ciò avviene nella misura in cui il credente fa proprio lo Spirito di Gesù, la Sua mentalità, il Suo modo di pensare. In lui è lo Spirito di Gesù che rivolge al Padre una preghiera che non può non essere esaudita.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo:
«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponètelo nel mio granaio”».
Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».
Mt 13, 24-43
L’Evangelista Matteo ci presenta la stessa ambientazione di domenica scorsa: Gesù è salito su di una barca e parla alla folla in parabole. Dopo aver riportato la parabola del seminatore e la relativa spiegazione, ora Gesù espone la parabola della zizzania, del granello di senape, e del lievito. Ed inizia così: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo… Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, ..
Nella prima parabola si possono distinguere tre momenti: un proprietario terriero fa seminare del buon grano nel suo campo ma successivamente un suo avversario semina nel campo della zizzania; i servi, che si sono accorti di quanto è accaduto, chiedono al padrone di poter eliminare subito la zizzania; il padrone invece dice di aspettare e di lasciar crescere insieme il buon grano e la zizzania per evitare che, togliendo questa, si danneggi anche quello; la separazione è rimandata al momento della mietitura
Anche in questa parabola si tratta della sorte del seme. Mentre in quella del seminatore la buona riuscita del raccolto viene messa a rischio dai terreni non adatti, ora l’ostacolo è la zizzania che un nemico semina in tutto il campo, proprio in mezzo al buon grano. La zizzania è in effetti un’erbaccia le cui radici, nella crescita, si intrecciano con quelle del frumento e quindi non può essere estirpata senza danneggiarlo; per questo il padrone decide di attendere la mietitura per procedere alla separazione. Il punto centrale della parabola consiste dunque nel fatto che il buon grano, pur dovendo coesistere con la zizzania, non ne viene condizionato e al momento della mietitura può essere raccolto e depositato nel granaio.
L’applicazione al regno di Dio è chiara. Gesù rivolgeva la Sua parola a tutti, compresi i peccatori, e attraverso la Sua azione, era Dio stesso che spargeva il buon seme nel cuore degli uomini. Ma non tutti accoglievano il Suo messaggio: una parte degli ascoltatori si rifiutava di convertirsi. Per i buoni c’era dunque la tentazione di separarsi e di formare un gruppo chiuso, una comunità di puri, come facevano per esempio i farisei e gli esseni di Qumran.
Gesù invece esige che i Suoi discepoli vivano insieme ai malvagi, condividendo i momenti ordinari della vita. La parabola poteva anche significare che anche all’interno del gruppo di Gesù erano presenti persone buone e altre incerte, legate a interessi diversi da quelli del regno: la presenza tra queste di Giuda ne sarà il segno più evidente.
Anche le altre parabole che Gesù propone iniziano con questa espressione: Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. …...«Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Il punto centrale di entrambe è dato dal contrasto tra un inizio modesto e un finale straordinario e grandioso. Tra esse la diversità più significativa consiste nel fatto che la prima si riferisce al lavoro dell’uomo, la seconda a quello della donna.
Nella parabola del granello di senape si sottolinea il contrasto tra la piccolezza del seme di senape e la grandezza della pianta che ne deriva. Il seme si riferisce alla predicazione e all’attività pubblica di Gesù, che sembravano infruttuose. Egli invita chi lo ascolta ad aver fiducia nella Sua opera, nonostante il suo apparente insuccesso, perché in essa è già presente e operante il regno dei cieli. Il dettaglio degli uccelli del cielo che vengono a fare il nido tra i rami del grande albero stanno a significare la totalità dei popoli che un giorno entrerà a far parte del regno di Dio (Ez 17,23; 31,6; Dn 4,9.18). Si allude così al pellegrinaggio delle genti verso la Città Santa, predetto dai profeti (V. Mt 8,11-12).
L’entusiastica adesione al vangelo di numerosi pagani costituiva certamente già per i primi cristiani un segno della potenza spirituale del vangelo e una manifestazione della regalità di Dio nel mondo, annunciata da Gesù. Lo scopo della parabola è anche quello di infondere fiducia in coloro che soffrivano per gli scandali che si presentavano e per la lentezza con cui il regno di Dio si stava manifestando.
Anche nella parabola del lievito il punto di maggior rilievo consiste nel contrasto tra la situazione iniziale della farina, nella quale una donna nasconde la sera un po’ di lievito, e l’enorme quantità di pasta lievitata che si ritrova il mattino seguente.
Il detto citato fa pensare alle usanze domestiche del tempo di Gesù in cui le donne preparavano il pane in casa. Uno staio di farina corrispondeva a circa 10 kg, la donna della parabola quindi ne ha impastata una quantità enorme, sufficiente per una cinquantina di pezzi di pane.
Nella Bibbia il lievito di solito simboleggia qualcosa di negativo, (V.Mt 16,6.12; 1 Cor 5,6.8), qui invece Gesù se ne serve per esprimere la forza trasformatrice del vangelo. Il paragone serve ad illustrare la sproporzione tra la fase iniziale piuttosto impercettibile del regno, che corrisponde al periodo della predicazione di Gesù, e quella finale nel suo compimento escatologico. Gesù rassicura così i discepoli scoraggiati, mostrando loro che Dio è sempre all’opera nella Sua missione
Il brano termina quando Gesù congedata la folla entrò in casa e i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo” Dietro richiesta dei discepoli, Gesù spiega loro la parabola della zizzania.:Il seminatore è il Figlio dell’uomo, il campo rappresenta il mondo, il buon seme sono i figli del regno, cioè tutti coloro che hanno corrisposto alla chiamata divina. La zizzania simboleggia i figli del malvagio, cioè tutti gli operatori d’iniquità; il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura si riferisce al giorno del giudizio, i mietitori sono gli angeli. i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».
Dalla parabola della zizzania emerge una lezione essenziale: bisogna nutrire la massima fiducia nell’efficacia dell’annuncio della parola di Dio, nonostante la persistenza del male nel mondo. Rientra nel piano di Dio lasciare che il bene e il male esistano l’uno accanto all’altro per un periodo indefinito, ma la separazione avrà certamente luogo alla fine.
Sforziamoci però di arrivare all’ottica di Dio, perché le Sue vie non sono le nostre vie, i Suoi giudizi non sono i nostri giudizi: Gesù, infatti, si fa amico dei pubblicani e dei peccatori, dialoga e pranza con loro così come dialoga e pranza con le persone giuste e pie. Egli spera sino all’ultimo di essere più il “medico” che il giudice. Egli sa che il dominio universale della storia rende il Signore “indulgente con tutti.,,,Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza;ci governi con molta indulgenza, perché il potere lo eserciti quando vuoi…. perché tu concedi dopo i peccati la possibilità di pentirsi” (Sap 12,16.18-19) .
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“L’odierna pagina evangelica propone tre parabole con le quali Gesù parla alle folle del Regno di Dio. Mi soffermo sulla prima: quella del grano buono e della zizzania, che illustra il problema del male nel mondo e mette in risalto la pazienza di Dio. Quanta pazienza ha Dio! Anche ognuno di noi può dire questo: “Quanta pazienza ha Dio con me!”. Il racconto si svolge in un campo con due opposti protagonisti. Da una parte il padrone del campo che rappresenta Dio e sparge il buon seme; dall’altra il nemico che rappresenta Satana e sparge l’erba cattiva.
Col passare del tempo, in mezzo al grano cresce anche la zizzania, e di fronte a questo fatto il padrone e i suoi servi hanno atteggiamenti diversi. I servi vorrebbero intervenire strappando la zizzania; ma il padrone, che è preoccupato soprattutto della salvezza del grano, si oppone dicendo: «Non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano». Con questa immagine, Gesù ci dice che in questo mondo il bene e il male sono talmente intrecciati, che è impossibile separarli ed estirpare tutto il male. Solo Dio può fare questo, e lo farà nel giudizio finale. Con le sue ambiguità e il suo carattere composito, la situazione presente è il campo della libertà, il campo della libertà dei cristiani, in cui si compie il difficile esercizio del discernimento fra il bene e il male.
E in questo campo si tratta dunque di congiungere, con grande fiducia in Dio e nella sua provvidenza, due atteggiamenti apparentemente contradditori: la decisione e la pazienza. La decisione è quella di voler essere buon grano - tutti lo vogliamo -, con tutte le proprie forze, e quindi prendere le distanze dal maligno e dalle sue seduzioni. La pazienza significa preferire una Chiesa che è lievito nella pasta, che non teme di sporcarsi le mani lavando i panni dei suoi figli, piuttosto che una Chiesa di “puri”, che pretende di giudicare prima del tempo chi sta nel Regno di Dio e chi no.
Il Signore, che è la Sapienza incarnata, oggi ci aiuta a comprendere che il bene e il male non si possono identificare con territori definiti o determinati gruppi umani: “Questi sono i buoni, questi sono i cattivi”. Egli ci dice che la linea di confine tra il bene e il male passa nel cuore di ogni persona, passa nel cuore di ognuno di noi, cioè: Siamo tutti peccatori. A me viene la voglia di chiedervi: “Chi non è peccatore alzi la mano”. Nessuno! Perché tutti lo siamo, siamo tutti peccatori. Gesù Cristo, con la sua morte in croce e la sua risurrezione, ci ha liberato dalla schiavitù del peccato e ci dà la grazia di camminare in una vita nuova; ma con il Battesimo ci ha dato anche la Confessione, perché abbiamo sempre bisogno di essere perdonati dai nostri peccati. Guardare sempre e soltanto il male che sta fuori di noi, significa non voler riconoscere il peccato che c’è anche in noi.
E poi Gesù ci insegna un modo diverso di guardare il campo del mondo, di osservare la realtà. Siamo chiamati a imparare i tempi di Dio - che non sono i nostri tempi - e anche lo “sguardo” di Dio: grazie all’influsso benefico di una trepidante attesa, ciò che era zizzania o sembrava zizzania, può diventare un prodotto buono. E’ la realtà della conversione. E’ la prospettiva della speranza!
Ci aiuti la Vergine Maria a cogliere nella realtà che ci circonda non soltanto la sporcizia e il male, ma anche il bene e il bello; a smascherare l’opera di Satana, ma soprattutto a confidare nell’azione di Dio che feconda la storia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 23 luglio 2017
Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta, hanno come filo conduttore il seme della parola di Dio – il suo potere e il terreno adatto per meglio accoglierla.
Nella prima lettura, Il profeta Isaia paragona la parola di Dio alla pioggia e la neve che scendono dal cielo per irrorare il terreno e non tornano a Lui senza aver compiuto loro missione. La parola uscita dalla bocca e dal cuore di Dio realizza sempre quello che annuncia.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo afferma che Gesù ha portato nel mondo la salvezza, non solo agli uomini , ma a tutta la creazione. Anch’essa perciò attende con ansia il compimento finale della salvezza.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù racconta la parabola del seminatore. Il seme è la parola di Dio che viene predicata con abbondanza, per poter raggiungere ogni tipo di terreno. Ci vogliono però delle particolari condizioni per poter far crescere questo seme e garantirne il frutto.
Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore:
«Come la pioggia e la neve scendono dal cielo
e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare,
perché dia il seme a chi semina
e il pane a chi mangia,
così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:
non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero
e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».
Is 55,10-11
Questo brano fa parte dei testi (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Forse era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che dalla sue profezie prendono speranza.
Era accaduto che a partire dal 550 a.C. un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re, Ciro, (590-530 a.C.) in pochi anni sottomisero l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, Ciro sembrò come un liberatore. Da allora nella comunità degli Ebrei esiliati si videro apparire racconti, oracoli, canti che esaltavano l’opera di Dio nella storia del mondo. Era finito il tempo in cui dominavano gli idoli, il vero Dio, il solo Dio apparve loro il padrone degli avvenimenti che agiva per la liberazione e la salvezza del suo popolo.
Con la caduta di Babilonia nel 539, Ciro con un editto autorizzò gli Israeliti, nel 538 non solo di fare ritorno in patria, ma di ricostruire il tempio di Gerusalemme. In questo modo il sovrano ottenne anche il controllo dell'area fenicio-palestinese. Si pensò persino che Ciro fosse l’inviato del Signore, un messia, un uomo di Dio, che avrebbe realizzato ovunque la pace. Ma per quanto Ciro fosse una figura gloriosa della storia, l’inviato di Dio sarebbe arrivato secoli dopo sotto spoglie più umili, quelle di un Giusto, che espia nel dolore le colpe degli uomini.
In questo brano c’è un’unica frase che contiene un paragone tra ciò che avviene nella natura e l’attuazione della Parola divina: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia”
In questa descrizione, ricavata dall’esperienza agricola, quello su cui si fa leva è l’efficacia dell’acqua che, sotto forma di pioggia o di neve, non scende mai sulla terra senza fecondarla, facendole produrre il frumento che l’agricoltore utilizzerà sia come seme sia per la semina dell’anno successivo, sia per fare il pane che serve al nutrimento della sua famiglia.
“così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”.
La parola divina avrà dunque la stessa efficacia dell’acqua che scende sui campi: una volta che è pronunziata essa non può rimanere senza effetto, cioè senza attuare la volontà divina in essa formulata.
Si può notare che al delicato paragone della Parola con la pioggia ristoratrice, in Geremia (23,29) il paragone si sostituisce con il fuoco e il martello “La mia parola non è forse come il fuoco e come un martello che spacca la roccia?” mentre nella lettera agli Ebrei (4,12) si ha una metafora ancora più forte “la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore.”
Salmo 64 Tu visiti la terra, Signore, e benedici i suoi germogli.
Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi di ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu prepari il frumento per gli uomini.
Così prepari la terra:
ne irrighi i solchi, ne spiani le zolle,
la bagni con le piogge
e benedici i suoi germogli.
Coroni l’anno con i tuoi benefici,
i tuoi solchi stillano abbondanza.
Stillano i pascoli del deserto
e le colline si cingono di esultanza.
I prati si coprono di greggi,
le valli si ammantano di messi:
gridano e cantano di gioia!
Il salmo è un inno di lode e di ringraziamento a Dio composto in occasione di un pellegrinaggio a Gerusalemme per l’annuale celebrazione della Pasqua Cf. Lv 23,5s). Il tempio è la meta di arrivo: “Ci sazieremo dei beni della tua casa, delle cose sacre del tuo tempio”.
Il salmo ha un grande respiro universalistico presentando Dio non solo quale salvezza di Israele, ma quale fiducia di tutte le genti, poiché gli uomini tendono nella preghiera al “Dio ignoto” (At 17,23), di cui ne colgono l'esistenza e la bontà: “Fiducia degli estremi confini della terra e dei mari lontani”. “I mari lontani” non sono solo distese di acqua, ma sono mari con isole (Cf. Ps 96,1).
Il salmista conosce il valore di incontro con Dio che il tempio offre, perciò prova una santa invidia per coloro che hanno un’opportunità costante di frequentarlo; cioè coloro che sono diventati gli abitanti di Gerusalemme: “Beato chi hai scelto perché ti stia vicino: abiterà nei tuoi atri”. Il tempio è quello eretto da Salomone poiché il salmo dice come Dio abbia fermato e fermi il tumulto dei popoli: è tempo di pace, di libertà, il momento del massimo splendore di Israele. Dio è in pace col suo popolo: “Tu visiti la terra e la disseti, la ricolmi di ricchezze. Il fiume di Dio è gonfio di acque; tu prepari il frumento per gli uomini”. “Il fiume di Dio” è, con immagine poetica, il calare dell’acqua dal cielo; è la pioggia (Cf. Ps 103,3).
Questo salmo noi lo recitiamo in Cristo, così la casa del Signore è la chiesa dove è presente l’Eucaristia. Ed è beato chi ha lasciato tutto per seguire più da vicino il Signore poiché può “abitare nei suoi atrii”.
“In Sion”, nelle chiese, deve sempre innalzarsi la lode e i ringraziamento per la salvezza ricevuta in Cristo, per la sua presenza sull’altare. I voti, che uno puo’ aver fatto, di maggior partecipazione alla vita ecclesiale, apostolica, trovano il momento del loro scioglimento, o meglio la forza per essere adempiuti, nella partecipazione viva all’Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
Rm 8,18-23
Paolo, continuando la sua lettera ai Romani, dopo aver mostrato nella parte precedente come la giustificazione mediante la fede, abbia aperto la strada a una vita nuova, ora sviluppa alcune intuizioni, che aveva già anticipato precedentemente, mostrando anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato. Qui afferma che : “le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi.“
L’apostolo in un’altra lettera aveva osservato che ”il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria (2Cor 4,17). Qui sottolinea che le sofferenze a cui i credenti sono sottoposti nella vita terrena non sono nulla di fronte alla gloria che Dio ha riservato per loro. Naturalmente questa gloria, che un giorno sarà rivelata in essi da Dio, appartiene a loro già fin d’ora, ma in modo ancora nascosto agli occhi della gente.
“La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.”
L’apostolo intravede quindi per tutte le creature non solo la liberazione dal peccato al quale sono state sottomesse, ma una vera e propria trasformazione, che le metterà in sintonia con la nuova condizione dei redenti. La liberazione delle creature infatti è orientata verso la “libertà della gloria” (che sarà propria) “dei figli di Dio”. Paolo qui sembra che pensi a un nuovo Eden nel quale l’universo, completamente rinnovato, sarà in piena sintonia con l’uomo glorificato.
“Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.”
L’attesa del creato viene paragonata da Paolo a quella di una donna incinta che geme e soffre le doglie del parto “fino ad oggi” Si tratta quindi di un’attesa molto lunga, che è già cominciata nel momento della prima caduta.
“Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”.
Insieme alla creazione anche noi credenti “gemiamo interiormente “(in noi stessi), aspettando ancora “l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”. In altre parole noi possiedono già lo Spirito, ma in modo ancora parziale e provvisorio, e attendiamo con impazienza ciò che si manifesterà in tutte le sue potenzialità (V. 1Gv 3,2) mediante la risurrezione dei corpi.
Nei successivi vv. 24-25 (non riportati nel brano liturgico), Paolo conclude che anche i credenti, come tutto il creato, sono stati salvati “nella speranza”. Il concetto stesso di speranza esige che quanto si spera non sia ancora visto, perché in questo caso non sarebbe più oggetto di speranza. Ma proprio perché si spera in ciò che non si vede, si è capaci di attenderlo con pazienza, cioè senza venir meno di fronte alle prove della vita.
Dal vangelo secondo Matteo
Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole.
E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice:
“Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca!”.
Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».
Mt 13, 1-23
L’Evangelista Matteo ci riporta in questo brano la prima di una serie di parabole raccolte in un intero capitolo e tutte queste parabole hanno come tema il mistero del regno dei cieli. Quasi tutte si ispirano al tema del seme, della semina e della mietitura. Un'altra caratteristica di questo capitolo è che per le prime due parabole (quella del seminatore e quella della zizzania) vi è una netta separazione tra i discepoli e le folle: le parabole sono per le folle ma la loro spiegazione è riservata unicamente ai discepoli. Le ultime cinque parabole invece non hanno alcuna spiegazione.
Il brano inizia riportando che Gesù uscì di casa, in cui aveva ricevuto poco prima la visita di sua madre e dei suoi fratelli, e si reca presso il lago di Genesaret, o lago di Tiberiade. e sedette in riva al mare.
E' la prima volta che Matteo parla in modo chiaro della casa abitata da Gesù (si tratta in effetti della casa di Pietro a Cafarnao). Tutto questo capitolo si muove tra la casa e il mare. Gesù, uscito dalla casa si siede lungo il mare, si siede per insegnare come un Rabbi. Ma il discorso che egli fa, non è un insegnamento tipico, ma piuttosto un annuncio, una predicazione.
“Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia”.Dalla spiaggia Gesù si trasferisce sulla barca, dalla quale poteva essere ascoltato e visto meglio dalla folla che si era radunata.
“Egli parlò loro di molte cose con parabole.” Con il termine "molte cose" si può anche intendere che parlò loro a lungo. La parabola indica normalmente un paragone, una similitudine, qualche volta un po' enigmatica, con la realtà naturale o sociale, che serve ad illustrare in modo velato, un po' misterioso, una realtà che non è dell'ordine naturale, come appunto il regno di Dio.
“E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare”.
Nonostante lo spreco e l'insuccesso possiamo constatare che questo seminatore riesce comunque a ottenere un raccolto straordinario. Non viene spiegato chi sia, ma la circostanza lascia facilmente pensare che Gesù stia parlando proprio di se stesso, è Lui che semina la "parola del regno". In un certo senso è una parabola in via di realizzazione e si può dire dire che Gesù spiega quello che succede nel momento stesso in cui sta parlando.
“Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno”.
Ci può sembrare un po’ strano questo modo di seminare, ma è da tener presente che in Palestina la semina precede l'aratura: si poteva seminare un po' dovunque, tanto poi si sarebbe passati con l'aratro! Ma la parabola però non parla di nessuna aratura! Gli elementi ricordati nella parabola sono tipici dell'agricoltura palestinese: il terreno è sempre più sassoso del nostro, le spine servivano da siepi di recinzione, i sentieri dei campi venivano arati. Però non ci si può fermare troppo ai particolari della parabola, ciò che conta è il suo significato E’ evidente anche che una spiga che produce cento grani è una vera e propria esagerazione.
“Chi ha orecchi, ascolti”.
Ossia chi ha orecchi, cioè capacità di comprendere attentamente, si metta in ascolto e cerchi di capire!
“Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato”.
Qui come si è visto precedentemente (Mt 12,46-50), vi è una distinzione tra le folle e i discepoli. Alle folle Gesù parla in parabole, mentre ai discepoli, in disparte, spiega i misteri del regno dei cieli.
Il termine ”misteri” non si trova nei vangeli, eccetto che in questa occasione e qui sta a significare ‘segreto', qualcosa che viene svelato ad alcuni e che essi possono rivelare ad altri. Per Matteo invece vi sono più "segreti" legati al regno: il regno è fatto di un insieme di cose misteriose e umanamente inspiegabili.
“Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha”.
Uno di questi segreti è il fatto che ad alcuni sia dato conoscere e ad altri invece sia negato: agli uni il regno si rivela, agli altri invece si nasconde. “A chi ha sarà dato..." è un principio tratto dalla vita economica: il capitale dell'uomo ricco produce interessi, mentre il povero che non ha da investire, impoverisce sempre di più. Le parabole hanno precisamente questo doppio effetto: aggiungono e tolgono. Più uno già sa, più è in grado di aggiungere conoscenze al suo sapere.
“Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono”.
Nelle folle c’è già di per sé una certa incomprensione e non è originata dal linguaggio parabolico di Gesù, che non fa altro che renderla più evidente. Comunque sia dobbiamo ammettere che c’è un paradosso in questa affermazione.
“Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”.
Il testo di Isaia, che è uno dei più citati nel Nuovo Testamento, serve a spiegare l'insuccesso della predicazione di Gesù, come già quella di Isaia stesso: non si tratta di un giudizio di condanna.
“Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!” Dopo le enigmatiche parole di Isaia, Matteo riporta delle parole di approvazione rivolte da Gesù ai suoi discepoli. La comprensione è un dono gratuito, tanti uomini giusti del passato non hanno potuto vedere e ascoltare quello che invece oggi i discepoli possono vedere e udire.
“Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore”.
Voi dunque che potete capire e non avete il cuore indurito, ascoltate la spiegazione della parabola. Essa viene chiamata la parabola del seminatore, ma la si può chiamare anche "dei quattro terreni".
“Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada”
I quattro tipi di terreni possono corrispondere a diverse persone oppure sempre alla stessa persona in momenti diversi della propria vita. Il primo terreno corrisponde alla semente gettata lungo la strada e su questo terreno il seme non ha neppure il tempo di germogliare perché arriva il Maligno . Il termine “maligno", è un’espressione tipica di Matteo e Giovanni, che si collega all’impulso cattivo che lotta con quello buono nel cuore dell'uomo.
“Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada
I quattro tipi di terreni possono corrispondere a diverse persone oppure sempre alla stessa persona in momenti diversi della propria vita. Il primo terreno corrisponde alla semente gettata lungo la strada e su questo terreno il seme non ha neppure il tempo di germogliare perché arriva il Maligno . Il termine “maligno", è un’espressione tipica di Matteo e Giovanni, che si collega all’impulso cattivo che lotta con quello buono nel cuore dell'uomo.
“Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno”.
Il secondo terreno corrisponde al seme gettato sui terreni pietrosi, che lasciano spuntare solo qualche germoglio debole, rivelano gli incostanti, i fragili, i deboli, che nel momento della prova non sono in grado di superarla.
“Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto”
Il terzo terreno è quello infestato da spine, che sono l’emblema dei superficiali, degli instabili legati ai miti del facile benessere e dell’orgoglio.
“Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno”
Il quarto terreno è quello che dà frutto, ma in proporzioni diverse (cento, sessanta, trenta). Uno studioso ha paragonato questi tre rendimenti con l'osservanza del triplice comandamento che gli ebrei ripetevano ogni giorno nella loro preghiera quotidiana: “Ascolta Israele, amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza”. Nella comune interpretazione rabbinica "con tutta l'anima" significa "perfino se egli ti strappa l'anima", cioè fino al martirio; mentre "con tutta la forza" significa "con tutte le tue ricchezze“.
Quelli che producono il cento sono coloro che hanno un cuore talmente obbediente da sacrificare non solo la loro proprietà , ma anche la cosa più preziosa di tutte, la loro vita, cioè i martiri.
Quelli che producono il sessanta hanno un cuore obbediente e danno via i loro averi, ma non si trovano nell'occasione di dare le loro vite a causa della parola.
Quelli che producono il trenta hanno pure un cuore obbediente e indiviso, ma non si trovano nell'occasione di offrire, per amore di Dio, né la loro vita né la loro proprietà.
Gesù, spiegando la parabola ai suoi discepoli non dice chi sia il seminatore, ma chiarisce solo come l’accoglienza della sua “Parola” (il seme) possa cambiare il cuore di chi l’ascolta. È il cuore il luogo dove viene accettata o rifiutata la salvezza, che dipende solo dalla libera responsabilità umana. Auguriamoci di essere terreni fertili e fruttuosi per la parola di Dio che riceviamo così saremo tra coloro che il Signore Gesù ha detto: “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano”.
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“Gesù, quando parlava, usava un linguaggio semplice e si serviva anche di immagini, che erano esempi tratti dalla vita quotidiana, in modo da poter essere compreso facilmente da tutti. Per questo lo ascoltavano volentieri e apprezzavano il suo messaggio che arrivava dritto nel loro cuore; e non era quel linguaggio complicato da comprendere, quello che usavano i dottori della Legge del tempo, che non si capiva bene ma che era pieno di rigidità e allontanava la gente. E con questo linguaggio Gesù faceva capire il mistero del Regno di Dio; non era una teologia complicata. E un esempio è quello che oggi porta il Vangelo: la parabola del seminatore.
Il seminatore è Gesù. Notiamo che, con questa immagine, Egli si presenta come uno che non si impone, ma si propone; non ci attira conquistandoci, ma donandosi: butta il seme. Egli sparge con pazienza e generosità la sua Parola, che non è una gabbia o una trappola, ma un seme che può portare frutto. E come può portare frutto? Se noi lo accogliamo.
Perciò la parabola riguarda soprattutto noi: parla infatti del terreno più che del seminatore. Gesù effettua, per così dire, una “radiografia spirituale” del nostro cuore, che è il terreno sul quale cade il seme della Parola. Il nostro cuore, come un terreno, può essere buono e allora la Parola porta frutto – e tanto – ma può essere anche duro, impermeabile. Ciò avviene quando sentiamo la Parola, ma essa ci rimbalza addosso, proprio come su una strada: non entra.
Tra il terreno buono e la strada, l’asfalto – se noi buttiamo un seme sui “sanpietrini” non cresce niente – ci sono però due terreni intermedi che, in diverse misure, possiamo avere in noi. Il primo, dice Gesù, è quello sassoso. Proviamo a immaginarlo: un terreno sassoso è un terreno «dove non c’è molta terra» , per cui il seme germoglia, ma non riesce a mettere radici profonde. Così è il cuore superficiale, che accoglie il Signore, vuole pregare, amare e testimoniare, ma non persevera, si stanca e non “decolla” mai. È un cuore senza spessore, dove i sassi della pigrizia prevalgono sulla terra buona, dove l’amore è incostante e passeggero. Ma chi accoglie il Signore solo quando gli va, non porta frutto.
C’è poi l’ultimo terreno, quello spinoso, pieno di rovi che soffocano le piante buone. Che cosa rappresentano questi rovi? «La preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza», così dice Gesù, esplicitamente. I rovi sono i vizi che fanno a pugni con Dio, che ne soffocano la presenza: anzitutto gli idoli della ricchezza mondana, il vivere avidamente, per sé stessi, per l’avere e per il potere. Se coltiviamo questi rovi, soffochiamo la crescita di Dio in noi. Ciascuno può riconoscere i suoi piccoli o grandi rovi, i vizi che abitano nel suo cuore, quegli arbusti più o meno radicati che non piacciono a Dio e impediscono di avere il cuore pulito. Occorre strapparli via, altrimenti la Parola non porterà frutto, il seme non si svilupperà.
Cari fratelli e sorelle, Gesù ci invita oggi a guardarci dentro: a ringraziare per il nostro terreno buono e a lavorare sui terreni non ancora buoni. Chiediamoci se il nostro cuore è aperto ad accogliere con fede il seme della Parola di Dio. Chiediamoci se i nostri sassi della pigrizia sono ancora numerosi e grandi; individuiamo e chiamiamo per nome i rovi dei vizi. Troviamo il coraggio di fare una bella bonifica del terreno, una bella bonifica del nostro cuore, portando al Signore nella Confessione e nella preghiera i nostri sassi e i nostri rovi. Così facendo, Gesù, buon seminatore, sarà felice di compiere un lavoro aggiuntivo: purificare il nostro cuore, togliendo i sassi e le spine che soffocano la Parola.
La Madre di Dio, che oggi ricordiamo col titolo di Beata Vergine del monte Carmelo, insuperabile nell’accogliere la Parola di Dio e nel metterla in pratica (cfr Lc 8,21), ci aiuti a purificare il cuore e a custodirvi la presenza del Signore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 16 luglio 2017
Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta, si può dire che sono un concentrato di paradossi e il paradosso più grande lo incontriamo
nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Zaccaria, in cui il re messianico appare in atteggiamento mite ed umile, evidenziato dal fatto che cavalca un asinello e non un cavallo da guerra. Egli è re di pace che spezza i simboli e gli strumenti di guerra. E’ il paradosso di un re umile eppure dominatore del mondo.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo sottolinea come la libertà ottenuta in Cristo fa sì che il principio di azione dominante in noi non sia più il peccato, ma lo spirito che dà vita.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù benedice e ringrazia il Padre che ha scelto di rivelare ai piccoli e agli umili i segreti dei suo cuore, mentre li ha tenuti nascosti ai sapienti e agli intelligenti. Poi fa un invito che è un vero e proprio programma di vita per ogni cristiano: Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Gesù chiama alla sua libertà, ad un incondizionato attaccamento a lui, al suo giogo, che è il solo a poter rendere tutto leggero, perché si presenta umile davanti a Dio e mite con gli uomini.
Dal libro del profeta Zaccaria
Così dice il Signore:
«Esulta grandemente, figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina.
Farà sparire il carro da guerra da Èfraim
e il cavallo da Gerusalemme,
l’arco di guerra sarà spezzato,
annuncerà la pace alle nazioni,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal Fiume fino ai confini della terra».
Za 9, 9-10
Il profeta Zaccaria, vissuto intorno al 500 a.C., undicesimo dei 12 profeti minori, i cui scritti chiudono l'Antico Testamento, si impegnò a sostenere con la parola di Dio gli Israeliti, rientrati a Gerusalemme dopo l'esilio di Babilonia, delusi per la mancanza di segni della benedizione divina per le dure prove sostenute. Il libro, che porta il suo nome, si divide in due sezioni, di cui solo la prima (cc. 1-8) raccoglie gli oracoli di questo profeta.
La seconda sezione (cc. 9-14), diversa dalla prima per stile e contenuto, attribuita ad un autore anonimo del tempo di Alessandro Magno, a sua volta si divide in tre parti: nella prima parte si annunzia la venuta del regno di Dio, che coincide con il raduno dei giudei dispersi e con la caduta dei regni di questo mondo (9,1-11,3); nella seconda (cc.11,4-14,21) si parla della liberazione di Gerusalemme mediante la sofferenza dei suoi rappresentanti, il buon pastore (cc-11,4-16; 13,7-9) e colui che è stato trafitto (cc.12,10-14); nella terza infine si annunzia che JHWH combatterà contro le nazioni e stabilirà su tutto il mondo la sua regalità (cc.14,1-21).
Il brano che abbiamo si apre con un invito alla gioia: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme!” rivolto agli abitanti di Gerusalemme. L’espressione “figlia di Sion” come la successiva “figlia di Gerusalemme” è un semitismo per indicare gli appartenenti alla collina di Sion, cioè gli abitanti di Gerusalemme.
Il motivo del giubilo viene indicato subito dopo con questa espressione: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”.
La particella “Ecco” indica che l’evento di cui si sta per parlare è imminente e l’espressione “a te viene il tuo re” indica che l’evento in questione è la venuta a Gerusalemme del Messia. Il Messia non sarà solo giusto, ma anche “vittorioso” ed umile. Egli “cavalca un asino”: mentre guerrieri forti e valorosi manifestano la loro dignità servendosi di cavalli, egli mostra la sua umiltà e mitezza cavalcando un asinello!
A questo re, che entra trionfalmente in Gerusalemme, vengono attribuite due azioni: prima di tutto egli “Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme”. Il nome Efraim è quello di uno dei due figli di Giuseppe e indica la tribù maggioritaria del Nord e quindi tutto il regno di Israele in contrasto con il regno di Giuda, indicato con il nome della sua capitale, Gerusalemme.
Sia in Israele che in Giuda egli farà dunque sparire tutti gli strumenti di guerra. Ciò significa che nell’era messianica non vi sarà più divisione fra il regno di Israele e quello di Giuda e il re messianico regnerà quindi su tutto Israele. . Oltre a far scomparire carri da guerra e cavalli, il re spezzerà per sempre l’arco, l’arma ordinaria in dotazione all’esercito di Israele.
Questo Messia dunque eliminerà la guerra per sempre! Si afferma ancora che il Messia “annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra”.
La missione principale del Messia sarà quella di proclamare la pacificazione fra i popoli, come già avevano annunziato Isaia (Is 11,6) e Osea (Os 2,20). La sua missione pacificatrice si estenderà da un mare, il Mediterraneo, a un altro mare, il golfo Persico, e dal fiume, il Nilo, sino ai confini della terra: tutte e quattro le indicazioni geografiche, che ritornano anche nel Salmo 72,8, indicano simbolicamente l’universalità del regno messianico.
In questo brano si preannunzia in calde note la venuta del “Re Messia“ che è presentato come una persona giusta e mite. Ciò che lo caratterizza non è tanto la vittoria sui nemici, quanto piuttosto la capacità di dare una salvezza che consiste, non nel reprimere la violenza con la violenza, ma nel creare rapporti nuovi tra le nazioni e gli individui. Di conseguenza la pace che egli porta, elimina alla radice la possibilità stessa di nuove violenze. Mediante la sua umiltà, e non violenza, il Messia descritto da Zaccaria manifesta la vera immagine di Dio, che attua la Sua salvezza non mediante il ricorso a minacce e castighi, ma toccando il cuore delle persone.
Salmo 144 - Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.
O Dio, mio re, voglio esaltarti
e benedire il tuo nome in eterno e per sempre.
Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.
Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza.
Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano in questa composizione, che tuttavia risulta bellissima nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode.
Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C. .Esso inizia rivolgendosi a Dio quale re:
“O Dio, mio re, voglio esaltarti (...) in eterno e per sempre”. “In eterno e per sempre”, indica in modo incessante e continuativo nel tempo. Segue uno sguardo su come la trasmissione, di generazione in generazione, delle opere di Dio non sia sentita solo come fatto prescritto (Cf. Es 13,14), ma come gioia di comunicazione, poiché le opere di Dio sono affascinanti: “Il glorioso splendore della tua maestà e le tue meraviglie voglio meditare. Parlino della tua terribile potenza: anch’io voglio raccontare la tua grandezza. Diffondano il ricordo della tua bontà immensa, acclamino la tua giustizia".
Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate (Cf. Ps 148). Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore.
La lode a Dio sul labbro dei fedeli diventa annuncio a tutti gli uomini: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno”. “Il regno” (malkut) è Israele e le “imprese” sono quelle della liberazione dall'Egitto, ecc. Terminata la successione monarchica dopo la deportazione a Babilonia, Israele, pur senza scartare minimamente la tensione verso il futuro re, il Messia, si collegò alla tradizione premonarchica dove il re era unicamente Dio. Nel libro dell'Esodo si parla di Israele come regno (19,6): “Un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Israele come regno di Dio si manifesta in modo evidente mediante l'osservanza della legge data sul Sinai; ma Israele non è solo suddito di Dio, ma anche figlio (Cf. Es 4,22).
Il salmista continua a celebrare la bontà di Dio verso gli uomini: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie (...). Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge tutti i malvagi”.
Il salmista termina la sua composizione esortandosi alla lode a Dio e invitando, in una visione universale, “ogni vivente” a benedirlo: “Canti la mia bocca la lode del Signore e benedica ogni vivente il suo santo nome, in eterno e per sempre”. “Ogni vivente”; anche gli animali, le piante - ovviamente a loro modo - celebrano la gloria di Dio (Cf. Ps 148,9-10).
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete.
Rm 8, 9. 11-13
Continuando la sua lettera ai Romani, Paolo affronta il tema della vita nuova che si apre a colui che è diventato giusto mediante la fede. A tal fine egli riprende e rielabora alcune delle intuizioni che aveva già anticipato precedentemente.
In questo brano invita i Romani allora, e anche noi oggi, a considerare fino in fondo la nuova situazione in cui si trovano: “voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene”. Lo Spirito di Dio quindi non è altro che lo Spirito di Cristo, perciò proprio in forza dello Spirito che è in loro appartengono a Cristo.
Poi prosegue: “E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”. In altre parole lo stesso Spirito, mediante il quale Dio ha risuscitato Gesù dai morti, darà una nuova vita anche a coloro nei quali, in forza della giustificazione, è venuto ad abitare.
L’apostolo poi conclude il suo pensiero: “Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete”
Egli ricorda così che, se si vive secondo la carne,(ossia secondo la mentalità del mondo) si andrà incontro alla morte; ma se con l’aiuto dello Spirito si fanno morire le opere del mondo, si vivrà.
Lo Spirito dà dunque la vera vita all’uomo, in quanto gli permette di liberarsi dai condizionamenti della carne (ossia del mondo) cioè di evitare il peccato che porta inevitabilmente alla morte.
Questa tesi, affermata con grande forza da Paolo contro tutte le accuse che gli venivano fatte dai suoi avversari, mette chiaramente in luce la dignità della persona umana.
All’uomo, in quanto creatura dotata di ragione e di libertà, non conviene un agire imposto da una legge esterna, da una legge dettata da un relativismo sempre più pressante. L’uomo deve poter agire per una spinta interiore, che lo orienti al bene pur lasciandolo libero di fare le sue scelte. Lo Spirito svolge questo compito, in quando rendendo viva l’esperienza di Cristo nel suo cuore, può muovere l’uomo dall’interno e al tempo stesso garantisce la sua libertà.
Lo Spirito dunque è una forza piena di dinamismo, che fa tendere alla piena partecipazione alla vita di Cristo, alla resurrezione, dato che la risurrezione di Cristo è strettamente legata alla nostra. Ma questa realtà , che è operata in noi dallo dono dello Spirito, rimane sempre una nostra scelta libera che si ripropone ogni giorno.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Mt 11, 25-30
Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte della “sezione narrativa” che si era aperta con le domande fatte a Gesù da parte di due discepoli di Giovanni il Battista, poi c’è l’elogio che Gesù fa del Battista a cui segue un giudizio di Gesù sul Battista: “… tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista…” ; .
L’inno che Gesù proclama in questo brano è stato definito “una gemma giovannea” incastonata nel Vangelo di Matteo. Lo stile solenne, la tonalità intensa, la ricchezza teologica accostano infatti questa “benedizione” alla grandiosa preghiera sacerdotale con cui Gesù chiude nel Vangelo di Giovanni il testamento dedicato ai suoi discepoli nell’ultima sera della Sua vita terrena.
Per comprendere meglio questo inno è importante capire in quale contesto è stato pronunciato.
Nel paragrafo precedente Matteo ha descritto il rifiuto che Gesù subisce da parte delle autorità delle città di Tiberiade, Corazin, Betsàida., Cafarnao, indifferenti alla Sua parola e alla Sua azione.
Gesù qui dichiara “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.”
Gesù ringrazia il Padre perché dal mistero del regno di Dio, cioè dal progetto di salvezza che Dio sta attuando attraverso di Lui, Suo figlio, è caduto il velo, e gli occhi non altezzosi, non pieni di sé dei poveri e degli umili, possono contemplare il “Signore del cielo e della terra”. I sapienti, gli intelligenti orgogliosi hanno invece occhi spenti, offuscati dai loro pregiudizi, che vedono in Gesù solo un modesto predicatore di Nazareth, figlio di un carpentiere, degno solo di ironia.
Poi Gesù fa l’invito consolante: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”.
Gesù così invita tutti coloro che si sentono affaticati e gravati dalle prescrizioni giudaiche, a mettersi alla sua sequela, E’ interessante notare che l’immagine del “giogo” era usata nella tradizione giudaica per indicare la Legge e le sue esigenze, imposte dal Signore ad Israele. Gesù ripropone questo simbolo ma lo spoglia del suo aspetto di imposizione e lo presenta con una dimensione più “dolce” , ma non per questo meno esigente. Infatti la totalità degli molteplici impegni della religione e della morale è sintetizzata in un unico totalizzante impegno, il “giogo” dell’amore.
La relazione con Dio non è più regolata da un freddo dovere o dalla paura del giudizio, è invece fondata sull’amore filiale e spontaneo ed è per questo molto più esigente e piena . La comunità dei “piccoli” che ha scoperto i misteri del Regno deve allora avviarsi su questa strada di luce e come dice il profeta Geremia, “strada buona e prendendola troveremo pace per le nostre anime”.Ger 6,16
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“Nel Vangelo di oggi Gesù dice: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro»
Il Signore non riserva questa frase a qualcuno dei suoi amici, no, la rivolge a “tutti” coloro che sono stanchi e oppressi dalla vita. E chi può sentirsi escluso da questo invito? Il Signore sa quanto la vita può essere pesante. Sa che molte cose affaticano il cuore: delusioni e ferite del passato, pesi da portare e torti da sopportare nel presente, incertezze e preoccupazioni per il futuro.
Di fronte a tutto questo, la prima parola di Gesù è un invito, un invito a muoversi e reagire: “Venite”. Lo sbaglio, quando le cose vanno male, è restare dove si è, coricato lì. Sembra evidente, ma quanto è difficile reagire e aprirsi! Non è facile. Nei momenti bui viene naturale stare con se stessi, rimuginare su quanto è ingiusta la vita, su quanto sono ingrati gli altri e com’è cattivo il mondo, e così via. Tutti lo sappiamo. Alcune volte abbiamo subito questa brutta esperienza. Ma così, chiusi dentro di noi, vediamo tutto nero. Allora si arriva persino a familiarizzare con la tristezza, che diventa di casa: quella tristezza ci prostra, è una cosa brutta questa tristezza. Gesù invece vuole tirarci fuori da queste “sabbie mobili” e perciò dice a ciascuno: “Vieni!” – “Chi?” - “Tu, tu, tu…”. La via di uscita è nella relazione, nel tendere la mano e nell’alzare lo sguardo verso chi ci ama davvero.
Infatti uscire da sé non basta, bisogna sapere dove andare. Perché tante mete sono illusorie: promettono ristoro e distraggono solo un poco, assicurano pace e danno divertimento, lasciando poi nella solitudine di prima, sono “fuochi d’artificio”. Per questo Gesù indica dove andare: “Venite a me”. E tante volte, di fronte a un peso della vita o a una situazione che ci addolora, proviamo a parlarne con qualcuno che ci ascolti, con un amico, con un esperto… È un gran bene fare questo, ma non dimentichiamo Gesù! Non dimentichiamo di aprirci a Lui e di raccontargli la vita, di affidargli le persone e le situazioni. Forse ci sono delle “zone” della nostra vita che mai abbiamo aperto a Lui e che sono rimaste oscure, perché non hanno mai visto la luce del Signore. Ognuno di noi ha la propria storia. E se qualcuno ha questa zona oscura, cercate Gesù, andate da un missionario della misericordia, andate da un prete, andate… Ma andate a Gesù, e raccontate questo a Gesù. Oggi Egli dice a ciascuno: “Coraggio, non arrenderti ai pesi della vita, non chiuderti di fronte alle paure e ai peccati, ma vieni a me!”.
Egli ci aspetta, ci aspetta sempre, non per risolverci magicamente i problemi, ma per renderci forti nei nostri problemi. Gesù non ci leva i pesi dalla vita, ma l’angoscia dal cuore; non ci toglie la croce, ma la porta con noi. E con Lui ogni peso diventa leggero, perché Lui è il ristoro che cerchiamo.
Quando nella vita entra Gesù, arriva la pace, quella che rimane anche nelle prove, nelle sofferenze.
Andiamo a Gesù, diamogli il nostro tempo, incontriamolo ogni giorno nella preghiera, in un dialogo fiducioso, personale; familiarizziamo con la sua Parola, riscopriamo senza paura il suo perdono, sfamiamoci del suo Pane di vita: ci sentiremo amati, ci sentiremo consolati da Lui.È Lui stesso che ce lo chiede, quasi insistendo. Lo ripete ancora alla fine del Vangelo di oggi: «Imparate da me […] e troverete ristoro per la vostra vita». E così, impariamo ad andare da Gesù e, mentre nei mesi estivi cercheremo un po’ di riposo da ciò che affatica il corpo, non dimentichiamo di trovare il ristoro vero nel Signore.
Ci aiuti in questo la Vergine Maria nostra Madre, che sempre si prende cura di noi quando siamo stanchi e oppressi e ci accompagna da Gesù. ..”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 9 luglio 2017
1. Da domenica 28 giugno e la Solennità dei Santi Pietro e Paolo entra in vigore l’orario estivo delle S. Messe festive alle ore 9.00 – 11.00 e 18.30.
La S. Messa di domenica alle 18.30 è la veglia della Solennità dei Santi Pietro e Paolo.
Da martedì 30 giugno le S. Messe nei giorni feriali si celebrano alle ore 8.00 e alle ore 18.30.
2. Alla fine di ogni celebrazione i fedeli possono lasciare l’offerta della questua nelle bussole in fondo alla chiesa. Grazie.
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)