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S.Messe (settimana)
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Elena Tasso

Elena Tasso

Le letture liturgiche di questa domenica ci portano a confrontare la ricchezza umana e la carità divina e capire che il regno di Dio capovolge i valori del mondo. C’è un detto rabbinico che dice: “Com’è facile per un uomo povero confidare in Dio ed essere da Lui accolto! Com’è difficile per un ricco confidare in Dio. Tutti i suoi beni gli gridano: Confida in me!”
Nella prima lettura, il profeta Amos, colpisce con sarcasmo le vergogne delle alte classi di Samaria, la capitale del regno settentrionale di Israele. Il lusso ostentato e la corruzione sono un oltraggio a chi soffre, e attirano castigo e rovina “gli spensierati di Sion”
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo concludendo la sua prima lettera a Timoteo, esorta a combattere la buona battaglia della fede e a perseverare nella speranza e nella carità con animo sereno e forte.
Nel Vangelo di Luca, viene proposta una celebre parabola, l’unica di Gesù ad avere un personaggio con un nome proprio, Lazzaro, che in ebraico vuol dire:” Dio aiuta”. La parabola sottolinea l’importanza del buon uso delle ricchezze e della premura verso i bisognosi. Insegna che con la morte c’è il giudizio personale, che non potrà più essere modificato.

Dal libro del profeta Amos
Guai agli spensierati di Sion
e a quelli che si considerano sicuri
sulla montagna di Samaria!
Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani
mangiano gli agnelli del gregge
e i vitelli cresciuti nella stalla.
Canterellano al suono dell’arpa,
come Davide improvvisano su strumenti musicali;
bevono il vino in larghe coppe
e si ungono con gli unguenti più raffinati,
ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.
Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati
e cesserà l’orgia dei dissoluti.
Am 6,1a.4-7


Nel libro di Amos, ci sono una serie di oracoli contro Israele e in questo brano il profeta denuncia le colpe di un gruppo privilegiato, i notabili della “casa d'Israele”, ed inizia con questa esclamazione: “Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! “
L'espressione “spensierati di Sion” indica una categoria di persone che si trovano a loro agio, senza preoccupazione, e la loro sicurezza sta nel fatto che risiedono in Sion, cioè in Gerusalemme, dove si trova il tempio di DIO. La denunzia del profeta cade dunque su una certa categoria di abitanti sia del regno di Giuda che di quello di Israele.
Il primo rimprovero riguarda i festini a cui partecipano: “Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla ”.
Si tratta dunque di persone che appartengono alle classi più abbienti e politicamente influenti, e la descrizione dei cibi fa pensare che essi li prendono direttamente dal meglio del gregge e della stalla. Oltre che sdraiarsi pigramente nei loro banchetti, coloro a cui si rivolge Amos “Canterellano al suono dell’arpa,come Davide improvvisano su strumenti musicali”. Infine le persone in questione: “bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.”
Dopo la descrizione del comportamento dei benestanti in Sion e a Samaria, il profeta pronunzia la condanna: “Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti.” Introdotta dal minaccioso “perciò” la conclusione è l'annunzio dell'esilio d'Israele. Gli esiliati che vanno in testa sono infatti”i notabili” mentre il popolo era probabilmente in buona parte risparmiato dall'esilio, per ragioni non certo umanitarie, ma pratiche ed economiche.
Il profeta critica dunque duramente la corruzione di una classe dirigente che trae vantaggio dalla propria posizione sociale (situazione sempre attuale anche ai nostri giorni). Ciò che al profeta sta a cuore non è tanto la giusta distribuzione del benessere economico, ma il senso di responsabilità che dovrebbero avere coloro che sono a capo di una nazione. Di fronte a questa superficialità dettata dall’egoismo, il profeta annunzia come castigo la conquista nemica e l’esilio. Quando questo evento capiterà, proprio loro saranno i primi a essere colpiti, ma sono stati loro stessi ad aver provocato la propria rovina.
Su questo sfondo il messaggio del profeta è un invito a cambiare mentalità e ad assumere fino in fondo le proprie responsabilità, un invito sempre vivo ed attuale.

Salmo 112 - Benedetto il Signore che rialza il povero.

Lodate, servi del Signore,
lodate il nome del Signore.
Sia benedetto il nome del Signore,
da ora e per sempre.

Su tutte le genti eccelso è il Signore,
più alta dei cieli è la sua gloria.
Chi è come il Signore, nostro Dio,
che siede nell’alto
e si china a guardare
sui cieli e sulla terra?

Solleva dalla polvere il debole,
dall’immondizia rialza il povero,
per farlo sedere tra i prìncipi,
tra i prìncipi del suo popolo.

Per due volte il salmo invita a lodare “il nome del Signore”, al cui confronto ogni altro nome è niente. Niente quello delle schiere angeliche; niente quello dei potenti della terra; meno di niente quello costruito attorno agli inesistenti dei: “Su tutte le genti eccelso è il Signore... Chi è come il Signore, nostro Dio...?”.
“Il nome del Signore”, significa la grandezza, la potenza, la maestà regale, la sua giustizia, ciò che egli è e che deve essere riconosciuto dagli uomini. La “sua gloria” è inarrivabile, immensa, mai oscurabile da alcuno: “Più alta dei cieli è la sua gloria”. Egli è l'Altissimo che “si china a guardare sui cieli (ndr. cioè la corte celeste) e sulla terra (ndr. cioè gli uomini). Egli agisce mirabilmente nella storia sollevando “dalla polvere il debole” e “dall'immondizia rialza il povero”. Il salmo guarda ai giudici, tratti dal popolo e innalzati tra i capi delle varie tribù di Israele.
Egli dà gioia alla sterile rendendola “madre gioiosa di figli”. Qui il salmo guarda a Rebecca (Gn 25,21, alla madre di Sansone (Gdc 13,2), ad Anna, la madre di Samuele (1sam 1,11). Con ciò sembrerebbe di poter collocare la composizione del salmo al tempo dei giudici, ma potrebbe essere stato composto anche dopo.
Il salmo ha un netto riferimento al cantico di Anna (1Sam 2,1s), per molte espressioni: “Non c'è santo come il Signore, perché non c'è altri all'infuori di te e non c'è roccia come il nostro Dio” (2,2); “La sterile ha partorito sette volte” (2,5); “Solleva dalla polvere il debole, dall'immondizia rialza il povero, per farli sedere con i nobili” (2,8).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio.
Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità.
Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità.
Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.
1Tm 2,1-8

Con questo brano, con il quale termina la 1^lettera a Timoteo, Paolo oppone all’ideale di vita dei falsi cristiani, (trattata nei versetti precedenti 6,3-10) l’elevatezza morale dei veri discepoli di Cristo, che Timoteo, come vescovo, deve rendere palese con la propria vita.
E’ la prima esortazione che Paolo dà a Timoteo: “Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà,alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza.” E’ una lista di sei virtù contrapposte ai vizi dei falsi maestri menzionati nel bravo precedente. Il primo abbinamento “giustizia-pietà” indica i rapporti corretti con Dio e con gli uomini. Seguono tre virtù strettamente collegate tra loro, la fede, la carità e la pazienza, che indica la capacità di resistere alle prove, la pazienza che, corrisponde alla speranza.
Con l'immagine sportiva della lotta si entra nella parte centrale e più originale della lettera:
“Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni”.
L’uomo di Dio, che può essere il responsabile della comunità, ma anche il semplice cristiano, deve affrontare con decisione incondizionata la gara o la lotta, come un autentico campione, anzitutto per raggiungere la meta alla quale è stato chiamato, cioè la vita eterna, inoltre deve essere coerente con gli impegni presi quando ha fatto la sua professione di fede, che diventa anche impegno di vita.
L’esortazione termina con un ordine drastico e tassativo:
Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo … .
Paolo qui ha inserito un frammento del credo primitivo dentro la cornice dell'esortazione e ciò gli permette di esortare con maggiore intensità il discepolo davanti al Dio che dà la vita e a Gesù Cristo.
Prima di terminare la lettera, Paolo fa un ritratto del ricco cristiano (brano non inserito nella liturgia), ma che è bene meditarlo per il profondo insegnamento che lascia:
“Ai ricchi in questo mondo raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza sull’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere; di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera. 1Tm 6, 17-19

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo,e Lazzaro accanto a lui.
Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”.
Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
Lc 16,19-31

Dopo la parabola dell’amministratore scaltro di domenica scorsa, oggi ci viene proposta una seconda parabola di Gesù sull’uso della ricchezza, contenuta sempre nel capitolo 16 del vangelo secondo Luca: la parabola del ricco e del povero Lazzaro, conosciuta anche come del “ricco epulone”.
Il racconto, che è riportato solamente da Luca, inizia con la presentazione dei due protagonisti: “C’era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente … Si tratta quindi di una persona che ha molti soldi e si serve dei suoi beni per godersi la vita, senza pensare ad altro. Non si dice il nome del ricco: ciò significa che egli non ha una personalità, ma è solo un tipo che ama mangiare e spassarsela.
Luca poi presenta il secondo personaggio: “Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe”.
Si tratta dunque di un povero, che vive chiedendo l’elemosina: alla povertà si unisce dunque la vergogna della dipendenza dalla pietà degli altri. Diversamente da quando avviene per il ricco, del povero viene detto il nome, “Lazzaro”, che significa “Dio aiuta”. Mediante il nome si mette quindi in luce non solo l’importanza di questa persona, ma anche il fatto che Dio non si dimentica dei miseri ma si prenda cura di loro. Di Lazzaro si dice semplicemente che giace presso l’atrio del ricco, è coperto di piaghe e desidera saziarsi di ciò che cade dalla sua tavola. Il dettaglio dei cani che leccano le sue piaghe non vuole dire che il sollievo a lui negato dagli uomini gli viene prestato dagli animali, ma piuttosto che anche gli animali riescono a mostrare attenzione alla la sua sofferenza. Il confronto tra questi due personaggi tende a presentare il primo come uno che, al di là delle modalità con cui si è procurato le sue ricchezze, è un egoista, tutto dedito al godimento dei suoi beni, senza alcun interesse per chi è nel bisogno. In contrasto con le esortazioni di Gesù riportate precedentemente, viene evidenziato che egli non invita certo i poveri alla sua tavola.
Contrariamente alle convinzioni del suo tempo, per Gesù la ricchezza non è dunque un segno della benevolenza di Dio e la povertà un castigo, ma viceversa è la povertà che attira su chi la subisce l’attenzione e l’aiuto di Dio.
Dopo aver delineato i personaggi, Gesù racconta che cosa capita loro:
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo,e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Mentre dunque Lazzaro, alla sua morte, viene portato dagli angeli, cioè per un intervento diretto di Dio, nel luogo in cui risiedono i padri di Israele ed è reso partecipe con Abramo della loro beatitudine, il ricco va semplicemente a finire sotto terra, magari dopo un sontuoso funerale
L’Ade (she’ol per gli ebrei), dove va a finire il ricco, è la dimora dei morti, solitamente concepita come un luogo sotterraneo dove costoro conducono una vita amorfa, priva d’ogni gioia (Is 14,8-11); qui invece con questo termine viene designata la “geenna”, il luogo in cui gli empi sono afflitti da orribili tormenti (Is 66,24; Sir 21,9-10). La situazione del ricco appare tanto più drammatica in quanto egli ha la possibilità di vedere Abramo e Lazzaro nel suo seno, ma mentre Lazzaro stava in silenzio alla porta della sua casa, il ricco si rivolge ad Abramo: e gli chiede di inviare Lazzaro per portargli anche solo una goccia d’acqua per rinfrescargli la lingua.. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. Chiamandolo “figlio”, Abramo riconosce il ricco come suo discendente, membro del popolo eletto, ma gli dichiara l’assoluta impossibilità di portargli soccorso: non basta essere figli di Abramo per ottenere la salvezza. Il ricco ha ricevuto in vita i suoi beni e Lazzaro i suoi mali. Ora la situazione si è capovolta: adesso Lazzaro è consolato ed egli è torturato. A questo punto il ricco replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”.
Questa parabola potrebbe anche venire interpretata come un invito ai poveri a sopportare passivamente la loro situazione in vista di un premio nell’aldilà, invece riguarda il buon uso dei beni di questo mondo nella prospettiva del regno di Dio. Mentre l’amministratore infedele era stato additato come modello per aver saputo farsi amici con l’ingiusta ricchezza, il ricco di questa parabola è l’esempio di chi ne usa nel modo più sbagliato. Egli non è condannato in quanto ricco, ma perché si è mostrato insensibile verso il prossimo. Nella parabola non si esalta la povertà, come se fosse il biglietto d’ingresso nel regno dei cieli, ma si raccomanda ai ricchi di farsi carico fraternamente dei poveri e dei sofferenti, pena il loro fallimento non solo come credenti, ma anche come esseri umani.
Con questa parabola Gesù intende anche sottolineare la validità dell’AT (Legge e Profeti). Gesù non ha mai inteso mettere in discussione la legge, ma semplicemente l’ha portata a compimento, dando con le Sue parole e la Sua vita una chiave di lettura molto precisa. Egli ha insegnato ad andare al cuore della legge, mettendo in secondo piano tutto ciò che non ha riferimento diretto con l’amore.
Raccontando la parabola ai cristiani del suo tempo, Luca propone loro uno spunto di riflessione sulla propria fede: essi devono credere alle parole di Gesù non solo perché egli è risuscitato dai morti, ma perché, sia in vita che in morte, è stato fedele fino in fondo alla volontà di Dio contenuta nelle Scritture.

 

*****

“Desidero soffermarmi con voi oggi sulla parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro. La vita di queste due persone sembra scorrere su binari paralleli: le loro condizioni di vita sono opposte e del tutto non comunicanti. Il portone di casa del ricco è sempre chiuso al povero, che giace lì fuori, cercando di mangiare qualche avanzo della mensa del ricco. Questi indossa vesti di lusso, mentre Lazzaro è coperto di piaghe; il ricco ogni giorno banchetta lautamente, mentre Lazzaro muore di fame. Solo i cani si prendono cura di lui, e vengono a leccare le sue piaghe. Questa scena ricorda il duro rimprovero del Figlio dell’uomo nel giudizio finale: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero […] nudo e non mi avete vestito» (Mt25,42-43). Lazzaro rappresenta bene il grido silenzioso dei poveri di tutti i tempi e la contraddizione di un mondo in cui immense ricchezze e risorse sono nelle mani di pochi.
Gesù dice che un giorno quell’uomo ricco morì: i poveri e i ricchi muoiono, hanno lo stesso destino, come tutti noi, non ci sono eccezioni a questo. E allora quell’uomo si rivolse ad Abramo supplicandolo con l’appellativo di “padre”. Rivendica perciò di essere suo figlio, appartenente al popolo di Dio. Eppure in vita non ha mostrato alcuna considerazione verso Dio, anzi ha fatto di sé stesso il centro di tutto, chiuso nel suo mondo di lusso e di spreco. Escludendo Lazzaro, non ha tenuto in alcun conto né il Signore, né la sua legge. Ignorare il povero è disprezzare Dio! Questo dobbiamo impararlo bene: ignorare il povero è disprezzare Dio. C’è un particolare nella parabola che va notato: il ricco non ha un nome, ma soltanto l’aggettivo: “il ricco”; mentre quello del povero è ripetuto cinque volte, e “Lazzaro” significa “Dio aiuta”. Lazzaro, che giace davanti alla porta, è un richiamo vivente al ricco per ricordarsi di Dio, ma il ricco non accoglie tale richiamo. Sarà condannato pertanto non per le sue ricchezze, ma per essere stato incapace di sentire compassione per Lazzaro e di soccorrerlo.
Nella seconda parte della parabola, ritroviamo Lazzaro e il ricco dopo la loro morte . Nell’al di là la situazione si è rovesciata: il povero Lazzaro è portato dagli angeli in cielo presso Abramo, il ricco invece precipita tra i tormenti. Allora il ricco «alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui». Egli sembra vedere Lazzaro per la prima volta, ma le sue parole lo tradiscono: «Padre Abramo – dice – abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Adesso il ricco riconosce Lazzaro e gli chiede aiuto, mentre in vita faceva finta di non vederlo. - Quante volte tanta gente fa finta di non vedere i poveri! Per loro i poveri non esistono - Prima gli negava pure gli avanzi della sua tavola, e ora vorrebbe che gli portasse da bere! Crede ancora di poter accampare diritti per la sua precedente condizione sociale. Dichiarando impossibile esaudire la sua richiesta, Abramo in persona offre la chiave di tutto il racconto: egli spiega che beni e mali sono stati distribuiti in modo da compensare l’ingiustizia terrena, e la porta che separava in vita il ricco dal povero, si è trasformata in «un grande abisso». Finché Lazzaro stava sotto casa sua, per il ricco c’era la possibilità di salvezza, spalancare la porta, aiutare Lazzaro, ma ora che entrambi sono morti, la situazione è diventata irreparabile. Dio non è mai chiamato direttamente in causa, ma la parabola mette chiaramente in guardia: la misericordia di Dio verso di noi è legata alla nostra misericordia verso il prossimo; quando manca questa, anche quella non trova spazio nel nostro cuore chiuso, non può entrare. Se io non spalanco la porta del mio cuore al povero, quella porta rimane chiusa. Anche per Dio. E questo è terribile.
A questo punto, il ricco pensa ai suoi fratelli, che rischiano di fare la stessa fine, e chiede che Lazzaro possa tornare nel mondo ad ammonirli. Ma Abramo replica: «Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro». Per convertirci, non dobbiamo aspettare eventi prodigiosi, ma aprire il cuore alla Parola di Dio, che ci chiama ad amare Dio e il prossimo. La Parola di Dio può far rivivere un cuore inaridito e guarirlo dalla sua cecità. Il ricco conosceva la Parola di Dio, ma non l’ha lasciata entrare nel cuore, non l’ha ascoltata, perciò è stato incapace di aprire gli occhi e di avere compassione del povero. Nessun messaggero e nessun messaggio potranno sostituire i poveri che incontriamo nel cammino, perché in essi ci viene incontro Gesù stesso: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40), dice Gesù. Così nel rovesciamento delle sorti che la parabola descrive è nascosto il mistero della nostra salvezza, in cui Cristo unisce la povertà alla misericordia. “
Papa Francesco Udienza Generale del 18 maggio 2016

Le letture liturgiche di questa domenica ci insegnano quale uso deve fare il cristiano della propria ricchezza per poterne disporre con saggezza e generoso distacco tenendo sempre presente che il denaro è un mezzo e non un fine.
Nella prima lettura, il profeta Amos, “ex coltivatore di sicomori” denuncia con forza e coraggio i notabili del paese sfruttatori dei miseri. Questi oppressori – politici corrotti – sono ritratti proprio mentre stanno escogitando le loro infami macchinazioni.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo continuando a scrivere a Timoteo, afferma che è compito del responsabile della comunità cristiana animare e presiedere la preghiera liturgica. E’ nella volontà di Dio – afferma l’apostolo – che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità, e cioè nell’accoglienza dell’unico mediatore tra Dio e gli uomini: Cristo Gesù.
Nel Vangelo di Luca, viene proposta una parabola un po’ originale quella di un amministratore scorretto che fu accusato dal suo padrone di sperperare i suoi averi. L’uomo prima di essere licenziato agisce con scaltrezza procurandosi con i beni terreni la sicurezza di un futuro più sicuro. Il padrone riconosce la scaltrezza del suo amministraoree e loda, non la disonestà, ma l’abilità nel maneggiare il denaro. Gesù commenta: “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce”. E aggiunge “Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.” . Il cristiano non è chiamato a cedere senza alcun senso i beni materiali che possiede, ma a servirsene in funzione di un bene più grande che è il regno di Dio.

Dal libro del profeta Amos
Il Signore mi disse:
Ascoltate questo,
voi che calpestate il povero
e sterminate gli umili del paese,
voi che dite: "Quando sarà passato il novilunio
e si potrà vendere il grano?
E il sabato, perché si possa smerciare il frumento,
diminuendo l’efa e aumentando il siclo
e usando bilance false,
per comprare con denaro gli indigenti
e il povero per un paio di sandali?
Venderemo anche lo scarto del grano".
Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe:
certo non dimenticherò mai tutte le loro opere.
Am 8,4-7

Amos è stato uno dei profeti minori di Israele. Era nato in un villaggio non lontano da Betlemme e visse al tempo di Geroboamo II re di Israle (783-743 a.C). Era un semplice contadino-mandriano, e fu chiamato improvvisamente dal Signore mentre seguiva il gregge, come egli stesso lo racconta nel suo Libro (v.7,14-15) . Gli fu affidata la missione di predicare nei due regni e di ammonire il popolo e denunciare un culto corrotto e ridotto a pura esteriorità, in un tempo in cui la prosperità cresceva nel regno di Israele. In particolare fece pressioni sui sacerdoti e sui potenti che con la loro astuzia camuffavano abilmente le ingiustizie contro i poveri. Le sue predicazioni contro i costumi del tempo gli procurarono forti inimicizie, visto che fu anche espulso dalla città di Betel dal re Geroboamo su istigazione del sacerdote Amasia. Molti sono i passi nel suo libro dove si ammonisce il ricco e dove si condanna la religiosità esteriore. Le sue profezie di sventura per una mancata conversione troveranno compimento nell'abbattimento del regno del nord da parte degli Assiri e nella conseguente deportazione del popolo di Israele e dei suoi notabili nel 722 a.C.
E’ impressionante come descrive al cap.5 il giorno del Signore: “Guai a coloro che attendono il giorno del Signore! Che sarà per voi il giorno del Signore? Sarà tenebre e non luce. Come quando uno fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde. Non sarà forse tenebra e non luce il giorno del Signore,e oscurità senza splendore alcuno? (Am 5,18-20)
Il brano che la liturgia ci propone, inizia con una esortazione: “Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese,… I destinatari dell’esortazione sono coloro che “calpestano i poveri” e “gli umili del paese” i quali, a causa della loro situazione sociale, non riescono a far valere i loro diritti.
Il profeta riporta i discorsi degli oppressori “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano“. In questi versetti (sempre attuali anche ai giorni nostri) si può avere un’idea di come si possano attuare delle operazioni disoneste per arrivare a guadagnare sempre di più, non solo ma c’è anche la denuncia di coloro che si approfittano dei riti religiosi e sopportano con insofferenza i giorni liturgici del riposo come la festa mensile del novilunio o quella settimanale del sabato perché spezzano il ritmo frenetico dei loro affari.
Ma il punto più vergognoso è che sul mercato di Samaria i poveri sono oggetto di trattativa economica per la loro riduzione in schiavitù e il loro prezzo non supera quello di un paio di sandali!
Il profeta ora riporta il giuramento finale di Dio o «certo non dimenticherò mai tutte le loro opere».
Dio non vuole qualcosa per se stesso, ma tutto quello che Gli è offerto deve servire al bene di tutti.
All’origine di questa preoccupazione tipica dei profeti sta l’esperienza dell’alleanza, dalla quale scaturisce un rapporto comunitario fondato sulla fede nell’unico Dio, che esige non solo che ai più poveri sia data la garanzia di ottenere i mezzi che sono necessari per la loro sopravvivenza, ma anche che sia difesa la loro libertà e la possibilità di condividere con gli altri i beni che Dio ha messo a disposizione del suo

Salmo 112 - Benedetto il Signore che rialza il povero.

Lodate, servi del Signore,
lodate il nome del Signore.
Sia benedetto il nome del Signore,
da ora e per sempre.

Su tutte le genti eccelso è il Signore,
più alta dei cieli è la sua gloria.
Chi è come il Signore, nostro Dio,
che siede nell’alto
e si china a guardare
sui cieli e sulla terra?

Solleva dalla polvere il debole,
dall’immondizia rialza il povero,
per farlo sedere tra i prìncipi,
tra i prìncipi del suo popolo.

Per due volte il salmo invita a lodare “il nome del Signore”, al cui confronto ogni altro nome è niente. Niente quello delle schiere angeliche; niente quello dei potenti della terra; meno di niente quello costruito attorno agli inesistenti dei: “Su tutte le genti eccelso è il Signore... Chi è come il Signore, nostro Dio...?”.
“Il nome del Signore”, significa la grandezza, la potenza, la maestà regale, la sua giustizia, ciò che egli è e che deve essere riconosciuto dagli uomini. La “sua gloria” è inarrivabile, immensa, mai oscurabile da alcuno: “Più alta dei cieli è la sua gloria”. Egli è l'Altissimo che “si china a guardare sui cieli (ndr. cioè la corte celeste) e sulla terra (ndr. cioè gli uomini). Egli agisce mirabilmente nella storia sollevando “dalla polvere il debole” e “dall'immondizia rialza il povero”. Il salmo guarda ai giudici, tratti dal popolo e innalzati tra i capi delle varie tribù di Israele.
Egli dà gioia alla sterile rendendola “madre gioiosa di figli”. Qui il salmo guarda a Rebecca (Gn 25,21, alla madre di Sansone (Gdc 13,2), ad Anna, la madre di Samuele (1sam 1,11). Con ciò sembrerebbe di poter collocare la composizione del salmo al tempo dei giudici, ma potrebbe essere stato composto anche dopo.
Il salmo ha un netto riferimento al cantico di Anna (1Sam 2,1s), per molte espressioni: “Non c'è santo come il Signore, perché non c'è altri all'infuori di te e non c'è roccia come il nostro Dio” (2,2); “La sterile ha partorito sette volte” (2,5); “Solleva dalla polvere il debole, dall'immondizia rialza il povero, per farli sedere con i nobili” (2,8).
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla prima lettera di S.Paolo a Timoteo
Figlio mio, raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio.
Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità.
Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità.
Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.
1Tm 2,1-8

Paolo continuando la sua lettera a Timoteo, dopo aver parlato della propria esperienza di peccatore perdonato e inviato ad annunciare il Vangelo, esorta Timoteo a perseverare nella fede e in questo capitolo esorta la comunità cristiana, di cui Timoteo è guida, alla preghiera .
“raccomando, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini”, Paolo comincia a dare disposizioni in particolare per preghiere fatte comunitariamente. La preghiera che lui consiglia ha un respiro universale perché se si è in grado di pregare per tutti, vuol dire che si è superato lo spirito di setta o di casta che forse poteva aver caratterizzato le comunità cristiane dei primi tempi.
Il Vangelo di Gesù è universale, è rivolto a tutte le genti e i veri cristiani sono chiamati a tener conto nella propria preghiera di tutti i popoli, di chiedere a Dio la salute e la prosperità per tutti, a ringraziare per i benefici che Dio ha donato anche agli altri.
“per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”.
Certamente ci potrebbe stupire questa preghiera rivolta a Dio per coloro che stanno al potere. Il senso di questa preghiera ci viene chiarito nella seconda parte del versetto: “perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla”. La preghiera per l'autorità pubblica dunque ha lo scopo di ottenere la realizzazione dell'ordine, della prosperità e della pace. Sono i frutti del buon governo, il quale permette anche che ognuno possa avere una vita ”dedicata a Dio ”. Ciò che stupisce è che non si chiede la conversione dei rappresentanti del potere pagano, né un riconoscimento speciale per le comunità cristiane, ma bensì che sia salvaguardato il bene pubblico, nella tolleranza reciproca.
“Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”.
Anche il Signore vuole che i cristiani vivano con serenità e pace la loro fede. Egli è venuto a portare la spada, nel senso che è necessario decidersi per Lui senza incertezze, ma poi non chiede che la vita cristiana sia una vita di conflitti continui. Egli vuole che tutti gli uomini siano salvati e questo si realizza attraverso una vita serena, che rende possibile una testimonianza coerente che possa attirare anche altri, ricercatori della verità, a ad abbracciare la fede cristiana.
“Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù,”
Le esortazioni alla preghiera e a una vita sociale ordinata conducono ad una professione di fede (presa forse dalla liturgia della comunità). La novità di questa affermazione non è tanto nell'unicità di Dio, ma in quella che Gesù è mediatore tra Dio e gli uomini. Questo concetto si trova solo nella lettera agli Ebrei, (Eb 2,5) inserito nel nuovo patto.
La mediazione di Gesù ha la sua forza soprattutto nei confronti degli uomini, che Paolo lo sottolinea nei versetti seguenti:”che ha dato se stesso in riscatto per tutti.”
Paolo ci tiene a ricordare che questa “testimonianza egli (Cristo) l’ha data nei tempi stabiliti,” ossia è avvenuta in un momento storico ben preciso. C'è un chiaro riferimento al progetto di salvezza di Dio, che non ha lasciato niente al caso.
“e di essa io sono stato fatto messaggero e apostolo – dico la verità, non mentisco –, maestro dei pagani nella fede e nella verità”.
Nella realizzazione di questo progetto rientra anche il compito missionario di Paolo. Egli ci tiene a ricordare l'impegno che il Signore gli ha dato. I tre sostantivi sono molto importanti: “messaggero, apostolo, maestro dei pagani” preceduti dal solenne giuramento: “dico la verità.”
Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese.
Questa affermazione chiude il brano riprendendo le indicazioni sulla preghiera. Se prima si trattava soprattutto di una preghiera pubblica, ora le esortazioni riguardano qualsiasi momento di preghiera per ogni uomo. C'è anche un'indicazione "pratica", la preghiera con le mani alzate, che ritroviamo spesso nelle raffigurazioni delle catacombe. E' una preghiera che però va fatta con mani pure, cioè purificata da tutto ciò che rende l'uomo asservito alle passioni e non a Dio.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli:
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».
Lc 16 1-13

Siamo nella sezione del Vangelo di Luca riguardante il viaggio di Gesù a Gerusalemme. Gesù aveva iniziato con l’invito ad entrare per la porta stretta, poi c’è stato un invito sul discepolato e il racconto delle tre parabole della misericordia.
Il capitolo 16 Luca lo dedica al tema dell'uso della ricchezza. Prima Gesù si rivolge ai discepoli con la parabola dell'amministratore disonesto. Luca usa parole molto forti verso chi usa egoisticamente i propri beni; probabilmente la sua comunità aveva molte ricchezze e non riusciva a trovare un equilibrio tra i beni materiali e le esigenze del Vangelo.
Il brano inizia riportando ciò che Gesù dice ai suoi discepoli:
“Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi”.
La parabola ci presenta un uomo ricco che aveva un amministratore. Questa era una situazione normale nella civiltà palestinese di allora, a volte il sistema del latifondo era esteso in Galilea e spesso era in mano a degli stranieri.
Il fatto che dà l'avvio all'azione, è l'accusa fatta all'amministratore di sperperare i beni del padrone, che “Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
Non si dice niente sulla fondatezza e le motivazioni dell'accusa, non si dice se è stato disonesto o negligente, si sa solo che di colpo l'amministratore si trova nei guai, per cui viene destituito e deve rendere conto della sua gestione! Questa espressione ci ricorda un po‘ quanto dice l’evangelista Matteo sul giudizio finale (Mt 12,36-37).
“L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
L’uomo si rende conto immediatamente che lo aspetta il licenziamento ed allora escogita dei rimedi per risolvere i suoi guai. A tal fine chiama i debitori del suo padrone e riduce drasticamente l’ammontare del loro debito: “i cento barili d’olio”, diventano cinquanta; “le cento misure di grano”, sono ridotte a ottanta. Confida così nella gratitudine dei beneficati dopo che il suo padrone lo avrà allontanato.
Sorprende tutti la reazione del padrone “che lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”. Il padrone loda, non la disonestà, ma l’abilità nel maneggiare il denaro perchè secondo l’uso allora tollerato in Palestina, l’amministratore aveva diritto a concedere prestiti con i beni del suo padrone e, poiché non era pagato, di compensarsi alterando l’importo del prestito sulla ricevuta, per poter usufruire, al tempo della restituzione, della differenza come di un avanzo che rappresentava il suo interesse.
Nel presente caso, qualche esperto fa notare che forse egli non aveva prestato in realtà che cinquanta barili d’olio e ottanta misure di grano: nell’adattare la ricevuta all’importo reale, l’amministratore scaltro si priva di un beneficio, per altro da usuraio, che aveva previsto. La sua “disonestà” non consiste dunque nella riduzione delle ricevute, la quale non è che una privazione dei suoi immediati interessi, abile manovra lodata dal suo padrone, ma nelle prevaricazioni precedenti che hanno causato il suo licenziamento.
Gesù continua commentando: “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce”. Il comportamento dei credenti, chiamati "figli della luce“ viene messo a confronto con quello dei "figli di questo mondo" (cioè coloro che agiscono secondo i criteri in uso fra i non-credenti).
La sentenza vede nell'agire dell'amministratore un esempio di come la gente di questo mondo si comporta nei propri affari, ed esprime l'augurio che i credenti siano altrettanto abili nelle cose che riguardano il Regno di Dio e le esigenze del Vangelo.
“Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne”
Per l'evangelista Luca la vera interpretazione della parabola si legge in questo versetto, nel quale l'interesse si concentra sul buon uso della ricchezza, e raggiunge quindi una delle sue principali preoccupazioni Si tratta di un invito a sfruttare la ricchezza per farsi degli amici condividendola con i poveri. Alla morte, quando la ricchezza non sarà più di aiuto, questi poveri aiuteranno i loro benefattori ad entrare in cielo.
Seguono poi delle massime: “Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti”;
L'argomento cambia: non è più questione di dare la ricchezza ai poveri, ma di amministrarla bene, in riferimento al comportamento dell'amministratore della parabola ora giudicato negativamente. Il versetto prende dunque in considerazione l'agire riprovevole dell‘amministratore e vede nella sua disonestà il motivo del suo licenziamento. Però il contesto richiede di ampliare la visuale.
E' la scelta fondamentale di Dio senza compromessi che detta il comportamento da seguire nell'uso dei beni terreni. Allora, proprio la fedeltà o meno nell'uso della ricchezza che Dio ha affidato all'uomo risulta un esame adeguato della fedeltà a Dio.
“Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?”
Questi versetti sono l'applicazione della massima precedente, fatta in forma di doppia domanda. E’ un incoraggiamento a non dimenticare il vero bene che aspetta il discepolo quando raggiungerà il regno di Dio. Per ottenerlo però il discepolo deve dimostrarsi fedele nell'uso su questa terra dei beni materiali, che non consiste in proficui investimenti economici, ma nel donare i propri beni a chi è veramente nel bisogno.
“Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza”.
Si chiude il brano con una sentenza sapienziale che inizia come un proverbio: l'esperienza mostra che quando uno schiavo è a servizio di due padroni, egli immancabilmente finirà per servire l'uno meglio dell'altro.
L'incompatibilità non è tanto tra Dio e la ricchezza, ma nel cuore dell'uomo. E' il cuore, cioè le sue scelte fondamentali, che non deve essere diviso. Il pericolo della ricchezza è che l'uomo finisca con l‘amarla e allora sarà lei a diventare per lui un padrone esigente. Diceva bene Papa Leone XII (1823-1829) quando affermava: Il denaro è un ottimo servitore , ma un pessimo padrone .

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La parabola contenuta nel Vangelo di questa domenica ha come protagonista un amministratore furbo e disonesto che, accusato di aver dilapidato i beni del padrone, sta per essere licenziato.
In questa situazione difficile, egli non recrimina, non cerca giustificazioni né si lascia scoraggiare, ma escogita una via d’uscita per assicurarsi un futuro tranquillo. Reagisce dapprima con lucidità, riconoscendo i propri limiti: «Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno» ; poi agisce con astuzia, derubando per l’ultima volta il suo padrone. Infatti, chiama i debitori e riduce i debiti che hanno nei confronti del padrone, per farseli amici ed essere poi da loro ricompensato. Questo è farsi amici con la corruzione e ottenere gratitudine con la corruzione, come purtroppo è consuetudine oggi.
Gesù presenta questo esempio non certo per esortare alla disonestà, ma alla scaltrezza. Infatti sottolinea: «Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza», cioè con quel misto di intelligenza e furbizia, che ti permette di superare situazioni difficili. La chiave di lettura di questo racconto sta nell’invito di Gesù alla fine della parabola: «Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne». Sembra un po’ confuso, questo, ma non lo è: la “ricchezza disonesta” è il denaro – detto anche “sterco del diavolo” – e in generale i beni materiali.
La ricchezza può spingere a erigere muri, creare divisioni e discriminazioni. Gesù, al contrario, invita i suoi discepoli ad invertire la rotta: “Fatevi degli amici con la ricchezza”. È un invito a saper trasformare beni e ricchezze in relazioni, perché le persone valgono più delle cose e contano più delle ricchezze possedute. Nella vita, infatti, porta frutto non chi ha tante ricchezze, ma chi crea e mantiene vivi tanti legami, tante relazioni, tante amicizie attraverso le diverse “ricchezze”, cioè i diversi doni di cui Dio l’ha dotato. Ma Gesù indica anche la finalità ultima della sua esortazione: “Fatevi degli amici con la ricchezza, perché essi vi accolgano nelle dimore eterne”. Ad accoglierci in Paradiso, se saremo capaci di trasformare le ricchezze in strumenti di fraternità e di solidarietà, non ci sarà soltanto Dio, ma anche coloro con i quali abbiamo condiviso, amministrandolo bene, quanto il Signore ha messo nelle nostre mani.
Fratelli e sorelle, questa pagina evangelica fa risuonare in noi l’interrogativo dell’amministratore disonesto, cacciato dal padrone: «Che cosa farò, ora?» . Di fronte alle nostre mancanze, ai nostri fallimenti, Gesù ci assicura che siamo sempre in tempo per sanare con il bene il male compiuto. Chi ha causato lacrime, renda felice qualcuno; chi ha sottratto indebitamente, doni a chi è nel bisogno. Facendo così, saremo lodati dal Signore “perché abbiamo agito con scaltrezza”, cioè con la saggezza di chi si riconosce figlio di Dio e mette in gioco sé stesso per il Regno dei cieli.
La Vergine Santa ci aiuti ad essere scaltri nell’assicurarci non il successo mondano, ma la vita eterna, affinché al momento del giudizio finale le persone bisognose che abbiamo aiutato possano testimoniare che in loro abbiamo visto e servito il Signore."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 22 settembre 2019

Le letture liturgiche di questa domenica hanno come tema la misericordia, che è il vero volto di Dio, ma questo volto può essere colto solo da coloro che riconoscono il carattere gratuito del Suo amore e si lasciano colmare dalla Sua grazia.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, leggiamo che Dio, per intercessione di Mosè, perdonò gli ebrei che, dimentichi di ogni bene da Lui ricevuto, si erano messi ad adorare il vitello d’oro.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo scrivendo a Timoteo, presenta la sua vocazione come la “conversione” di un bestemmiatore, persecutore e violento e commenta ricordando il suo passato “mi è stata usata misericordia”. Si propone poi come l’esempio dei peccatori convertiti dalla misericordia di Dio.
Nel Vangelo di Luca, troviamo le tre parabole della misericordia: la pecorella smarrita, la dracma perduta, e il figliol prodigo. Gesù dice: vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Non è che con questo siamo autorizzati a peccare spensieratamente sicuri della misericordia di Dio, perché il Vangelo è molto chiaro: la misericordia di Dio premia il convertito, chi ha scelto di vivere praticando bene, non solo a parole. La misericordia di Dio, che regala insieme il perdono e la forza di rigenerazione, ci è donata se in noi si manifesta la fede e la buona coscienza. La misericordia è destinata a persone come il pubblicano che chiedono perdono a Dio con umiltà e non a persone come il fariseo che si credono giusti e virtuosi.

Dal libro dell’Esodo
In quei giorni, il Signore disse a Mosè: “Va', scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dalla terra d'Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostràti dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto”.
Il Signore disse inoltre a Mosè: “Ho osservato questo popolo: ecco è un popolo dalla dura cervìce. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione”.
Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: “Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d'Egitto con grande forza e con mano potente?
Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti, e la possederanno per sempre”.
Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo.
Es 32,7-11. 13-14

L'Esodo è il secondo libro della Bibbia Cristiana e della Torah ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli, nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il periodo descritto si colloca intorno al 1300-1200 a.C.
Il libro è suddiviso in tre grandi sezioni, corrispondenti ai tre momenti della narrazione:
La prima, (capitoli 11,1-15,21), comprende il racconto dell'oppressione degli Ebrei in Egitto, la nascita di Mosè, la fuga di Mosè a Madian e la scelta divina, il suo ritorno in Egitto, le dieci piaghe e l'uscita dal paese.
La seconda sezione (15,22-18,27) narra del viaggio lungo la costa del Mar Rosso e nel deserto del Sinai.
La terza (19,1-40,38) riguarda l'incontro tra Dio e il popolo eletto, mediante le tappe fondamentali del decalogo e del codice dell'alleanza, seguito dall'episodio del vitello d'oro e dalla costruzione del Tabernacolo
Il brano che abbiamo, tratto dalla terza sezione, ha luogo mentre Mosè si trova sulla montagna dove ha ricevuto da Dio le tavole dell’alleanza ed inizia riportando ciò che il Signore dice:
“Va', scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dalla terra d'Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicato! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostràti dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto”. Dio si stupisce che così in fretta gli israeliti l’hanno abbandonato. La gravità di questo peccato, nella cultura antica, derivava dal fatto che l’immagine era vista come uno strumento particolarmente efficace per catturare la potenza di Dio e servirsene a proprio uso e consumo. Dio commenta poi il peccato degli israeliti affermando: “Ho osservato questo popolo: ecco è un popolo dalla dura cervìce” ossia si era reso conto che si tratta di un popolo refrattario, quasi per natura, alla docilità e all’obbedienza, e continua “Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione”. Sembra in questo punto che Dio voglia attendere il consenso di Mosè per attuare il suo proposito con l’intento poi di fare di lui il capostipite di una grande nazione.
Mosè si mette subito dalla parte degli israeliti e intercedendo per loro presenta i motivi per i quali Dio è tenuto a desistere dal suo proposito, ed inizia dicendo:
“Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d'Egitto con grande forza e con mano potente?
Questa domanda di Mosè è formulata secondo i canoni orientali del rispetto dovuto a un superiore, vuole dire che è stato DIO, non Mosè, a fare uscire il popolo dall’Egitto: perciò non ha senso che DIO distrugga quella che è una Sua creatura.
Mosè poi soggiunge nel versetto successivo (omesso dalla liturgia): “Perché dovranno dire gli Egiziani: Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra?” Lo sterminio degli israeliti nel deserto avrebbe messo in dubbio la sincerità di DIO il quale, invece di liberarli dalla schiavitù, si sarebbe comportato con loro in un modo ancora più crudele di quello del faraone.
L’altro motivo portato da Mosè è la promessa che Dio ha fatto ai patriarchi:
“Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti, e la possederanno per sempre”.
Con i patriarchi Dio ha preso un impegno incondizionato, in quanto ha giurato su se stesso di dare loro una progenie numerosa alla quale sarebbe appartenuta la terra nella quale essi abitavano come forestieri. In sintesi Mosè si rifà alla storia della salvezza e afferma che DIO non può più tirarsi indietro perché l’impegno preso con gli israeliti è definitivo e irrevocabile .
La preghiera di difesa di Mosè è efficace, e il brano termine riportando che “Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo”.
La preghiera di Mosè è stata valida perché ha fatto leva non su motivazioni contingenti, ma sul progetto stesso di DIO che aveva liberamente deciso di liberare Israele e di fare di esso il Suo popolo.
L’intercessione di Mosè, per noi cristiani, prefigura quella di Cristo, che resosi solidale con l’uomo, intercede per noi presso il Padre.

Salmo 50 - Ricordati di me, Signore, nel tuo amore.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore contrito e affranto, tu, o Dio,
non disprezzi.

Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10). Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna.
Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
1Tm 1,12-17

La Prima lettera a Timoteo è una delle tre epistole conosciute come lettere pastorali perché indirizzate a "pastori" di comunità cristiane quali erano Timoteo capo della comunità di Efeso e Tito della comunità di Creta. La data di scrittura della lettera va calcolata fra il rilascio della prima prigionia di Paolo (61 d.C) e l'arresto e la nuova prigionia (64 dC). Alcuni studiosi collocano quindi la data della lettera nel 63 altri invece fra il 66 e il 67 e che il luogo da cui Paolo scrisse la lettera, sia stato la Macedonia.
La lettera, suddivisa in 6 capitoli, contiene un insieme di norme organizzative sulla chiesa nascente e di consigli affinché Timoteo sorvegli e alzi la guardia su falsi insegnamenti che si stavano infiltrando nella comunità di Efeso, prodotti da quella che l'apostolo definiva falsa conoscenza.
Paolo, in questo brano fa memoria della sua conversione che Gesù ha compiuto:
“Figlio mio, rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento”.
Paolo ringrazia il Signore per quanto ha realizzato nella sua vita. Il primo motivo per cui Paolo ringrazia è perché è stato chiamato ad essere servo di Dio. L'autorità di Paolo è autentica perché egli è stato chiamato proprio da Cristo, che lo ha reso forte in vista del compito che gli avrebbe affidato. Paolo ricorda la sua situazione prima della sua conversione e la descrive con toni molto severi. In altri brani (Gal 1,13-17) invece egli parla della sua situazione precedente in modo più positivo: egli in fondo non era altro che un ebreo osservante e intransigente, che voleva riportare sulla retta via questa nuova religione seguita dai cristiani. Qui sottolinea molto la peccaminosità del suo agire: egli era un bestemmiatore (poiché non riconosceva Gesù come il Messia), persecutore degli aderenti a questa nuova "setta", un violento, poiché applicava senza pietà la legge della Torah contro i cristiani.
La situazione è però mitigata dalla frase seguente: “Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede”, E' questa la giustificazione di Paolo, egli non conosceva ciò che stava perseguitando, ma il Signore lo ha illuminato, gli ha fatto capire il male che stava compiendo.
“e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù”..
Paolo riconosce i copiosi doni che si sono riversati su di lui: la grazia, la fede, la carità. L'incontro con Dio ha totalmente cambiato la sua vita e ha fatto di lui una creatura nuova.
“Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e il primo dei quali sono io”.
Qui Paolo mette ancora in risalto la sua situazione come peccatore. Gesù ha voluto recuperare tutti coloro che erano lontani da lui, i peccatori, (visti nella loro situazione di mancanza di gioia, di vita piena) e Paolo si riconosce come facente parte di questa schiera. Egli usa il presente, perché sa bene che è solo grazie alla misericordia di Dio che egli può perseverare in questa amicizia e vicinanza a Dio stesso, e in forza della sua esperienza può affermare che ciò che sta dicendo è degno di fede.
“Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna”.
Qui viene introdotto un altro particolare: Dio ha perdonato Paolo, gli ha dato di vivere una vita nuova perché la sua tormentata vicenda fosse di esempio a tutti quelli che lo avrebbero conosciuto. La sua vita diventa così annuncio del Vangelo di Cristo, non solo con le parole, ma con la sua stessa esperienza: da persecutore egli diventa annunciatore di una nuova dottrina ed esempio per quelli che lo ascoltano.
“Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.”
La conclusione del brano è una "glorificazione“ di Dio Padre, segno di adorazione e di ringraziamento, in contrapposizioni alle tante divinità e divinizzazioni terrene sempre passeggere.
Paolo ci invita a scoprire il senso della nostra fede che apre significati e consapevolezze, rapporti nuovi e profondi, rivelazioni e garanzie che vengono dal cielo e restano, in ciascuno di noi, come doni che nessuno ci potrà mai togliere.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”.
Ed egli disse loro questa parabola: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta.
Io vi dico: così vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione .
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”.
Disse ancora: "Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta.” Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrùbe di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sè e disse: Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione e gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato a vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare.
Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disubbidito ad un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: Figlio mio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
Lc 15 , 1-32

Luca riporta, dopo una breve introduzione, le tre parabole che parlano di misericordia: la pecora perduta, la dramma smarrita e il figliol prodigo. La parabola della pecora smarrita si ispira all’immagine biblica di Dio come buon pastore che si prende cura del suo popolo. Gesù la introduce con una domanda che interpella direttamente gli ascoltatori, chiedendo loro che cosa farebbero se si trovassero nella situazione di un uomo che ha cento pecore e ne perde una. Luca mette in risalto l’amore per la pecora smarrita aggiungendo, in rapporto allo stesso racconto di Matteo, il dettaglio del metterla sulle spalle e poi invitare gli amici a rallegrarsi con lui. E conclude: Io vi dico: così vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione .
Anche nella parabola della dramma perduta, Gesù introduce il racconto ponendo la domanda: se una donna ha dieci dramme e ne perde una, che cosa è più naturale per lei che mettersi a cercarla finché non l’ha trovata? Un punto fondamentale della parabola lo troviamo anche nella sproporzione tra il poco valore della moneta, che corrisponde a un denaro d’argento, (la paga giornaliera di un operaio) e l’esultanza indicibile per il suo ritrovamento. L’esagerazione del racconto serve a dare maggior rilievo al motivo della gioia messianica per la conversione del peccatore.
La terza parabola è la storia celeberrima delle vicende del Figliol prodigo che completa la serie delle “parabole della misericordia” che hanno la stessa conclusione: l’invito a far festa per il peccatore che torna al bene. Il racconto inizia descrivendo la partenza del figlio minore dalla casa paterna, che senza alcun motivo apparente, chiede prima di partire di dividere l'eredità prima della morte del padre. Poi vediamo come questo figlio usa male la sua libertà e il suo benessere sperperando tutti i suoi beni. Al suo disastro personale si aggiunse anche la catastrofe naturale, per cui in poco tempo questo ragazzo è ormai ridotto all'indigenza per cui deve dipendere dagli altri. Tocca il fondo quando per vivere deve fare uno dei mestieri più disprezzati in Israele: il guardiano di porci; e questa è la nota più appropriata per descrivere il decadimento religioso del ragazzo.
Il senso della parabola è chiaro: la partenza del figlio rappresenta la lontananza da Dio, il contatto con i porci è simbolo della morte dovuta al peccato. E’ significativo un proverbio rabbinico che dice: “Quando gli Israeliti sono costretti a mangiare carrube, si convertono”.
Arrivato al fondo dell'indigenza il “prodigo” rientra in sé, e per lui inizia la conversione quando decide di tornare a casa del padre, pur sapendo di aver perso ogni diritto nei suoi confronti. Si augura solo una cosa: essere trattato come un suo salariato . Il racconto ora si sposta sulla figura del padre che ha sempre sperato nel ritorno del figlio. E' uno dei versetti più commoventi della Bibbia. Il padre vede il figlio da lontano ed è sconvolto fino alle viscere, (viene usato lo stesso verbo che esprime il sentimento di Dio verso i poveri e di Gesù nei confronti dei bisognosi).
Il padre si getta al collo del figlio, impedendogli di umiliarsi, lo bacia in segno di perdono, senza tener conto dello stato di impurità del figlio (certo doveva sapere che egli veniva da un paese di pagani). E' il comportamento sorprendente di questo padre la cui autorità è indiscussa e il cui amore, gratuito e generoso, va al di là di ogni regola.
Il figlio comincia a pronunciare la confessione che aveva preparato, ma il comportamento del padre rende ormai superflua la sua richiesta di diventare un salariato. Poi ci sono gli ordini che il padre impartisce ai servi che indicano la completa reintegrazione del figlio:
- il dono del vestito più bello; l'anello al dito, (probabilmente l'anello con sigillo e quindi l'autorità di compiere atti legali); i sandali: segno dell'uomo libero (lo schiavo camminava a piedi nudi). Poi ordina anche di preparare un gran banchetto per fare festa per questo figlio che era perduto ed è stato trovato!“.
Entra a questo punto in scena il figlio maggiore, che al ritorno dal lavoro trova la festa in atto, e dopo essere stato informato dal servo, si adira e non vuole entrare in casa. Suo padre, uscito, lo supplica di entrare per unirsi alla festa, ma lui è troppo gonfio d’ira per capire e in tono di rimprovero e senza rispetto, elenca i suoi meriti: la fedeltà (non ha mai trasgredito un comando), il servizio costante (che dà l’impressione di aver lavorato non come figlio ma come servo). Come contrasto al tono rabbioso del figlio si nota il tono del padre estremamente affettuoso. Il padre capisce la reazione negativa del figlio maggiore e non lo rimprovera per la sua scortesia, ma gli ricorda che a livello giuridico egli è l'erede legittimo, ha già in mano la proprietà, ma vi sono anche altri valori importanti come l'unità familiare. All'aggressivo "questo tuo figlio", pronunciato dal primogenito, il padre risponde "questo tuo fratello", ed è un invito a riconoscere realmente come fratello questo disgraziato tornato a casa.
La parabola si conclude con : “Ma bisognava fare festa e gioire, poiché questo tuo fratello era morto, ed è rivissuto, era perduto ed è stato trovato”, come appello rivolto al figlio maggiore a condividere la sua gioia ad entrare in essa.
Se il figlio maggiore (a cui in fondo va la nostra comprensione) vuole rimanere in comunione con il padre, deve accogliere il fratello come il padre stesso lo ha accolto. Se egli farà festa al fratello tornato, se entrerà nella logica dell'amore di suo padre, allora egli stesso potrà sperimentare di nuovo cosa significa essere figlio ed essere fratello.
Con queste tre parabole l’evangelista vuole presentare un’immagine inusuale di Dio, che manifesta la sua potenza non condannando ma perdonando.
È importante che in nessuna delle tre parabole si parli di un perdono di Dio per il peccatore pentito, ma solo della gioia che provoca il suo ritorno nella comunità dei giusti.

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“Il Vangelo di oggi inizia con alcuni che criticano Gesù, vedendolo in compagnia di pubblicani e peccatori, e dicono con sdegno: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Questa frase si rivela in realtà come un annuncio meraviglioso. Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro. È quello che accade a noi, in ogni Messa, in ogni chiesa: Gesù è contento di accoglierci alla sua mensa, dove offre sé stesso per noi. È la frase che potremmo scrivere sulle porte delle nostre chiese: “Qui Gesù accoglie i peccatori e li invita alla sua mensa”. E il Signore, rispondendo a quelli che lo criticavano, racconta tre parabole, tre parabole stupende, che mostrano la sua predilezione per coloro che si sentono lontani da Lui. Oggi sarebbe bello che ognuno di voi prendesse il Vangelo, il Vangelo di Luca, capitolo 15, e leggesse le tre parabole. Sono stupende.
Nella prima parabola dice: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta?» Chi di voi? Una persona di buon senso no: fa due calcoli e ne sacrifica una per mantenere le novantanove. Dio invece non si rassegna, a Lui stai a cuore proprio tu che ancora non conosci la bellezza del suo amore, tu che non hai ancora accolto Gesù al centro della tua vita, tu che non riesci a superare il tuo peccato, tu che forse per le cose brutte che sono accadute nella tua vita non credi nell’amore.
Nella seconda parabola, tu sei quella piccola moneta che il Signore non si rassegna a perdere e cerca senza sosta: vuole dirti che sei prezioso ai suoi occhi, che sei unico. Nessuno ti può sostituire nel cuore di Dio. Tu hai un posto, sei tu, e nessuno può sostituirti; e anch’io, nessuno può sostituirmi nel cuore di Dio.
E nella terza parabola Dio è padre che attende il ritorno del figlio prodigo: Dio sempre ci aspetta, non si stanca, non si perde d’animo. Perché siamo noi, ciascuno di noi quel figlio riabbracciato, quella moneta ritrovata, quella pecora accarezzata e rimessa in spalla. Egli attende ogni giorno che ci accorgiamo del suo amore. E tu dici: “Ma io ne ho combinate tante, ne ho combinate troppe!”. Non avere paura: Dio ti ama, ti ama come sei e sa che solo il suo amore può cambiare la tua vita.
Ma questo amore infinito di Dio per noi peccatori, che è il cuore del Vangelo, può essere rifiutato. È quello che fa il figlio maggiore della parabola. Egli non capisce l’amore in quel momento e ha in mente più un padrone che un padre. È un rischio anche per noi: credere in un dio più rigoroso che misericordioso, un dio che sconfigge il male con la potenza piuttosto che col perdono. Non è così, Dio salva con l’amore, non con la forza; proponendosi, non imponendosi. Ma il figlio maggiore, che non accetta la misericordia del padre, si chiude, compie uno sbaglio peggiore: si presume giusto, si presume tradito e giudica tutto in base al suo pensiero di giustizia. Così si arrabbia col fratello e rimprovera il padre: “Hai ammazzato il vitello grasso ora che è tornato questo tuo figlio” . Questo tuo figlio: non lo chiama mio fratello, ma tuo figlio. Si sente figlio unico. Anche noi sbagliamo quando ci crediamo giusti, quando pensiamo che i cattivi siano gli altri. Non crediamoci buoni, perché da soli, senza l’aiuto di Dio che è buono, non sappiamo vincere il male. Oggi non dimenticatevi, prendete il Vangelo e leggete le tre parabole di Luca, capitolo 15. Vi farà bene, sarà salute per voi.
Come si fa a sconfiggere il male? Accogliendo il perdono di Dio e il perdono dei fratelli. Succede ogni volta che andiamo a confessarci: lì riceviamo l’amore del Padre che vince il nostro peccato: non c’è più, Dio lo dimentica. Dio, quando perdona, perde la memoria, dimentica i nostri peccati, dimentica. È tanto buono Dio con noi! Non come noi, che dopo aver detto “non fa nulla”, alla prima occasione ci ricordiamo con gli interessi dei torti subiti. No, Dio cancella il male, ci fa nuovi dentro e così fa rinascere in noi la gioia, non la tristezza, non l’oscurità nel cuore, non il sospetto, ma la gioia.
Fratelli e sorelle, coraggio, con Dio nessun peccato ha l’ultima parola. La Madonna, che scioglie i nodi della vita, ci liberi dalla pretesa di crederci giusti e ci faccia sentire il bisogno di andare dal Signore, che ci aspetta sempre per abbracciarci, per perdonarci.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 settembre 2019

Lunedì, 19 Settembre, si è celebrato l’anniversario dell’apparizione della B.V. Maria a La Salette. Dopo la Messa delle ore 18,30 è stata benedetta l’Edicola della Madonna piangente messa in uno degli angolini del piazzale della nostra Chiesa Parrocchiale.

 

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Lunedì, 19 Settembre 2022 08:58

Domenica - 18 settembre 2022

1. Continuano le iscrizioni per il catechismo. Oggi, Domenica, dopo la Messa delle ore 10, davanti all’oratorio. In settimana, le facciamo Lunedì, Mercoledì, Venerdì, dalle 10 alle 12, nell’ufficio Parrocchiale e dalle 17 alle 19, nell’oratorio. Sabato, anche dalle 10 alle 12, nell’ufficio Parrocchiale.

2. Lunedì, 19 Settembre, celebreremo l’anniversario dell’apparizione della B.V. Maria a La Salette. Per vivere la data, benediremo la Statua della Madonna piangente messa in uno degli angolini del piazzale della nostra Chiesa Parrocchiale, dopo la Messa delle ore 18,30.

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
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