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Gen 28, 2022

IV Domenica del Tempo Ordinario - Anno C - "Nessun profeta è accetto nella sua patria" - 30 gennaio 2022

Nelle letture liturgiche di questa domenica, Geremia, Paolo e Luca ci portano ad approfondire un discorso sul dono della profezia che si trasforma in un impegno di carità.
Nella prima lettura Geremia ci parla di quando per la prima volta gli fu rivolta la parola del Signore, che lo invia, nonostante la sua giovane età, a predicare la conversione e la penitenza. La sua fu una vocazione profetica tutta intessuta di ripulse, di solitudine, di persecuzioni.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai Corinzi , Paolo ci offre la pagina più celebre di tutte le sue lettere: è il celebre inno alla carità, all’amore. L’amore-agape è il cuore del cristianesimo, il più grande dei doni spirituali, il solo che potremo portare con noi quando arriveremo davanti a Dio. Dio che è Amore non può che volere e cercare l'amore.
Il brano del Vangelo di Luca conclude l’episodio della sinagoga di Nazareth. Gesù, dapprima è accolto dai suoi compaesani, poi viene rigettato. E’ Luca a riferire l’affermazione di Gesù, divenuta paradigmatica “Nessuno profeta è ben accetto nella sua patria” .La reazione degli abitanti di Nazareth lascia sgomenti perché non solo non si opposero a Gesù, ma presero persino la decisione di ucciderlo gettandolo dalla rupe sulla quale era costruita la loro città. Ma nessun uomo ha potere sugli inviati del Signore, finché non giunge la loro ora. L'ora di Gesù non era ancora venuta e Lui passando in mezzo a loro si mise in cammino verso un altro villaggio. Il contrasto, l'opposizione, l'ostilità, la volontà di toglierlo di mezzo sempre si abbatterà sui veri profeti. Essi però non devono temere l'uomo. Devono solo perseverare nella loro missione
Oggi ricorre la 69^ giornata mondiale dei malati di lebbra. Nonostante l’emergenza Covid non possiamo dimenticare la lebbra, malattia curabile con una semplice terapia di antibiotici.

Dal libro del profeta Geremìa
Nei giorni del re Giosìa,
mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni.
Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,
àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro,
altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.
Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata,
una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese,
contro i re di Giuda e i suoi capi,
contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno,
perché io sono con te per salvarti».
Ger 1, 4-5.17-19

Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Questo brano riporta dai primi versetti la vocazione del profeta, egli è un giovane timido e pieno di incertezze quando è chiamato da Dio. ”Prima di formarti nel grembo materno…” esprimono il rapporto di dipendenza totale dell’uomo dal suo creatore. Dio lo "afferra" per inviarlo, ma al tempo stesso lascia crescere in lui, pur nella sofferenza, una straordinaria libertà che lo porterà ad un compito ben preciso: essere profeta delle nazioni.
Nella seconda parte del brano, nei versetti” Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò…” sono preannunciate le condizioni difficili nelle quali il profeta dovrò esercitare la propria missione. Geremia dovrà prepararsi alla lotta perché il rifiuto della parola del Signore da parte dei suoi compaesani coinvolgerà direttamente e fisicamente anche la sua persona!
Il Signore però gli assicura la sua assistenza personale, resistenza e incorruttibilità per la missione profetica:” non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi,contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.” E assicura di essergli sempre vicino: “Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».
Geremia ricorderà più volte questa sua chiamata, quando si troverà di fronte alle sue debolezze, timidezze e fragilità. Dapprima ignorato dai propri compaesani, poi deriso, isolato, perseguitato, minacciato, percosso, insultato, denunciato da parenti e amici, flagellato. Tutto perché vorrebbero fargli dire ciò che loro desiderano udire. Vorrebbero essere rassicurati dalla sua parola, invece Geremia non può mentire, altrimenti tradirebbe la sua missione, tradirebbe se stesso.
Geremia, profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù, rimane per il suo popolo, e per tutti i cristiani, un testimone della speranza. Egli è pure l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà.

Salmo 70 La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza.
In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami.

Sii tu la mia roccia,
una dimora sempre accessibile;
hai deciso di darmi salvezza:
davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!
Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio.

La mia bocca racconterà la tua giustizia,
ogni giorno la tua salvezza.
Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito
e oggi ancora proclamo le tue meraviglie.

Il salmista vive in un tempo di gravi contrasti nei quali si trova coinvolto per la sua fedeltà a Dio. Probabilmente si è al tempo immediatamente precedente la presa di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Le sofferenze di questo giusto avvengono in patria, per mano di suoi connazionali, che sono ormai ribelli a Dio e guardano ai culti idolatrici introdotti nel tempio (Cf. 2Re 21,4). Questo giusto si adopera per una riforma dei costumi che può vedersi nell’esito felice della riforma di Giosia.
Il salmista per rafforzare la sua fiducia in Dio non evoca le grandi opere di Dio verso la nazione, ma guarda alla sua storia. Egli è stato educato alla fede in Dio fin da quando la madre lo teneva stretto sul grembo: “Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno” E Dio lo ha accompagnato, lo ha istruito con la sua grazia, fin dalla giovinezza: “Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito, ”. Il salmista trova motivo alla sua fedeltà proprio alla fedeltà di Dio su di lui …..
Egli, pur anziano e debole, e in pericolo, si dà forza, con l’aiuto di Dio, di annunciare la giustizia di Dio, la sua fedeltà alle promesse fatte, l’immutabilità della sua parola: “La mia bocca racconterà la tua giustizia, ogni giorno la tua salvezza, che io non so misurare”; “Venuta la vecchiaia e i capelli bianchi, o Dio, non abbandonarmi, fino a che io annunci la tua potenza, a tutte le generazioni le tue imprese".
La giustizia di Dio, dice il salmista, “è alta come il cielo”; cioè non è come quella umana, cedevole, imperfetta, ed esposta ai cedimenti.
Le angosce che Dio ha permesso si abbattessero su di lui sono state veramente grandi poiché dice: “Molte angosce e sventure mi hai fatto vedere: tu mi darai ancora vita, mi farai risalire dagli abissi della terra”. Dagli “abissi della terra”, per dire che la sua situazione è di un finito, di un morto, di cui nessuno più si preoccupa.
Ma la fede in Dio sostiene il salmista e pieno di ferma speranza dice: “Allora io ti renderò grazie al suono dell’arpa, per la tua fedeltà, o mio Dio; a te canterò sulla cetra, o Santo d’Israele”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.
Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia.
Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità.
Ma la più grande di tutte è la carità!
1 Cor 12,31-13,13

Questo brano è il celebre “inno all’amore” di San Paolo, che è inserito come una perla all’interno della Prima lettera ai Corinzi dal carattere pastorale che l’apostolo indirizza alla tormentata comunità cristiana di Corinto.
“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.”
In questi primi versetti viene dipinto l’uomo colmo di tutte le doti umane e spirituali, ma vuoto d’amore. Il dono ambito delle lingue, simbolo non soltanto di cultura, ma anche di più ampie possibilità di relazioni (“il parlare in lingue” nella visione di Paolo è espressione soprattutto di esperienza mistica) diventa - senza l’amore - solo un rimbombo fastidioso di un gong che crea solo disturbo.
In continuo crescendo Paolo poi confronta con la carità i tre doni divini prestigiosi: la profezia, la scienza e la fede, anzi la “pienezza della fede”, quella che dovrebbe essere capace di trasportare le montagne, come aveva detto Gesù (Mc 11,23) .
Ebbene anche questi tre grandi doni, se privi dell’amore, dall’Apostolo sono considerati “nulla”. La stessa povertà , il dono agli altri dei propri beni, anzi della stessa vita in un atto eroico, se non sono sostenute dall’amore, sono solo gesti di auto esaltazione.
“La carità è magnanima,benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.”
Questa seconda parte è straordinaria, fa pensare alla corolla di un fiore i cui petali sono costituiti dalle varie virtù che nascono dall’amore ed in particolare emergono: la pazienza, la bontà, l’assenza di invidia e di orgoglio, il disinteresse, il rispetto, la benignità, la costanza.
Se l’amore si spegne, anche le altre virtù umane e religiose appassiscono, ed è facile perciò che al suo posto subentri l’idolo del denaro, dell’egoismo o dell’orgoglio.
“La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.”
E’ importante per il credente che la lampada dell’amore-agape non si spenga. E’ vitale che non si spenga nel matrimonio, il sacramento dell’amore umano: essa sola permette all’eros di non essere cieco ed egoista, rende il piacere sereno e puro, trasforma il possesso in donazione, fa fiorire il desiderio in felicità e armonia, cancella l’abitudine e la noia.
E’ fondamentale che la lampada dell’amore non si spenga anche per la persona single, perchè sappia vivere la sua esistenza, il suo rapporto con gli altri come un dono.
E’ quanto mai importante che questa lampada rimanga accesa per il credente, perchè la sua fede non sia una fredda religiosità di facciata, ma un gioioso atto di donazione a Dio e ai fratelli.
Ed essendo la fiamma dell’amore una scintilla di Dio, che è l’Amore supremo, essa “non avrà mai fine” perchè ci condurrà all’eternità divina.
“Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto”
La tesi dell’apostolo Paolo per sostenere la durata dell'amore sopra ogni altra virtù si basa sulla teoria che tutti i doni cui tenevano in particolar modo i Corinzi sarebbero cessati. La stessa idea è rappresentata con l'immagine del bambino che per diventare adulto deve lasciare dietro di sé le cose da bambino.
Paolo fa anche presente ai Corinzi che anche la realtà presente, che essi vedono come attraverso uno specchio (a quei tempi lo specchio era un pezzo di metallo lucido, ma pur sempre opaco), dunque imperfetta e indiretta, dovrà essere abbandonata per aprirsi alla nuova realtà dell'incontro con Dio, faccia a faccia, di persona. Solo allora, finito l’ordine del mondo, tutti i doni spirituali, la conoscenza e ogni realtà contingente verranno meno. Sono eterne – dice Paolo - soltanto la fede, la speranza e l'amore.
“Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità! “
Di queste tre cose, due passeranno perchè la fede diventerà visione e la speranza diventerà godimento. Ma la Carità-Amore, deve durare perchè Dio è Amore.
Dobbiamo desiderare dunque questo dono che non avrà mai fine. L’Amore è il vertice di tutti i doni e di tutte le virtù, perché l'amore dà senso a tutto, è il solo valore che avrà corso nell’Universo quando tutti gli altri valori del mondo saranno inutili e irrimediabilmente “fuori corso”.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
Lc 4, 21-30

Il brano del vangelo di oggi si apre con il versetto che concludeva il brano di domenica scorsa, in cui Gesù, nella sinagoga di Nazareth, invece di commentare il testo profetico ne annuncia il compimento dicendo : «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Egli dunque si presenta come colui che dà compimento alla parola scritta del profeta Isaia (61,1-2) . L'inizio effettivo del ministero di Gesù, e quindi della salvezza, per Luca è segnato dall'inaugurarsi del tempo di grazia annunciato da Isaia. Anche Giovanni Battista aveva iniziato la sua predicazione rifacendosi ad un testo di Isaia (40,3-5) e Luca presenta collegati ancora una volta il messia e il suo precursore.
A differenza del Vangelo di Marco, la reazione da parte degli abitanti di Nazareth è abbastanza positiva, infatti leggiamo: “Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». “
A Nazareth Gesù era cresciuto in "sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini" (Lc 2,52), ma nulla era trapelato del grande mistero divino della Sua origine. Proprio per questa conoscenza superficiale gli abitanti di Nazareth sentendo Gesù predicare nella loro sinagoga si meravigliano delle "parole di grazia che uscivano dalla sua bocca“, ma alla meraviglia si mescola l‘incredulità: "Non è costui il figlio di Giuseppe?“.
“Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: "Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!"».
Questi versetti, che seguono l'annuncio di Gesù, sono un insieme di testi diversi raccolti da Luca per esporre la propria tesi: il Messia non può limitare la sua azione alla piccola Nazareth, ma deve andare in tutto il paese dei Giudei. Indice di questo è la citazione degli eventi svoltisi a Cafarnao, di cui Luca non ha ancora parlato.
E' Gesù stesso a provocare i suoi ascoltatori citando un proverbio: “In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria”. L’espressione “in verità io vi dico”, dà forza all'affermazione che mette Gesù nella linea dei profeti, rifiutati e perseguitati e sottolinea ancora una volta che Gesù è inviato a tutto il mondo.
“Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».” e ricorda i il comportamento dei profeti Elia ed Eliseo che avevano compiuto i loro miracoli a favore dei pagani.
All'udire questo tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno, le parole di Gesù suonano come un'accusa intollerabile. I presenti nella sinagoga avevano compreso bene che la missione di Gesù superava i limiti d'Israele ed era destinata a tutte le nazioni, per cui l'azione precipita e Luca lo sottolinea : “Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù”. A questo tentativo di eliminarlo, Luca riferisce: “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.
La descrizione finale che Luca fa del comportamento di Gesù (“che passando in mezzo a loro, si mise in cammino”) indica che nemmeno la paura e la violenza dei nazaretani può fermare il cammino di Gesù e del Suo messaggio. La Parola di Dio non viene fermata da nulla e da nessuno e continua a passare in mezzo anche a violenze e paure. Nemmeno certe apatie dei cristiani di oggi e le loro incoerenze possono bloccare la forza rinnovatrice del Vangelo

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“Domenica scorsa la liturgia ci aveva proposto l’episodio della sinagoga di Nazareth, dove Gesù legge un passo del profeta Isaia e alla fine rivela che quelle parole si compiono “oggi”, in Lui. Gesù si presenta come colui sul quale si è posato lo Spirito del Signore, lo Spirito Santo che lo ha consacrato e lo ha mandato a compiere la missione di salvezza in favore dell’umanità.
Il Vangelo di oggi è la prosecuzione di quel racconto e ci mostra lo stupore dei suoi concittadini nel vedere che uno del loro paese, «il figlio di Giuseppe» , pretende di essere il Cristo, l’inviato del Padre.
Gesù, con la sua capacità di penetrare le menti e i cuori, capisce subito che cosa pensano i suoi compaesani. Essi ritengono che, essendo Lui uno di loro, debba dimostrare questa sua strana “pretesa” facendo dei miracoli lì, a Nazareth, come ha fatto nei paesi vicini . Ma Gesù non vuole e non può accettare questa logica, perché non corrisponde al piano di Dio: Dio vuole la fede, loro vogliono i miracoli, i segni; Dio vuole salvare tutti, e loro vogliono un Messia a proprio vantaggio.
E per spiegare la logica di Dio, Gesù porta l’esempio di due grandi profeti antichi: Elia ed Eliseo, che Dio aveva mandato a guarire e salvare persone non ebree, di altri popoli, ma che si erano fidate della sua parola.
Di fronte a questo invito ad aprire i loro cuori alla gratuità e alla universalità della salvezza, i cittadini di Nazareth si ribellano, e addirittura assumono un atteggiamento aggressivo, che degenera al punto che «si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero sul ciglio del monte […], per gettarlo giù» . L’ammirazione del primo istante si è mutata in un’aggressione, una ribellione contro di Lui.
E questo Vangelo ci mostra che il ministero pubblico di Gesù comincia con un rifiuto e con una minaccia di morte, paradossalmente proprio da parte dei suoi concittadini. Gesù, nel vivere la missione affidatagli dal Padre, sa bene che deve affrontare la fatica, il rifiuto, la persecuzione e la sconfitta. Un prezzo che, ieri come oggi, la profezia autentica è chiamata a pagare. Il duro rifiuto, però, non scoraggia Gesù, né arresta il cammino e la fecondità della sua azione profetica. Egli va avanti per la sua strada , confidando nell’amore del Padre.
Anche oggi, il mondo ha bisogno di vedere nei discepoli del Signore dei profeti, cioè delle persone coraggiose e perseveranti nel rispondere alla vocazione cristiana. Persone che seguono la “spinta” dello Spirito Santo, che le manda ad annunciare speranza e salvezza ai poveri e agli esclusi; persone che seguono la logica della fede e non del miracolismo; persone dedicate al servizio di tutti, senza privilegi ed esclusioni. In poche parole: persone che si aprono ad accogliere in sé stesse la volontà del Padre e si impegnano a testimoniarla fedelmente agli altri.
Preghiamo Maria Santissima, perché possiamo crescere e camminare nello stesso ardore apostolico per il Regno di Dio che animò la missione di Gesù.”

Papa Francesco Parte dell’Angelus del 3 febbraio 2019

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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