Nel giorno dell’Epifania, o manifestazione del Signore, la Chiesa continua a contemplare il mistero della nascita di Gesù. Se a Natale, Dio ha vissuto il Suo pellegrinaggio, venendo ad abitare in mezzo a noi, nell’Epifania assistiamo al movimento corrispondete: gli uomini attratti dalla rivelazione del Suo mistero, si dirigono verso di Lui.
In questo consiste la missione universale della Chiesa: portare tutte le nazioni a raccogliersi attorno a Cristo per formare un solo popolo, il popolo di Dio. Questo giorno ricorre la Giornata dell’infanzia missionaria.
Nella prima lettura il profeta Isaia profetizza il giorno in cui “cammineranno le genti alla tua luce”. E’ un invito gioioso anche per noi. E’ il Signore che ci invita a lasciarci rivestire dalla volontà di bene che sprigiona la nascita del Suo Messia.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Efesini, San Paolo afferma che tutte le genti sono chiamati “in Cristo Gesù” a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo..
Nel Vangelo, Matteo ci parla dei Magi che si lasciano guidare dalla stella cometa dall’Oriente verso Betlemme. I magi sono il simbolo del mondo che va in cerca di Dio, è la festa della scienza che si fa guidare dalla stella della fede. E’ la festa della manifestazione della gloria di Dio che si rivela nell’umiltà, in un bambino appena nato. E’ sorprendente come questi uomini sapienti, non rimasero delusi quando videro il bambino; l’evangelista Matteo infatti dice “Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono …” La scienza quando è illuminata dalla fede può raggiungere mete ancora più alte di quelle umanamente sperate.
Dal libro del profeta Isaìa
Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce,
la gloria del Signore brilla sopra di te.
Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra,
nebbia fitta avvolge i popoli;
ma su di te risplende il Signore,
la sua gloria appare su di te.
Cammineranno le genti alla tua luce,
i re allo splendore del tuo sorgere.
Alza gli occhi intorno e guarda:
tutti costoro si sono radunati, vengono a te.
I tuoi figli vengono da lontano,
le tue figlie sono portate in braccio.
Allora guarderai e sarai raggiante,
palpiterà e si dilaterà il tuo cuore,
perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te,
verrà a te la ricchezza delle genti.
Uno stuolo di cammelli ti invaderà,
dromedari di Màdian e di Efa,
tutti verranno da Saba, portando oro e incenso
e proclamando le glorie del Signore.
Is 60,1-6
La terza parte del libro di Isaia (capitoli 56-66), chiamata comunemente Terzo (o Trito) Isaia, il profeta della situazione successiva al ritorno dall'esilio, dopo l’editto di Ciro (538 a.C), contiene una raccolta di oracoli che si differenziano da quelli che compongono non solo la prima, ma anche la seconda parte del libro. In essi infatti il profeta si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia a Gerusalemme; il suo maggiore interesse non è più il nuovo esodo, ma il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da influenze esterne, ma dalla infedeltà del popolo.
I temi principali trattati sono l’universalismo della salvezza (56,1-9), la fedeltà al Signore (56,10-59,21), la rinascita di Gerusalemme (cc. 60-62), prospettive escatologiche (cc. 63-66).
I capitoli dal 60 al 62, da dove è tratto questo brano liturgico, contengono tre poemi riguardanti la gloria futura di Gerusalemme, al centro dei quali si trova un brano che narra la vocazione di un profeta che ha tratti molto simili a quelli del Servo di JHWH del Deuteroisaia.
Il brano che abbiamo si i apre con due imperativi:
“Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te”.
La luce, associata al concetto di gloria, è simbolo della presenza di Dio che aveva posto la Sua dimora nel tempio fatto costruire da Salomone in Gerusalemme. Quando però il peccato degli abitanti di Giuda era giunto al culmine, la gloria di Dio aveva abbandonato il tempio e la stessa città di Gerusalemme, ma aveva seguito gli esuli per stare accanto a loro in Mesopotamia (v. Ez 10,18-22; 11,22-25). In seguito all’editto di Ciro è Dio stesso che si mette a capo degli esuli e li riconduce nella terra promessa (Is 40,1-5). Ora la gloria del Signore è ritornata nella città santa, la quale perciò si riempie di luce. La luminosità della città santa provoca un contrasto stridente con tutte le altre regioni della terra, nelle quali invece dominano le tenebre. Questa nuova situazione pone le premesse del movimento che viene descritto in questi termini: “Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda:tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio”.
Coloro che si muovono attratti dalla luce che risplende a Gerusalemme sono anzitutto gli appartenenti a nazioni lontane, i quali giungono accompagnate dai loro re. Con questi stranieri vi sono anche i giudei dispersi tra di loro, i quali sono portati in braccio, quasi a indicare la stima e la protezione che le nazioni hanno verso di essi.
La descrizione qui riportata è ricavata dal pellegrinaggio annuale che tutti gli israeliti dovevano fare al santuario centrale, portando al Signore i loro doni. Ora però coloro che salgono in pellegrinaggio a Gerusalemme non sono più i giudei, ma le popolazioni straniere che portano con sé i giudei residenti in mezzo ad esse, quasi come un’offerta al Signore.
Portano anche i loro doni come oro e incenso, ossia un metallo prezioso e una pregiata resina, entrambi utilizzati per la costruzione del tempio e per l’esercizio del culto. Il tema del pellegrinaggio dei popoli al monte Sion era già stato menzionato all’inizio del libro di Isaia ( Is 2,2-5), e qui è ripreso e ampliato per incoraggiare i giudei che stavano ricostruendo Gerusalemme: Dio ha grandi progetti sulla città, alla quale darà una luce tale da illuminare e attrarre tutti i popoli. Il trionfo di Gerusalemme sarà anche il trionfo del popolo eletto, che dominerà su tutte le nazioni.
Il profeta prosegue affermando che tutte queste nazioni esprimeranno la loro fede nel Signore mettendosi al servizio del popolo giudaico e ricostruendo le mura della città, mentre altri nuovi popoli giungeranno portando i loro doni.
La glorificazione di Gerusalemme è presentata dal Terzo Isaia come un fenomeno escatologico che mette in luce la vittoria di Dio contro le potenze del male che dominano in questo mondo.
Nonostante la Sua apparente sconfitta, Dio è il vincitore, e ciò apparirà chiaramente alla fine della storia. Allora Dio creerà un mondo nuovo, nel quale prevarranno la giustizia e la pace. Di ciò beneficeranno non solo gli israeliti, ma tutte le nazioni della terra: il progetto di Dio infatti è universale e riguarda tutti gli uomini, nessuno escluso.
C’è da riconoscere che questa riflessione doveva essere alquanto importante in un periodo in cui le forze dell’intolleranza e del fanatismo erano sempre in agguato.
La prospettiva escatologica di questa profezia non deve condurci però ad una fuga della realtà di oggi. Quello che Dio un giorno farà deve diventare il punto di riferimento, la meta a cui tendere giorno per giorno sia sul piano individuale che su quello sociale. Per gli israeliti è soprattutto importante sottolineare il ruolo storicamente assegnato da Dio al Suo popolo. La luce che un giorno brillerà nella città santa deve essere anticipata mediante un’esistenza conforme alla volontà di Dio e la venuta delle nazioni non deve rappresentare un privilegio di cui ci si possa vantare, ma piuttosto fa parte di una visione migliore del mondo che deve essere tenuta viva anche a costo di grossi sacrifici, sapendo che essa un giorno è destinata a prevalere.
Salmo 72 (71) Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra.
Dio, affida al re il tuo diritto,
al figlio di re la tua giustizia;
egli giudichi il tuo popolo secondo giustizia
e i tuoi poveri secondo il diritto.
Nei suoi giorni fiorisca il giusto
e abbondi la pace,
finché non si spenga la luna.
E domini da mare a mare,
dal fiume sino ai confini della terra.
I re di Tarsis e delle isole portino tributi,
i re di Saba e di Seba offrano doni.
Tutti i re si prostrino a lui,
lo servano tutte le genti.
Perché egli libererà il misero che invoca
e il povero che non trova aiuto.
Abbia pietà del debole e del misero
e salvi la vita dei miseri.
Un re giusto è fonte di pace per questo il salmista invoca per il futuro re - “il figlio del re” - giustizia e rettitudine. Il salmo ha un’indubbia tensione messianica poiché non si possono che applicare al Messia alcuni passi fondamentali: “Ti faccia durare quanto il sole, come la luna, di generazione in generazione”; “Nei suoi giorni fiorisca il giusto e abbondi la pace, finché non si spenga la luna. E domini da mare a mare, dal fiume sino ai confini della terra”; “A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici ”; “In lui siano benedette tutte le stirpi della terra e tutte le genti lo dicano beato”. Il re è indubbiamente Davide, e il figlio del re è Salomone, ma la figura del re e i risultati del suo governo sono tanto alti e ampi da tratteggiare il futuro Messia, il figlio del re per eccellenza; certo, secondo la carne (Rm 1,3;Gal 3,16).
La giustizia e la rettitudine costruiscono la pace e così le montagne e le colline, cioè le frontiere di Israele, porteranno pace al popolo che ha un re di giustizia e di pace: “Le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia”. I popoli confinanti cercheranno la pace con Israele. Grande nelle relazioni con le nazioni il re futuro avrà attenzione all’interno per i deboli contro gli oppressori. Un regno fondato sulla giustizia e sull’amore non potrà mai venire meno: “Ti faccia durare quanto il sole, come la luna, di generazione in generazione". I regni fondati sulla guerra e sull’oppressione non possono durare, prima o poi i popoli si ribellano; ma il regno del Messia fondato sulla giustizia che viene da Dio rimarrà per sempre. La giustizia si eserciterà nel Cristo con l’obbedienza al Padre, con l’espiazione delle colpe del genere umano.
La sua azione sarà benefica come l’acqua che scende sulla terra permettendo cibo e vita: “Scenda come pioggia sull’erba, come acqua che irrora la terra”.
Egli Principe della pace, farà fiorire la pace finché “non si spenga la luna”; questo perché la sua pace, presente nella Chiesa e trasmessa dalla Chiesa, rimarrà sempre, La pace, poi, è l’essere riconciliati con Dio e con i fratelli.
Il suo regno sarà immenso. Non ha precedenti nei regni già esistiti, poiché :”E domini da mare a mare, dal fiume (ndr. l’Eufrate, il fiume per eccellenza) sino ai confini della terra”.
Il Messia non solo avrà i territori, ma l’omaggio delle genti: “A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici”, sottoposti al suo giudizio. I popoli si sottometteranno al suo giogo: “I re di Tarsis e delle isole porteranno tributi; i re di Saba e di Seba offrrano doni” (Tarsis è comunemente identificata con Tartessos in Spagna; Saba con la zona del golfo Arabico). Si noti che offriranno tributi e porteranno offerte, il che vuol dire che non saranno nella costrizione dei vinti.
Ancora il salmista fa vedere come il futuro Messia non trascurerà i poveri e i miseri, anzi saranno pensiero costante della sua azione: “Li riscatti dalla violenza e dal sopruso, sia prezioso ai suoi occhi il loro sangue”.
“Vivrà”, dice il salmista, cioè anche se colpito dai suoi avversari vivrà, perché conoscerà la risurrezione gloriosa.
“Si preghi sempre per lui”, cioè per mezzo della sua azione sacerdotale, con la quale ha sacrificato se stesso.
“Sia benedetto ogni giorno” perché perenne salvatore di bontà infinita.
Il salmista passa ad un’invocazione a Dio per la grandezza del “figlio di re” su tutta la terra; ciò significa che l’estendersi del regno del Messia sarà dovuto anche all’azione, completamente subordinata alla salvezza operata da Cristo e con la forza data da lui, di coloro che lo amano: “Il suo nome duri in eterno, davanti al sole germogli il suo nome”.
Di nuovo il salmista passa al futuro: “In lui siano benedette tutte le stirpi della terra”. Cioè per mezzo del suo sacrificio riconciliatore il Padre benedirà tutte le genti della terra. “Tutte le genti lo dicano beato”, perché otterrà dal Padre onore e gloria per la sua obbedienza a lui, fino alla morte di croce.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni
Fratelli, penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero.
Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo.
Ef 3,2-3.5-6
La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100.
Nella prima parte della lettera è stato delineato il progetto salvifico che Dio ha realizzato mediante Cristo (Ef 1,2-2,22). Ora, giunto al centro della sua riflessione, l’apostolo si qualifica come “il prigioniero di Cristo per voi pagani” e prosegue “: “penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero.”. Nel capitolo precede aveva detto che i cristiani provenienti dal paganesimo sono inseriti, a pari diritto dei giudei, nella comunità ecclesiale, di cui gli apostoli sono fondamento, ora qui viene evidenziato il ministero ricevuto da Paolo in favore dei pagani. L'espressione “ministero della grazia di Dio” indica con precisione l'oggetto della conoscenza degli efesini e il compito concreto di amministratore. Il fatto che viene aggiunto “della grazia di Dio” si spiega con il desiderio di ricordare come la grazia divina, dimensione essenziale del processo salvifico (Ef 1,6.7; 2,5.7.8), sia comunicata all'Apostolo proprio nell'esercizio del suo ministero.
Paolo sottolinea inoltre che questo ministero ha per oggetto un mistero che gli è stato fatto conoscere come effetto di un processo di rivelazione, e il contenuto del mistero è la partecipazione delle genti al corpo della Chiesa.
Nei versetti 3b-4 (omessi dalla liturgia) l‘apostolo passa ad esporre il contenuto di questo mistero, e poi osserva; “Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito” Il processo di rivelazione del mistero presuppone il suo occultamento nel tempo precedente a quello in cui è stato rivelato ai destinatari (apostoli e profeti agli uomini in generale). La congiunzione “come”, che lega le due frasi, non significa il grado di intensità (con maggiore chiarezza), ma di alterità assoluta (il mistero rivelato ora e non come al passato, in cui non è stato manifestato). Questo stesso concetto sarà ripreso ancora nei versetti successivi (vv. 9-10).
A questo punto l'apostolo arriva a definire l' oggetto del mistero che consiste nel fatto che “le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo”. Il mistero è dunque la compartecipazione delle genti al corpo ecclesiale, all'eredità e alle promesse salvifiche. Già precedentemente era stata sottolineata la partecipazione dei pagani con i giudei all'unico corpo ecclesiale (2,13-19) e questo fa capire che anche qui si intende l'unità dei pagani con i giudeo-cristiani. Tutto questo infatti, avviene in forza della mediazione di Cristo (Ef 1,10) che implica non solo l'aspetto della strumentalità, ma anche quello dell'associazione a Lui. L’apostolo in questo brano dà un grande rilievo al progetto salvifico di Dio, che consiste per lui nell’unità di tutti gli esseri umani, al di là delle differenze di razza e di cultura. Egli mostra come solo eliminando le divisioni sia possibile trovare una pace vera. Per Paolo soprattutto è importante il superamento della divisione tra giudei e pagani, alla quale attribuisce un significato simbolico rispetto a tutte le barriere che dividono l’umanità. Egli vede realizzato l’incontro fra popoli e culture, oggetto primario del progetto di Dio, nella persona di Cristo, il quale perciò è presentato come l’espressione suprema dell’agire di Dio in questo mondo.
La novità di questo annunzio non consiste quindi nella manifestazione di qualcosa di mentalmente sconosciuto, ma in un’irruzione particolarmente potente della grazia di Dio in Cristo, a cui Paolo ha dato una risonanza universale. Queste potenzialità, che si sono manifestate all’inizio del cristianesimo, devono essere continuamente riscoperte nell’impegno dei cristiani, in unione con tutti gli altri credenti, per la pace nel mondo.
Dal vangelo secondo Matteo
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:
“E tu, Betlemme, terra di Giuda,
non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda:
da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
Mt 2,1-12
La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100.
Nella prima parte della lettera è stato delineato il progetto salvifico che Dio ha realizzato mediante Cristo (Ef 1,2-2,22). Ora, giunto al centro della sua riflessione, l’apostolo si qualifica come “il prigioniero di Cristo per voi pagani” e prosegue “: “penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero.”. Nel capitolo precede aveva detto che i cristiani provenienti dal paganesimo sono inseriti, a pari diritto dei giudei, nella comunità ecclesiale, di cui gli apostoli sono fondamento, ora qui viene evidenziato il ministero ricevuto da Paolo in favore dei pagani. L'espressione “ministero della grazia di Dio” indica con precisione l'oggetto della conoscenza degli efesini e il compito concreto di amministratore. Il fatto che viene aggiunto “della grazia di Dio” si spiega con il desiderio di ricordare come la grazia divina, dimensione essenziale del processo salvifico (Ef 1,6.7; 2,5.7.8), sia comunicata all'Apostolo proprio nell'esercizio del suo ministero.
Paolo sottolinea inoltre che questo ministero ha per oggetto un mistero che gli è stato fatto conoscere come effetto di un processo di rivelazione, e il contenuto del mistero è la partecipazione delle genti al corpo della Chiesa.
Nei versetti 3b-4 (omessi dalla liturgia) l‘apostolo passa ad esporre il contenuto di questo mistero, e poi osserva; “Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito” Il processo di rivelazione del mistero presuppone il suo occultamento nel tempo precedente a quello in cui è stato rivelato ai destinatari (apostoli e profeti agli uomini in generale). La congiunzione “come”, che lega le due frasi, non significa il grado di intensità (con maggiore chiarezza), ma di alterità assoluta (il mistero rivelato ora e non come al passato, in cui non è stato manifestato). Questo stesso concetto sarà ripreso ancora nei versetti successivi (vv. 9-10).
A questo punto l'apostolo arriva a definire l' oggetto del mistero che consiste nel fatto che “le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo”. Il mistero è dunque la compartecipazione delle genti al corpo ecclesiale, all'eredità e alle promesse salvifiche. Già precedentemente era stata sottolineata la partecipazione dei pagani con i giudei all'unico corpo ecclesiale (2,13-19) e questo fa capire che anche qui si intende l'unità dei pagani con i giudeo-cristiani. Tutto questo infatti, avviene in forza della mediazione di Cristo (Ef 1,10) che implica non solo l'aspetto della strumentalità, ma anche quello dell'associazione a Lui. L’apostolo in questo brano dà un grande rilievo al progetto salvifico di Dio, che consiste per lui nell’unità di tutti gli esseri umani, al di là delle differenze di razza e di cultura. Egli mostra come solo eliminando le divisioni sia possibile trovare una pace vera. Per Paolo soprattutto è importante il superamento della divisione tra giudei e pagani, alla quale attribuisce un significato simbolico rispetto a tutte le barriere che dividono l’umanità. Egli vede realizzato l’incontro fra popoli e culture, oggetto primario del progetto di Dio, nella persona di Cristo, il quale perciò è presentato come l’espressione suprema dell’agire di Dio in questo mondo.
La novità di questo annunzio non consiste quindi nella manifestazione di qualcosa di mentalmente sconosciuto, ma in un’irruzione particolarmente potente della grazia di Dio in Cristo, a cui Paolo ha dato una risonanza universale. Queste potenzialità, che si sono manifestate all’inizio del cristianesimo, devono essere continuamente riscoperte nell’impegno dei cristiani, in unione con tutti gli altri credenti, per la pace nel mondo.
È chiaro che Matteo vuole sottolineare come tutto Israele, nei suoi rappresentanti più qualificati, abbia cercato la risposta da dare al re. Questa risposta si rifà a un oracolo profetico in cui si dice:
“E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”.
Nella citazione di Michea, Matteo fa alcuni ritocchi, come per es. sostituisce “Efrata” con “terra di Giuda”, forse per evitare la confusione con la Betlemme del nord (v. Gs 19,15); inoltre egli cambia la valutazione che viene data di Betlemme, forse per dare maggior gloria alla città, che sia il più piccolo tra i capoluoghi di Giuda.
Avuta l’informazione desiderata Erode convocò i magi, e “si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». (sappiamo come avrebbe voluto adorarlo!)
I magi, dunque informati da Erode circa il luogo di nascita del re dei giudei, si rimiserono in cammino e guidati nuovamente dalla stella, pieni di gioia, giunsero al luogo in cui si trovava “il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”.
Per Matteo i primi che vengono a contatto con Gesù non sono dunque i pastori di Betlemme, ma i misteriosi rappresentanti delle nazioni. I tre doni da loro portati hanno chiaramente valore simbolico: essi indicano da un lato i prodotti tipici dell’oriente, che i magi offrono a Gesù riconoscendo così in lui il loro re; dall’altro c’è un fortissimo richiamo al salmo 72 che la Liturgia ha inserito in questa celebrazione.
Rispetto al salmo l’evangelista aggiunge tra i doni dei magi anche la mirra, un unguento usato nella sepoltura. Non è escluso che con questa aggiunta voglia indicare il destino di morte che aspetta il neonato Messia proprio a causa del rifiuto del suo popolo.
Il testo è un chiaro esempio di come possa essere la chiamata alla fede:
- i Re-magi sono chiamati per mezzo della stella e la seguono;
- i sommi sacerdoti e gli scribi conoscono le scritture, sanno dare indicazioni, ma non si muovono;
- Erode tra la volontà di Dio e la sua, chiaramente sceglie la sua, conosce solo il suo tornaconto, non vede perché non vuole vedere!
Questa visione fortemente critica nei confronti di Israele, chiaramente dettata dal clima di rivalità che ha accompagnato il sorgere del cristianesimo, deve oggi essere sottoposta ad una più giusta ed illuminata considerazione. La nascita di Gesù e la conseguente apertura della Chiesa ai pagani non deve più essere vista come una sostituzione di Israele, infedele alle promesse divine, ma piuttosto come il mezzo attraverso il quale la chiamata religiosa di Israele è stata offerta a tutta l’umanità.
*****
“Celebriamo la solennità dell’Epifania, nel ricordo dei Magi venuti dall’Oriente a Betlemme, seguendo la stella, per far visita al neonato Messia. Alla fine del racconto evangelico, si dice che i Magi «avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese» Per un’altra strada.
Questi sapienti, provenienti da regioni lontane, dopo aver viaggiato molto, trovano colui che desideravano conoscere, dopo averlo a lungo cercato, sicuramente anche con fatiche e peripezie. E quando finalmente giungono alla loro meta, si prostrano davanti al Bambino, lo adorano, gli offrono i loro doni preziosi. Dopo di che si rimettono in cammino senza indugio per tornare nella loro terra. Ma quell’incontro con il Bambino li ha cambiati.
L’ incontro con Gesù non trattiene i Magi, anzi, infonde in loro una nuova spinta per ritornare al loro paese, per raccontare ciò che hanno visto e la gioia che hanno provato. In questo c’è una dimostrazione dello stile di Dio, del suo modo di manifestarsi nella storia. L’esperienza di Dio non ci blocca, ma ci libera; non ci imprigiona, ma ci rimette in cammino, ci riconsegna ai luoghi consueti della nostra esistenza. I luoghi sono e saranno gli stessi, ma noi, dopo l’incontro con Gesù, non siamo quelli di prima. L’incontro con Gesù ci cambia, ci trasforma. L’evangelista Matteo sottolinea che i Magi fecero ritorno «per un’altra strada» . Essi sono condotti a cambiare strada dall’avvertimento dell’angelo, per non imbattersi in Erode e nelle sue trame di potere.
Ogni esperienza di incontro con Gesù ci induce ad intraprendere vie diverse, perché da Lui proviene una forza buona che risana il cuore e ci distacca dal male.
C’è una dinamica sapiente tra continuità e novità: si ritorna “al proprio paese”, ma “per un’altra via”. Questo indica che siamo noi a dover cambiare, a trasformare il nostro modo di vivere pur nell’ambiente di sempre, a modificare i criteri di giudizio sulla realtà che ci circonda. Ecco la differenza tra il vero Dio e gli idoli traditori, come il denaro, il potere, il successo…; tra Dio e quanti promettono di darti questi idoli, come i maghi, i cartomanti, i fattucchieri. La differenza è che gli idoli ci legano a sé, ci rendono idoli-dipendenti, e noi ci impossessiamo di loro. Il vero Dio non ci trattiene né si lascia trattenere da noi: ci apre vie di novità e di libertà, perché Lui è Padre che è sempre con noi per farci crescere. Se tu incontri Gesù, se tu hai un incontro spirituale con Gesù, ricordati: devi tornare agli stessi luoghi di sempre, ma per un’altra via, con un altro stile. È così, è lo Spirito Santo, che Gesù ci dà, che ci cambia il cuore.
Chiediamo alla Vergine Santa che possiamo diventare testimoni di Cristo là dove siamo, con una vita nuova, trasformata dal suo amore. “
Papa Francesco Angelus del 6 gennaio 2020
La liturgia di questa II domenica dopo Natale ci invita ad approfondire il significato della festa del Natale contemplando l'incarnazione, l'umanizzazione di Dio nel figlio unigenito.
La prima lettura tratta dal libro del Siracide esalta la "sapienza divina" e la relazione che intercorre tra Dio e il creato, opera delle sue mani. Parla del viaggio che ha compiuto per porre la sua dimora tra gli uomini: "fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele".
La seconda lettura tratta dalla lettera agli Efesini, Paolo nella prima parte, in armonia con il Siracide e il Salmista, effonde il suo canto di benedizione nell'inno di ringraziamento a Dio, che "ci ha benedetti" in Cristo Gesù e per mezzo di Lui ci ha predestinati ad essere "figli adottivi" del Padre suo. Nella seconda parte, Paolo parla ai fedeli dei propri sentimenti di gratitudine a Dio nei loro riguardi e del contenuto della sua incessante preghiera perche migliorino nella conoscenza pratica dei doni concessi da Dio in Cristo.
Nel Vangelo di Giovanni, l’evangelista nel suo mirabile prologo, che abbiamo già ascoltato nella messa del giorno di Natale, dando l’annuncio dell’incarnazione ci rivela l'identità di quel misterioso bambino, che oggi la Chiesa ci invita a meditare: " In principio era la Parola, la Parola era presso Dio e la Parola era Dio... ". La parola di Dio ci chiama continuamente ad una scelta davanti alla luce e alla tenebra. E’ una scelta quotidiana e spesso sofferta, ma deve essere senza compromessi, altrimenti è come non accogliere Cristo, pur essendo dei “suoi” membri della sua gente”.
Dal libro del Siracide
La sapienza fa il proprio elogio,
in Dio trova il proprio vanto,
in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria,
Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca,
dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria
in mezzo al suo popolo viene esaltata,
nella santa assemblea viene ammirata,
nella moltitudine degli eletti trova la sua lode
e tra i benedetti è benedetta, …..
Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine,
colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda
e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe
e prendi eredità in Israele
affonda le tue radici tra i miei eletti. ”.
Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato,
per tutta l’eternità non verrò meno.
Nella tenda santa davanti a lui ho officiato
e così mi sono stabilita in Sion.
Nella città che egli ama mi ha fatto abitare
e in Gerusalemme è il mio potere.
Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso,
nella porzione del Signore è la mia eredità,
Nell’assemblea dei santi ho preso dimora”.
Sir 24,1-4.8-12
Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo.
È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C..
È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.
Il contenuto di questo brano rappresenta il centro e il culmine di tutto l’insegnamento contenuto nel libro del Siracide. Dopo aver espresso il frutto delle sue ricerche e riflessioni, l’autore introduce la sapienza che “fa il proprio elogio,in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria“ e al tempo stesso prende la parola nell’assemblea dell’Altissimo” e si glorifica davanti alla sua potenza.
Il popolo a cui la sapienza appartiene e al quale si presenta è la comunità di Israele, come apparirà più chiaramente nei versetti seguenti; ma all’interno di questo popolo essa sta alla presenza di Dio, che abita nel Suo tempio, in Gerusalemme.
Dopo questa presentazione la sapienza stessa prende la parola e pronunzia il suo poema.
Nei versetti (“Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo ….3-7) omessi dalla liturgia, descrive la propria origine e il ruolo cosmico che le è stato assegnato . Essa è uscita dalla bocca dell’Altissimo come la parola, mediante la quale Dio ha creato l’universo (Gn 1), e forse come lo spirito di Dio che aleggia sul caos primordiale (Gn 1,2). Essa ha ricoperto “come nube” la terra! (la nube è una nota immagine biblica di Dio). La sapienza ha preso dimora (ha posto la sua tenda) nei cieli più alti, abitazione di Dio, ma ciò non le ha impedito di percorre i cieli e gli abissi, prendendo possesso sia del cosmo che dell’umanità che lo abita, Essa ha svolto dunque un ruolo determinante come mediatrice di Dio nella creazione e continua a svolgerlo nel governo di tutte le cose.
La sapienza narra poi, la sua venuta sulla terra “Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine,colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse: “Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele affonda le tue radici tra i miei eletti. ”.
Sebbene fosse già presente in tutto l’universo e in ogni nazione, la sapienza ha cercato un luogo di riposo un possedimento speciale in cui stabilirsi; allora il creatore dell’universo, che è anche suo creatore, le ha comandato di fissare la tenda (skênoô, porre la tenda) in Giacobbe e di prendere in eredità Israele.
“Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato, per tutta l’eternità non verrò meno.
Nella tenda santa davanti a lui ho officiato e così mi sono stabilita in Sion. Nella città che egli ama mi ha fatto abitare e in Gerusalemme è il mio potere”.
Dopo aver nuovamente sottolineato di essere stata creata da Dio prima dei secoli, fin da principio, la sapienza specifica il luogo della sua dimora: essa si è stabilita “nella tenda santa”, che si trova in Sion, dove svolge un servizio cultuale; essa ha posto così il suo potere in Gerusalemme, la città amata da Dio, e si è legato ad un popolo, inaugurando la storia della salvezza,
Per Siracide la Sapienza che abita in Israele è la Scrittura, la Legge, mentre nella rilettura fatta dal Nuovo Testamento essa è il Verbo che rivela a noi non solo il volere del Padre, ma il Padre stesso, come ci conferma Giovanni nel suo Vangelo (Gv 1,18)
Salmo 147 - Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi.
Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.
Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.
Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi.
Il salmo è postesilico, ed è un invito a Gerusalemme (Sion è usato come sinonimo) a glorificare, a lodare, Dio.
Gerusalemme riedificata ha visto consolidata la sua sicurezza di fronte ai popoli confinanti che ora la temono e hanno sospeso le ostilità contro di essa: “Ha rinforzato le sbarre delle tue porte (...). Egli mette pace nei tuoi confini”.
Dio ha benedetto i gli abitanti di Gerusalemme - “in mezzo a te” - e di riverbero tutti gli abitanti di Giuda. Non manca per questo la prosperità materiale: “Ti sazia con fiore di frumento”, cioè con la miglior qualità di farina.
Egli invia la sua Parola a Israele per mezzo dei profeti postesilici, ed essa si diffonde velocemente.
Ma la sua Parola oltre che essere luce per gli uomini è anche creatrice. E' per la sua parola creatrice che viene il freddo, scende la neve, la grandine, la brina, ma segue però il caldo, lo scioglimento delle nevi, lo scorrere delle acque dai nevai. Inverno, temporali, bel tempo sono sotto il comando della sua Parola. La natura non è lasciata a se stessa, ma governata da Dio a favore dell'uomo (Cf. At 14,17).
“Annuncia a Giacobbe la sua parola”; il salmista riprende il tema della parola data ad Israele per mezzo dei profeti. La legge di Mosè e i suoi decreti sono ripresentati con forza dai profeti e dai sacerdoti.
“Così non ha fatto con nessun'altra nazione...”; Israele è oggetto di un'elezione divina, che lo costituisce segno di Dio in mezzo ai popoli.
La Chiesa è invitata a lodare Dio, a glorificarlo, perché ha inviato e dato il suo Figlio, la sua Parola perfetta. Egli l'assiste fortificandola con la forza dello Spirito Santo, e la nutre con fior di frumento, cioè con il pane che non è più pane, se non nelle apparenze, essendo realmente diventato il Corpo del Signore.
Commento di P. Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale
nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
Perciò anch’io, avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi
Ef 1,3-6, 15-18
La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato
Il brano che abbiamo, è uno dei tre grandi inni Cristologici, che preghiamo anche durante i Vespri ogni settimana e che ci fa riflettere sul ruolo di Gesù nel progetto di amore del Padre. In particolare questo inno ci parla della predestinazione dei credenti. E' il Padre che sin dall'inizio dei tempi aveva pensato a noi, per renderci santi, per renderci suoi figli.
Il brano inizia con una invocazione benedicente: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.”
La benedizione di Dio significa comunicazione di vita, e trova il suo compimento quando torna a Dio sotto forma di benedizione da parte dell'uomo. Il movimento della benedizione è prima discendente, poi ascendente: il dono è infatti completo solo quando è riconosciuto come tale, e il segno del riconoscimento è la lode. La comunicazione di vita, la benedizione, consiste nella chiamata alla santità.
“In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”. Paolo ci spiega ora in cosa consista questa benedizione: Dio ci ha scelti, ci ha eletto, come aveva scelto il popolo di Israele. C'è un'iniziativa gratuita di Dio che previene ogni pretesa umana. E' una gratuità che parte dal Padre e ha avuto inizio prima della creazione del mondo!
“predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”.
Il progetto di Dio si attua per mezzo di Gesù Cristo e consiste nel far partecipare tutti i credenti alla sua condizione di figlio unico e amato. Se si parla di adozione, non è per sminuire la realtà dell'essere figli ma per sottolineare la differenza con la figliolanza di Gesù, che è modello e fonte di quella di tutti gli altri figli. C'è un amore gratuito che si espande in tutta la sua pienezza!
Il testo liturgico salta buona parte dell’inno per arrivare alla preghiera dell’apostolo
“Perciò anch’io, avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere”,
Dopo aver benedetto il Signore, Paolo eleva la sua preghiera di ringraziamento. Egli ha saputo che ad Efeso e Colossi la fede prospera e si concretizza in opere di bene nei confronti dei fratelli della comunità, quindi ringrazia ininterrottamente il Signore e prega per i Colossesi e gli Efesini.
“affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui”;
Paolo chiede che sia dato loro lo Spirito di sapienza, di rivelazione, affinché conoscano Dio sempre più profondamente. Questi tre elementi sono un’unica realtà spirituale, dove è privilegiata l’esperienza e una maturazione della fede, per arrivare ad una amicizia sempre più vera con Dio che si concretizza nella vita quotidiana.
“comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi” Si tratta di un’esperienza che non rimane solo al presente, ma si apre al futuro, alla gloria di tutti i santi.
Questa preghiera per i cristiani di Colossi e di Efeso è quanto mai viva e valida oggi anche per tutti noi
Dal vangelo secondo Giovanni
In principio era il Verbo,e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me è avanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.
Gv 1, 1-18 .
In questo mirabile prologo, l’evangelista Giovanni colloca il Verbo in Dio, presentandone la preesistenza eterna, l'intimità di vita con il Padre e la sua natura divina.
(Il termine "Verbo" ha come sottofondo la letteratura sapienziale e il tema biblico della parola di Dio nell'Antico Testamento, dove sia la Sapienza che la Parola vengono presentate come "persona" legata a Dio e mandata da Dio nel mondo per orientarlo verso la vita. Il Verbo è forza che crea, rivelazione che illumina, persona che comunica la vita di Dio).
Dopo i primi due versetti introduttivi, Giovanni ci presenta il ruolo del Verbo nella creazione dell'universo e nella storia della salvezza: "tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.” Tutta la storia appartiene a Lui. Tutte le cose sono opera del Figlio di Dio, di Gesù di Nazareth.
“In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.” Ogni uomo è fatto per la luce ed è chiamato ad essere illuminato dal Verbo con la luce eterna di Dio, che è la vita stessa del Padre donata al Figlio. La luce di Cristo splende su ogni uomo che viene nel mondo e le tenebre lottano per eliminarla. Tuttavia l'ambiente del male, che si oppone alla luce di Dio e alla parola di Gesù-Verbo, non riesce ad avere il sopravvento e a vincere.
“Venne un uomo mandato da Dio:il suo nome era Giovanni.”La luce venuta nel mondo è preceduta da un testimone, Giovanni il Battista, che ha la missione di parlare a favore della luce.
Il ruolo del Battista è unico: “Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui”. Giovanni è il testimone di Gesù che riceve la testimonianza che il Padre dà al Figlio nel battesimo e che vede lo Spirito scendere e rimanere su Gesù (Gv 1,32-34).
“Non era lui la luce,ma doveva dare testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera,quella che illumina ogni uomo”. Gesù è la luce autentica e perfetta che appaga le aspirazioni umane; la sola che dà senso a tutte le altre luci che appaiono nella scena del mondo. Questa luce divina illumina ogni uomo che nasce in questo mondo. E' la luce che si offre nell'intimo di ogni essere come presenza, stimolo e salvezza.
“Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui” Gesù-Verbo, presente tra gli uomini con la Sua venuta, è vicino ad ogni uomo. Benché fosse già nel mondo come creatore e come centro della storia,
“eppure il mondo non lo ha riconosciuto”, cioè gli uomini non hanno creduto nel Verbo incarnato e nella Sua missione di salvatore. Al rifiuto del mondo, si aggiunge un altro ben più grave:
"Venne fra i suoi,e i suoi non lo hanno accolto”. ossia la Parola del Signore è andata prima al popolo ebraico, ma Israele l'ha respinta.
Se il comportamento dell'umanità, e in particolare quello d'Israele, è stato di netto rifiuto di Gesù-Verbo, tuttavia, un gruppo di persone, un "resto di Israele", l'ha accolto e ha dato una risposta positiva al suo messaggio, stabilendo un nuovo rapporto con Dio:
“A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”:
Solo coloro che accolgono il Verbo e credono nella Sua persona divina diventano figli di Dio, perché sono nati da Dio e non da elementi umani.
“A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”:
Solo coloro che accolgono il Verbo e credono nella Sua persona divina diventano figli di Dio, perché sono nati da Dio e non da elementi umani.
Segue poi come la sintesi di tutto l'inno perché si afferma solennemente l'incarnazione del Figlio di Dio:
"la Parola si è fatta uomo, nella sua fragilità e impotenza come ogni creatura, nascendo “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” cioè da una donna, la vergine Maria.
L'espressione "e venne ad abitare in mezzo a noi”" sottolinea lo scopo dell'incarnazione: Dio dimora con il suo popolo stabilmente e per sempre (Ap 7,15). La Sua presenza è nella vita stessa dell'uomo e nella carne visibile di Gesù (Gv 2,19-22).
“e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.” I discepoli hanno contemplato nella fede il mistero di Gesù-Verbo, cioè la gloria che Egli possiede come Unigenito venuto dal Padre. Gesù è la rivelazione di Dio, ma in un modo nascosto e umile.
Nel vangelo di Giovanni la gloria del Signore è qualcosa di interiore che solo l'uomo di fede può comprendere.
La "gloria" di Cristo è la verità del Suo mistero: la rivelazione nell'uomo-Gesù del Figlio di Dio venuto dal Padre. La "grazia della verità“ nel linguaggio biblico è il dono della rivelazione che Dio ha offerto all'uomo. La verità, in Giovanni, indica la rivelazione piena e perfetta della vita divina. Il Verbo incarnato è "pieno della verità", ossia è tutto quanto rivelazione. Gesù è "la verità" (Gv 14,6) ossia la rivelazione definitiva e totale. E questa verità è la "grazia" del Padre, il dono supremo che ci ha fatto il Padre.
“Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.”
Tutta la vita di Gesù è manifestazione di Dio, ma per l'evangelista il momento centrale in cui si manifesta la gloria di Dio in tutta la sua potenza, è la croce: l'innalzamento di Gesù è la Sua glorificazione.
Può sembrare insensato dire che la croce è la glorificazione, ma tutto diventa luminoso se pensiamo che Dio è Amore (1Gv 4, 8) e la Sua manifestazione è dunque là dove appare l'Amore, ed è sulla croce che l'amore di Dio rifulge in tutta la Sua penetrante luce e pienezza.
“Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre,è lui che lo ha rivelato”.
Il finale del prologo offre un'ulteriore spiegazione del perché Gesù è il compimento della legge di Mosè: perché Dio si rivela in Gesù. Solo il Figlio unigenito ha potuto rivelare il Padre perché nessuno ha mai visto Dio se non il Figlio unigenito che ce l'ha rivelato.
Il "seno" del Padre nel linguaggio biblico è l'immagine tipica dell'amore e dell'intimità: tutta la vita di Gesù si svolse come vita filiale in un atteggiamento di ascolto e di obbedienza al Padre, in un rapporto di amore con il Padre e come manifestazione del Padre.
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“In questa seconda domenica del Tempo di Natale, le Letture bibliche ci aiutano ad allargare lo sguardo, per avere una piena consapevolezza del significato della nascita di Gesù.
Il Vangelo, con il Prologo di San Giovanni, ci mostra la novità sconvolgente: il Verbo eterno, il Figlio di Dio, «si fece carne» . Non solo è venuto ad abitare tra il popolo, ma si è fatto uno del popolo, uno di noi! Dopo questo avvenimento, per orientare la nostra vita non abbiamo più soltanto una legge, una istituzione, ma una Persona, una Persona divina, Gesù, che ci orienta la vita, ci fa andare sulla strada perché Lui l’ha fatta prima.
San Paolo benedice Dio per il suo disegno d’amore realizzato in Gesù Cristo (cfr Ef 1,3-6.15-18). In questo disegno ognuno di noi trova la propria vocazione fondamentale. Qual è? Così dice Paolo: siamo predestinati ad essere figli di Dio per opera di Gesù Cristo. Il Figlio di Dio si fece uomo per fare noi, uomini, figli di Dio. Per questo il Figlio eterno si è fatto carne: per introdurci nella sua relazione filiale con il Padre.
Dunque, fratelli e sorelle, mentre continuiamo a contemplare il segno mirabile del Presepe, la Liturgia odierna ci dice che il Vangelo di Cristo non è una favola, non è un mito, un racconto edificante, no. Il Vangelo di Cristo è la piena rivelazione del disegno di Dio, del disegno di Dio sull’uomo e sul mondo. È un messaggio nello stesso tempo semplice e grandioso, che ci spinge a domandarci: quale progetto concreto ha posto in me il Signore, attualizzando ancora la sua nascita in mezzo a noi?
È l’apostolo Paolo a suggerirci la risposta: «[Dio] ci ha scelti […] per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (v. 4). Ecco il significato del Natale. Se il Signore continua a venire in mezzo a noi, se continua a farci dono della sua Parola, è perché ciascuno di noi possa rispondere a questa chiamata: diventare santi nell’amore. La santità è appartenenza a Dio, è comunione con Lui, trasparenza della sua bontà infinita. La santità è custodire il dono che Dio ci ha dato. Soltanto questo: custodire la gratuità. Questo è essere santo.
Perciò, chi accoglie in sé la santità come dono di grazia, non può non tradurla in azione concreta nel quotidiano. Questo dono, questa grazia che Dio mi ha dato, io lo traduco in azioni concrete nel quotidiano, nell’incontro con gli altri. Questa carità, questa misericordia verso il prossimo, riflesso dell’amore di Dio, al tempo stesso purifica il nostro cuore e ci dispone al perdono, rendendoci giorno dopo giorno “immacolati”. Ma immacolati non nel senso che io tolgo una macchia: immacolati nel senso che Dio entra in noi, il dono, la gratuità di Dio entra in noi e noi la custodiamo e la diamo agli altri.
La Vergine Maria ci aiuti ad accogliere con gioia e gratitudine il disegno divino d’amore realizzato in Gesù Cristo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 5 gennaio 2020
Con questa celebrazione iniziamo il nuovo anno accanto a Maria, Madre di Dio e Madre nostra con la viva speranza che in fondo a questo tunnel oscuro che con il vecchio anno stiamo lasciando, si apra un po’ di luce Questa ricorrenza liturgica, strettamente collegata con il titolo mariano di Theotókos, dogma mariano solennemente proclamato dal concilio di Efeso il 22 giugno dell'anno 431, celebra la tematica della Divina Maternità di Maria, ed è la festa più antica in suo onore.
La liturgia odierna, è anche connessa alla celebrazione della pace, istituita da papa Paolo VI l’8 dicembre 1967. La pace è il grande dono atteso e annunziato dagli angeli nel cantico della notte di Natale e questo tema ci viene proposto oggi dalle letture liturgiche.
La prima lettura, tratta dal Libro dei Numeri, riporta la formula di benedizione che veniva pronunciata dai -sacerdoti sul popolo eletto per attirate la benevolenza di Dio.
Nella seconda lettura, San Paolo, scrivendo ai Galati, svela il piano di Dio che ha voluto che Suo Figlio nascesse da una donna, e sotto la legge, perché tutti diventassimo Suoi figli e vivessimo riconciliati nella libertà e nell’amore.
Il Vangelo di Luca ci parla dei pastori che vanno a Betlemme e rendono omaggio al divino bambino e subito dopo, pieni di gioia, annunciano a tutti il lieto evento.
E’ nel nome di Maria, Madre di Dio e madre degli uomini, che si celebra in tutto il mondo la “giornata della pace”, ed oggi ricorre la 54^ giornata.
La pace, in senso biblico, è il dono messianico per eccellenza, è la salvezza portata da Gesù. La pace è anche un valore umano da realizzare sul piano sociale e politico, ma affonda le sue radici nel mistero di Cristo. E’ stato Lui a dire: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi.“ E’ questo il senso della pace che ognuno di noi deve sentire prima nel proprio cuore per poterla poi augurare agli altri!
Dal libro dei Numeri
Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro:
Ti benedica il Signore e ti custodisca.
Il Signore faccia risplendere per te il suo volto
E ti faccia grazia.
Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace.”
Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”.
Nm 6,22-27
Il libro dei Numeri, il quarto libro della Bibbia, è stato scritto in ebraico e, secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. La tradizione ebraica e varie confessioni religiose cristiane, ritengono persino che sarebbe stato scritto da Mosè in persona, ma la maggioranza degli esegeti moderni ritiene che tutto il Pentateuco sia in realtà una raccolta, formatasi in epoca post-esilica, di vari scritti di epoche diverse. “Numeri” è il titolo che l'antica traduzione greca ha dato a questo libro perché contiene elenchi e censimenti degli Israeliti in cammino verso la "Terra promessa".
È composto da 36 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.). Infatti molti eventi del Libro avvengono nel deserto, principalmente tra il secondo ed il quarantesimo anno del vagabondare degli Israeliti. I primi 25 capitoli riportano le esperienze della prima generazione d’Israele nel deserto, mentre il resto del libro descrive le esperienze della seconda generazione.
Il brano che abbiamo inizia con queste parole:
“Il Signore parlò a Mosè e disse: “Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro …”
Diversamente da quanto avviene in altri testi in cui la parola o l’ordine è dato a Mosè e ad Aronne insieme, qui Mosè riceve l’incarico di affidare un compito specifico proprio ad Aronne e, per mezzo suo, a tutto l’ordine sacerdotale. La facoltà di benedire il popolo è presentata qui come una prerogativa che compete ai sacerdoti (V. Lv 9,22) e non ai re, come appare in due testi dove sono Davide (V. 2Sam 6,18) e Salomone (1Re 8,14.55-61) a benedire il popolo, o ai leviti (Dt 10,8).
Ancora una volta si fa risalire all’epoca del deserto, con tutta l’autorevolezza della mediazione mosaica una consuetudine dell’epoca in cui è stato composto il libro.
È probabile però che la formula di benedizione qui riportata sia antica perché ha avuto un gran rilievo sulla preghiera di Israele (V. Sal 4,7 e 67,2). La benedizione divina riguardo tutto il popolo e ciascuno dei suoi membri.
“Ti benedica il Signore e ti custodisca.”
La benedizione (berakah) invocata da Dio rappresenta una parola efficace che conferisce benessere e felicità. Come conseguenza della benedizione divina si chiede a Dio di “custodire” Israele. Questo verbo esprime non tanto la protezione del Signore contro un immediato pericolo, ma soprattutto la sua premura per Israele in ogni momento della sua esistenza.
La benedizione prosegue con una invocazione:
” Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia”.
Il volto splendente del Signore è un’immagine per indicare il sorriso con cui si rivolge al Suo popolo. L'immagine del volto luminoso di Dio è frequente nei salmi anche come invocazione (Sal 31,17; 80,4.8.20; 119,135).
Il sorriso del Signore è auspicio di prosperità, di benevolenza e di protezione e la “grazia” consiste appunto nella benevolenza di Dio verso il suo popolo.
La benedizione continua poi con una terza richiesta:
“ Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace.”
Si riprende qui quanto era già stato espresso nel versetto precedente, con l'auspicio che il volto di Dio resti rivolto verso Israele, segno di attenzione e di benevolenza, perché in caso contrario il popolo cade nella disperazione: La benevolenza e l'attenzione di Dio sono premessa del dono della “pace” (shalôm). Questo termine in ebraico ha un significato molto profondo perchè indica non semplicemente l’assenza di guerra, ma soprattutto la pienezza di vita, cioè quello stato di grazia in cui si è liberi dalla necessità e dal male; nelle forme di saluto diventa augurio di una vita serena, equilibrata nella felicità materiale e spirituale.
Il brano termina con queste parole:
“Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”.
Questa espressione vuol dire rendere Dio presente e benevolo in mezzo al popolo.
Si comprende perché questo testo sia stato adottato, nella recente riforma liturgica, come ampliamento (libero) della benedizione del sacerdote nel congedare il popolo dopo la Messa.
Salmo 67 (66) Dio abbia pietà di noi e ci benedica
Dio abbia pietà di noi e ci benedica,
su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via,
fra tutte le genti la tua salvezza.
Gioiscano le nazioni e si rallegrino,
perché tu giudichi i popoli con rettitudine,
governi le nazioni sulla terra.
Ti lodino i popoli, Dio,
ti lodino i popoli tutti.
Ci benedica Dio e lo temano
tutti i confini della terra.
Il salmista presenta come Dio abbia benedetto il suo popolo con un raccolto abbondante: “La terra ha dato il suo frutto”. Ma questo non chiude il salmista nell’appagamento dei beni dati dalla terra, poiché egli manifesta, fin dall’inizio del salmo, il desiderio di un ben più alto dono: quello della presenza del Messia. Per tale presenza il popolo sarà rinnovato e si avrà che tutti i popoli giungeranno a conoscere il vero Dio e a lodarlo: “Su di noi faccia splendere il suo volto; perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti ”. Il salmista conclude il salmo ripresentando il suo desiderio dei tempi messianici: “Ci benedica Dio; il nostro Dio, ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra”. Noi, in Cristo, desideriamo vivamente una terra rinnovata dalla conoscenza di Cristo e dall’azione del suo Spirito, e dobbiamo, nella viva appartenenza alla Chiesa, adoperarci incessantemente per questo.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo ai Galati
Fratelli, quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.
E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio il quale che grida: Abbà, Padre!
Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.
Gal 4,4-7
Paolo scrive la lettera ai Galati probabilmente da Efeso tra il 54 e il 57 e lo fa per controbattere ad una predicazione fatta da alcuni ebrei cristiani dopo che l'apostolo aveva lasciato la comunità: questi missionari avevano convinto alcuni galati che l'insegnamento di Paolo era incompleto e che la salvezza richiedeva il rispetto della Legge di Mosè, in particolare della circoncisione. Paolo condanna tale orientamento, proclamando la libertà dei credenti e la salvezza per mezzo della fede.
In questo brano in particolare Paolo delinea la svolta che si è verificata con l’avvento di Cristo ed inizia affermando: “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.”
Per l’apostolo è chiaro, che Gesù è fin dall’eternità il “Figlio di Dio”, che è nato non solo “da donna”, assumendo così fino in fondo un’umanità limitata e sofferente, ma anche “sotto la Legge”, al punto tale da portarne in modo unico e drammatico la maledizione (Gal 3,13) così la sua vita è stata contrassegnata dalla solidarietà più piena con la situazione di tutta l’umanità. In questo cammino di abbassamento Cristo però non ha mai cessato di essere Figlio, e se Egli si è messo sullo stesso piano dell’umanità peccatrice, lo ha fatto, non per adeguarsi ad essa, ma “per riscattare quelli che erano sotto la Legge”, cioè per portare a termine, come Dio un giorno aveva fatto con il popolo di Israele schiavo in Egitto, una grande opera di liberazione, i cui destinatari non sono soltanto i giudei, ma anche i pagani. Egli ha potuto raggiungere il Suo scopo facendo sì che essi ricevessero l’adozione a figli, cioè diventassero partecipi della Sua stessa qualità di Figlio. Il Figlio di Dio ha dunque manifestato pienamente la Sua “potenza” quando, risuscitando dai morti, ha comunicato a tutti gli uomini la Sua filiazione divina (Rm 1,3).
Paolo sottolinea poi l’efficacia della missione del Figlio affermando ancora : “E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio il quale che grida: Abbà, Padre!” La filiazione divina perciò comporta la presenza e l’opera dello Spirito, che viene designato come “Spirito del suo Figlio”, e come tale è stato “mandato” da Dio “nei nostri cuori”.
La filiazione divina dei credenti appare dal fatto che lo Spirito, presente in essi, grida “Abbà, Padre”:
E’ da notare che il termine Abbà era normalmente usato dai bambini in Palestina per rivolgersi al loro papà, mentre i giudei si rivolgevano a Dio con formule più solenni e rispettose, come Abì (Padre mio) o Abinû (Padre nostro). L’iniziativa di pregare Dio con l’appellativo di Abbà è solo di Gesù, quando ha dato ai suoi discepoli il comando di rivolgersi a Dio chiamandolo “Padre nostro”, coinvolgendoli così nel rapporto che Egli, in quanto unico Figlio, ha con il Padre.
Nel versetto finale: “Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per grazia di Dio” Paolo afferma che il credente deve prendere atto della sua nuova situazione in cui, ormai libero dal peccato, è divenuto figlio di Dio ed erede delle promesse.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, i pastori andarono senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo.
Lc 2,16-21
Questo breve brano tratto dal Vangelo di Luca riprende la seconda parte del racconto della nascita di Gesù, nella quale viene raccontata la visita che i pastori, avvisati dall’angelo, hanno fatto al bambino Gesù. La scelta del testo per la solennità della Madre di Dio è significativa perché cade proprio l'ottavo giorno dopo la nascita del figlio Gesù, che ricorda il rito della circoncisione e dell'imposizione del nome al bambino.
Il brano inizia riportando che
“i pastori andarono senza indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia.
Invitati dagli angeli a rallegrarsi per la nascita del Salvatore e sollecitati a verificarne il segno, i pastori si muovono ”senza indugio, affrettandosi”, come Maria nell'episodio della visitazione, anch'essi spinti in obbedienza alla parola che è stata loro annunciata. Citando per prima Maria, nel nominare le persone che i pastori incontrano, Luca ci mostra ancora una volta la sua grande venerazione per la Madre di Gesù.
“E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori.”
E' importante notare gli atteggiamenti dei pastori: prima ascoltano, poi si muovono e trovano il segno. A questo punto lo guardano e diventano a loro volta annunciatori, riferendo quanto avevano udito.
Si può comprendere che Luca non sta parlando solo dell'esperienza dei pastori di Betlemme, ma del diffondersi del vangelo. Coloro che accoglieranno la predicazione degli apostoli e faranno esperienza dell'incontro con Gesù e crederanno, potranno comunicare a loro volta questa buona notizia.
“Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.”
Solo Maria non parla, ma conserva in se stessa tutte queste cose meditandole nel suo cuore. Maria non si perde in vane parole, ma pone se stessa e tutta la sua vita in sintonia con quanto Dio aveva detto e stava operando nella storia del suo popolo mediante quel bambino che lei stessa aveva generato.
Luca conclude annotando che i pastori, dopo aver visto il bambino e aver riferito il messaggio che avevano udito, “se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro”. Non solo perciò per quello che avevano udito, ma anche per quello che avevano visto con i loro occhi, a conferma di quanto era stato detto loro.
Il brano si conclude menzionando il rito della circoncisione (attraverso il quale il Bambino è inserito ufficialmente nel popolo di Dio) e l'imposizione del nome, a cui Luca dà un risalto particolare:
"Gli fu messo nome Gesù come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo”.
Il nome nella Bibbia è la realtà stessa della persona che lo porta: tanti Gesù nella storia di Israele avevano portato questo nome, ma nessuno poteva dire di attuarne in pieno il significato: Yehôsua‘ “YHWH salva” il Signore salva. Ora, in questa circoncisione appare il vero Salvatore che recupera a sé nell’alleanza del Suo sangue quel popolo e quell’umanità a cui Egli si sta unendo attraverso il rito della circoncisione. Gesù entra nel tempio non per essere consacrato ma per consacrare, non per essere purificato ma per purificare, non per essere assorbito e dissolto dalla nostra creaturalità, ma per assumere e salvare la nostra umanità così da renderci come Lui figli ed eredi
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“Ieri sera abbiamo concluso l’anno 2019 ringraziando Dio per il dono del tempo e per tutti i suoi benefici. Oggi iniziamo il 2020 con lo stesso atteggiamento di gratitudine e di lode. Non è scontato che il nostro pianeta abbia iniziato un nuovo giro intorno al sole e che noi esseri umani continuiamo ad abitarvi. Non è scontato, anzi, è sempre un “miracolo” di cui stupirsi e ringraziare.
Nel primo giorno dell’anno la Liturgia celebra la Santa Madre di Dio, Maria, la Vergine di Nazareth che ha dato alla luce Gesù, il Salvatore. Quel Bambino è la Benedizione di Dio per ogni uomo e donna, per la grande famiglia umana e per il mondo intero. Gesù non ha tolto il male dal mondo ma lo ha sconfitto alla radice. La sua salvezza non è magica, ma è una salvezza “paziente”, cioè comporta la pazienza dell’amore, che si fa carico dell’iniquità e le toglie il potere. La pazienza dell’amore: l’amore ci fa pazienti. Tante volte perdiamo la pazienza; anch’io, e chiedo scusa per il cattivo esempio di ieri [si riferisce alla reazione verso una persona che, in Piazza, lo aveva strattonato]. Per questo contemplando il Presepe noi vediamo, con gli occhi della fede, il mondo rinnovato, liberato dal dominio del male e posto sotto la signoria regale di Cristo, il Bambino che giace nella mangiatoia.
Per questo oggi la Madre di Dio ci benedice. E come ci benedice, la Madonna? Mostrandoci il Figlio. Lo prende tra le braccia e ce lo mostra, e così ci benedice. Benedice tutta la Chiesa, benedice tutto il mondo. Gesù, come cantarono gli Angeli a Betlemme, è la «gioia per tutto il popolo», è la gloria di Dio e la pace per gli uomini. E questo è il motivo per cui il Santo Papa Paolo VI ha voluto dedicare il primo giorno dell’anno alla pace – è la Giornata della Pace –, alla preghiera, alla presa di coscienza e di responsabilità verso la pace.. Per quest’anno 2020 il Messaggio è così: la pace è un cammino di speranza, un cammino nel quale si avanza attraverso il dialogo, la riconciliazione e la conversione ecologica.
Dunque, fissiamo lo sguardo sulla Madre e sul Figlio che lei ci mostra. All’inizio dell’anno, lasciamoci benedire! Lasciamoci benedire dalla Madonna con il suo Figlio.
Gesù è la benedizione per quanti sono oppressi dal giogo delle schiavitù, schiavitù morali e schiavitù materiali. Lui libera con l’amore. A chi ha perso la stima di sé rimanendo prigioniero di giri viziosi, Gesù dice: il Padre ti ama, non ti abbandona, aspetta con pazienza incrollabile il tuo ritorno (cfr Lc 15,20). A chi è vittima di ingiustizie e sfruttamento e non vede la via d’uscita, Gesù apre la porta della fraternità, dove trovare volti, cuori e mani accoglienti, dove condividere l’amarezza e la disperazione, e recuperare un po’ di dignità. A chi è gravemente malato e si sente abbandonato e scoraggiato, Gesù si fa vicino, tocca le piaghe con tenerezza, versa l’olio della consolazione e trasforma la debolezza in forza di bene per sciogliere i nodi più aggrovigliati. A chi è carcerato ed è tentato di chiudersi in sé stesso, Gesù riapre un orizzonte di speranza, a partire da un piccolo spiraglio di luce.
Cari fratelli e sorelle, scendiamo dai piedistalli del nostro orgoglio – tutti abbiamo la tentazione dell’orgoglio – e chiediamo la benedizione alla Santa Madre di Dio, l’umile Madre di Dio. Lei ci mostra Gesù: lasciamoci benedire, apriamo il cuore alla sua bontà. Così l’anno che inizia sarà un cammino di speranza e di pace, non a parole, ma attraverso gesti quotidiani di dialogo, di riconciliazione e di cura del creato.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 1 gennaio 2020
Questa domenica, la prima che viene tra il Natale e il primo dell'anno, la Chiesa ci invita a celebrare la festa della santa Famiglia di Nazareth. Dio, per farsi uomo, ha dovuto assumere la nostra natura umana e nascere in una famiglia, ha voluto così avere una madre e un padre come noi.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, ad Abramo che si lamenta di non avere figli, Dio promette una discendenza numerosa. Abramo, contro ogni logica umana, ha fede nella promessa del Signore, egli avrà una discendenza numerosa come le stelle del cielo: Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
Nella seconda lettura, l’autore della lettera agli Ebrei, facendo l’elogio della fede dei padri, ricorda Abramo, il padre dei credenti, che si affida a Dio anche nella prova suprema di sacrificare il figlio Isacco, che Dio risparmia. Abramo ha vissuto un’anticipata esperienza di morte e di vita, che l’autore vede come simbolo della morte e risurrezione di Cristo .
Il brano del Vangelo di Luca ci propone la presentazione al tempio e l’incontro con Simeone e la profetessa Anna che indicano in Gesù il Salvatore, la luce per illuminare le genti. Maria riceve da Simeone la rivelazione del destino doloroso a cui va incontro il Figlio per la salvezza dell’umanità.
Dal Libro della Genesi
In quei giorni, fu rivolta ad Abram, in visione, questa parola del Signore: «Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande». Rispose Abram: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Soggiunse Abram: «Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede».
Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza».
Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.
Il Signore visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso. Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel tempo che Dio aveva fissato. Abramo chiamò Isacco il figlio che gli era nato, che Sara gli aveva partorito.
Gen 15,1-6. 21,1-2
Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte.
Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
In questo brano, tratto dal capitolo 15, Dio si presenta in visione ad Abramo e gli dice: ”Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande”. Abram risponde sfiduciato: “Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Al colmo della prova Abram è dunque ormai rassegnato ad adottare come erede, il suo domestico, facendo di lui il depositario delle promesse divine. Ma Dio non è di questo parere e gli dice: “Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede”.
Poi il Signore conduce Abram all’aperto e gli dice: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza »” L’erede sarà dunque un figlio di Abram, e da lui nascerà una discendenza numerosa come le stelle del cielo.
Dio non dà ad Abram nessuna garanzia, se non la Sua parola. Di fronte all’evidenza dei fatti, Abram avrebbe potuto tirarsi indietro, abbandonando ogni speranza di avere un figlio, ma egli si affida a Dio divenendo l’emblema del credere puro e senza incrinature, anche nei momenti più ardui dell’esistenza. Il celebre versetto che è il punto focale di questo brano, “Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia.” diverrà infatti la base su cui Paolo costruirà la grande meditazione della Lettera ai Romani.
Alla fine la promessa divina ha la sua attuazione, la fede giunge alla meta della pace e della gioia. E’ all’interno di quella piccola creatura nata da due coniugi molto in là con gli anni, Isacco, che Dio rivela il Suo amore e la Sua fedeltà. La famiglia diventa, quindi, il segno della fede dell’uomo e dell’amore di Dio.
Salmo 104 Il Signore è fedele al suo patto.
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome,
proclamate fra i popoli le sue opere.
A lui cantate, a lui inneggiate,
meditate tutte le sue meraviglie.
Gloriatevi del suo santo nome:
gioisca il cuore di chi cerca il Signore.
Cercate il Signore e la sua potenza,
ricercate sempre il suo volto.
Ricordate le meraviglie che ha compiuto,
i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca,
voi, stirpe di Abramo, suo servo,
figli di Giacobbe, suo eletto.
Il salmo lo si ritrova pure nel primo libro delle Cronache (18,8-22), ed è fatto risalire a Davide.
Il salmo inizia con un invito a lodare Dio e a proclamarne le opere tra le genti.
Nessun complesso di inferiorità devono avere gli Israeliti di fronte al fasto e alla potenza delle nazioni pagane, poiché essi conoscono il vero Dio e da lui sono stati eletti a suo popolo: “Gloriatevi del suo santo nome”.
“Chi cerca il Signore”, cioè l'intima conoscenza di lui ottenuta con la fede, con l'amore, con l'obbedienza alla sua Parola, non può essere triste: “Gioisca il cuore di che cerca il Signore”.
Il salmo invita così a “cercare” il Signore: “Cercate il Signore e la sua potenza, ricercate sempre il suo volto”. E' un cercare dopo essere stati raggiunti da Dio; è un cercare che nasce dall'aver trovato; ed è un trovare che porta ancora a cercare, all'infinito.
Il salmista invita a ricordare le meraviglie che Dio ha compiuto. E' un ricordare che attiva, promuove la corrispondenza fattiva all'amore di Dio. Dio pure “si è sempre ricordato della sua alleanza...”, cioè vi è fedele, indubitabilmente fedele.
Il salmo procede poi facendo memoria di quanto Dio ha fatto per il suo popolo a partire da Abramo, Isacco e Giacobbe. Gli Israeliti furono liberati dall'Egitto, e Dio “castigò i re per causa loro”, affinché avessero "le terre delle nazioni".
Gli Israeliti sono presentati come “consacrati” (unti), perché eletti da Dio in virtù delle promesse fatte ad Abramo, dell'alleanza del Sinai, e della fede in lui, in attesa del futuro Messia. Essi sono designati come “profeti” (Cf. Gn 20,7), perché depositari delle promesse.
Il salmo non viene recitato nella Liturgia delle Ore, solo perché ripete la grande storia di Israele, già presentata, in sintesi, in altri salmi.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.
Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.
Eb 11,8.11-12.17-19 .
Il capitolo 11 della lettera agli Ebrei, inizia con un versetto non riportato da questo brano, che definisce in poche parole che cosa è la fede: La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede.
Con queste parole la fede è presentata come la certezza di ottenere un giorno quelle realtà che, proprio perché non si vedono, sono oggetto di speranza. L’autore intende qui affermare che il credente è colui che non si ferma alle realtà visibili e materiali, ma si orienta con piena fiducia verso beni futuri (trascendenti), non ancora visibili ma testimoniati dalla parola di Dio e quindi sicuramente godibili.
Dopo aver dato la sua definizione della fede, l’autore soggiunge “Per mezzo di questa fede gli antichi ricevettero buona testimonianza”. Con queste parole egli lascia intendere che non farà un discorso astratto sulla natura della fede, ma presenterà esempi concreti per guidare i suoi lettori nel loro cammino di fede. Nella rassegna dei testimoni della fede (che il brano liturgico tralascia) sono ricordati alcuni personaggi come: Abele, Enoc e Noè, esistiti prima che il popolo ebraico apparisse alla ribalta della storia.
Dopo i personaggi della storia primordiale, l’autore presenta: “Abramo che per fede, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava”.
Questa prima fase, in cui predomina la tensione tra quello che è posseduto a quello che non lo è ancora, tra quello che si vede e quello che non si vede, si concretizza la promessa divina..
La seconda fase si svolge attorno al tema della “discendenza” oggetto della seconda promessa fatta da Dio ad Abramo. : “Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso”. Anche qui è sottolineato il contrasto tra la sterilità di Sara e la potenza di generare che è superato grazie alla “fede”, che spinge a far affidamento sulla potenza e fedeltà di Dio.
“Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare”.
Il terzo momento, quello della prova manifesta al massimo la forza della fede.
“Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo”.
La crisi viene superata da Abramo, il quale si fida della “potenza” di Dio, sapendo che è capace anche di risuscitare i morti: perciò riottene il figlio come un “simbolo” cioè come caparra della pienezza futura.
L’esperienza di Abramo mostra chiaramente che la fede, vissuta come apertura a un futuro che Dio promette, consiste in un rapporto personale con Lui, in forza del quale è possibile superare la fragilità e la miseria di una vita segnata inesorabilmente dalla morte.
È così che Abramo. proprio per aver accettato per fede la morte del figlio, ottiene una specie di risurrezione anticipata, che troverà compimento nella risurrezione di Cristo e di coloro che crederanno in Lui. La fede dei patriarchi è quindi solo una prefigurazione della fede di cui godono i credenti in Cristo.
Dal Vangelo secondo Luca
Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, (Maria e Giuseppe) portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
Lc 2,22-40
Nel suo Vangelo, Luca ci presenta la vita di Gesù anche all'interno delle pratiche religiose giudaiche, e in questo brano porta la nostra attenzione sulla presentazione al Tempio al quarantesimo giorno dalla Sua nascita. E’ un quadro pieno di personaggi in cui si intravedono tutti i misteri contemplati nell'Incarnazione e nella Natività.
Il brano inizia riportando che:“Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore»”
Anche la famiglia di Gesù si sottopone alla Legge in tutte le sue prescrizioni. La legge consisteva anzitutto nella circoncisione del primogenito, che prevedeva il rito del "riscatto" del bambino e dell’imposizione del nome (Gen 17,9-14;). Il nome è importante perché indica il mistero irripetibile della persona umana. Rivelare il nome, imporre il nome, chiamare per nome, afferma la relazione con l’altro, così Gesù entra anche giuridicamente nella comunità degli uomini,.
“e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore”
Per le famiglie benestanti questa offerta imponeva il sacrificio di un grosso animale, mentre per le famiglie povere, l’offerta poteva consistere in colombi o tortore (Lv 12,1-8). Luca qui precisa che Giuseppe e Maria offrirono il sacrificio dei poveri e con questo gesto vengono annoverati tra i poveri di Israele.
“Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui”.
Simeone viene presentato con tre qualità: giusto, pio e paziente e “che aspettava la consolazione d'Israele”. Simeone dunque è un uomo dall’attesa speranzosa e in questi suoi atteggiamenti troviamo in lui il dono dello Spirito Santo.
“Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio”,
E’ lo Spirito Santo stesso che agisce in Simeone perché lo spinge a recarsi al tempio e nel gesto di prendere tra le braccia il bambino e benedire Dio, accoglie il mistero del Dio incarnato. Esprime poi la gioia di questo incontro preannunciando una straordinaria profezia su Gesù e Maria.
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui.
L’esultanza di Simeone è paragonabile a quella di Maria e di Zaccaria; egli percepisce di aver finalmente realizzato l’incontro della sua vita! Simeone si pone dinanzi a Dio in rapporto di servo in totale dipendenza dal Signore, Creatore del mondo al quale Simeone è stato fedele durante tutta la sua esistenza. Ora egli non dovrà più attendere: i suoi occhi hanno potuto vedere la salvezza, la luce e la gloria, nella estrema debolezza di un bambino! Soltanto colui che ha saputo attendere nella fede, ora può esultare nella lode!
Simeone poi, sempre spinto dallo Spirito Santo, preannuncia la Passione e la Resurrezione di Gesù, e dice rivolgendosi a Maria: “egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione e anche a te una spada trafiggerà l'anima, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».”
Nel mondo giudaico l'immagine della spada veniva usata per indicare la Parola di Dio. Paolo userà spesso questo termine e nella lettera agli Ebrei il suo autore affermerà “la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio”(Eb 4,12). Gesù sarà quella spada che dividerà quanti l'accolgono da coloro che lo rifiutano.
“C'era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”
Luca introducendo questa parte fa uscire di scena Simeone per sostituirlo con un'altra figura profetica:, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser, citata subito col raro titolo di profetessa come Debora (Gdc 4,4) . L’evangelista ci dice che Anna era vissuta con il marito per 7 anni e poi rimasta vedova aveva 84 anni. Non è un caso che citi proprio questo numero perché nella simbologia dei numeri il 7 significa compiutezza e perfezione, richiamandosi ai giorni che ha impiegato Dio per creare il mondo, la cui importanza simbolica deriva dal fatto che il 7 è la somma di tre e 4, che rappresentano rispettivamente il cielo e la terra. Perciò il 7 è il risultato dell’unione del mondo spirituale con quello materiale. Come per il 7 l’importanza simbolica del 12 deriva dal 3 moltiplicato per 4 che danno per risultato appunto 12 che sta ad indicare la fusione della sfera spirituale e materiale (12 è anche il numero delle tribù di Israele e del numero degli apostoli). Non è ardito pensare che questo numero sia stato messo per la sua forte valenza simbolica per confermare due eventi importanti e simultanei: il primo ingresso di Gesù nel tempio e il suo riconoscimento come salvatore di Israele, il Messia..
“Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
In quest’ultima espressione di Luca, c’è la conclusione in cui possiamo intravedere l'umanità di Gesù, che cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, l'umanità di Maria, che meditando le parole del vecchio Simeone, vive la sua maternità, in vista della Passione redentrice del Figlio Gesù, che è anche la sua passione dolorosa di corredentrice del genere umano, l'umanità di Giuseppe che provvede a formare con Gesù e Maria una famiglia terrena alla luce della grazia di Dio.
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“In questa prima domenica dopo il Natale, celebriamo la Santa Famiglia di Nazaret, e il Vangelo ci invita a riflettere sull’esperienza vissuta da Maria, Giuseppe e Gesù, mentre crescono insieme come famiglia nell’amore reciproco e nella fiducia in Dio. Di questa fiducia è espressione il rito compiuto da Maria e Giuseppe con l’offerta del figlio Gesù a Dio. Il Vangelo dice: «Portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore» , come richiedeva la legge mosaica. I genitori di Gesù vanno al tempio per attestare che il figlio appartiene a Dio e che loro sono i custodi della sua vita e non i proprietari. E questo ci fa riflettere. Tutti i genitori sono custodi della vita dei figli, non proprietari, e devono aiutarli a crescere, a maturare.
Questo gesto sottolinea che soltanto Dio è il Signore della storia individuale e familiare; tutto ci viene da Lui. Ogni famiglia è chiamata a riconoscere tale primato, custodendo ed educando i figli ad aprirsi a Dio che è la sorgente stessa della vita. Passa da qui il segreto della giovinezza interiore, testimoniato paradossalmente nel Vangelo da una coppia di anziani, Simeone e Anna. Il vecchio Simeone, in particolare, ispirato dallo Spirito Santo dice a proposito del bambino Gesù: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione […] affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
Queste parole profetiche rivelano che Gesù è venuto per far cadere le false immagini che ci facciamo di Dio e anche di noi stessi; per “contraddire” le sicurezze mondane su cui pretendiamo di appoggiarci; per farci “risorgere” a un cammino umano e cristiano vero, fondato sui valori del Vangelo. Non c’è situazione familiare che sia preclusa a questo cammino nuovo di rinascita e di risurrezione. E ogni volta che le famiglie, anche quelle ferite e segnate da fragilità, fallimenti e difficoltà, tornano alla fonte dell’esperienza cristiana, si aprono strade nuove e possibilità impensate.
L’odierno racconto evangelico riferisce che Maria e Giuseppe, «quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva – dice il Vangelo – e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» . Una grande gioia della famiglia è la crescita dei figli, tutti lo sappiamo. Essi sono destinati a svilupparsi e fortificarsi, ad acquisire sapienza e accogliere la grazia di Dio, proprio come è accaduto a Gesù. Egli è veramente uno di noi: il Figlio di Dio si fa bambino, accetta di crescere, di fortificarsi, è pieno di sapienza e la grazia di Dio è sopra di Lui. Maria e Giuseppe hanno la gioia di vedere tutto questo nel loro figlio; e questa è la missione alla quale è orientata la famiglia: creare le condizioni favorevoli per la crescita armonica e piena dei figli, affinché possano vivere una vita buona, degna di Dio e costruttiva per il mondo.
È questo l’augurio che rivolgo a tutte le famiglie oggi, accompagnandolo con l’invocazione a Maria, Regina della Famiglia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 31 dicembre 2017
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)