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S.Messe (settimana)
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KRZYZ

Elena Tasso

Elena Tasso

Le letture liturgiche di questa ultima domenica di quaresima, conosciuta anche come domenica di Passione, ci introducono alla Settimana Santa, (santa perchè dobbiamo essere più vicini al Santo) e ci rendono quanto mai partecipi delle sofferenze di Cristo che affronta la Sua dolorosa passione per la nostra salvezza.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia attraverso il canto del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo la vita e la passione di Gesù. Il suo atteggiamento di fiducia in Dio e di amore per i fratelli lo lascia in una suprema libertà di fronte ad ogni prova. Egli ha la certezza che la sua missione non è vana.
Nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Filippesi, S.Paolo, con l’Inno Cristologico, rivela il mistero dell’abbassamento di Cristo e l’intervento di Dio in Suo favore: il Padre lo esalta, ponendolo al di sopra di tutte le cose e di tutti gli esseri viventi.
Il racconto della passione, tratta dal Vangelo di Luca, riporta l’istituzione del eucaristia incorniciata nei giorni della passione di Gesù, e le sue ultime parole: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». che è come la sintesi di una lunga lezione che Gesù ha distribuito nel Vangelo di Luca

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”».
Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno».
Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:
«Benedetto colui che viene,
il re, nel nome del Signore!.
Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».
Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
Lc 19, 28-40

Dal capitolo 19 del vangelo di Luca, è stato tratto questo brano per commentare l’entrata di Gesù a Gerusalemme
“Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme”. Gesù, qui appare come il pastore davanti al gregge, che cammina “salendo verso Gerusalemme”.
“Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo «Andate nel villaggio di fronte;”
Per comprendere questo brano bisogna rifarsi alla profezia di Zaccaria al capitolo 9, dove il profeta annunzia l’arrivo di un re, di un messia, completamente diverso da quelli attesi. Non un messia che viene con potenza, con la forza delle armi, non con i carri o con i cavalli, ma un messia di pace. E per indicare questo messia di pace, anziché presentarlo vittorioso sopra una cavalcatura regale, il profeta Zaccaria lo fa vedere che cavalca un asino, un puledro, figlio di asina. Bisogna perciò tener conto di questa profezia per comprendere quello che l’evangelista ci vuol dire.
“entrando,troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui”.
L’evangelista vuole evidenziare che questa profezia è stata considerata di meno valore delle altre, e tra le tante attese di un messia trionfatore, non era stata neanche presa in considerazione. Il verbo slegare, relativo all’ordine di Gesù: “slegatelo!” riferito al puledro, sarà ripetuto in questo brano per ben quattro volte. Gesù è venuto a sciogliere quella profezia che era rimasta legata, nascosta, quella di un messia di pace, che nessuno poteva immaginare.
“E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”.
Il Signore dunque è colui che slega la profezia, colui che libera, mentre i capi del popolo la tenevano legata.
“Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada”.
Era tipico nell’investitura regale, che il popolo, come segno di sottomissione, stendesse il mantello sulla strada e il re vi passasse sopra, come segno di dominio. Quindi vediamo che ci sono coloro che accettano questo messia di pace ma anche una parte della folla, che attendendo un messia dominatore, è pronta a sottomettersi a questo re.
“Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto” e, citando il Salmo 119, dicevano «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore!. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».”
Di fronte a questa reazione del popolo, i rappresentanti religiosi “alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli».
E’ pronta la risposta di Gesù:«Io vi dico, se questi taceranno, grideranno le pietre».
E’ importante tenere presente che la discesa del monte degli Ulivi, all’ingresso di Gerusalemme, passa attraverso la valle di Giosafat, chiamata anche la valle del giudizio, che era disseminata di pietre tombali. Per questo Gesù dice che se anche i vivi taceranno, i morti, cioè gli israeliti che hanno vissuto prima di loro e che da sempre hanno vissuto e costruito questa attesa di un messia, saranno loro, rappresentati dalle pietre tombali, a gridare.
Quindi l’evangelista assicura che, anche se si mettono a tacere i discepoli, la forza della vita che è insita anche in quest’ambito di morte, proclamerà il dono di Dio all’umanità, cioè un messia che porta la pace.

Dal libro del profeta Isaia
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
Is 50,4-7

In questo carme del Servo sofferente, il profeta (Deuteroisaia) presenta un personaggio misterioso che percorre la via della sofferenza, della fedeltà alla Parola, fino alla donazione di se stesso, in mezzo a torture “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,” insulti “non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.” e oltraggi di ogni specie “le mie guance a coloro che mi strappavano la barba”.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il Suo progetto nonostante tutte le contestazioni.
Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale, ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Fa impressione vedere come la profezia del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo di 550 anni, la vita e la passione di Gesù.

Salmo 21 Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno forato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.

Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe.

Il salmo presenta un giusto sofferente e perseguitato, pieno di speranza in Dio.
L’autore del salmo guarda alla sua esperienza di dolore, ma anche intende proporre un modello di sofferente che sostenga i fedeli nel momento della prova più terribile, cioè quando sono rifiutati, colpiti, dalla loro stessa gente. Il risultato presenta una tale aderenza nella descrizione di molte delle sofferenze di Cristo da dire che l’ispirazione ha modellato il giusto del salmo sul Cristo crocifisso.
Le prime parole del salmo sono un’invocazione sgomenta dinanzi a Dio; sgomenta, ma senza alcun rimprovero. E’ un gemito rivelatore del suo grande tormento interiore: essere di fronte all’abbandono di Dio, al silenzio di Dio, che sembra assente, mentre egli è il Dio presente come attesta il tempio.
Il punto che lo sconvolge, è che il suo popolo, quello che vive all’ombra del tempio e che dovrebbe essere laudante attorno al trono di Dio “Tu siedi in trono fra le lodi di Israele” rifiuta la giustizia, e così anche la propria storia di popolo chiamato a proclamare i benefici di Dio. “In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li hai liberasti” dice, alludendo alla liberazione dall’Egitto.
Ma, ecco, egli è diventato “rifiuto degli uomini”, schiacciato a terra come un verme, privato della dignità di uomo. Di fronte a sé ha solo schernitori che si sfoggiano un sentirsi a posto con Dio, visto che Dio è dalla loro parte poiché non porta aiuto a colui che ora è nelle loro mani e che si diceva suo amico: “Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!”. Ma il giusto perseguitato e colpito continua a confidare in Dio; non raccoglie la velenosa provocazione che lo vorrebbe rendere dubbioso davanti a Dio. Dio lo ha tratto dal grembo di sua madre; cioè il Padre ha dato al Figlio una natura umana, e, una sola persona (Figlio) in due nature, lo ha tratto dal grembo di una donna, e al suo nascere lo ha preso subito sulle sue ginocchia (Cf. Gn 50,23; Is 46,3) in riconoscimento della sua paternità.
L’aggressione che egli subisce è violenta, implacabile: “Mi circondano tori numerosi, mi assediano grossi tori di Basan…" (Basan è una regione ricca di pascoli a sud di Damasco). “Io sono come acqua versata”, buttato via, gettato via, come acqua. Colpito, strattonato, è pieno di dolore: “sono slogate tutte le mie ossa”. Il suo cuore cede per il dolore e lo sforzo d’amare; ed egli avverte che viene meno come colpito da infarto: “Il mio cure è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere”.
E’ disidratato e la sete lo attanaglia; la sua gola è riarsa e non può muovere che a stento la lingua: “La mia lingua si è incollata alla gola”. Egli si trova “su polvere di morte” senza scampo.
Gli avversari si sono ancora di più incattiviti vedendo la sua perseveranza, sono diventati un “branco di cani” che addentano. Premuto, assediato da ogni parte, gli vengono trafitti i piedi e le mani così da impedire che si muovesse o si difendesse dai colpi: l’autore del salmo non pensava alla crocifissione, pena di morte introdotta più tardi dai romani. “Posso contare tutte le mie ossa”, l’espressione rende l’idea complessiva del dolore che gli viene da ogni parte del corpo, ma la traduzione della Volgata di san Gerolamo - “hanno contato tutte le mie ossa” - è sicuramente proveniente da un manoscritto migliore in questo punto perché fa vedere anche la crudeltà degli aggressori, che hanno badato a che nessuna parte del corpo del giusto giustiziato fosse senza ferita e dolore.
Gli aggressori si compiacciono ferocemente dei dolori del giusto giustiziato : “essi stanno a guardare e mi osservano”. E sono tanto noncuranti di lui che giocano a dadi le sue vesti, secondo il diritto che si aveva sui condannati: “sulla mia tunica gettano la sorte”.
Di fronte a questo stato di strazio il giusto giustiziato non cessa di pregare e domanda aiuto a Dio per sfuggire non già alla morte, ma alla morte cui segue la consunzione della tomba, e questo mediante la risurrezione.
“Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”, dice. Risorto darà luce ai suoi fratelli, loderà il Padre nell’assemblea dei credenti (Cf. 1Cor 15,6).
Egli dirà: “Lodate il Signore, voi suoi fedeli, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza di Israele…”. E nella Chiesa, nella grande assemblea, loderà il Padre. Nella Grande Assemblea dove egli sarà presente con la sua Parola, con la sua reale presenza Eucaristica e col dono dello Spirito Santo.
Nel banchetto della carità “i poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano”.
La visione diventa universale, perché la salvezza del Cristo è universale: “Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli”.
I popoli all’annunzio del Vangelo ricorderanno ciò che avevano dimenticato, che l’uomo è capace di Dio, che Dio è uno solo e che è bontà. Che il regno del mondo (Ap 11,15) è di Dio, e sue sono tutte le nazioni. E non solo ricorderanno e torneranno, che equivale a convertirsi, ma insieme a ciò crederanno alla lieta notizia evangelica, quella del regno dei cieli presente nella Chiesa per lievitare tutta la terra conquistata dal Cristo.
A Dio solo, liberi in eterno da ogni influsso di idolatria, si prostreranno, nel giorno della risurrezione, quanti ora dormono sotto terra.
Il grande Giusto giustiziato esprime la sua certezza che egli vivrà, risorgerà da morte e celebrerà in eterno il Padre: “Ma io vivrò per lui”.
E la sua discendenza, la Chiesa, servirà in lui, nel dono dello Spirito Santo, il Padre, portando la salvezza da lui ottenuta per tutte le genti. “Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia”, e la sua giustizia del Padre è Cristo, che ha espiato le colpe degli uomini. “Ecco l’opera del Signore”, diranno alle generazioni che si susseguono. E “l’opera del Signore” è Cristo, Cristo vivente nella Chiesa.
Commento di P. Paolo Berti

Dalla lettera di S Paolo apostolo ai Filippesi
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,6-11

Questo brano, tratto dalla lettera ai Filippesi, è conosciuto come Inno Cristologico. Con tutta probabilità era un inno già diffuso tra le comunità cristiane e Paolo lo inserisce nella sua lettera, per esortare i Filippesi a non agire per rivalità o vanagloria ma ad avere in sé gli stessi sentimenti di Cristo.
“Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio,”
Qui si afferma che Gesù aveva forma di Dio e si sottolinea il paradosso del gesto libero e volontario con cui Gesù vi ha rinunciato. “La forma di Dio”, che giustamente è stato tradotto con “condizione di Dio,” comporta dominio, autorità e dignità. Gesù non ha voluto sfruttare a suo vantaggio queste sue prerogative.
“ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo,”
Svuotando se stesso, ha messo da parte le qualità divine che non erano compatibili con la realtà dell'incarnazione. Questo svuotamento è servito dunque per assumere la condizione di servo, l'esatto opposto della condizione di Dio. Durante la sua vita terrena Egli non volle comportarsi come Dio e Signore degli uomini, ma come servo, privo di ogni dignità, autorità e potere, completamente dedito all'umile servizio degli altri. C’è un chiaro riferimento al Servo di JHWH di cui si parla in Isaia 52,13-53,12 che sopporta la sofferenza per riconciliare gli uomini tra di loro e con Dio.
“diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”.
Gesù è divenuto simile agli uomini, ma non solo: è stato riconosciuto in tutto e per tutto come un uomo. Non solo: in mezzo agli uomini Egli si è ulteriormente umiliato, ha portato il suo svuotamento fino in fondo. Ciò non vuol dire che Gesù ha cessato di essere uguale a Dio, ma che si è spogliato, nella sua umanità, della sua gloria divina manifestata solo nella trasfigurazione. Il farsi obbediente fino alla morte quindi non è solo la descrizione di un itinerario che lo ha portato alla morte, ma un atteggiamento costante, che ha caratterizzato l'obbedienza e la mitezza di Gesù per tutta la sua vita.
Gesù inoltre è arrivato alla morte, ma ad una morte di croce. L’Apostolo ha voluto fare questa precisazione perchè gli Efesini, molti dei quali avevano cittadinanza romana, sapevano che la morte di croce era l'umiliazione più degradante, il colmo dell'abiezione.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome,”
Il soggetto qui non è più Gesù bensì Dio, il Padre. Proprio perché Cristo ha accettato di umiliarsi fino in fondo, il Padre lo ha esaltato. Inoltre Dio Padre gli ha donato,un nome che è al di sopra di tutti gli altri
“perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra,”
Gesù viene esaltato perché davanti al suo nome ogni creatura si prostri in adorazione.
“e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!»,a gloria di Dio Padre”.
L'inno raggiunge il massimo in questo versetto. Ogni lingua proclamerà che Gesù è Dio, è il Signore, il Kyrios.
Gesù che durante la sua esistenza terrena ha voluto toccare il fondo dello svuotamento e dell'umiliazione, è stato innalzato alla suprema dignità.
Al termine abbiamo poi l'espressione: a gloria di Dio Padre. Con queste parole si vuole affermare che Gesù Cristo Signore non è il sostituto né un concorrente di Dio, in quanto la confessione della signoria di Cristo ritorna alla fine a gloria di Dio Padre.

Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca

Seguendo Gesù nella passione ogni credente è chiamato ad immedesimarsi in alcuni personaggi che si trovano nel racconto di Luca: Simone di Cirene e le donne, non sono spettatori o testimoni neutri, ma sono quasi dei modelli della sequela di Gesù. Di Simone, Luca nota che: “ gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù” e questa espressione Luca la usa per definire il discepolo di Gesù “che porta ogni giorno la sua croce” per seguire il suo Signore fino alla fine. Le donne “si battevano il petto” e questo gesto sarà ripetuto dalla folla che “se ne tornava battendosi il petto”.
Gesù sulla croce offre al discepolo di ogni tempo e di ogni luogo, un altro grande esempio da concretizzare nella vita, quello del perdono dei peccatori e delle offese ricevute: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». In questa linea d’amore, di perdono e di donazione sino all’ultimo si colloca anche l’episodio riferito da Luca, del malfattore pentito a cui Gesù offre il dono della salvezza nel Regno. Con quest’uomo noi tutti dobbiamo ripetere: Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E con queste parole di conversione anche per noi si spalancheranno le braccia dell’amore misericordioso di Dio.
Anche nella Sua morte, Gesù, agli occhi di Luca, diventa il segno di un’altra vita da seguire, quella del perfetto abbandono nelle mani di Dio. Come è noto, è solo Luca a citarne un’altra preghiera finale di Gesù moribondo, oltre a quella del salmo 21 . «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Infatti riprendendo il salmo 31, Gesù esclama: : «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». E’ come la sintesi di una lunga lezione che Gesù ha distribuito nel Vangelo di Luca … l’ultima parola che affiora sulle labbra di Gesù è, secondo Luca, in quel “Padre!” finale, pronunziato con serenità e fiducia.

 

*****

Le parole di Papa Francesco

“Benedetto colui che viene nel nome del Signore», gridava festante la folla di Gerusalemme accogliendo Gesù. Abbiamo fatto nostro quell’entusiasmo: agitando le palme e i rami di ulivo abbiamo espresso la lode e la gioia, il desiderio di ricevere Gesù che viene a noi. Sì, come è entrato a Gerusalemme, Egli desidera entrare nelle nostre città e nelle nostre vite. Come fece nel Vangelo, cavalcando un asino, viene a noi umilmente, ma viene «nel nome del Signore»: con la potenza del suo amore divino perdona i nostri peccati e ci riconcilia col Padre e con noi stessi.
Gesù è contento della manifestazione popolare di affetto della gente, e quando i farisei lo invitano a far tacere i bambini e gli altri che lo acclamano risponde: «Se questi taceranno, grideranno le pietre» . Niente poté fermare l’entusiasmo per l’ingresso di Gesù; niente ci impedisca di trovare in Lui la fonte della nostra gioia, la gioia vera, che rimane e dà la pace; perché solo Gesù ci salva dai lacci del peccato, della morte, della paura e della tristezza.
Ma la Liturgia di oggi ci insegna che il Signore non ci ha salvati con un ingresso trionfale o mediante potenti miracoli. L’apostolo Paolo, nella seconda Lettura, sintetizza con due verbi il percorso della redenzione: «svuotò» e «umiliò» sé stesso . Questi due verbi ci dicono fino a quale estremo è giunto l’amore di Dio per noi. Gesù svuotò sé stesso: rinunciò alla gloria di Figlio di Dio e divenne Figlio dell’uomo, per essere in tutto solidale con noi peccatori, Lui che è senza peccato. Non solo: ha vissuto tra noi in una «condizione di servo»: non di re, né di principe, ma di servo. Quindi si è umiliato, e l’abisso della sua umiliazione, che la Settimana Santa ci mostra, sembra non avere fondo.
Il primo gesto di questo amore «sino alla fine» è la lavanda dei piedi. «Il Signore e il Maestro», si abbassa fino ai piedi dei discepoli, come solo i servi facevano. Ci ha mostrato con l’esempio che noi abbiamo bisogno di essere raggiunti dal suo amore, che si china su di noi; non possiamo farne a meno, non possiamo amare senza farci prima amare da Lui, senza sperimentare la sua sorprendente tenerezza e senza accettare che l’amore vero consiste nel servizio concreto.
Ma questo è solo l’inizio. L’umiliazione che Gesù subisce si fa estrema nella Passione: viene venduto per trenta denari e tradito con un bacio da un discepolo che aveva scelto e chiamato amico. Quasi tutti gli altri fuggono e lo abbandonano; Pietro lo rinnega tre volte nel cortile del tempio. Umiliato nell’animo con scherni, insulti e sputi, patisce nel corpo violenze atroci: le percosse, i flagelli e la corona di spine rendono il suo aspetto irriconoscibile. Subisce anche l’infamia e la condanna iniqua delle autorità, religiose e politiche: è fatto peccato e riconosciuto ingiusto. Pilato, poi, lo invia da Erode e questi lo rimanda dal governatore romano: mentre gli viene negata ogni giustizia, Gesù prova sulla sua pelle anche l’indifferenza, perché nessuno vuole assumersi la responsabilità del suo destino.
E penso a tanta gente, a tanti emarginati, a tanti profughi, a tanti rifugiati, a coloro dei quali molti non vogliono assumersi la responsabilità del loro destino. La folla, che poco prima lo aveva acclamato, trasforma le lodi in un grido di accusa, preferendo persino che al suo posto venga liberato un omicida. Giunge così alla morte di croce, quella più dolorosa e infamante, riservata ai traditori, agli schiavi, ai peggiori criminali. La solitudine, la diffamazione e il dolore non sono ancora il culmine della sua spogliazione. Per essere in tutto solidale con noi, sulla croce sperimenta anche il misterioso abbandono del Padre. Nell’abbandono, però, prega e si affida: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Appeso al patibolo, oltre alla derisione, affronta l’ultima tentazione: la provocazione a scendere dalla croce, a vincere il male con la forza e a mostrare il volto di un dio potente e invincibile. Gesù invece, proprio qui, all’apice dell’annientamento, rivela il volto vero di Dio, che è misericordia. Perdona i suoi crocifissori, apre le porte del paradiso al ladrone pentito e tocca il cuore del centurione. Se è abissale il mistero del male, infinita è la realtà dell’Amore che lo ha attraversato, giungendo fino al sepolcro e agli inferi, assumendo tutto il nostro dolore per redimerlo, portando luce nelle tenebre, vita nella morte, amore nell’odio.
Può sembrarci tanto distante il modo di agire di Dio, che si è annientato per noi, mentre a noi pare difficile persino dimenticarci un poco di noi. Egli viene a salvarci; siamo chiamati a scegliere la sua via: la via del servizio, del dono, della dimenticanza di sé. Possiamo incamminarci su questa via soffermandoci in questi giorni a guardare il Crocifisso, è la “cattedra di Dio”.
Vi invito in questa settimana a guardare spesso questa “cattedra di Dio”, per imparare l’amore umile, che salva e dà la vita, per rinunciare all’egoismo, alla ricerca del potere e della fama. Con la sua umiliazione, Gesù ci invita a camminare sulla sua strada. Rivolgiamo lo sguardo a Lui, chiediamo la grazia di capire almeno qualcosa di questo mistero del suo annientamento per noi; e così, in silenzio, contempliamo il mistero di questa Settimana.”

Papa Francesco Omelia tenuta del Papa nella domenica delle Palme del 2016

Parrocchia Nostra Signora de La Salette

Roma, 10 marzo 2019

Carissimo, carissima,
queste poche righe ti sono scritte in occasione della tradizionale benedizione pasquale. La Chiesa cattolica non sta certamente vivendo un momento di splendore. Colpe vere e presunte le sono imputate, a ragione e a torto. Nonostante ciò, in essa non manca la gioia di annunciare il Vangelo. Far conoscere la parola di Gesù; dare la possibilità di incontrarlo personalmente nei sacramenti; far incontrare tra loro persone che non si conoscono ma portano lo stesso desiderio di fare qualcosa per gli altri, per il loro bene: questa è la sua prima e vera preoccupazione. D'altra parte, le colpe e i crimini più gravi trovano terreno fertile nella mediocrità e nel cinismo. La Chiesa cade nella mediocrità e nel cinismo quando dimentica la sua preoccupazione essenziale: la gioia di annunciare il Vangelo.

È questa preoccupazione gioiosa che ha portato il sacerdote nella vostra casa e nella vostra famiglia. Il sacerdote non viene per riscuotere qualcosa, ma viene per invitare chi lo accoglie a far parte della Chiesa. Si fa parte della Chiesa quando si inizia a conoscere realmente la parola di Gesù. Si fa parte della Chiesa quando si scoprono i sacramenti non come riti esteriori e vuoti, ma come veri incontri con la persona vivente di Gesù risorto e con le sue azioni, capaci di ricostruire anche le vite più tormentate e difficili. Si fa parte della Chiesa quando ci si unisce a qualcun altro per dedicare del tempo a chi si trova nel bisogno vero, quello che rende pesante e pericolosa la vita.

Se vuoi fare questa esperienza, vieni. Non fermarti a quello che "si dice" della Chiesa. Vieni tu stesso a vedere. E unisciti a quel che senti più vicino al tuo animo. Se la gioia di annunciare il Vangelo ti contagerà, allora sarai anche tu un argine vero e reale a tutti quei comportamenti e modi di fare che, mediocri e cinici, rendono la Chiesa un luogo da temere e da cui è bene allontanarsi il più presto possibile. È questo l'augurio che io e i miei collaboratori ci permettiamo di farti in occasione della Pasqua, in modo cordiale e non ipocrita.

P. Stanislao, parroco

Le letture liturgiche di questa V domenica di quaresima spesso vengono considerate come il grande momento penitenziale dell’anno cristiano, ma non sono solo pentimento per un peccato che incombe e umilia l’umanità, sono soprattutto speranza gioiosa di liberazione, di perdono e soprattutto di pace interiore.
La prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, agli ebrei provati dall’esilio di Babilonia, il profeta ricorda la liberazione dall’Egitto e promette, da parte di Dio, un nuovo intervento liberatore.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Filippesi, Paolo usa un linguaggio sportivo per indicare il suo impegno per il Vangelo. La vita dell’Apostolo è come una corsa verso una meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
L’evangelista Giovanni ci propone il brano che riporta l’incontro di Gesù con l’adultera, rea per la legge ebraica di lapidazione. Gesù alla domanda trabocchetto che gli pongono i farisei, risponde sfidandoli: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra”. Il messaggio che Gesù ci dà consiste nel riconoscere che nessuno davanti a Dio è senza peccato e che ognuno può non peccare più se lascia nel passato i propri errori per seguire la luce che l’amore di Dio gli dona in Cristo Gesù.

Dal libro del profeta Isaìa
Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti,
che fece uscire carri e cavalli,
esercito ed eroi a un tempo;
essi giacciono morti, mai più si rialzeranno,
si spensero come un lucignolo, sono estinti:
«Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, io faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto,fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi».
Is 43;16-21

Questo brano fa parte dei testi (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia”. Forse era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Infatti a partire dal 550 a.C. compare un nuovo popolo, non semitico, sono i Persiani sotto il comando del loro re: Ciro. In 10 anni egli sottomette l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, egli appare come un liberatore. Da allora nella comunità degli Ebrei esiliati si vedono apparire racconti, oracoli, canti che esaltano l’opera di Dio nella storia del mondo.
E’ finito il tempo in cui dominano gli idoli, il vero Dio, il solo Dio appare loro il padrone degli avvenimenti che agisce per la liberazione e la salvezza del suo popolo. Con la caduta di Babilonia nel 539, Ciro autorizza gli Israeliti a ritornare in patria e a praticare il loro culto. Si pensò persino che Ciro fosse l’inviato del Signore, un messia, un uomo di Dio, che avrebbe realizzato ovunque la pace. Ma per quanto Ciro fosse una figura gloriosa della storia, l’inviato di Dio sarebbe arrivato secoli dopo sotto spoglie più umili, quelle di un Giusto, che espia nel dolore le colpe degli uomini.
In questo brano il profeta Isaia ci parla di novità di vita e la esprime in un modo splendido con delle metafore molto suggestive: i sentieri nel deserto, i fiumi nella steppa. E’ come se il Signore dicesse anche a noi: "ci sono cose nuove che stanno fiorendo, non ve ne accorgete?"
“Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo;essi giacciono morti, mai più si rialzeranno,si spensero come un lucignolo, sono estinti:
Il brano inizia con una formula profetica “Così dice il Signore” che ricorre molte volte in Isaia (42-50) e per introdurre il messaggio ci sono due verbi (che aprì), (che fece uscire) che annunciano l'azione di Dio, quella che sta all'origine della storia d'Israele: il passaggio del mare. La “strada nel mare” è un'immagine classica del racconto di Pasqua, per ricordarci che Dio si apre un varco nelle situazioni impossibili per aiutare i suoi figli sottomessi dai poteri forti del mondo.
“Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!”
C’è un incoraggiamento a dimenticare persino l'azione salvifica dell'esodo, “il passato” che va dimenticato, tanto è potente e straordinario l'evento nuovo che il Signore sta per compiere
La memoria è una legge fondamentale per Israele, dalla memoria nasce il senso della storia, ma la memoria non deve però essere una fuga nostalgica nel passato, il ricordo è valido quando prepara un futuro migliore.
“Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada,immetterò fiumi nella steppa.”
“una cosa nuova” o “una novità” è un termine che si trova soltanto in questo passo e in Geremia (31,22), cioè nel capitolo sulla nuova alleanza. La novità ricorda e supera il primo esodo!
Anche questa nuova azione consiste nel realizzare una strada, simile all'antica, stabilendo così un’analogia con l'esodo classico. Il profeta non vuol dire che le antiche tradizioni non valgono più perché ora siamo di fronte ad una nuova azione di Dio che incoraggia a non lamentarsi più guardando al passato, ma piuttosto a comprendere che si è in presenza di un nuovo straordinario evento. Pertanto l'invito del profeta è in piena armonia con la missione di testimone che egli conferisce al resto del popolo. La novità che Dio dice di creare è quell’avvenimento che Israele non si aspettava più, in cui non sperava e non credeva più, poiché, come mostrano le sue lamentazioni, esso pensava che l'azione salvifica di Dio fosse ormai un capitolo chiuso, relegato nel passato. Si tratta invece di una novità che sta già germogliando; ciò significa che tra breve essa potrà essere vista da tutto Israele.
“Mi glorificheranno le bestie selvatiche,sciacalli e struzzi,perché avrò fornito acqua al deserto,fiumi alla steppa,per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi”.
La somiglianza tra l'esodo nuovo e quello che sta per iniziare è reso possibile da Dio che fornisce acqua al deserto in abbondanza, al punto che anche gli animali ne possano bere.
Isaia vede perciò nell'imminente ritorno del popolo come un altro esodo, come una seconda Pasqua, dove l'unica differenza sarebbe il passaggio non attraverso il mare, ma nel deserto.
Gli occhi del popolo non sono ancora in grado di vedere la novità di Dio, che sta per sbocciare e la salvezza futura supererà radicalmente qualsiasi esperienza vissuta da Israele nel passato.
E' vero ci sono frangenti in cui, se leggiamo la storia con occhi realistici, ci pare non esistano vie di uscita, che ci si debba rassegnare a ciò che risulta compromesso una volta per tutte, ma il passato deve servire anche a ricordarci che Dio è intervenuto sempre nella storia ma con i Suoi tempi, e nei Suoi modi, perchè come Egli stesso dice per bocca del profeta: ” i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie “ (Is55,8)

Salmo 125 Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Il salmista faceva parte degli Israeliti rimasti in Palestina al tempo delle deportazioni babilonesi.
Egli esprime la gioia di tutti di fronte ai primi arrivi e invoca da Dio il ritorno di tutti i deportati, in moltitudine e velocità, cioè senza intoppi e stenti di viaggio, come, appunto, i torrenti del Negheb, cioè i torrenti della parte meridionale del territorio della tribù di Giuda.
L'evento del ritorno è un fatto del tutto straordinario che mette in luce la fedeltà di Dio per il suo popolo.
I popoli, cioè quelli facenti parte dell'impero Persiano, pur a modo loro, cioè senza diventare monoteisti, lo riconobbero. Diversamente si comportarono i popoli vicini, che si erano spinti con scorribande continue nei territori di Israele. Questi cercarono di sfaldare ogni tentativo di Israele di ridarsi una fisionomia stabile.
Il desiderio che i prigionieri ritornino è grande, ma bisogna nel frattempo creare le condizioni per facilitare i nuovi arrivi.
Il salmo per questo presenta una sentenza proverbiale come invito a non lesinare fatiche per la ricostruzione di Gerusalemme, il ripristino dei campi, dei villaggi; questo pur in mezzo alle difficoltà causate dall'ostilità dei vicini popoli: “Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia”.
Il salmo nel suo sensus plenior riguarda la liberazione dei popoli dal peso dell'ignoranza del vero Dio, dal peso delle divisioni e contrapposizioni.
Essi hanno ricevuto l'editto di liberazione nel sangue di Cristo. La Chiesa, sacramento di salvezza e di unità, deve fare conoscere il Liberatore dal peccato, sempre pronta ad accogliere nella gioia della comunione che la regge tutti coloro che accolgono Cristo e che già sono misteriosamente orientati a lui dall'azione dello Spirito Santo (Cf. 1Gv 1,3-4).
La chiave di lettura di questo Salmo, come inno dei rimpatriati dall’esilio babilonese in seguito all’editto di Ciro del 538 a.C., è certamente la più immediata e suggestiva e accosterebbe questo “cantico delle ascensione”, il settimo, alle pagine del cosiddetto Secondo Isaia (cc.40-44), il profeta cantore del ritorno di Israele al focolare nazionale, abbandonato dopo la distruzione di Gerusalemme a opera delle armate di Nabucodonosor nel 586 a.C. Questa piccola composizione, di sole 48 parole ebraiche, riesce a fondere insieme in modo mirabile ringraziamento gioioso per il dono della libertà, ma anche supplica ardente per il futuro che non sembra essere del tutto sgombro di nubi.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
Fil 3,8-14

La Lettera ai Filippesi è stata scritta da Paolo fra il 53 e il 62, mentre si trovava in carcere, probabilmente durante la sua detenzione a Efeso, ed è ispirata da sentimenti di amicizia per la comunità cristiana di Filippi, che è stata la prima fondata da Paolo in Europa e con la quale l'apostolo aveva un legame particolarmente armonico e affettuoso. Filippi che ha preso il nome dal re Filippo II di Macedonia (padre di Alessandro Magno) è una città nel nord della Grecia, situata a circa 15 chilometri dal mare, e i cristiani di questa comunità erano prevalentemente di origine pagana, e questo lo si deduce dal fatto che nella lettera Paolo, a parte una breve allusione, non cita mai l'Antico Testamento. Nella lettera non vengono trattati grandi temi, né vengono risolte particolari questioni: l'apostolo vuole semplicemente informare i filippesi della sua situazione, ringraziarli per l'attenzione dimostrata nei suoi confronti ed esortarli a proseguire sulla via dell'amore evangelico.
Nei versetti precedenti questo brano Paolo aveva presentato le proprie credenziali (ebreo figlio di ebrei, circonciso l'ottavo giorno...) e commenta che quello che poteva essere per lui un guadagno, lo considera una perdita a motivo di Cristo.
Da qui inizia il nostro brano
“Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo”
Paolo dunque aveva tutte le carte in regola per rivaleggiare con i giudeo-cristiani. Però è successo qualcosa nella sua vita che gli fa considerare assolutamente prive di valore tutte queste cose di cui poteva vantarsi: il suo appartenere al popolo di Israele, l'essere stato osservante in tutto, essere stato pieno di zelo per seguire la fede dei suoi padri... Tutto è una perdita davanti a ciò che ha potuto conoscere di Gesù Cristo. Addirittura chiama queste cose spazzatura. Tutto lascia perdere al fine di guadagnare Cristo.
“ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede:”
Paolo non poteva mantenere l’anima ebrea e quella cristiana poiché non sono conciliabili. La fede ebraica si basava sull'acquisto di una giustificazione in base alle opere che seguono la Legge. La fede in Cristo, è quella che ti giustifica grazie alla fiducia che riponi in Lui.
“perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti”. La conoscenza cristiana non riguarda solo la mente, è un'esperienza che coinvolge tutta la persona, cambia radicalmente la vita. Questo significa vivere come ha vissuto Cristo, conoscere la Sua vicenda terrena, conoscere la gloria della Sua risurrezione, aderire a Lui passando attraverso le prove della vita, anche la sofferenza e la morte, perchè tutto questo apre alla speranza della risurrezione! Non è una certezza, poiché l'essere ammesso a questa gioia è dono di Dio, però nella fede già si partecipa in una certa misura a questa pienezza di vita. E come conseguenza di tutto questo nella vita di ogni giorno egli si dispone a seguire Gesù e a vivere secondo la Sua volontà.
“Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù.”
Paolo è ben cosciente dei propri limiti, non si illude di essere già arrivato al traguardo. Si può notare una nota polemica nei confronti dei predicatori che avevano ammaliato i Filippesi presentandosi come esempio di perfezione. Paolo prende a prestito il linguaggio sportivo quando dice che come un atleta cerca di allenarsi a correre per raggiungere la meta, la vera perfezione. Egli corre per conquistare il premio perché si sente a sua volta conquistato, affascinato da Gesù e lo vuole raggiungere.
“Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.
Quindi Paolo può paragonare la propria vita come a una corsa. Ha dimenticato la sua vita di prima, perché il suo cuore è tutto volto a Gesù, alla promessa di pienezza e di felicità che Lui gli ha fatto. Non desidera altro, la sua vita non è protesa a niente altro, per questo si impegna nella predicazione, nel lavoro a favore del Vangelo.
Per tutto questo può essere preso come esempio e può anche criticare coloro che invece propongono ancora ai cristiani le pratiche della fede ebraica.

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
Gv 8: 1-11

Questo racconto della donna colta in adulterio, proviene da un’antica tradizione, storicamente certa, ed è stato stranamente omesso nei più antichi manoscritti greci, ma si trova in alcuni manoscritti dell’antica versione latina, nella Vulgata, ed in altri lezionari. E’ certo comunque che non faceva parte del primitivo vangelo di Giovanni, per cui poteva anche essere inserito in quello di Luca, per il contenuto più vicino all’evangelista del Vangelo della Misericordia. Tutto questo è avvenuto sicuramente perché i capi della Chiesa antica, si sforzavano di inculcare una rigida dottrina, soprattutto in materia di adulterio, per cui hanno preferito omettere questo episodio, in cui Gesù poteva sembrare troppo indulgente per una donna adultera.
Il racconto ci porta al Tempio di Gerusalemme, dove Gesù insegnava alla folla che si raccoglieva intorno a lui. Gli scribi e i farisei, sempre pronti come al solito per metterlo alla prova, gli portarono una donna, che era stata sorpresa mentre commetteva adulterio. la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici”.
Il caso era semplice,e regolato dalla Torah, nel Levitico infatti è scritto: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno esser messi a morte”. Lv,20,10 per cui non potevano esserci dubbi per la sentenza. Gesù però non rispose subito, infatti prima “si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Davanti a Lui c’è una donna sorpresa in adulterio, un gruppo gli scribi e di farisei in attesa del suo responso, consapevoli che secondo la Scrittura la donna doveva essere lapidata.
“Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, Gesù alla fine si alzò e disse loro: Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra”.
Gesù non dice una sola parola che possa attenuare la colpa della donna, ma neanche la condanna e la giudica. Con le Sue parole Egli supera la legge e manifesta la via dell’amore di Dio.
L’evangelista annota: “Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.”
C’è da immaginare la scena nell’aula di questo tribunale improvvisato in cui rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Ora Gesù si alzò e disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».”
In tanti anni ho sentito tante spiegazioni di questo brano, ma la più straordinaria, unica, illuminante, l’ho avuta da un mio professore, che è stato molto importante per la mia formazione, e la sua versione, almeno una parte, desidero riportarla:
Che significa che Gesù ha perdonato ma poi ha detto “non peccare più” , ma questo stravolge Gesù, ci avete mai pensato? Gesù dolcissimo, serenissimo, ogni volta che va verso qualcuno è sempre il pastore che prende la pecorella e se la mette sulle spalle, con una dolcezza infinita, non può essere “non peccare più!” detto con imperativo. Cambia tutto il significato!
Questa frase è stata messa apposta perché il brano fosse accettato. La frase certa da parte di Gesù è: “va’e d’ora in poi non peccherai più”.Non peccherai più! Il che cambia tutto perché, e questo guardiamolo esegeticamente, ogni volta che Gesù ha cambiato una persona, l’ha convertita, ha fatto la metanoia. Quella persona non ha bisogno di sentire “non peccare più!” perché non riuscirebbe a peccare più. Quando Gesù interviene rispetto al male, al peccato, il male sparisce definitivamente. La persona è sanata è come se avesse un’accensione definitiva, che non riesce più, non potrebbe più, peccare come prima.
Allora che cosa vuol dire questo brano bellissimo? Vuol dire questo da parte di Gesù alla donna “Va’ ora finalmente puoi andare avanti…” se avesse detto “Non peccare più!” la donna a testa bassa avrebbe avuto ancora un rimprovero. C’è una contraddizione nel dire “Io non ti condanno, nessuno ti ha condannata” e poi “non peccare più!”. perché dire così vuol dire “ti condanno e ti faccio andare via”. “Io non ti condanno perché nessuno è condannato dall’amore di Dio. Ora tu sei talmente sanata…”, non sul piano di fatto ma sul piano esistenziale, questi sono i valori di fondo in duemila anni perché si è posta la morale al di sopra dell’esistenza. Questa donna una volta sanata acquistata la serenità sicuramente, non riuscirebbe più a peccare. …
Può capire questo solo chi è stato “investito” nella sua vita da Gesù, solo Lui può capovolgere la tua esistenza, allora ti accorgi che le cose di prima veramente sono cose passate, non contano nulla, sono nate le nuove e come S.Paolo puoi dire: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me!

*****

“Il Vangelo di questa Quinta Domenica di Quaresima è tanto bello, a me piace tanto leggerlo e rileggerlo. Presenta l’episodio della donna adultera, mettendo in luce il tema della misericordia di Dio, che non vuole mai la morte del peccatore, ma che si converta e viva.
La scena si svolge nella spianata del tempio. Immaginatela lì, sul sagrato [della Basilica San Pietro]. Gesù sta insegnando alla gente, ed ecco arrivare alcuni scribi e farisei che trascinano davanti a Lui una donna sorpresa in adulterio. Quella donna si trova così in mezzo tra Gesù e la folla tra la misericordia del Figlio di Dio e la violenza, la rabbia dei suoi accusatori. In realtà, essi non sono venuti dal Maestro per chiedere il suo parere – era gente cattiva –, ma per tendergli un tranello. Infatti, se Gesù seguirà la severità della legge, approvando la lapidazione della donna, perderà la sua fama di mitezza e di bontà che tanto affascina il popolo; se invece vorrà essere misericordioso, dovrà andare contro la legge, che Egli stesso ha detto di non voler abolire ma compiere . E Gesù è messo in questa situazione.
Questa cattiva intenzione si nasconde sotto la domanda che pongono a Gesù: «Tu che ne dici?». Gesù non risponde, tace e compie un gesto misterioso: «Si chinò e si mise a scrivere con il dito per terra» . Forse faceva disegni, alcuni dicono che scriveva i peccati dei farisei … comunque, scriveva, era come da un’altra parte. In questo modo invita tutti alla calma, a non agire sull’onda dell’impulsività, e a cercare la giustizia di Dio. Ma quelli, cattivi, insistono e aspettano da Lui una risposta. Sembrava che avessero sete di sangue. Allora Gesù alza lo sguardo e dice: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». Questa risposta spiazza gli accusatori, disarmandoli tutti nel vero senso della parola: tutti deposero le “armi”, cioè le pietre pronte ad essere scagliate, sia quelle visibili contro la donna, sia quelle nascoste contro Gesù.
E mentre il Signore continua a scrivere per terra, a fare disegni, non so…, gli accusatori se ne vanno uno dopo l’altro, a testa bassa, incominciando dai più anziani, più consapevoli di non essere senza peccato. Quanto bene ci fa essere consapevoli che anche noi siamo peccatori! Quando sparliamo degli altri - tutte cose che conosciamo bene -, quanto bene ci farà avere il coraggio di far cadere a terra le pietre che abbiamo per scagliarle contro gli altri, e pensare un po’ ai nostri peccati!
Rimasero lì solo la donna e Gesù: la miseria e la misericordia, una di fronte all’altra. E questo, quante volte accade a noi quando ci fermiamo davanti al confessionale, con vergogna, per far vedere la nostra miseria e chiedere il perdono! «Donna, dove sono?» , le dice Gesù. E basta questa constatazione, e il suo sguardo pieno di misericordia, pieno di amore, per far sentire a quella persona – forse per la prima volta – che ha una dignità, che lei non è il suo peccato, lei ha una dignità di persona; che può cambiare vita, può uscire dalle sue schiavitù e camminare in una strada nuova.
Cari fratelli e sorelle, quella donna rappresenta tutti noi, che siamo peccatori, cioè adulteri davanti a Dio, traditori della sua fedeltà. E la sua esperienza rappresenta la volontà di Dio per ognuno di noi: non la nostra condanna, ma la nostra salvezza attraverso Gesù. Lui è la grazia, che salva dal peccato e dalla morte. Lui ha scritto nella terra, nella polvere di cui è fatto ogni essere umano (cfr Gen 2,7), la sentenza di Dio: “Non voglio che tu muoia, ma che tu viva”. Dio non ci inchioda al nostro peccato, non ci identifica con il male che abbiamo commesso. Abbiamo un nome, e Dio non identifica questo nome con il peccato che abbiamo commesso. Ci vuole liberare, e vuole che anche noi lo vogliamo insieme con Lui. Vuole che la nostra libertà si converta dal male al bene, e questo è possibile – è possibile! – con la sua grazia.
La Vergine Maria ci aiuti ad affidarci completamente alla misericordia di Dio, per diventare creature nuove.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 13 marzo 2016

Martedì, 02 Aprile 2019 17:02

IV Domenica di Quaresima - 31 Marzo 2019

1. Domenica prossima 7 aprile il Santo Padre Papa Francesco visiterà la Parrocchia di S. Giulio nella nostra prefettura alle ore 16,00.

2. Si ringrazia tutti volontari che aiutano i poveri e senza fissa dimora:
- I volontari di ogni 2° sabato del mese con la guida del Sig. Sandro Pase.
- I volontari di ogni martedì dell’associazione “Amistad” con la guida del Sig. Roberto Leonori.
- I volontari della Caritas parrocchiale che ogni lunedì e giovedì offrono il tempo per sostenere i poveri, con la guida della Sig.ra Aurelia Stagnaro.
- Tutti coloro che li sostengono in queste opere.

3. La nostra comunità parrocchiale sta organizzando il pellegrinaggio al Santuario della Madonna de la Salette, in Francia, nei giorni 21-22-23 giugno, in unione con la comunità di Torino. Per informazioni rivolgersi in ufficio parrocchiale.

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
tel. e fax 06-58.20.94.23
e-mail: email
Settore Ovest - Prefettura XXX - Quartiere Gianicolense - 12º Municipio
Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

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