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S.Messe (settimana)
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KRZYZ

Elena Tasso

Elena Tasso

Le letture liturgiche di questa domenica, ci fanno meditare su come agire per giungere al regno di Dio.
La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, ci presenta la ricerca dell’uomo che si interroga sul pensiero di Dio “Quale uomo può conoscere il volere di Dio?” Solo l’ascolto, la meditazione della Parola di Dio e la preghiera, attireranno su di noi il Suo Santo Spirito, e ci insegneranno la vera sapienza.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo scrive al suo amico Filèmone intercedendo per lo schiavo Onèsimo affinché venga da lui accolto non più come schiavo, ma come fratello carissimo. Paolo aveva già affrontato in altri suoi scritti la questione della schiavitù, affermando l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, perché tutti peccatori e tutti bisognosi di salvezza. In questo scritto non suggerisce una soluzione paternalistica, ma radicale: la trasformazione dello schiavo e dell’oppresso in fratello.
Nel Vangelo di Luca, Gesù ci dice che per essere figli di Dio e Suoi discepoli dobbiamo riuscire a non farci condizionare né dalle abitudini, né dai desideri, né dai legami familiari,né dai rapporti professionali, e ancor meno dalla bramosia di possesso dei beni terreni, che sebbene allettanti, sono tutti sempre passeggeri! Gesù chiedendoci di metterlo al primo posto, non entra certo in concorrenza con i vari amori umani: per i genitori, il coniuge, i figli e i fratelli. Cristo non è un "rivale in amore" di nessuno, anzi ponendo Lui al primo posto impareremo a purificare il nostro modo umano, a volte sbagliato, di amare, perché amando gli altri come Lui ci ama, saremo in grado di amare di un amore che non si può fermare di fronte a nessuna difficoltà.

Dal libro della Sapienza
Quale uomo può conoscere il volere di Dio?
Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
I ragionamenti dei mortali sono timidi
e incerte le nostre riflessioni,
perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima
e la tenda d'argilla opprime una mente piena
di preoccupazioni.
A stento immaginiamo le cose della terra,
scopriamo con fatica quelle a portata di mano;
ma chi ha investigato le cose del cielo?
Chi avrebbe conosciuto il tuo volere,
se tu non gli avessi dato la sapienza
e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?
Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra;
gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito;
e furono salvati per mezzo della sapienza.
Sap 9,13-18

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. E’ stato scritto in greco, caso unico in tutto l’Antico Testamento, ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo. Si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) ed è composto da 19 capitoli. L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele.
Questo brano riporta l’ultima parte della preghiera di Salomone che considera come la sapienza sia inaccessibile: Il primo versetto contiene due domande parallele: «Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?»
Dal caso particolare di Salomone, si passa all'universalità della natura umana e alla sua condizione, sulla possibilità di conoscere la volontà di Dio, “che cosa vuole il Signore”, cioè la Sua volontà, espressa nella legge. L'uomo è troppo limitato nelle sue possibilità per essere in grado di penetrare il mistero di Dio, e poterne scoprire e comprendere i disegni, anche dopo che sono stati rivelati.
Il versetto successivo contiene invece affermazioni parallele: ”I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni”. L’autore qui considera nulle le nostre possibilità di conoscere la verità nell'ambito morale perché l'uomo, abbandonato a se stesso, cammina nelle tenebre dell'ignoranza e dell'insicurezza a motivo della sua limitatezza umana: “perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima e la tenda d'argilla opprime una mente piena di preoccupazioni”.
Il termine “tenda” è una metafora ed è tratta dalla vita nomade per indicare ciò che è passeggero, e dunque adatta al corpo corruttibile (2Cor 5,4; 2Pt 1,13-14), mentre l’aggettivo “d’argilla” è un'allusione all'origine del corpo secondo Gen 2,7 per cui il corpo, radicato nella terra, solidale con i beni puramente terreni, temporali, transitori, frena il volo della mente verso ciò che è spirituale, celeste, immortale.
Il limite della creatura umana si manifesta nella sua incapacità di conoscere: “A stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?” L’espressione “le cose della terra” indica ciò che accadendo sulla terra, l'uomo può verificare e controllare, indica le cose che sono a portata di mano, tangibili, sperimentabili direttamente, visibili, ossia ciò che non supera la normale capacità dell'uomo terreno, tutto ciò che dovrebbe essere trasparente e ovvio per lui. Tutte queste cose dovrebbero perciò essere comprese facilmente.
Tuttavia, non è così: solo con notevole sforzo riusciamo ad appropriarci delle cose, governandole appena con le nostre imperfette capacità.
La domanda finale del versetto mette in luce l’impossibilità di investigare per conoscere “le cose del cielo”. Nel linguaggio biblico il cielo è metaforicamente la dimora di Dio per questo le cose del cielo sarebbero dunque quelle che appartengono all’ambito divino.
Alla debolezza umana però Dio supplisce mandando la sapienza: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?”
In questo versetto, in cui si riassumano quasi tutti i temi toccati dall'autore durante la preghiera, si trovano tre dei grandi temi trattati dal giudaismo postesilico: la volontà di Dio, la sapienza e lo spirito.
Il volere di Dio non è altro che la volontà divina, ciò che Dio vuole relativamente all'uomo, e che si può conoscere soltanto se Dio liberamente si rivela o manifesta.
Al termine l'autore proclama più solennemente, che oltre alla sapienza richiede il “santo spirito del Signore” ed è la prima e l'unica volta che nella preghiera di Salomone appare questa espressione.
Il brano termina con un versetto che si collega con quello precedente e con l’inizio della preghiera di Salomone: “Così vennero raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra; gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito; e furono salvati per mezzo della sapienza”.
E’ evidente che l’autore di questo brano concepisce l’uomo, alla luce della filosofia greca, come un composto di anima e corpo. È al corpo soprattutto che attribuisce il suo limite e la sua incapacità di conoscere le cose di Dio. L’anima, identificata con la ragione, è invece il principio spirituale che dà vita al corpo e si eleva spontaneamente al mondo superiore.
Questa è certamente una visione pessimistica dell’uomo, ma che non esclude però un messaggio di speranza, che deriva dal fatto che, nonostante la debolezza dell’uomo, Dio manda su di lui la sapienza, che gli indica il giusto cammino o il modo di vivere conforme alla Sua volontà. È quindi mediante la sapienza che si compie nella storia il piano salvifico di Dio.

Salmo 89- Signore, sei stato per noi un rifugio di generazione in generazione
Tu fai ritornare l'uomo in polvere,
Quando dici: “Ritornate, figli dell'uomo”.
Mille anni ai tuoi occhi
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.

Tu li sommergi:
sono come un sogno al mattino:
come l’erba che germoglia
al mattino fiorisce, germoglia,
alla sera è falciata e secca.

Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore; fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi.

Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l'opera delle nostre mani,
l'opera delle nostre mani rendi salda

Il salmo illustra la condizione precaria della vita dell'uomo esposta alle sofferenze del quotidiano unitamente a quelle dei rivolgimenti storici causati per le lotte di potere. Il salmista procede con un tono sapienziale, rischiarato dalla consapevolezza della brevità dei giorni dell'uomo. Questa consapevolezza è tanto importante che egli la invoca per tutti gli uomini: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio”.
La composizione del salmo molto probabilmente è avvenuta nel tempo di pace relativa quando Antioco V ridiede la libertà religiosa ad Israele (163 a.C.).
Il salmista si rivolge a Dio come rifugio di Israele. Rifugio certo, perché Dio non è una creazione dell'uomo, egli, infatti, da sempre esiste: “Prima che nascessero i monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, o Dio”; "Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato".
Il salmista ha il vivo ricordo di tracotanti superbi entrati nel tempio di Gerusalemme credendo di affermarsi su Dio: Tolomeo III e Tolomeo IV erano entrati nel tempio offrendo sacrifici ai loro dei (ca. 220-221 a.C.); Antioco IV Epifane lo saccheggiò e vi fece sacrifici a Giove (ca. 169-167 a.C).
Ma l'uomo è un nulla di fronte a Dio, che per l'antico peccato lo fa ritornare polvere (Gn 3,19): “Tu fai ritornare l'uomo in polvere”. L'ira di Dio travolge i superbi: “Tu li sommergi: sono come un sogno al mattino, come l'erba che germoglia; al mattino fiorisce e germoglia, alla sera è falciata e secca”; “Sì, siamo distrutti dalla tua ira”; “Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera”.
L'ira di Dio è rivolta a portare l'uomo al ravvedimento. E' saggezza sapere che la collera di Dio non è una finta, ma una realtà dura che incombe sui ribelli. E' saggezza temere la collera di Dio e non sfidarla, come già fece il faraone (Es 9,30): “Chi conosce l'impeto della tua ira e, nel timore di te, la tua collera?”.
Il salmista si colloca tra tutti gli uomini, ma anche presenta fin dall'inizio la sua appartenenza ad Israele: “Signore, tu sei stato per noi un rifugio...”; e per Israele invoca pace e gioia dopo giorni e anni di afflizione: “Ritorna, Signore: fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi!...Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti".
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S.Paolo apostolo a Filèmone
Carissimo, ti esorto, io Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio,che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui, che mi sta tanto a cuore.
Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo ora che sono in catene per il vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato ma volontario. Per questo forse è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.
Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso.
Fil 9b-10, 12-17

La Lettera a Filèmone è uno dei testi più brevi delle lettere di Paolo, in quanto composta solamente di 25 versetti. Si può dire che è un biglietto personalissimo “scritto interamente di suo pugno” dall’apostolo, che è prigioniero (probabilmente ad Efeso più che a Cesarea o a Roma ) .
Paolo scrive a Filèmone, suo carissimo amico e collaboratore, ad Appia, che era probabilmente la moglie, e ad un altro amico Archippo, citato anche nella lettera ai Colossesi (4,17), questo biglietto, ed usa parole calde e coinvolgenti per invitarlo a riaccogliere lo schiavo Onèsimo, che era fuggito dalla sua casa e si era rifugiato presso di lui.
“Carissimo, ti esorto, io Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene. Te lo rimando, lui, che mi sta tanto a cuore.”
Sin dalle prime parole è chiaro l'atteggiamento di Paolo. Egli, in forza dell'autorità apostolica potrebbe chiedere a un credente il compimento di un dovere cristiano, cioè la liberazione di uno schiavo. Eppure Paolo, vuole da Filèmone un gesto libero e generoso e quindi lo esorta in nome non solo dell’amicizia, che li unisce, ma anche della carità. Definisce Onèsimo, “figlio mio” e il riferimento alla generazione nelle catene fa pensare che Paolo abbia convertito Onèsimo alla fede e lo abbia battezzato egli stesso. Paolo qui dimostra di rispettare la legge e rimanda lo schiavo al suo padrone, anche se ormai gli è divenuto caro, come un figlio devoto capace di impegnarsi per la diffusione del Vangelo.
“Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo ora che sono in catene per il vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato ma volontario”.
Qui Paolo manifesta chiaramente le sue intenzioni. Con un velo di ironia sembra persino affermare che Filèmone non lo stia aiutando molto in questo frangente della sua prigionia, e avrebbe avuto dunque il diritto di trattenersi Onèsimo. Egli però si rimette al cuore di Filèmone, perché compia il bene non per forza, ma con un atto libero e di sua volontà.
“Per questo forse è stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.”
Quindi Paolo esorta Filèmone a non trattare più Onèsimo come uno schiavo ma come un fratello nel Signore. Solo così dimostrerà di essere davvero un cristiano. Egli deve concedere la libertà al suo schiavo e lasciargli la facoltà di andare da Paolo per servire il Vangelo.
“Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso”. Dunque Filèmone, in forza dell'amicizia che lo lega a Paolo dovrà accogliere Onèsimo come Paolo stesso.
Paolo non chiede certo poco. Gli schiavi non erano considerati come persone, ma come oggetti o come animali. Erano proprietà del loro padrone ed egli li poteva trattare come voleva. Non avevano alcun diritto, anche se Filèmone era cristiano non è detto che trattasse bene i propri schiavi. Forse Onèsimo aveva sentito parlare con venerazione di Paolo nella casa del suo padrone, e sentendosi braccato, s’era precipitato dall’apostolo in cerca di rifugio e di protezione. Paolo l’aveva accolto con amore e l’aveva convertito al cristianesimo nascondendolo presso di sé. Paolo ora cerca di riaprirgli la via del ritorno a casa dell’amico Filèmone e lo fa con particolare finezza ma rivelando anche l’estrema originalità delle scelte sociali cristiane rispetto al mondo pagano circostante.
Finora Paolo aveva affrontato la questione della schiavitù solo in modo indiretto, affermando l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio perché tutti peccatori e tutti bisognosi della salvezza (v.1Corinzi 7,20-24; Efesini 6,5-9; Colossesi 3,22;4,1) . Ma anche in questi passi si intuiva la carica rivoluzionaria del cristianesimo nei confronti della dignità umana: tutte le frontiere devono essere abolite perché «in Cristo non c’è più schiavo né libero» Galati (3,28) e «l’amore fraterno deve tutti legare in mutuo affetto» (Romani 12,10). Questo impegno della novità cristiana nella lettera a Filemone viene attutato.
Paolo non suggerisce una soluzione paternalistica ma radicale: la trasformazione dello schiavo e dell’oppresso in fratello.
Tenendo in mente l’insegnamento di Paolo noi cristiani, anche oggi, dobbiamo allora essere in prima fila nella difesa della libertà, dei diritti, della dignità di ogni uomo, perché consapevoli che in causa c’è sempre un fratello.

Nota: Onèsimo tornò da Filemone dal quale fu accolto benissimo e fu affrancato. Venne poi rimandato nuovamente a Paolo per aiutarlo, tanto che Paolo se ne servirà per inviare la sua Lettera ai Colossesi (4,7) ove è citato come latore. Dopo aver contribuito alla diffusione del cristianesimo in Asia Minore, Onèsimo morì attorno al 90. La sua memoria liturgica ricorre il 15 febbraio.
Fino alla revisione del Martirologio romano del 1970, Onèsimo servitore di Paolo è stato erroneamente assimilato al martire Onèsimo, secondo vescovo di Efeso, lapidato a Roma nel 109, durante la persecuzione di Traiano

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù . Egli si voltò e disse loro: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”.
Lc 14, 25-33

Questo brano del Vangelo di Luca fa parte della sezione del grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme dove vengono presentate le esigenze del regno di Dio sullo sfondo della morte di Gesù.
Il brano inizia riportando che una folla numerosa seguiva Gesù, ed Egli continua il Suo insegnamento parlando delle esigenze di fronte alle quali si trova il discepolo che vuole seguirlo.
“Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. E’ errato pensare che Gesù chiedendoci di metterlo al primo posto, entri in concorrenza con i vari amori umani: per i genitori, il coniuge, i figli e i fratelli. Cristo non è un "rivale in amore" di nessuno, anzi ponendo Lui al primo posto impareremo a purificare il nostro modo umano, a volte sbagliato, di amare, perché amando gli altri come Lui ci ama, saremo in grado di amare di un amore che non si può fermare di fronte a nessuna difficoltà.
Poi Gesù aggiunge: “Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”.
Chi segue Gesù fino in fondo, deve mettere in conto anche la possibilità di perdere la propria vita, (sappiamo bene che anche recentemente molti cristiani hanno testimoniato con la vita la loro fede) e di accettare le prove quotidiane, piccole e grandi che siano, per amor Suo.
Gesù fa anche esempi pratici: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a termine?”
La domanda retorica chi di voi? introduce generalmente una similitudine, e chiama direttamente chi lo ascolta a giudicare: una spesa elevata esige certamente un’attenta riflessione. La citazione della torre ricorda l'esperienza biblica di Babele. Nella costruzione della torre di Babele, troviamo il simbolo della presunzione umana che pretende di arrivare a Dio e di “farsi un nome “solo con i propri mezzi (Gn 11,4) . Gesù usa proprio il simbolo della torre come elevazione dell'uomo verso Dio.
“Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro.”
Un lavoro incompiuto mette il responsabile in balìa degli scherni altrui e lo rende ridicolo. La previsione di una tale sgradevole situazione spinge a riflettere prima di iniziare. La reputazione era una realtà molto importante in Oriente.
“Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace”.
La lezione della seconda parabola è simile alla prima, ma l'esempio viene dal mondo della politica. Per il re che vuole fare la guerra, la situazione sgradevole da evitare è la sconfitta. Meglio allora inviare un'ambasciata e chiedere la pace.
Alla fine Gesù rivolge nuovamente a chi vuole essere suo discepolo questa indicazione: “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”.
Gesù domanda la libertà di fronte ai propri beni, la disponibilità a condividerli con chi soffre, la gioia di servirlo in chiunque è bisognoso e umiliato, ossia il loro utilizzo non per sé stessi, ma in funzione del regno di Dio. In altre parole la rinunzia ai propri beni (che come la vita ci sono stati dati in prestito e dobbiamo restituire) consiste essenzialmente nel metterli al servizio di una realtà più grande.

 

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Le parole di Papa Francesco


“«Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?» . Questo interrogativo del Libro della Sapienza, che abbiamo ascoltato nella prima lettura, ci presenta la nostra vita come un mistero, la cui chiave di interpretazione non è in nostro possesso. I protagonisti della storia sono sempre due: Dio da una parte e gli uomini dall’altra. Il nostro compito è quello di percepire la chiamata di Dio e poi accogliere la sua volontà. Ma per accoglierla senza esitazione chiediamoci: quale è la volontà di Dio?
Nello stesso brano sapienziale troviamo la risposta: «Gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito». Per verificare la chiamata di Dio, dobbiamo domandarci e capire che cosa piace a Lui. Tante volte i profeti annunciano che cosa è gradito al Signore. Il loro messaggio trova una mirabile sintesi nell’espressione: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Os 6,6; Mt 9,13). A Dio è gradita ogni opera di misericordia, perché nel fratello che aiutiamo riconosciamo il volto di Dio che nessuno può vedere (cfr Gv 1,18). E ogni volta che ci chiniamo sulle necessità dei fratelli, noi abbiamo dato da mangiare e da bere a Gesù; abbiamo vestito, sostenuto, e visitato il Figlio di Dio (cfr Mt 25,40). Insomma, abbiamo toccato la carne di Cristo.
Siamo dunque chiamati a tradurre in concreto ciò che invochiamo nella preghiera e professiamo nella fede. Non esiste alternativa alla carità: quanti si pongono al servizio dei fratelli, benché non lo sappiano, sono coloro che amano Dio (cfr 1 Gv 3,16-18; Gc 2,14-18). La vita cristiana, tuttavia, non è un semplice aiuto che viene fornito nel momento del bisogno. Se fosse così sarebbe certo un bel sentimento di umana solidarietà che suscita un beneficio immediato, ma sarebbe sterile perché senza radici. L’impegno che il Signore chiede, al contrario, è quello di una vocazione alla carità con la quale ogni discepolo di Cristo mette al suo servizio la propria vita, per crescere ogni giorno nell’amore.
Abbiamo ascoltato nel Vangelo che: «una folla numerosa andava con Gesù». Oggi quella “folla numerosa” è rappresentata dal vasto mondo del volontariato, qui convenuto in occasione del Giubileo della Misericordia. Voi siete quella folla che segue il Maestro e che rende visibile il suo amore concreto per ogni persona. Vi ripeto le parole dell’apostolo Paolo: «La tua carità è stata per me motivo di grande gioia e consolazione, poiché il cuore dei credenti è stato confortato per opera tua» (Fm 7). Quanti cuori i volontari confortano! Quante mani sostengono; quante lacrime asciugano; quanto amore è riversato nel servizio nascosto, umile e disinteressato! Questo lodevole servizio dà voce alla fede - dà voce alla fede! - ed esprime la misericordia del Padre che si fa vicino a quanti sono nel bisogno.
La sequela di Gesù è un impegno serio e al tempo stesso gioioso; richiede radicalità e coraggio per riconoscere il Maestro divino nel più povero e scartato della vita e mettersi al suo servizio. Per questo, i volontari che servono gli ultimi e i bisognosi per amore di Gesù non si aspettano alcun ringraziamento e nessuna gratifica, ma rinunciano a tutto questo perché hanno scoperto il vero amore. E ognuno di noi può dire: “Come il Signore mi è venuto incontro e si è chinato su di me nel momento del bisogno, così anch’io vado incontro a Lui e mi chino su quanti hanno perso la fede o vivono come se Dio non esistesse, sui giovani senza valori e ideali, sulle famiglie in crisi, sugli ammalati e i carcerati, sui profughi e immigrati, sui deboli e indifesi nel corpo e nello spirito, sui minori abbandonati a sé stessi, così come sugli anziani lasciati soli. Dovunque ci sia una mano tesa che chiede aiuto per rimettersi in piedi, lì deve esserci la nostra presenza e la presenza della Chiesa che sostiene e dona speranza”. E, questo, farlo con la viva memoria della mano tesa del Signore su di me quando ero a terra.
Madre Teresa, in tutta la sua esistenza, è stata generosa dispensatrice della misericordia divina, rendendosi a tutti disponibile attraverso l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata. Si è impegnata in difesa della vita proclamando incessantemente che «chi non è ancora nato è il più debole, il più piccolo, il più misero». Si è chinata sulle persone sfinite, lasciate morire ai margini delle strade, riconoscendo la dignità che Dio aveva loro dato; ha fatto sentire la sua voce ai potenti della terra, perché riconoscessero le loro colpe dinanzi ai crimini – dinanzi ai crimini! - della povertà creata da loro stessi. La misericordia è stata per lei il “sale” che dava sapore a ogni sua opera, e la “luce” che rischiarava le tenebre di quanti non avevano più neppure lacrime per piangere la loro povertà e sofferenza.
La sua missione nelle periferie delle città e nelle periferie esistenziali permane ai nostri giorni come testimonianza eloquente della vicinanza di Dio ai più poveri tra i poveri. Oggi consegno questa emblematica figura di donna e di consacrata a tutto il mondo del volontariato: lei sia il vostro modello di santità! Penso che, forse, avremo un po’ di difficoltà nel chiamarla Santa Teresa: la sua santità è tanto vicina a noi, tanto tenera e feconda che spontaneamente continueremo a dirle “Madre Teresa”. Questa instancabile operatrice di misericordia ci aiuti a capire sempre più che l’unico nostro criterio di azione è l’amore gratuito, libero da ogni ideologia e da ogni vincolo e riversato verso tutti senza distinzione di lingua, cultura, razza o religione. Madre Teresa amava dire: «Forse non parlo la loro lingua, ma posso sorridere». Portiamo nel cuore il suo sorriso e doniamolo a quanti incontriamo nel nostro cammino, specialmente a quanti soffrono. Apriremo così orizzonti di gioia e di speranza a tanta umanità sfiduciata e bisognosa di comprensione e di tenerezza.

Papa Francesco

Parte dell’Omelia del 4 settembre 2016 per la canonizzazione della Beata Madre Teresa di Calcutta e Giubileo degli Operatori e dei volontari della Misericordia

Le letture liturgiche di questa domenica celebrano l’umiltà anche come forma particolare di saggezza. L’umiltà vera è per il cristiano una grande virtù perché ha in sé la pazienza e l’amore, ma anche la perseveranza e il coraggio.
Nella prima lettura, il saggio Siracide, ci dice: “Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore”. Nei suoi scritti vengono sempre esaltati sia la mancanza di superbia che il senso della misura: la saggezza consiste nel controllare il proprio orgoglio.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera Ebrei, l’autore afferma che Dio, a differenza di quanto avveniva nell’antica alleanza, non deve essere visto come un potente che domina dall’alto dei cieli, ma come un padre che ci viene incontro nell’assemblea dei fratelli e descrive l’esperienza dei cristiani come un’esperienza eucaristica, come un’adunanza festosa che diventa liturgia della perfezione nella rievocazione del sacrificio di Cristo.
Nel Vangelo di Luca, Gesù invitato alla mensa di uno dei capi dei farisei, mette in risalto le condizioni per accedere al Regno di Dio. Invita a scegliere gli ultimi posti nel banchetto della vita, vincendo la tentazione dell’apparire per emergere, del protagonismo sterile, della ricerca degli applausi ipocriti e menzogneri , e delle cose grandi superiori alle nostre forze. Siamo perciò esortati a non cercare i “primi posti”, ma ad operare il bene nella modestia, perché veramente “chi si umilia sarà esaltato!”

Dal libro del Siracide
Figlio, compi le tue opere con mitezza,
e sarai amato più di un uomo generoso.
Quanto più sei grande, tanto più fatti umile,
e troverai grazia davanti al Signore.
Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi,
ma ai miti Dio rivela i suoi segreti.
Perchè grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato.
Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio,
perchè in lui è radicata la pianta del male.
Il cuore sapiente medita le parabole,
un orecchio attento è quanto desidera il saggio.
Sir 3,17-20.28-29

Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo .
È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C.
È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime. Nel prologo l'anonimo nipote dell'autore spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C..
In questo brano troviamo delle massime sapienziali di grande importanza per i rapporti fra persone.
Nella prima si dice:
“Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso”.
La mitezza consiste essenzialmente nella non violenza, cioè in un rapporto con l’altro che eviti qualsiasi tipo di sopraffazione, e vuole sottolineare che non è importante quello che si dona all’altro, ma il rapporto che si instaura con lui, basato sul rispetto e sulla collaborazione. Solo chi si comporta in questo modo godrà veramente dell’amore degli altri, cioè avrà successo.
Nella seconda massima si afferma:
“Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore”
La grandezza di una persona non si misura dalle cose che è capace di fare o dalla fama che ha acquisito. L’importante è farsi umile, cioè riconoscere i propri limiti. Solo così si può ottenere il favore di Dio.
Si passa poi a considerare l’orgoglio e la mitezza con la terza massima:
“Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti.”
L’orgoglio e la superbia sono due atteggiamenti propri di chi si sente superiore agli altri. Nei rapporti con Dio questi atteggiamenti precludono la possibilità di imparare qualcosa sulla vera natura di Dio, e di riflesso impediscono di capire la realtà e le persone con le quali si vive.
Nella quarta massima si indicano le basi del vero culto:
“Perchè grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato”.
Per rivolgersi correttamente a Dio, bisogna riconoscere la Sua grandezza, e ciò è possibile solo a chi pratica l’umiltà.
C’è poi una dura condanna per il superbo:
“Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perchè in lui è radicata la pianta del male”.
La superbia è una malattia che non può essere guarita, perché l’uomo orgoglioso si preclude la possibilità stessa di imparare, e quindi di correggersi.
Il brano si conclude con l’ultima massima:
“Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio”.
Il linguaggio delle parabole è l’unico che dà accesso a cose più grandi. Ma per poterlo utilizzare bisogna avere l’orecchio attento, cioè bisogna distaccarsi dal frastuono che proviene dalle cose di questo mondo.
In queste massime è descritto con un linguaggio semplice e comprensivo uno stile di vita improntato alla mitezza, all’umiltà, all’ascolto e al rapporto con le persone. Ad esso si contrappone il comportamento orgoglioso, presentato come una chiusura all’altro, che porta inevitabilmente alla rovina di chi ne è affetto.
La mitezza e l’umiltà che Siracide suggerisce coincidono con quello che potremmo chiamare un comportamento non violento. Esse sono necessarie per chi vuole attuare la vera giustizia nei rapporti con le persone. Un comportamento aggressivo e orgoglioso non serve a nulla, anche quando chi lo pratica si presenta come un generoso benefattore. Questo orientamento di vita è molto importante per tutti, ma soprattutto per quelli che si dedicano al bene degli altri.

Salmo 67 Hai preparato, o Dio, una casa per il povero
I giusti si rallegrano,
esultano davanti a Dio
e cantano di gioia.
Cantate a Dio, inneggiate al suo nome:
“Signore” è il suo nome.

Padre degli orfani e difensore delle vedove
è Dio nella sua santa dimora.
A chi è solo, Dio fa abitare una casa,
fa uscire con gioia i prigionieri.

Pioggia abbondante hai riversato, o Dio,
la tua esausta eredità tu hai consolidato
e in essa ha abitato il suo popolo,
in quella che, nella tua bontà,
hai reso sicura per il povero, o Dio.

E’ un’impresa piuttosto ardua tentare di descrivere in poche righe quello che è stato definito “Il Titano dei Salmi”, una delle pagine più complesse del Salterio. Quasi tutti i commentatori, aprendo le loro
analisi di questo superbo “Te Deum” al Signore del cosmo e della storia, scrivevano frasi come questa: “Ecco il più difficile e il più oscuro di tutti i Salmi, a livello testuale ed esegetico” (M.Dahood)
Eppure questo cantico, la cui origine risale probabilmente ai primordi della poesia ebraica come il Salmo 18/17 (Davide? X sec. a.C), nonostante l’appannamento e l’usura dovuta alla trasmissione, riesce in ogni caso ad abbagliare ad affascinare. Una pagina corrotta, lesionata e macchiata che lascia però intravedere l’antico splendore delle sue miniature.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi

Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile, né a un fuoco ardente, né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola.
Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all'adunanza festosa e all'assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, Mediatore dell’alleanza nuova.
Eb 12,18-19.22-24


L’autore della lettera agli Ebrei dopo il brano esortativo sulla necessità di vigilare, prosegue mettendo in luce, l’esperienza degli israeliti ai piedi del monte Sinai e quella dei cristiani.
Anzitutto egli presenta la prima parte , in cui descrive che cosa i cristiani si sono lasciati alle spalle quando hanno aderito a Cristo: “Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile, né a un fuoco ardente, né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola”.
L’autore ricava i dettagli di questa descrizione dal racconto della teofania del Sinai (Es 19,9-25), che riporta per i suoi lettori cristiani. Egli presenta l’incontro con Dio, tipico della prima alleanza, come condizionato da realtà materiali, cosmiche, come un fuoco ardente, oscurità, tenebra e tempesta, accompagnate da squilli di tromba e suono di parole, cioè parole in forma di tuoni. Il popolo è talmente impaurito che scongiura Dio di non rivolgergli più la parola. Naturalmente per l’autore si tratta di una paura colpevole, che equivale a un rifiuto della parola di Dio.
Il testo procede nei vv. 20-21, omessi dalla liturgia, che ingrandiscono la distanza tra Dio, presente nella sacra montagna, e il popolo. Il mediatore stesso di questa alleanza è un Mosè impaurito e tremante, terrificato dallo spettacolo che si presenta davanti ai suoi occhi.
In contrasto con quanto è capitato al popolo dell’antica alleanza, i cristiani hanno fatto un’esperienza positiva e rasserenante: “Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all'adunanza festosa e all'assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, Mediatore dell’alleanza nuova”.
L’esperienza dei credenti in Cristo viene così presentata in chiave positiva, come una realtà gioiosa, piena di luce. L’autore non si ferma a descrivere la vita di una normale comunità cristiana, ma presenta la Gerusalemme celeste verso la quale tendono i credenti in Cristo. Ciò che li aspetta è il santuario celeste dove Gesù è entrato, mediante il suo sangue, come mediatore della nuova alleanza e nel quale si trova con Dio, con gli angeli e con tutto il popolo eletto degli ultimi tempi.
Questa descrizione ha lo scopo di rivolgere l’attenzione alle realtà ultime, verso le quali il cristiano è indirizzato, ma al tempo stesso di fargli capire che esse sono già anticipate nella vita della comunità a cui appartiene, con tutti i limiti che possono caratterizzarla. Non tutto si è ancora realizzato, ma se la meta a cui bisogna tendere è ben chiara, ogni difficoltà si potrà superare senza scoraggiarsi.

Dal vangelo secondo Luca
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano ad osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cèdigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. Invece quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.
Disse poi a colui che l'aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”.
Lc 14, 1a,7-14

Questo brano del Vangelo di Luca segue di poco la scena in cui abbiamo lasciato Gesù che concludeva il suo insegnamento dicendo: “ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi”. Non viene riportato l’episodio in cui dei farisei (probabilmente quelli che credevano in lui) erano andati per avvertirlo che Erode lo voleva uccidere e Gesù risponde loro: “è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”. A questo punto pronuncia la sua profezia su Gerusalemme.
Il capitolo 14 inizia riportandoci Gesù invitato a pranzo nel giorno di sabato da uno dei capi dei farisei, invito non certo mosso da buone intenzioni, ma per metterlo alla prova. Infatti Gesù vede un idropico e sfidando i farisei chiede loro: “È lecito o no curare di sabato?” e non ottenendo risposta lo guarì.
In questo brano vediamo che Gesù si limita a dare dei suggerimenti scaturiti dal fatto che molti invitati ambivano ad andare ai primi posti:
“Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cèdigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. Invece quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. “
E’ certamente un saggio consiglio su come comportarsi quando si è invitati a un banchetto: se si vuole evitare una brutta figura, non è cosa buona scegliere il primo posto; al contrario, per fare bella figura, è meglio mettersi all'ultimo posto. Queste parole ricordano anche certe affermazioni di Gesù (Lc 13,30; Mt 19,30) sul rovesciamento di situazione che il Regno di Dio porterà. L'intenzione di Gesù non è quindi quella di dare una regola di comportamento nella società di allora, ma esprime il cambiamento di atteggiamento e di mentalità richiesto a chi ha fatto l'esperienza dell'incontro con il Dio di Gesù.
“Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.
Il significato religioso della regola diventa chiaro con la sentenza di questo versetto. Questa sentenza probabilmente era ben conosciuta nella tradizione sapienziale del giudaismo, dove spesso aveva valore di una parola di saggezza nata dall'esperienza della vita. Ma in Luca, il detto di sapienza ha carattere escatologico: riguarda il futuro rovesciamento di situazione che si compirà al momento del giudizio divino.
“Disse poi a colui che l'aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio”.
Ora Gesù si rivolge al padrone di casa, fariseo, con un invito a compiere qualcosa di sbalorditivo: chiamare i poveri al posto dei propri pari e pensare alla ricompensa nella risurrezione dei giusti!
Queste parole sono in sintonia con quanto Luca aveva già esposto (Lc 6,34-35), e rientrano nella forma paradossale di esprimersi di Gesù.
La critica comunque non riguarda particolarmente i farisei, che per Luca sono i degni rappresentanti di un’usanza sociale comunissima: la reciprocità basata sulla legge del “do ut des”, una reciprocità chiusa su se stessa, fondata su calcoli e non sulla gratuità, sulla controparte e non sul disinteresse.
La novità portata da Gesù richiede una nuova relazione: l'amore che non calcola e che toglie l'ineguaglianza e la discriminazione tra gli uomini.
“Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi;”
A un gruppo di quattro sostantivi (amici, parenti, fratelli, vicini) viene opposto un altro gruppo di quattro sostantivi: poveri, storpi, zoppi, ciechi. E’ da notare che gli ultimi tre erano esclusi dal culto del tempio e quindi dalla comunità di Dio. Non a caso, proprio con essi Gesù entrava in comunione e proponeva la vicinanza di Dio.
“e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”. Gesù ci presenta una solidarietà disinteressata e universale, ad imitazione del comportamento di Dio, che si prende cura dei più bisognosi ed emarginati. Gesù poi aggiunge che la ricompensa a tutto questo ci sarà alla risurrezione dei giusti”.
Con questo commento Gesù non vuole dire che la ricompensa umana, a cui si è rinunziato, sarà sostituita con una ricompensa divina alla fine dei tempi, ma piuttosto: chi si comporta in modo disinteressato ottiene la beatitudine del regno, cioè raggiunge già su questa terra quella felicità che consiste appunto nel fatto stesso di essere giusti, cioè di aver dato un senso alla propria vita.
Il banchetto è simbolo della comunione eucaristica: esprime la gioia della festa, il piacere dell’amicizia, il bisogno d’incontro e di dialogo, la gioia di dividere ciò che si possiede o si spera, non può essere una casta di privilegiati o di arrivisti, né può essere chiusa a certe categorie. Essa deve essere aperta a tutti, anche a chi non ha niente (e in questo periodo, possiamo averne un’idea ben precisa). Gesù ci offre una regola per l’ingresso nel Suo regno: la semplicità, l’umiltà, l’amore disinteressato e il rispetto della giustizia .

 

*****

 

“Il Vangelo di questa domenica ci mostra Gesù che partecipa a un banchetto nella casa di un capo dei farisei. Gesù guarda e osserva come gli invitati corrono, si affrettano per procurarsi i primi posti.
È un atteggiamento piuttosto diffuso, anche ai nostri giorni, e non solo quando si è invitati a un pranzo: abitualmente, si cerca il primo posto per affermare una presunta superiorità sugli altri. In realtà, questa corsa ai primi posti fa male alla comunità, sia civile sia ecclesiale, perché rovina la fraternità. Tutti conosciamo queste persone: arrampicatori, che sempre si arrampicano per andare su, su… Fanno male alla fraternità, danneggiano la fraternità. Di fronte a questa scena, Gesù racconta due brevi parabole.
La prima parabola è rivolta a colui che è invitato a un banchetto, e lo esorta a non mettersi al primo posto, «perché – dice – non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Per favore, vai indietro, cedigli il posto!”». Una vergogna! «Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto». Gesù invece insegna ad avere l’atteggiamento opposto: «Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, veni più avanti!”» . Dunque, non dobbiamo cercare di nostra iniziativa l’attenzione e la considerazione altrui, ma semmai lasciare che siano gli altri a darcele. Gesù ci mostra sempre la via dell’umiltà - dobbiamo imparare la via dell’umiltà! – perché è quella più autentica, che permette anche di avere relazioni autentiche. La vera umiltà, non la finta umiltà, quella che in Piemonte si chiama la mugna quacia, no, quella no. La vera umiltà.
Nella seconda parabola, Gesù si rivolge a colui che invita e, riferendosi al modo di selezionare gli invitati, gli dice: «Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti» . Anche qui, Gesù va completamente contro-corrente, manifestando come sempre la logica di Dio Padre. E aggiunge anche la chiave per interpretare questo suo discorso. E qual è la chiave? Una promessa: se tu farai così, «riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» . Questo significa che chi si comporta così avrà la ricompensa divina, molto superiore al contraccambio umano: io ti faccio questo favore aspettando che tu me ne faccia un altro. No, questo non è cristiano. La generosità umile è cristiana. Il contraccambio umano, infatti, di solito falsa le relazioni, le rende “commerciali”, introducendo l’interesse personale in un rapporto che dovrebbe essere generoso e gratuito. Invece Gesù invita alla generosità disinteressata, per aprirci la strada verso una gioia molto più grande, la gioia di essere partecipi dell’amore stesso di Dio che ci aspetta, tutti noi, nel banchetto celeste.
La Vergine Maria, «umile ed alta più che creatura» (Dante, Paradiso, XXXIII, 2), ci aiuti a riconoscerci come siamo, cioè piccoli; e a gioire nel donare senza contraccambio.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 settembre 2019

Le letture liturgiche di questa domenica ci portano a domandarci a chi è riservata la salvezza? Nessuno può considerare la sua appartenenza a Cristo come garanzia di una facile salvezza. Questa, infatti, è una grazia che va accolta e condivisa in una vita spesa per Dio e per i fratelli.
Nella prima lettura, presa dall’ultima pagina del libro del profeta Isaia, ci dice che tutti i popoli della terra non devono sentirsi estranei nella Gerusalemme dello spirito perché là c’è un libro su cui anche i loro nomi sono stati scritti personalmente da Dio stesso.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera Ebrei, l’autore ci dice che anche la prova dolorosa, che sul momento provoca tristezza, può essere il segno dell’amore del Padre, che al figlio prepara un premio grande di pace e di giustizia.
Nel Vangelo di Luca, alla domanda sul numero dei salvati, Gesù non dà una risposta diretta, ma espone le condizioni indispensabili per conseguire la salvezza. La “porta stretta” sta a significare la via della rinuncia al proprio egoismo con un impegno serio e costante. Non basta aver “mangiato e bevuto” l’eucaristia, o ascoltato e fatto catechesi o propaganda religiosa, è la scelta di un’intera vita di fede e di amore che fa spalancare le porte della festa. Là entreranno gli ultimi, persino i “lontani” giusti, i veri operatori di pace e di giustizia, i veri fedeli.

Dal libro del profeta Isaìa
Così dice il Signore: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro supèrstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros,Tubal e Iavan, alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle genti.
Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme - dice il Signore -, come i figli d’Israele portano l'offerta in vasi puri nel tempio del Signore. Anche tra loro mi prenderò sacerdoti e levìti, dice il Signore”.
Is 66,18-21

Questo brano appartiene al "Terzo Isaia" (TritoIsaia capitoli 56-66), il profeta della situazione successiva al ritorno dall'esilio. E’ stato composto con ogni probabilità in un periodo che precede le guerre maccabaiche, e dimostra una grande apertura universalistica: JHWH è il Dio di tutte le nazioni e si serve dei giudei sparsi in mezzo alle nazioni per farsi conoscere anche da loro. Il brano inizia con un oracolo in cui Dio stesso dice che cosa sta per fare: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro supèrstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros,Tubal e Iavan, alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle genti.”
Richiamandosi all’annunzio della venuta di DIO per giudicare il mondo, il testo sottolinea che la condanna dei popoli non costituisce l’unico scopo dell’intervento divino. Il Signore viene anzitutto per radunare tutti i popoli e promette anche a loro che vedranno la Sua gloria, cioè avranno anche loro accesso alla salvezza. L’elenco dei popoli, ricavata da Ezechiele, contiene nomi che risvegliano l’immaginazione di terre lontane e lingue diverse. Ciò serve a situare la promessa in un grandioso scenario geografico che rievoca l’universalità delle genti. Vengono nominate Tarsis, (località non ben definita, a volte associata a Tharros in Sardegna o Tertesso nella Spagna meridionale) , Put che è situata in Egitto, Lud in Asia Minore, Mesech, Ros e Tubal vicino al mar Nero e infine la Grecia e in particolare le colonie Ionie sulla costa occidentale dell’Asia Minore e delle isole. Queste nazioni non hanno sentito parlare di JHWH e non sono ancora venute a contatto con Lui.
L’autore spiega poi quale sarà la conseguenza dell’intervento divino: Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme - dice il Signore -, come i figli d’Israele portano l'offerta in vasi puri nel tempio del Signore. In questo versetto si riprende l’immagine del pellegrinaggio escatologico delle nazioni a Gerusalemme e al tempio. È questa una delle idee centrali del Terzo Isaia (60,1-22; 62,1-9), che preannunzia la venuta a Gerusalemme delle nazioni straniere che portano i loro doni all’unico vero Dio.
Qui invece le nazioni non portano doni materiali, ma riconducono alla loro terra tutti i giudei che erano ancora dispersi in tutte le parti del mondo.
Infine Dio indica ciò che intende fare: “Anche tra loro mi prenderò sacerdoti e levìti…”.
Questa conclusione è piuttosto rivoluzionaria in quanto indica il superamento di un sacerdozio che apparteneva unicamente al popolo di Israele ed in particolare della casta sacerdotale. Ormai tutti potranno essere ammessi al servizio del tempio, anche se appartengono a popolazioni straniere che per diritto non potevano entrare neppure nei cortili più interni del tempio.

Salmo 116 - Tutti i popoli vedranno la gloria del Signore

Genti tutte, lodate il Signore,
popoli tutti,cantate la sua lode.

Perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore

E’ impossibile dimenticare il Salmo 117(116), il più breve del Salterio (17 parole nell’originale ebraico, delle quali solo 9 rilevanti), dopo aver ascoltato lo stupendo “Laudate Dominum” in fa minore presente nei “Vespri solenni di un confessore” di Mozart (1780)…
Il mini-inno è una miniatura puntuale del genere letterario innico. Tipico è l’invitatorio alla lode: Genti tutte, lodate il Signore,
popoli tutti,cantate la sua lode. Segue il contenuto dell’inno che è introdotto in ebraico da un “Kî “perchè”, contenuto espresso attraverso i due attributi divini fondamentali, tipici della teologia biblica dell’alleanza, hesed, l’”amore” e ‘emet, la“fedeltà”.
Questi due vocaboli sono in pratica un’endiadi per esaltare l’eterna fedeltà amorosa di Dio, nonostante i tradimenti dell’uomo.

Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi


Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, avete già dimenticato l'esortazione a voi rivolta come a figli: "Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio".
È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli;e qual è il figlio che non è corretto dal padre? Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati. Perciò rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire.
Eb 12,5-7, 11-13

In questo brano l’autore della lettera agli ebrei affronta il tema che la sofferenza ha in un cammino di fede. Prima analizzando la sofferenza come correzione, cita dei versetti tratti dal libro dei proverbi (3,11-12), dice
"Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio".:e commenta “È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre”.
Questo comportamento di Dio con i suoi fedeli è descritto alla luce di quelli che erano i metodi educativi di allora, secondo i quali un padre, proprio perché ama i propri figli, li educa con castighi di vario tipo. Forse l’autore ha in mente il tema di Gesù, il Figlio, che proprio attraverso quello che patì imparò l’obbedienza (Eb 5,8). Dopo aver esposto la sua tesi sull’importanza della correzione, l’autore fa una sua ulteriore riflessione: “Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati.”
La sofferenza, anche vista come una correzione ispirata dall’amore paterno di Dio, non fa certo piacere anche se la sua importanza e il suo significato si capiscono solo dopo, quando se ne vedono i frutti, che consistono nella pace e nella giustizia.
Infine egli conclude: “Perciò rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” L’esortazione contenuta in questi due versetti è ispirata a Isaia (35,3,) quando il profeta si rivolgeva agli ebrei esuli in Babilonia per annunziare loro la prossimità della salvezza e la possibilità di ritornare nella loro terra; e al Libro dei Proverbi (4,26) in cui è riportata una massima sapienziale che invita alla prudenza e all’impegno:
”Bada alla strada dove metti il piede e tutte le tue vie siano ben rassodate”.
Questo brano è faticoso da tradurre nel quotidiano, per cui è opportuno riconoscere che solo in un contesto di fedeltà assoluta, sulla linea di Gesù, le sofferenze che accompagnano l'esistenza dei credenti possono diventare un’occasione per purificare la fede da illusione e interessi superficiali e per scoprire un nuovo rapporto con Dio come Padre. In breve, le prove possono diventare espressione e strumento della “pedagogia” divina solo per chi ha fatto una scelta di fedeltà a Dio che trova in Gesù la sua fonte e il suo modello ideale.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”.
Disse loro: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare ma non ci riusciranno.
Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete: Allontanatevi da me voi tutti operatori di ingiustizia!
Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori.
Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi e vi sono primi che saranno ultimi”.
Lc 13, 22-30

Si può subito notare che questo brano, tratto dal Vangelo di Luca, soprattutto se messo in relazione con lo stesso episodio raccontato da Matteo, risente chiaramente della polemica sul rigetto dei Giudei e l’ammissione dei pagani nella Chiesa.
Il testo racconta che Gesù mentre è in cammino verso la città santa, si dedica all’insegnamento nelle città e nei villaggi in cui passa. Luca riferisce che un tale interpella Gesù facendogli una domanda provocatoria: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Il modo in cui questa domanda è formulata presuppone che Gesù si sia espresso in termini tali da far pensare che effettivamente il numero dei salvati sia esiguo, infatti poco prima egli aveva usato l’immagine del “piccolo gregge” e aveva paragonato il regno a un granello di senapa e a un pugno di lievito. Gesù non risponde direttamente alla domanda sul numero dei salvati, ma rivolge loro un’esortazione: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare ma non ci riusciranno” e poi aggiunge : Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”.
Questa frase costituisce in Matteo la conclusione della parabola delle vergini prudenti e delle vergini stolte mentre in Luca la stessa frase viene fatta dire al padrone che chiude la porta di casa lasciando fuori alcune persone che bussano e insistono per entrarvi. Luca precisa ulteriormente il pensiero di Gesù riportando un’altra frase Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”.
Da queste parole appare che Gesù si identifica con il padrone di casa e coloro che sono rimasti fuori sono persone che pensano di avere il diritto di entrare nella sala. In Matteo questo diritto si fonda sul fatto che nel suo nome hanno profetato, hanno cacciato demoni e hanno fatto miracoli. Secondo Luca la loro comunione con Gesù si riduce al fatto che essi hanno mangiato e bevuto davanti a Lui ed Egli ha predicato nelle piazze dei loro villaggi. Sembra quindi che, mentre per Matteo si tratta di discepoli non coerenti con le esigenze del vangelo, secondo Luca gli esclusi sono i giudei che hanno ascoltato la sua predicazione e non si sono convertiti. È probabile dunque che Luca riporti la frase nel suo significato originario, in funzione cioè dell’ambiente in cui Gesù predicava, mentre Matteo l’avrebbe adattata a una problematica interna alla prima comunità. Luca dunque ha inteso attualizzare l’insegnamento di Gesù per i discepoli del suo tempo.
Coloro che, in qualità di discepoli hanno familiarità con il Signore e ne ascoltano gli insegnamenti si potrebbero porre anche adesso una domanda cruciale: “Noi cristiani ci salveremo?” Le parole di Gesù danno sempre una risposta a chi sa ascoltare: L’essere cristiani non è il mezzo magico di salvezza, perchè la salvezza viene dall’incontro dello sforzo umano con il dono di Dio.

 

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“Il Vangelo di oggi ci presenta Gesù che passa insegnando per città e villaggi, diretto a Gerusalemme, dove sa che deve morire in croce per la salvezza di tutti noi. In questo quadro, si inserisce la domanda di un tale, che si rivolge a Lui dicendo: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» . La questione era dibattuta a quel tempo – quanti si salvano, quanti no… – e c’erano diversi modi di interpretare le Scritture al riguardo, a seconda dei testi che prendevano. Gesù però capovolge la domanda – che punta più sulla quantità, cioè “sono pochi?...” – e invece colloca la risposta sul piano della responsabilità, invitandoci a usare bene il tempo presente. Dice infatti: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» .
Con queste parole, Gesù fa capire che non è questione di numero, non c’è il “numero chiuso” in Paradiso! Ma si tratta di attraversare fin da ora il passaggio giusto, e questo passaggio giusto è per tutti, ma è stretto. Questo è il problema. Gesù non vuole illuderci, dicendo: “Sì, state tranquilli, la cosa è facile, c’è una bella autostrada e in fondo un grande portone…”. Non ci dice questo: ci parla della porta stretta. Ci dice le cose come stanno: il passaggio è stretto. In che senso? Nel senso che per salvarsi bisogna amare Dio e il prossimo, e questo non è comodo! È una “porta stretta” perché è esigente, l’amore è esigente sempre, richiede impegno, anzi, “sforzo”, cioè una volontà decisa e perseverante di vivere secondo il Vangelo. San Paolo lo chiama «il buon combattimento della fede» (1Tm 6,12). Ci vuole lo sforzo di tutti i giorni, di tutto il giorno per amare Dio e il prossimo.
E, per spiegarsi meglio, Gesù racconta una parabola. C’è un padrone di casa, che rappresenta il Signore. La sua casa simboleggia la vita eterna, cioè la salvezza. E qui ritorna l’immagine della porta. Gesù dice: «Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta dicendo: “Signore, aprici”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”» . Queste persone allora cercheranno di farsi riconoscere, ricordando al padrone di casa: “Io ho mangiato con te, ho bevuto con te… ho ascoltato i tuoi consigli, i tuoi insegnamenti in pubblico…”; “Io c’ero quando tu hai dato quella conferenza…”. Ma il Signore ripeterà di non conoscerli, e li chiama «operatori di ingiustizia». Ecco il problema! Il Signore ci riconoscerà non per i nostri titoli – “Ma guarda, Signore, che io appartenevo a quell’associazione, che io ero amico del tal monsignore, del tal cardinale, del tal prete…”. No, i titoli non contano, non contano. Il Signore ci riconoscerà soltanto per una vita umile, una vita buona, una vita di fede che si traduce nelle opere.
E per noi cristiani, questo significa che siamo chiamati a instaurare una vera comunione con Gesù, pregando, andando in chiesa, accostandoci ai Sacramenti e nutrendoci della sua Parola. Questo ci mantiene nella fede, nutre la nostra speranza, ravviva la carità. E così, con la grazia di Dio, possiamo e dobbiamo spendere la nostra vita per il bene dei fratelli, lottare contro ogni forma di male e di ingiustizia.
Ci aiuti in questo la Vergine Maria. Lei è passata attraverso la porta stretta che è Gesù. Lo ha accolto con tutto il cuore e lo ha seguito ogni giorno della sua vita, anche quando non capiva, anche quando una spada trafiggeva la sua anima. Per questo la invochiamo come “Porta del cielo”: Maria, Porta del cielo; una porta che ricalca esattamente la forma di Gesù: la porta del cuore di Dio, cuore esigente, ma aperto a tutti noi“
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 25 agosto 2019

Mercoledì, 31 Agosto 2022 17:05

BACK TO SCHOOL 22

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Da domani, giovedì 25 agosto, sono aperte le iscrizioni all'oratorio dal 5 al 9 settembre. Una settimana di condivisione e amicizia, per ripartire insieme verso il nuovo anno, scolastico e pastorale. Le iscrizioni sono esclusivamente online al seguente link https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSfKHPuUOGWrHgtv-PwYIBsgR8IsamLOfZob9dmMRDLF5SXBCw/viewform e sono attive dalla mezzanotte. Per qualsiasi necessità, non esitate a scrivere alla nostra mail che trovate nella sezione contatti, della locandina.

 

 

La solennità dell’assunzione in cielo della Beata Vergine Maria – anima e corpo - è un dogma solennemente proclamato da Pio XII il 1 novembre 1950.
“Per capire l'Assunzione – aveva detto Papa Benedetto XVI “dobbiamo guardare alla Pasqua, il grande Mistero della nostra Salvezza, che segna il passaggio di Gesù alla gloria del Padre attraverso la passione, la morte e la risurrezione. Maria che ha generato il Figlio di Dio nella carne, è la creatura più inserita in questo mistero, redenta fin dal primo istante della sua vita, e associata in modo del tutto particolare alla passione e alla gloria del suo Figlio. L'Assunzione al Cielo di Maria è pertanto il mistero della Pasqua di Cristo pienamente realizzato in Lei. Ella è intimamente unita al suo Figlio risorto, vincitore del Peccato e della morte, pienamente conformata a Lui”. (Angelus 15 agosto 2012)
Nella prima lettura, tratta dal Libro dell’Apocalisse, incontriamo l’immagine simbolica di una donna che partorisce un figlio maschio. E’ facile per noi riconoscere in lei Maria che dà alla vita il Signore Gesù. Tuttavia, anche nell’Apocalisse l’immagine si amplifica, per diventare simbolo della Chiesa, che con il suo impegno testimonia nella storia la presenza del Figlio di Dio. Egli è rapito in cielo per renderci partecipi della sua vittoria sulla morte. La donna continuerà a combattere con noi nel deserto, ma condividendo già la gloria di Dio, ci mostra quale sarà l’esito finale della lotta: tutto, anche la morte, sarà posto sotto i piedi di suo Figlio.
Con la seconda lettura, tratta dalla prima lettera di S.Paolo ai Corinzi, possiamo comprendere di più come l’assunzione al cielo di Maria è il frutto della risurrezione di Cristo, che è la “primizia” dei risorti. Maria anticipa il destino di gloria promesso a “quelli che sono di Cristo”.
Nel Vangelo, Luca ci presenta la visita premurosa di Maria alla cugina Elisabetta. Alla lode della cugina, Maria risponde con un gioioso cantico divenuto la preghiera dei poveri del Signore, la grande lode di ringraziamento per la presenza in mezzo a noi, deboli, poveri, ma credenti, del Signore Salvatore.

Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza.
Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito.
Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio.
Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo».
Ap 11,19a – 12,1-6ª.10ab

Il libro dell'Apocalisse, che è stato scritto dall’Apostolo Giovanni o da un suo discepolo nell’Anno 95, quando si trovava in esilio all’isola di Patmos, si compone di 22 capitoli. E’ la rivelazione di Gesù Cristo come Egli è, (da qui il nome Apocalisse=rivelazione) il Signore dei signori, il Re dei re, il quale si riappropria di ciò che gli appartiene: la terra.
Anche nel linguaggio comune si è sentito parlare del "settimo sigillo", questo perché nell'Apocalisse la prima serie di giudizi è dettata dall'apertura di sette sigilli.
In Israele ai tempi dell'Antico Testamento l'atto di proprietà veniva redatto, quindi arrotolato e sigillato, in caso di contestazione l'atto di proprietà veniva aperto.
Ecco, Cristo nell'Apocalisse apre i sigilli perché ha deciso di riprendere possesso della terra.
L'Apocalisse è il libro della Bibbia che completa le informazioni profetiche rispetto al piano di Dio. Descrive in modo molto dettagliato gli eventi futuri dell'umanità. In sostanza l'ultimo libro della Bibbia, forse il più importante per quanto riguarda le profezie e la comprensione del piano di Dio, è diviso in cinque parti:
1. Capitoli da 1 a 3. Lettera alle sette chiese dell'Asia, Dio usa Giovanni, l'autore del libro, per rivelare alla Chiesa le cose che dovranno avvenire.
2. Capitoli 4 e 5. L'affermazione dell'autorità divina di Cristo sulla terra.
3. Capitoli da 6 a 19. Il periodo di sette anni della Tribolazione, descritta attraverso gli eventi ed i giudizi, periodo che inizia con l'apertura del primo sigillo, il cavallo bianco cavalcato dall'Anticristo, con l'arco senza le frecce, prende il potere senza fare la guerra, il cavallo bianco sembra significare che abbia usurpato il ruolo di Cristo. Il periodo termina con Gesù che viene cavalcando un cavallo bianco, seguito dai suoi eserciti, non ci sarà battaglia, viene posta fine alla Tribolazione.
4. Capitolo 20. Il regno dei mille anni governato da Gesù Cristo, al termine dei quali ci sarà l'ultima ribellione dell'umanità, l'apertura dei libri ed il giudizio universale relativo a quelli che non hanno la salvezza di Cristo.
5. Capitoli 21 e 22. La vita eterna con Dio con dei nuovi cieli e la nuova terra, il compimento finale del Piano di Dio.
Questo brano, che la liturgia ci presenta, tratto dal capitolo 12, si può dire è la pagina più bella dell’Apocalisse:
«Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle...».
L’intero capitolo è dominato anche da un altro “segno”, quello «di un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra», ed è tutto intarsiato di allusioni a testi biblici.
E’ grande il contrasto che si scorge in questa visione: da un lato la donna e il figlio, dall’altro il dragone rosso incoronato.
Sono state date nel tempo numerose e valide interpretazioni, la più comune è quella che identifica nella donna, Maria che genera il Cristo. In realtà il pensiero di Giovanni è probabilmente orientato in altra direzione. La donna simboleggia anche il popolo di Dio, prima l’antico Israele, da cui Gesù ha preso carne, l’altro il nuovo Israele, la Chiesa, al cui interno il Cristo è continuamente generalato attraverso l’Eucaristia e la Sua parola.. Maria, la Chiesa, il Cristo sono intimamente connessi e sono segno altissimo del bene e della salvezza
In questo testo sia S.Agostino che S.Bernardo hanno visto nella Donna dell’Apocalisse il simbolo di Maria, come altri testi sacri che richiamano il mistero della Chiesa, possono essere applicati alla Vergine Maria, in quanto il vero mistero che la circonda, s’inserisce nel mistero della Chiesa e insieme lo illumina, come lo ha sottolineato il Concilio Vaticano II.

Salmo 44 - Risplende la Regina, Signore, alla tua destra.
Figlie di re stanno fra le tue predilette;
alla tua destra sta la regina, in ori di Ofir.

Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio,
dimentica il tuo popolo
e la casa di tuo padre.
Il re è invaghito della la tua bellezza.
E’ lui il tuo Signore: rendigli omaggio.

Dietro a lei le vergini sue compagne
Condotte in gioia ed esultanza;
guidate in gioia ed esultanza,
sono presentate nel palazzo del re.

Questo salmo per essere compreso ha bisogno di una precisazione teologica. I re di dinastia davidica erano delle figure del futuro re, il Messia. Così il salmo guarda al futuro Messia mentre celebra le nozze di un re d’Israele. Le lodi che lo scriba presenta al re hanno come ultimo traguardo il Cristo.
Le nozze sono quelle tra Salomone e la figlia del re di Tiro. Non esiste nella storia biblica o extrabiblica una menzione di queste nozze, ma si sa che Davide e poi Salomone ebbero stretti contatti d’amicizia con il re di Tiro circa la costruzione del Tempio, e del resto nel salmo si parla di Tiro, e della “figlia del re”.
Il salmista è uno scriba che ha composto un poema di lode e lo recita davanti al re. Le sue lodi sono splendide, non protocollari, egli celebra nel re il futuro Messia. Tutte le nozze del re Salomone con la figlia del re di Tiro, diventano figura della azioni future del Messia e in questo senso pieno vanno lette.
Lo scriba è pieno di gioia, lodando il re sa di compiere un atto che termina nella lode a Dio.
Il re è detto “il più bello tra i figli dell’uomo”. Bello di una bellezza divina il Cristo. Sulle sue “labbra è diffusa la grazia”, cioè la parola sapiente, la giustizia nel governare, la promozione dell’osservanza alla Legge. “Dio ti ha benedetto per sempre”, perché non ritirerà mai il suo favore alla casa di Davide (2Sam 7,12).
Lo scriba invita il re, chiamato prode, a cingersi la spada al fianco per combattere i suoi nemici, che vogliono ostacolare il suo lottare (“cavalca”) per la causa “della verità, della mitezza e della giustizia”. Così Cristo avanzerà nel mondo per mezzo della verità - lui la Verità -, della mitezza e della giustizia. Egli colpirà alla fine i suoi nemici con la spada della sua condanna (Ps 2,9; Ap 19,15).
Lo scriba afferma che il trono del re dura per sempre, poiché esso è destinato al futuro Messia. Il re è chiamato Dio, perché fa le veci di Dio, ma sarà veramente Dio nel futuro Messia.
“Scettro di rettitudine è il tuo scettro regale”, dice lo scriba. "Di rettitudine" perché fondato sulla Legge, che ha per sostanza l’amore.
Egli, il re, è stato consacrato tale “con olio di letizia”, a preferenza dei suoi uguali, cioè dei suoi fratelli discendenti di Davide. Cristo sarà consacrato re per opera dello Spirito Santo nel Giordano, sarà lui consacrato re tra tutti i discendenti di Davide (Lc 1,32); egli che sarà riconosciuto per la fede nella sua realtà di Figlio di Dio.
Le vesti del re emanano profumi, secondo l’uso orientale. Il profumo indica l’amabilità della persona. C’è festa attorno a lui: “Da palazzi d’avorio ti rallegri il suono di strumenti a corda”. Palazzi d’avorio perché ricchi di mobili intarsiati d’avorio. E’ la festa per lui. E’ la celebrazione della grandezza che ha ricevuto da Dio. Cristo è ben degno che dalle regge dei re si innalzi la celebrazione della sua grandezza, che sorpassa all’infinito ogni grandezza (Cf. Fil 2,9).
Lo scriba fa menzione dell’harem del re, fatto di figlie di re, segno della influenza tra i popoli. I popoli si sono alleati con lui dando a lui le figlie dei re. Ma alla destra del re c’è la regina. Questa regina viene dai pagani. E’ la figlia del re di Tiro, ma è invitata a lasciare ogni ricordo del suo popolo e della sua casa. Così la Chiesa viene anche dai pagani. E i pagani porteranno al Cristo le loro ricchezze: “Gli abitanti di Tiro portano doni”. Mentre “i più ricchi del popolo (Israele)” cercano il favore del re.
Certo Israele si aprirà a Cristo e i più ricchi di dottrina in Israele cercheranno di essere graditi al Re dei re, e ne guarderanno il volto pronti ad obbedire alla sua parola.
La regina è presentata in tutto il suo splendore; è la donna che l’Apocalisse presenta avvolta nel sole (12,1).
Le “vergini, sue compagne”, che facevano corolla alla figlia del re di Tiro, entrano anch’esse nel palazzo regale, diventando partecipi della sua gioia.
Il salmista alla fine della sua composizione guarda decisamente al futuro Messia. Ai suoi padri, cioè ai capi delle dodici tribù d’Israele succederanno “i tuoi figli”, cioè i dodici apostoli, che saranno, nel loro essere a fondamento della Chiesa, capi di tutta la terra.
La grandezza, la gloria del Cristo sarà ricordata da tutte le generazioni; e tutti i popoli lo “loderanno in eterno, per sempre”.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.
Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo.Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
E’ necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi
1Cor 15,20-27

Paolo scrisse intorno al 53 a.C., da Efeso, questa 1^ lettera ai Corinzi, che è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale. Vi si trovano infatti informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna": purezza dei costumi, svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell'eucaristia, uso dei carismi, sia per i rapporti con il mondo pagano.
Nell’ultimo capitolo della lettera Paolo, rispondendo a problemi che gli avevano posto, affronta il tema della risurrezione finale dei credenti. Nella prima parte egli dimostra la sua tesi sulla risurrezione finale (vv. 1-34), nella seconda (vv. 35-53) ne illustra invece le modalità; egli conclude la sua esposizione con un inno di lode a Cristo vincitore della morte (vv. 54-58).
Il rifiuto della risurrezione dei credenti porterebbe all’assurdo di negare di conseguenza anche la risurrezione stessa di Cristo. Ma questo metterebbe in crisi la loro fede stessa perciò Paolo riafferma il punto centrale di questa fede:
”Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”
Per Paolo la risurrezione di Cristo è una primizia non solo perché precede la risurrezione di tutti i credenti, ma anche e soprattutto perché ne è il modello e la causa. Il concetto di “primizia” viene ulteriormente elaborato da Paolo alla luce della concezione biblica secondo cui i membri di un gruppo formano una sola cosa con colui che ne è il capo e che li rappresenta. Rifacendosi a questa concezione Paolo afferma in due frasi disposte in modo parallelo che, come la morte è originata da un uomo, altrettanto deve essere per la risurrezione; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.
In quanto solidale con Adamo l’umanità fa fin d’ora l’esperienza della morte mentre la risurrezione dai morti invece per ora si è attuata solo in Cristo. La risurrezione finale dei credenti è dunque una conseguenza della comunione con Cristo, di cui la solidarietà in Adamo appare solo come una realtà negativa ormai passata.
A questo punto l’apostolo sente di dover fare una precisazione circa i tempi della salvezza. Egli afferma: “Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo”
Tra la risurrezione di Cristo, che è un evento già attuato, e quella dei credenti, che avrà luogo alla fine, c’è non solo una diversità di tempo, ma anche di “ordine”. Questa diversità proviene dal fatto che Cristo è la “primizia”: la Sua risurrezione prelude perciò a quella dei credenti, la \quale però avrà luogo solo “alla sua venuta”, cioè al momento del Suo ritorno glorioso.
Nella seconda parte del brano Paolo collega strettamente il regno di Cristo con il regno di Dio, mettendo in luce il loro avvicendarsi nel piano della salvezza. Egli ritiene che con la risurrezione di Cristo abbia avuto inizio il Suo regno messianico, che deve durare fino alla fine, quando egli “consegnerà il regno a Dio Padre” e ciò non avverrà però prima che Egli abbia “ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza”. Paolo sottolinea espressamente che l’ultimo nemico ad essere annientato sarà proprio la morte, la cui sconfitta avrà luogo appunto mediante la risurrezione dei morti. Se Cristo non fosse capace di eliminarla, non sarebbe veramente il Signore nel quale la comunità professa la sua fede.
L’apostolo infine precisa (nel versetto successivo non riportato nel brano): “Quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” ( ) da questo “tutto” è escluso colui che gli ha sottomesso ogni cosa, cioè il Padre.
Nella prospettiva di Paolo l’attesa della risurrezione finale implica quindi la lotta, insieme con Cristo, contro tutte le realtà negative che condizionano la vita umana, quali l’ingiustizia, la violenza, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
È proprio la speranza della risurrezione, in quanto implica una salvezza che abbraccia tutte le cose create, che spinge il credente a non chiudersi nel suo individualismo, ma ad impegnarsi affinché il mondo nuovo promesso da Gesù cominci ad apparire già ora nel corso della storia.

Dal vangelo secondo Luca
In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”.
Allora Maria disse:
“L'anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria rimase con lei circa tre mesi,poi tornò a casa sua.
Lc 1, 39-56

In questo brano Luca sembra dipingere a parole l’episodio della Visitazione, che è il mistero della comunicazione muta di due donne diverse per età, ambiente, caratteristiche.
Maria ha saputo dall’angelo che Elisabetta, “che tutti dicevano sterile” aspettava un bambino. A questa notizia ella decide immediatamente di recarsi da lei: “In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda”. La fretta con cui Maria intraprende questo viaggio rispecchia la sua fede e la sua completa disponibilità al piano divino. Per recarsi da Elisabetta Maria attraversa una delle regioni montagnose che circondano Gerusalemme e raggiunge una “città di Giuda” che la tradizione individua con il villaggio di Ein Karim, a 6 Km ad ovest di Gerusalemme.
“Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo”
Con la discesa dello Spirito su Elisabetta si attua la promessa dell’angelo a Zaccaria: sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre (Lc 1,15). Per bocca di sua madre è lo stesso Giovanni che dà inizio al suo compito profetico di annunziare la venuta del Messia, infatti proprio sotto l’azione dello Spirito Elisabetta
esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo!”
La frase ispirata di Elisabetta è una duplice benedizione. Anzitutto ella dichiara Maria “benedetta tra le donne”, cioè dotata di una benedizione superiore a quella delle altre donne. E soggiunge: che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo.” Per la prima volta Gesù viene designato qui come “Signore” e ciò sotto l’influsso dello Spirito.
Infine Elisabetta conclude: E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Mentre Zaccaria non aveva avuto fede (Lc. 1,20), Maria ha creduto alla parola di Dio, come aveva fatto Abramo (Gen 15,6). La storia, guidata da Dio sotto il segno della Provvidenza, trova in lei il suo compimento. A queste parole il cuore di Maria si apre alla gioia ed ella rende grazie a Dio pronunziando un inno che, dalla parola iniziale nella traduzione latina, viene chiamato «Magnificat».
Nei primi versetti Maria dice:”L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome: di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.”Maria si rivolge a Dio come suo “salvatore” e gli esprime la sua esultanza e la sua lode per i benefici di cui l’ha colmata. Il primo motivo di questa esultanza consiste nel fatto che ha guardato l'umiltà della sua serva. cioè ha operato una scelta preferendo proprio colei che, per la sua “umiltà” può essere paragonata a una serva. E come serva si era già dichiarata Maria nella risposta all’angelo nell’evento dell’annunciazione
Maria fa poi una considerazione generale circa il suo futuro destino affermando che,in forza della chiamata divina, d’ora in poi tutte le generazioni la diranno beata: l’esaltazione di Maria si estenderà dunque senza limiti di tempo e di spazio. Da questa constatazione Maria passa poi di nuovo ad esaltare l’iniziativa divina a suo riguardo: il Potente ha fatto per lei grandi cose; con ciò ha dimostrato che il Suo nome è santo e che la Sua misericordia si estende “di generazione e generazione” in favore di quelli che Lo temono. La santità del nome divino si manifesta appunto nelle opere che Egli compie per la liberazione del Suo popolo.
Nei versetti seguenti il canto di lode diventa più ampio : “Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”.
Con queste parole Maria mostra che quanto Dio ha fatto in suo favore non è altro che un esempio di come Egli guida le vicende del mondo. Anzitutto Maria esalta la potenza che ha dimostrato stendendo il suo braccio (Es 6,6) e disperdendo i superbi nei “pensieri del loro cuore”, cioè nei loro progetti di grandezza. Poi prosegue con due parallelismi contrapposti: ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili, cioè quelli privi di potere, ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi.
Gli ultimi versetti contengono un’esaltazione dell’opera di salvezza che Dio ha attuato in favore del Suo popolo: “Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria ricorda l’aiuto dato da Dio ad Israele Suo servo come manifestazione della Sua misericordia e come adempimento delle promesse fatte ai padri: in questa versetto la mente va ancora una volta al tema del servo, che accomuna Maria e Israele; l’accenno alla “discendenza” di Abramo non poteva non ricordare a noi cristiani la figura di Gesù, in funzione del quale erano state fatte le promesse (il concetto lo riprende Paolo nella lettera ai Galati 3,16).
Al termine del Magnificat, Luca annota: “Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua”.
in questo modo termina il racconto della visita ad Elisabetta.
Per riassumere si può dire che il canto del Magnificat è la celebrazione gioiosa e riassuntiva di tutta la storia della salvezza che da Maria, nella quale trova compimento, viene ripresa e rifatta nelle sue tappe risalendo fine alle origini. Questa storia, che sconvolge le situazioni umane, è condotta da Dio senza interruzioni, con il criterio dell’amore misericordioso che non conosce fine.

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“Oggi, Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria in Cielo, nella liturgia campeggia il Magnificat. Questo cantico di lode è come una “fotografia” della Madre di Dio. Maria “esulta in Dio, perché ha guardato l’umiltà della sua serva”.
È l’umiltà il segreto di Maria. È l’umiltà che ha attirato lo sguardo di Dio su di lei. L’occhio umano ricerca sempre la grandezza e si lascia abbagliare da ciò che è appariscente. Dio, invece, non guarda l’apparenza, Dio guarda il cuore (cfr 1 Sam 16,7) ed è incantato dall’umiltà: l’umiltà del cuore incanta Dio. Oggi, guardando a Maria assunta, possiamo dire che l’umiltà è la via che porta in Cielo. La parola “umiltà” deriva dal termine latino humus, che significa “terra”. È paradossale: per arrivare in alto, in Cielo, bisogna restare bassi, come la terra! Gesù lo insegna: «chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14,11). Dio non ci esalta per le nostre doti, per le ricchezze, per la bravura, ma per l’umiltà; Dio è innamorato dell’umiltà. Dio innalza chi si abbassa, chi serve. Maria, infatti, a sé stessa non attribuisce altro che il “titolo” di serva: è «la serva del Signore». Non dice altro di sé, non ricerca altro per sé.
Oggi allora possiamo chiederci, ognuno di noi, nel nostro cuore: come sto a umiltà? Cerco di essere riconosciuto dagli altri, di affermarmi ed esser lodato oppure penso a servire? So ascoltare, come Maria, oppure voglio solo parlare e ricevere attenzioni? So fare silenzio, come Maria, oppure chiacchiero sempre? So fare un passo indietro, disinnescare litigi e discussioni oppure cerco sempre solo di primeggiare? Pensiamo a queste domande: come sto a umiltà?
Maria, nella sua piccolezza, conquista i cieli per prima. Il segreto del suo successo sta proprio nel riconoscersi piccola, nel riconoscersi bisognosa. Con Dio, solo chi si riconosce un nulla è in grado di ricevere il tutto. Solo chi si svuota di sé viene riempito da Lui. E Maria è la «piena di grazia» proprio per la sua umiltà. Anche per noi l’umiltà è sempre il punto di partenza, l’inizio del nostro aver fede. È fondamentale essere poveri in spirito, cioè bisognosi di Dio. Chi è pieno di sé non dà spazio a Dio - e tante volte siamo pieni di noi - ma chi si mantiene umile permette al Signore di compiere grandi cose .
Il poeta Dante definisce la Vergine Maria «umile e alta più che creatura» (Paradiso XXXIII, 2). È bello pensare che la creatura più umile e alta della storia, la prima a conquistare i cieli con tutta sé stessa, in anima e corpo, trascorse la vita per lo più tra le mura domestiche, nell’ordinarietà, nell’umiltà. Le giornate della Piena di grazia non ebbero molto di eclatante. Si susseguirono spesso uguali, nel silenzio: all’esterno, nulla di straordinario. Ma lo sguardo di Dio è sempre rimasto su di lei, ammirato della sua umiltà, della sua disponibilità, della bellezza del suo cuore mai sfiorato dal peccato.
È un grande messaggio di speranza per ognuno noi; per te, che vivi giornate uguali, faticose e spesso difficili. Maria ti ricorda oggi che Dio chiama anche te a questo destino di gloria. Non sono belle parole, è la verità. Non è un lieto fine creato ad arte, una pia illusione o una falsa consolazione. No, è la pura realtà, viva e vera come la Madonna assunta in Cielo. Festeggiamola oggi con amore di figli, festeggiamola gioiosi ma umili, animati dalla speranza di essere un giorno con lei, in Cielo!
E preghiamola ora, perché ci accompagni nel cammino che dalla Terra porta al Cielo. Ci ricordi che il segreto del percorso è racchiuso nella parola umiltà, non dimentichiamo questa parola. E che la piccolezza e il servizio sono i segreti per raggiungere la meta, per raggiungere il Cielo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 agosto 2021

 

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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