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Ott 23, 2021

XXX Domenica del Tempo Ordinario - Anno B - "Il cieco di Gerico" - 24 ottobre 2021

In questa domenica in cui ricordiamo la giornata missionaria mondiale in cui viene rinnovata la chiamata ad essere discepoli-missionari, le letture che la Liturgia ci propone ci parlano della salvezza di Dio nei confronti del suo popolo e di ciascuno di noi.
Nella prima lettura, il profeta Geremia racconta la sollecitudine di Dio per il popolo d’Israele esiliato a Babilonia. Il profeta pronuncia un oracolo di consolazione per gli esiliati, e annuncia il cambiamento dalla schiavitù alla libertà, dalle lacrime alla gioia. Nella seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, il sacerdozio di Cristo è il tema su cui riflette l’autore: essendo vero uomo e Figlio di Dio, Gesù possiede in modo eminente tutte le qualità del vero sacerdote. inviato dal padre per dissipare le tenebre e rischiarare la via, egli è il mediatore perfetto tra la fragile umanità e la grandezza di Dio
Nel Vangelo di Marco, ci racconta la guarigione di Bartimeo (è raro che i Vangeli ci riportano i nomi dei miracolati) avvenuta poco prima che Gesù salisse a Gerusalemme per essere arrestato, condannato e messo a morte, ottenuta la vista il cieco vuole seguire Gesù. La sua storia diventa così la narrazione spirituale di una vocazione alla fede e al discepolato. In questo senso la vicenda di Bartimeo è aperta e possibile a tutti noi.
In questa Giornata missionaria Papa Francesco ci ricorda che Dio, nella Pasqua di Gesù, fa proprie le gioie, le sofferenze, i desideri, le angosce dell’umanità “vuole stabilire con ogni persona, lì dove si trova, un dialogo di amicizia”.

Dal libro del profeta Geremia
Così dice il Signore:
«Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni,
fate udire la vostra lode e dite:
“Il Signore ha salvato il suo popolo,
il resto d’Israele”.
Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione
e li raduno dalle estremità della terra;
fra loro sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente:
ritorneranno qui in gran folla.
Erano partiti nel pianto,
io li riporterò tra le consolazioni;
li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua
per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele,
Èfraim è il mio primogenito».
Ger 31,7-9

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli è pure l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà.
In questo brano tratto dal libro della consolazione, si sente tutta l’esplosione di felicità di Geremia che finalmente può abbandonare il tono doloroso e mesto dei suoi messaggi di sciagure per annunciare la gioia. E’ a nome del Signore che si rivolge al popolo in esilio per dire: “Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”. Il resto non sono più gli scampati alla deportazione, ma quel piccolo nucleo di esiliati che Dio raccoglie per continuare la storia della salvezza. Il loro ritorno in patria è opera di Dio, salvezza di Dio, per coloro che sono rimasti a Lui fedeli. E’ il Signore che ora parla tramite lui per dire: “Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione e li raduno dalle estremità della terra; fra loro sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente: ritorneranno qui in gran folla”.
Questo popolo passato attraverso le angosce dell’esilio e della persecuzione è composto di ciechi, zoppi, donne incinte e partorienti, che hanno in comune la difficoltà a camminare e non sono nelle condizioni ideali per compiere un viaggio.
“Erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua per una strada dritta in cui non inciamperanno, perché io sono un padre per Israele, Èfraim è il mio primogenito”.
Israele è il nome dato a Giacobbe durante il suo ritorno dalla Mesopotamia e qui la parola Israele sta a significare tutti i discendenti di Giacobbe-Israele. Èfraim è il secondo figlio di Giuseppe e quindi è nipote; in più la tribù di Èfraim è la più piccola di tutte le tribù. Ma l'amore di Dio abbraccia anche lui: anzi, lo abbraccia con predilezione: quando dice: Èfraim è il mio primogenito!
Le parole consolanti di Geremia ci debbono far pensare che la storia di questi esiliati, dei più piccoli, spesso dimenticati, è la nostra storia. Chi si allontana dal Signore fa l'esperienza del pianto, ma il cammino del ritorno, pur impegnativo e disseminato di difficoltà, è ricco di soddisfazioni che Dio promette di farci incontrare, come tante sorgenti di acqua nel deserto, e la strada sarà dritta e senza inciampi. Possiamo sentirci tutti “Efraim e suoi primogeniti!”

Salmo 125 - Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.

Questo salmo era usato per i pellegrinaggi annuali a Gerusalemme. Probabilmente venne scritto dopo la ricostruzione del tempio e delle mura di Gerusalemme al tempo del ritorno dall'esilio; infatti la grande gioia alla notizia che “Andremo alla casa del Signore”, presuppone un fatto straordinario, lungamente atteso, e non uno dei tre pellegrinaggi annuali prescritti dalla legge (Es 23,17; 34,23).
Lo stupore di fronte alla compattezza che presenta la città si apre alla lode di Dio: “Gerusalemme è costruita come città unita e compatta”.
La città viene celebrata come il centro dell'unità religiosa per la presenza del tempio e come centro del governo civile: “E' là che salgono le tribù, le tribù del Signore (...) per lodare il nome del Signore. Là sono posti i troni del giudizio, i troni della casa di Davide”: benché politicamente non autonoma Gerusalemme è retta dalle leggi di Israele; la menzione di Davide dice che per l'Israelita Gerusalemme rimane legata a Davide, e quindi al futuro Messia.
Il salmista non manca di rivolgersi ai pellegrini invitandoli a pregare: “Chiedete pace per Gerusalemme”; e invoca pace su quanti la amano, cioè su quanti credono nel disegno di Dio su Gerusalemme. La pace invocata è quella che verrà portata dal Principe della pace.
A Gerusalemme si è formata la prima Chiesa particolare, che è stata la madre delle altre Chiese particolari, poiché il Vangelo è partito dalla comunità di Gerusalemme. Ma tutte le Chiese particolari, compresa quella di Gerusalemme, formano e sussistono nell'unica Chiesa di Cristo, che ha come vincolo di unità il successore di Pietro.
Il pellegrinaggio dei popoli, delle dodici tribù della terra, trova il suo gioioso approdo alle “porte” della Gerusalemme messianica, pronta ad accogliere tutte le genti. La Gerusalemme messianica è la “civitas cristiana”, che ha come costitutivo fondante la Chiesa (Cf. Ap 21,9s).
Per la “civitas cristiana”, o società dell'amore, bisogna sempre pregare perché tragga costantemente dal Cristo la sua pace e la diffonda estendendosi a tutta la terra.
Il pellegrinaggio, tuttavia, non è cessato perché terminerà solo con l'ingresso nella Gerusalemme celeste.
Lo stupore di potere andare nella “casa del Signore” i cristiani lo hanno avuto nell'erezione delle prime basiliche a Roma, dopo le ondate di persecuzione per annullare la Chiesa.
Il primo stupore di fronte alla Gerusalemme messianica, o civiltà dell'amore, i cristiani lo hanno avuto quanto hanno visto il potere politico di Roma aprirsi a Cristo e alla Chiesa.
Ora il potere politico delle nazioni si sta sempre più chiudendo alla Chiesa, ma non si annullerà il germe della “civitas cristiana”; verrà infatti il giorno in cui su tutta la terra fiorirà la civiltà della verità e dell'amore.
Commento tratto da Perfetta Letizia

Dalla lettera agli Ebrei
Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.
Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo.
Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse:
«Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo:
«Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».
Eb 5,1-6

Questo brano della lettera agli Ebrei segue immediatamente quello trattato nella XXIX domenica per continuare il tema su Cristo sommo sacerdote. L’argomento era decisamente molto importante per quegli ebrei che erano passati al cristianesimo perché fa comprendere loro la superiorità della fede in Cristo rispetto alla religione ebraica. Al tempo stesso la fede e il culto dell'antico Israele hanno molta importanza poiché sono l'ambiente in cui il popolo di Dio si è preparato all'avvento di Gesù, il Figlio di Dio.
L’autore inizia facendo un paragone tra Gesù e i sommi sacerdoti di Israele: “Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.”
Il sommo sacerdote è scelto tra gli uomini per le cose che riguardano Dio. Offre sacrifici per i peccati, cioè immola gli animali offerti per ottenere il perdono dei peccati.
“Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza.” Il sommo sacerdote è veramente tale perchè sente compassione nei confronti degli altri uomini per i quali offre i sacrifici. Sa che tanti peccati si compiono per ignoranza, non per malvagità. Anch'egli rimane un uomo ed è partecipe della debolezza dei suoi simili. Questo particolare della compassione del sommo sacerdote non è tratta dai testi biblici, sembra piuttosto una qualità inserita dall'autore per preparare la figura di Cristo, di cui il tratto più importante è appunto la compassione.
“A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo”.
Proprio perché rimane un uomo egli deve offrire i sacrifici anche per i propri peccati, purificare le proprie mani affinché la sua offerta sia sempre gradita a Dio.
“Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne.”
La funzione di sommo sacerdote è comunque un dono, il frutto di una scelta divina. Anche questo anticipa la totale gratuità dell'elezione di Gesù, il quale non faceva nemmeno parte della tribù di Levi, l'unica stirpe di Israele da cui potevano provenire i sacerdoti.
“Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì “. Da qui comincia la presentazione di Cristo come sommo sacerdote. Anch'egli non si arrogò il diritto di essere sommo sacerdote poiché Dio stesso gli ha conferito questa gloria. L'autore cita il salmo 110 per ricordare che Cristo è il figlio di Dio: “come è detto in un altro passo: «Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchìsedek».”
La citazione del salmo 110 continua con l'investitura di Cristo. Egli è sacerdote non secondo l'ordine di Aronne, poiché non fa parte della discendenza di Levi. Il suo sacerdozio è ben più antico, poiché risale a Melchìsedek, il misterioso re-sacerdote che si incontra al cap. 14 della Genesi, e di lui si dice che era re di Salem (il nome più antico di Gerusalemme) sacerdote del Dio altissimo e che offrì ad Abramo pane e vino, doni votivi in segno di devozione.
Non si conosce la genealogia di Melchìsedek e proprio per questo rappresenta bene la condizione del Figlio di Dio fatto uomo e anche dei sacerdoti della Nuova Alleanza, che diventano tali perché chiamati da Dio e non per eredità di nascita.
Il sacerdozio nella Chiesa non si configura come una posizione sociale a cui aspirare, ma come una chiamata a cui rispondere quando la si accetta e di cui rispondere dopo che la si è esercitata. Teniamo presente che il sacerdote cristiano non si sostituisce a Cristo, ma bensì lo rappresenta.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!».
Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose:
«Rabbunì, che io veda di nuovo!».
E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Mc 10, 46-52


Questo brano del Vangelo di Marco riporta l'ultimo miracolo che Gesù compie durante il suo viaggio verso Gerusalemme. Il racconto inizia riportando che “mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.”
Alla fine del suo viaggio verso Gerusalemme Gesù giunge finalmente a Gerico, la città più antica del mondo, collocata in un’oasi di tre chilometri di diametro posta nella valle del Giordano, a quasi 300 metri sotto il livello del mare. Non si conosce nulla circa l’itinerario da Lui percorso, ma da quanto accennato precedentemente (v. 10,1.32) sembra che vi sia arrivato dopo aver percorso la Perea, cioè movendosi al di fuori del territorio palestinese. Gesù è circondato dai discepoli e dalla folla. Non si sa neppure che cosa abbia fatto a Gerico, se non che, mentre ormai sta per lasciare la città, si imbatte in Bartimeo, un mendicante cieco (non si sa se dalla nascita) che siede lungo la via.
La reazione del cieco è così descritta: “Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!»”. Il suo grido di aiuto rappresenta un estremo tentativo di liberarsi dalla situazione disperata in cui si trova. Egli dà a Gesù il titolo di “Figlio di Davide”ed è la prima volta che Marco cita il nome di Davide, lo citerà ancora in 11,10 2 in 12,35-37.
E’ chiaro comunque che il figlio di Davide, a cui qui ci si riferisce è il messia atteso dai giudei (2Sam 7,12). Bartimeo fa dunque una professione di fede messianica, simile alla professione di fede di Pietro (8,29).In questa invocazione di aiuto il cieco non chiede nulla di particolare, ma solo una manifestazione della misericordia di Dio attraverso il suo inviato.
L’intervento del cieco è visto dai vicini con un certo fastidio, infatti l’evangelista annota che “Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me”.
E alla fine è Gesù stesso che prende l’iniziativa, infatti: “Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”. La folla, che prima come un muro separava il cieco da Gesù, gli trasmette ora il suo ordine di andare da Lui, anzi addirittura lo incoraggia.
Il fatto che il cieco risponda con prontezza all’invito è un altro particolare per indicare la sua fede e la sua disponibilità.
Il gesto di sbarazzarsi del mantello ha un valore simbolica: per il povero questo rappresentava un bene irrinunciabile che, quand’anche fosse stato dato in pegno, doveva essergli restituito alla sera perché gli fosse possibile difendersi dal freddo (V. Es 22,25). Buttarlo via significa quindi abbandonare le proprie sicurezze e riporre solo in Gesù la propria fiducia.
Il dialogo tra Gesù e il cieco viene così riportato: “Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato»”
Era chiaro che il cieco chiedesse il dono della vista, ma Gesù gli chiede di formulare chiaramente la sua richiesta per mettere in luce ancora una volta la sua fede. Il cieco nel rispondere a Gesù lo chiama rabbunì, “maestro mio”, usa certamente un modo affettuoso di rivolgersi al Maestro, altrimenti avrebbe usato il termine più formale e rispettoso di Rabbì. La richiesta espressa dal cieco di riavere la vista mette nuovamente in luce la sua fede nelle capacità soprannaturali di Gesù. La risposta di Gesù è però molto più ampia e, facendo riferimento espressamente alla sua fede, afferma che questa lo ha “salvato”.
Non si tratta dunque della semplice guarigione fisica, ma di una liberazione interiore dal peccato: in altre parole la guarigione fisica, che ora Gesù gli dà, simboleggia il nuovo rapporto che Dio, per mezzo Suo, stabilisce con lui. Il racconto termina con l’immagine del cieco che, ormai guarito, segue Gesù lungo la strada .
Bartimeo diventa così il simbolo dei discepoli che, ormai guariti dalla loro cecità, si mettono al seguito del Maestro nella strada che porta a Gerusalemme, verso il Suo destino di morte e di gloria.
La storia di un miracolo fisico diventa così la narrazione spirituale di una vocazione alla fede e al discepolato. In questo senso la vicenda di Bartimeo è aperta e possibile a tutti noi, anche se i nostri occhi fisici sono limpidi e la nostra vista nitida. Si tratta, infatti, della rappresentazione di un’illuminazione totale che penetra negli angoli remoti dell’esistenza.
Una volta guarito il credente non deve più restare ai margini della strada, immerso nella sua tristezza quotidiana e nella sua oscurità, si alza e segue il suo Signore e Salvatore.

*****

“L’episodio che abbiamo ascoltato è l’ultimo che l’evangelista Marco narra del ministero itinerante di Gesù, il quale poco dopo entrerà a Gerusalemme per morire e risorgere. Bartimeo è così l’ultimo a seguire Gesù lungo la via: da mendicante ai bordi della strada a Gerico, diventa discepolo che va insieme agli altri verso Gerusalemme. Anche noi abbiamo camminato insieme, abbiamo “fatto sinodo” e ora questo Vangelo suggella tre passi fondamentali per il cammino della fede.
Anzitutto guardiamo a Bartimeo: il suo nome significa “figlio di Timeo”. E il testo lo specifica: «il figlio di Timeo, Bartimeo» . Ma, mentre il Vangelo lo ribadisce, emerge un paradosso: il padre è assente. Bartimeo giace solo lungo la strada, fuori casa e senza padre: non è amato, ma abbandonato. È cieco e non ha chi lo ascolti; e quando voleva parlare lo facevano tacere. Gesù ascolta il suo grido. E quando lo incontra lo lascia parlare. Non era difficile intuire che cosa avrebbe chiesto Bartimeo: è evidente che un cieco voglia avere o riavere la vista. Ma Gesù non è sbrigativo, dà tempo all’ascolto.
Ecco il primo passo per aiutare il cammino della fede: ascoltare. È l’apostolato dell’orecchio: ascoltare, prima di parlare.
Al contrario, molti di quelli che stavano con Gesù rimproveravano Bartimeo perché tacesse . Per questi discepoli il bisognoso era un disturbo sul cammino, un imprevisto nel programma prestabilito. Preferivano i loro tempi a quelli del Maestro, le loro parole all’ascolto degli altri: seguivano Gesù, ma avevano in mente i loro progetti. È un rischio da cui guardarsi sempre. Per Gesù, invece, il grido di chi chiede aiuto non è un disturbo che intralcia il cammino, ma una domanda vitale. Quant’è importante per noi ascoltare la vita! I figli del Padre celeste prestano ascolto ai fratelli: non alle chiacchiere inutili, ma ai bisogni del prossimo. Ascoltare con amore, con pazienza, come fa Dio con noi, con le nostre preghiere spesso ripetitive. Dio non si stanca mai, gioisce sempre quando lo cerchiamo. Chiediamo anche noi la grazia di un cuore docile all’ascolto. Vorrei dire ai giovani, a nome di tutti noi adulti: scusateci se spesso non vi abbiamo dato ascolto; se, anziché aprirvi il cuore, vi abbiamo riempito le orecchie. Come Chiesa di Gesù desideriamo metterci in vostro ascolto con amore, certi di due cose: che la vostra vita è preziosa per Dio, perché Dio è giovane e ama i giovani; e che la vostra vita è preziosa anche per noi, anzi necessaria per andare avanti.
Dopo l’ascolto, un secondo passo per accompagnare il cammino di fede: farsi prossimi.
Guardiamo Gesù, che non delega qualcuno della «molta folla» che lo seguiva, ma incontra Bartimeo di persona. Gli dice: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» . Che cosa vuoi: Gesù si immedesima in Bartimeo, non prescinde dalle sue attese; che io faccia: fare, non solo parlare; per te: non secondo idee prefissate per chiunque, ma per te, nella tua situazione. Ecco come fa Dio, coinvolgendosi in prima persona con un amore di predilezione per ciascuno. Nel suo modo di fare già passa il suo messaggio: così la fede germoglia nella vita.
La fede passa per la vita. Quando la fede si concentra puramente sulle formulazioni dottrinali, rischia di parlare solo alla testa, senza toccare il cuore. E quando si concentra solo sul fare, rischia di diventare moralismo e di ridursi al sociale. La fede invece è vita: è vivere l’amore di Dio che ci ha cambiato l’esistenza. Non possiamo essere dottrinalisti o attivisti; siamo chiamati a portare avanti l’opera di Dio al modo di Dio, nella prossimità: stretti a Lui, in comunione tra noi, vicini ai fratelli.
Prossimità: ecco il segreto per trasmettere il cuore della fede, non qualche aspetto secondario.
Farsi prossimi è portare la novità di Dio nella vita del fratello, è l’antidoto contro la tentazione delle ricette pronte. Chiediamoci se siamo cristiani capaci di diventare prossimi, di uscire dai nostri circoli per abbracciare quelli che “non sono dei nostri” e che Dio ardentemente cerca. C’è sempre quella tentazione che ricorre tante volte nella Scrittura: lavarsi le mani. È quello che fa la folla nel Vangelo di oggi, è quello che fece Caino con Abele, è quello che farà Pilato con Gesù: lavarsi le mani. Noi invece vogliamo imitare Gesù, e come lui sporcarci le mani. Egli, la via (cfr Gv 14,6), per Bartimeo si è fermato lungo la strada; Egli, la luce del mondo (cfr Gv 9,5), si è chinato su un cieco.
Riconosciamo che il Signore si è sporcato le mani per ciascuno di noi, e guardando la croce ripartiamo da lì, dal ricordarci che Dio si è fatto mio prossimo nel peccato e nella morte. Si è fatto mio prossimo: tutto comincia da lì.
E quando per amore suo anche noi ci facciamo prossimi diventiamo portatori di vita nuova: non maestri di tutti, non esperti del sacro, ma testimoni dell’amore che salva.
Testimoniare è il terzo passo. Guardiamo i discepoli che chiamano Bartimeo: non vanno da lui, che mendicava, con un’acquietante monetina o a dispensare consigli; vanno nel nome di Gesù. Infatti gli rivolgono solo tre parole, tutte di Gesù: «Coraggio! Alzati. Ti chiama». Solo Gesù nel resto del Vangelo dice coraggio!, perché solo Lui risuscita il cuore. Solo Gesù nel Vangelo dice alzati, per risanare lo spirito e il corpo. Solo Gesù chiama, cambiando la vita di chi lo segue, rimettendo in piedi chi è a terra, portando la luce di Dio nelle tenebre della vita. Tanti figli, tanti giovani, come Bartimeo cercano una luce nella vita. Cercano amore vero. E come Bartimeo, nonostante la molta gente, invoca solo Gesù, così anch’essi invocano vita, ma spesso trovano solo promesse fasulle e pochi che si interessano davvero a loro.Non è cristiano aspettare che i fratelli in ricerca bussino alle nostre porte; dovremo andare da loro, non portando noi stessi, ma Gesù. Egli ci manda, come quei discepoli, a incoraggiare e rialzare nel suo nome. Ci manda a dire ad ognuno: “Dio ti chiede di lasciarti amare da Lui”. Quante volte, invece di questo liberante messaggio di salvezza, abbiamo portato noi stessi, le nostre “ricette”, le nostre “etichette” nella Chiesa! Quante volte, anziché fare nostre le parole del Signore, abbiamo spacciato per parola sua le nostre idee! Quante volte la gente sente più il peso delle nostre istituzioni che la presenza amica di Gesù! Allora passiamo per una ONG, per una organizzazione parastatale, non per la comunità dei salvati che vivono la gioia del Signore.
Ascoltare, farsi prossimi, testimoniare. Il cammino di fede nel Vangelo termina in modo bello e sorprendente, con Gesù che dice: «Va’, la tua fede ti ha salvato» . Eppure Bartimeo non ha fatto professioni di fede, non ha compiuto alcuna opera; ha solo chiesto pietà. Sentirsi bisognosi di salvezza è l’inizio della fede. È la via diretta per incontrare Gesù. La fede che ha salvato Bartimeo non stava nelle sue idee chiare su Dio, ma nel cercarlo, nel volerlo incontrare. La fede è questione di incontro, non di teoria. Nell’incontro Gesù passa, nell’incontro palpita il cuore della Chiesa. Allora non le nostre prediche, ma la testimonianza della nostra vita sarà efficace.”

Parte dell’OMELIA tenuta da Papa Francesco per la conclusione
della XV assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi
nella Basilica Vaticana - Domenica, 28 ottobre 2018

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
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Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

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