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Nov 8, 2017

XXXII Domenica – Anno A – 12 novembre 2017

 

In queste ultime settimane dell’Anno liturgico, le letture che la Liturgia ci propone ci invitano alla vigilanza, ad un continuo senso di attesa, per preparare il nostri cuori all’incontro con il Signore.

La prima lettura, tratta dal Libro della Sapienza, vediamo che proprio la Sapienza viene personificata nelle vesti di una figura femminile quanto mai affascinante, che i giusti cercano, amano e infine la trovano. Solo Dio la può donare, ma di questo dono bisogna esserne degni.

Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera ai Tessalonicesi, che ritenevano imminente l’ultima venuta di Cristo ed erano perciò preoccupati per i fratelli defunti, rasserena gli animi, riducendo l’importanza dell’evento finale per presentarlo come il coronamento di una salvezza che già si attua nella vita e nella morte dei credenti.

Nel Vangelo di Matteo, troviamo la celebre parabola delle vergini sagge e stolte.
E’ facile comprendere che questo racconto ci invita a stare svegli nello spirito, e sempre pronti al momento in cui il Signore verrà. La vigilanza, l’attesa operosa, la premura carica d’amore, l’impegno personale spalancano la porta del banchetto nuziale con il Signore. Come pensiero costante per il nostro cammino potremo ricordare ciò che la grande santa Teresa d’Avila diceva: Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta!

 

Dal libro della Sapienza
La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano. Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta.
Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia a causa sua sarà presto senza affanni; poiché lei stessa va in cerca di quelli che sono degni di lei,
appare loro benevola per le strade e in ogni progetto va loro
Sap 6,12-16

Il libro della Sapienza si presenta come opera del re Salomone, ma è un evidente espediente letterario, perché è stato scritto da un pio giudeo di lingua greca, sicuro conoscitore del mondo ellenistico, che viveva in Alessandria d’Egitto tra il 120-80 a.C.
E’ il più recente dei libri dell’Antico Testamento e il suo autore si rivolge ai suoi correligionari che vivevano in ambiente greco, per convincerli della superiorità della sapienza ebraica, ispirata da Dio e concretamente espressa nella Legge che governa il popolo eletto, sulla filosofia e la vita pagana.
Nelle sue grandi linee, il libro espone le vie della sapienza opposte alla via degli empi, la sapienza in se stessa come realtà divina, le opere della sapienza divina nella storia di Israele.
In quest’opera, la dottrina biblica sulla sapienza raggiunge gli ultimi sviluppi ed è come il sintomo dell’insegnamento del Nuovo Testamento sulla grazia; a sua volta il Nuovo Testamento aiuta a capire la dottrina dell’antico sulla sapienza.

La speranza beata nell’aldilà è espressa con rara chiarezza, illuminando il problema dell’umano destino. E’ l’ultimo passo verso la rivelazione cristiana: Cristo, sapienza di Dio incarnata tra gli uomini, è la fonte della vita e della felicità eterna.
Questo spiega l’influsso che il libro ha esercitato nella cristologia di Giovanni e di Paolo…
In questo brano l’autore definisce la sapienza splendida e non sfiorisce e che si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano.
Qui il termine “sapienza” indica non solo una dottrina, ma la verità divina, dono di Dio il quale si lascia trovare da chi lo cerca, anzi “Nel farsi conoscere previene coloro che la desiderano. Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta….
Nell’A.T. la Sapienza non è possibile concepirla distinta da Dio. Solo nel N.T. San Paolo definisce una persona (il Crocifisso) “Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,24)

Salmo 63 (62) - Ha sete di te, Signore, l’anima mia.

O Dio, tu sei il mio Dio,
all’aurora io ti cerco,
di te ha sete l'anima mia,
a te anela la mia carne
come terra deserta, arida, senz’acqua.

Così nel santuario ti ho cercato,
per contemplare la tua potenza e la tua gloria.
Poiché la tua grazia vale più della vita,
le mie labbra diranno la tua lode.

Nel mio giaciglio di te mi ricordo
e penso a te nelle veglie notturne,
a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.

Il salmo presenta un pio giudeo, che fin dal primissimo mattino si pone in orazione. Egli cerca Dio, perché gli si è rivelato a lui per mezzo del dono della fede e delle Scritture, e ora cerca l’unione con lui, l’intima conoscenza di lui, in un “cercare” in cui il “trovare” spinge ancor più a cercare.
L’orante è presentato come un assetato in mezzo ad un deserto. Ma l’assetato del salmo sa dov’è la fonte, non è disorientato; sa che la fonte della pace e della gioia è Dio: Dio stesso è questa fonte.
L’orante ha un punto di riferimento: il tempio; e così vi si reca per trarre ristoro nella contemplazione Dio: “Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria”. L’orante cerca Dio, ama Dio, non tanto i benefici di Dio. Ama lui, e lo dichiara poiché dice che la comunione con lui (“il tuo amore") “vale più della vita”. Questa dolce consapevolezza è la molla della sua lode: “Le mie labbra canteranno la tua lode”; “Così ti benedirò per tutta la vita”. Egli, ritornato dal tempio alla sua dimora, probabilmente distante da Gerusalemme, ha come pensiero dolce e vivo Dio, e così “nelle veglie notturne”, quando il sonno è assente, non si agita, ma pensa a Dio, cerca Dio.

Ha tanti nemici che cercano di ucciderlo, che probabilmente sono con bande di predoni Idumei (Cf. Ps 58), ma ha la ferma speranza che i nemici non avranno vittoria e che il re trionferà e insieme a lui chi gli è fedele: “Chi giura per lui” (Cf. 1Sam 17,55; 25,2; 2Sam 11,11; 15,21; ecc.). Gli ultimi versetti, per le loro dure espressioni, non entrano nella recitazione cristiana.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza.
Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui.
Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti.
Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nubi, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore.
Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.
1Ts 4,13-18

Nella sua lettera ai Tessalonicesi Paolo nella prima parte aveva fatto un lungo ringraziamento, nella seconda invece fa una serie di raccomandazioni per rispondere a richieste particolari dei tessalonicesi..
Nel brano liturgico viene riportata la terza raccomandazione con la quale l’Apostolo dà una risposta a un problema specifico della comunità, quello della sorte di coloro che sono morti prima del ritorno del Signore.
Il problema a cui Paolo risponde non è chiaro, anche se lo si può comprendere abbastanza bene dalle sue parole: egli infatti aveva annunziato l'imminente ritorno di Gesù come giudice escatologico. Per i tessalonicesi era quindi logico pensare che sarebbero stati sollevati dall'esperienza della morte per entrare direttamente nel regno glorioso di Dio. Ora invece il ritorno del Signore non si era ancora attuato mentre alcuni membri della comunità erano morti. Questo fatto aveva determinato in loro un certo malessere: che fine avevano fatto i loro fratelli defunti? Sarebbero stati esclusi per sempre dalla salvezza?

Si potrebbe pensare che questo disagio nascesse dal fatto che l’apostolo non aveva ancora detto nulla circa la risurrezione finale dei credenti; siccome ciò è improbabile, potrebbe anche darsi che i dubbi dei tessalonicesi derivassero dalla difficoltà, tipica del mondo greco, di capire e di accettare la dottrina della risurrezione finale dei morti. Comunque sia, le prime morti verificatesi dopo l’evangelizzazione di Tessalonica suscitavano un doloroso problema a cui Paolo non poteva non rispondere.

Come risposta ai dubbi espressi dai tessalonicesi, Paolo chiarisce il suo insegnamento:” non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza”. La speranza, di cui ha già parlato all’inizio in relazione con la fede e l’amore (V.1,3) è la virtù che permette al credente di attendere l’intervento finale di Dio in questo mondo e di passare indenne attraverso le tribolazioni della vita.
Per dare fondamento alla speranza messa alla prova dei tessalonicesi, Paolo richiama anzitutto l’evento su cui si fonda la loro fede: ”Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato”. È questo il centro della professione di fede che i tessalonicesi stessi avevano diffuso nella loro città circa l’insegnamento ricevuto da Paolo. Da questo principio si ricava la conseguenza “ così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. “

A questo punto, rifacendosi a una “parola del Signore”, Paolo dichiara: “noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti”. Alla sua seconda venuta il Signore troverà alcune persone ancora in vita, ma questo fatto non rappresenterà per loro un privilegio. Paolo convalida poi questa affermazione con una descrizione di ciò che avverrà alla fine: il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo.

Queste immagini erano note nel mondo culturale giudaico dell’epoca di Paolo: non è infatti difficile trovare mescolate nell’apocalittica giudaica e cristiana allusioni al comando di Dio, alla voce dell’arcangelo (Ap 5,2; 7,2), al suono della tromba (V.Es 19,13.16.19; Ap 1,10; 4,1 ecc.) e alla venuta del Figlio dell’uomo (V. Dn 7,13).
Quando avrà luogo la venuta del Signore, “prima risorgeranno i morti in Cristo”, cioè i defunti che, avendo creduto in Cristo durante la loro vita, sono diventati partecipi anche della Sua morte e resurrezione(V. Rm 6,4). Dopo di ciò anche “noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nubi, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore.”
È significativo che l’apostolo, designando coloro che saranno ancora in vita al momento della seconda venuta del Signore, comprende tra essi anche se stesso.

Paolo qui è dunque convinto che la fine del mondo avrà luogo nel corso della sua generazione. Egli immagina il termine della vita terrena per coloro che saranno in vita alla venuta del Signore alla luce dei “rapimenti in cielo” di cui si parla nel giudaismo per esempio a proposito di Elia (V.2Re 2,11; 1Mac 2,58) . Questo rapimento avrà lo scopo di rendere possibile l’incontro con il Signore. La salvezza raggiungerà il suo culmine quando tutti i giusti saranno ammessi alla piena comunione con Lui e con il Padre.
Per questo Paolo conclude: Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” per rasserenare gli animi dei tessalonicesi, riducendo l’importanza dell’evento finale per presentarlo come il coronamento di una salvezza che già si attua nella vita e nella morte dei credenti.
L’Apostolo ha potuto valorizzare così il tempo dell’attesa, dando spazio alla ricerca della santità, all’amore fraterno e alla fondazione di nuove comunità. Esortando poi i credenti a vivere con il lavoro delle proprie mani , egli ha dato importanza all’impegno per migliorare l’ambiente in cui viviamo, mostrando che una vita oziosa non si addice a una visione cristiana del mondo .

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le
stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”.

Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa.
Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque,
perché non sapete né il giorno né l’ora.“
Mt 25, 1-13

Matteo nel fare il resoconto dell’ultima settimana di Gesù prima della sua passione, dopo aver riportato le parabole riguardanti la gravità dell’ora, e il il discorso escatologico, ora riporta una parabola riguardante la vigilanza, quella delle dieci vergini.
Il brano inizia con la solita breve introduzione, in cui si dice che “Il regno dei cieli sarà simile ….” poi c’è la descrizione della situazione: dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le
stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi.”
Le usanze nuziali del tempo di Gesù non sono molto note, ma ciò non impedisce l’interpretazione della parabola. Alcuni esegeti, comunque, si trovano concordi nel dire che alcuni dettagli non corrispondano alla realtà. In particolare appare incerto se la sposa si trovi già nella casa dello sposo, il quale risulta assente e perciò è atteso da un momento all'altro per le nozze.
Subito all’inizio si dice che le dieci vergini che devono accogliere festosamente lo sposo sono divise in due categorie: alcune sono stolte, altre invece sagge. Ciò che contraddistingue i due gruppi è il fatto che le prime non si procurarono olio sufficiente per le loro lampade, cosa che invece fecero le seconde.
Il tempo passa e improvvisamente è annunziata la venuta dello sposo: Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. A questo punto viene alla luce la differenza tra i due gruppi di vergini: Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Appare evidente che quelle sagge sono pronte per accogliere lo sposo; le stolte, al contrario, si trovano senza olio per le lampade.
La parabola giunge così alla sua conclusione: “Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”.

Le vergini stolte perciò non possono partecipare al banchetto nuziale. L'occasione di una festa gioiosa si è trasformata per esse in una situazione di umiliazione e di sconforto. Alla loro invocazione accorata “Signore, Signore, aprici!” viene data una risposta categorica preceduta da ; “In verità vi dico…”,.
Lo sposo richiama subito la figura del Cristo giudice, le vergini simboleggiano i discepoli di Gesù, l'olio sembra che in Matteo si riferisca alla pratica delle opere buone, che presuppone una fede perseverante nella Parola. La discriminazione tra i due gruppi delle vergini esprime il diverso comportamento dei cristiani in attesa della parusia, uno vigile e operoso, l'altro ozioso. Il messaggio centrale della parabola viene infine espresso nella conclusione: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”

E’ facile comprendere che con questo racconto, il Vangelo ci invita a stare svegli nello spirito, e sempre pronti al momento in cui il Signore verrà.
E’ un invito “a vivere nell’amore”, allo scopo di essere degni di raggiungere la pienezza del Regno, quando il Signore ci chiamerà a sè. L’importante, per noi, è avere la lampada accesa, quindi, l’olio dello Spirito non deve mai mancare. Ricordiamoci che solo l'amore, di cui Gesù parla, quando dice “amatevi come io vi ho amato” ci dà la misura del nostro essere cristiani.
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Nel contesto del “tempo immediato” si colloca la parabola delle dieci vergini
Si tratta di dieci ragazze che aspettano l’arrivo dello Sposo, ma questi tarda ed esse si addormentano. All’annuncio improvviso che lo Sposo sta arrivando, tutte si preparano ad accoglierlo, ma mentre cinque di esse, sagge, hanno olio per alimentare le proprie lampade, le altre, stolte, restano con le lampade spente perché non ne hanno; e mentre lo cercano giunge lo Sposo e le vergini stolte trovano chiusa la porta che introduce alla festa nuziale. Bussano con insistenza, ma ormai è troppo tardi, lo Sposo risponde: non vi conosco.

Lo Sposo è il Signore, e il tempo di attesa del suo arrivo è il tempo che Egli ci dona, a tutti noi, con misericordia e pazienza, prima della sua venuta finale; è un tempo di vigilanza; tempo in cui dobbiamo tenere accese le lampade della fede, della speranza e della carità, in cui tenere aperto il cuore al bene, alla bellezza e alla verità; tempo da vivere secondo Dio, poiché non conosciamo né il giorno, né l’ora del ritorno di Cristo. Quello che ci è chiesto è di essere preparati all’incontro - preparati ad un incontro, ad un bell’incontro, l’incontro con Gesù -, che significa saper vedere i segni della sua presenza, tenere viva la nostra fede, con la preghiera, con i Sacramenti, essere vigilanti per non addormentarci, per non dimenticarci di Dio. La vita dei cristiani addormentati è una vita triste, non è una vita felice. Il cristiano dev’essere felice, la gioia di Gesù. Non addormentarci!
Papa Francesco
Parte del commento tenuto all’’udienza generale del 24 aprile 2013

 

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