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Giu 26, 2023

XII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - "La missione e la persecuzione" - 25 giugno 2023

Le letture liturgiche di questa domenica, ci presentano il tema della persecuzione e della missione profetica
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Geremia, nelle pagine delle sue “confessioni”, il profeta denuncia le insidie dei suoi calunniatori che lo deridono mentre egli mette in guardia il suo popolo dalla sventura: la conquista di Gerusalemme e la deportazione in Babilonia. La fedeltà alla vocazione è per Geremia una conquista quotidiana che conosce dubbi e crisi e che talora pesa come una maledizione, soprattutto quando si sperimenta il silenzio di Dio.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S.Paolo ai Romani, l’apostolo afferma che Cristo è l’uomo nuovo, l’iniziatore di una nuova umanità e fa risaltare questa verità contrapponendo l’opera di Cristo all’opera di Adamo
Nel brano tratto dal Vangelo secondo Matteo, Gesù parla ai suoi discepoli delle sofferenze che dovranno affrontare e lo fa con tale concretezza di particolari che sembra descrivere la Chiesa dei nostri tempi. Il centro dell’annuncio cristiano può portare derisione, persecuzione, tutto ciò comunque non deve stupire i discepoli del Signore, perchè anche i profeti hanno vissuto questo e Gesù stesso è passato attraverso l’incomprensione e la persecuzione.
La fede dei cristiani si fonda sul grande paradosso che anche quando per il mondo si è perdenti, nessuno è mai perduto da Dio.

Dal libro del profeta Geremìa
Sentivo la calunnia di molti:«Terrore all’intorno!Denunciatelo! Sì, lo denunceremo».
Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: «Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,ci prenderemo la nostra vendetta».
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,per questo i miei persecutori vacilleranno
e non potranno prevalere;arrossiranno perché non avranno successo,
sarà una vergogna eterna e incancellabile.
Signore degli eserciti, che provi il giusto,che vedi il cuore e la mente,
possa io vedere la tua vendetta su di loro,
poiché a te ho affidato la mia causa!
Cantate inni al Signore,lodate il Signore,
perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.
Ger 20,10-13


Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico. Il momento più difficile sicuramente fu quando si sente tradito persino da Dio e cade in una crisi dolorosa che lo porta quasi a rifiutare la sua vocazione. Dio però, senza togliergli le sue sofferenze, anzi annunziandogliene di più grandi, gli rinnova la S ua chiamata, chiedendogli di abbandonarsi interamente a Lui.
In una drammatica e celebre “confessione” (20,7-18) che precede di qualche versetto questo brano, il profeta si lamenta con Dio con parole accorate: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso»….., di averlo attratto con l'inganno, affidandogli un annunzio di sventura che non si è attuato, e di averlo così abbandonato allo scherno dei suoi avversari (vv. 7-8). Egli afferma poi di aver voluto rinunziare a parlare in nome di DIO, «Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo». La sua reazione è quella di un innamorato che si riconosce impotente di fronte alla forza dell’amore
A questo punto inizia il brano liturgico in cui Geremia denunzia le macchinazioni che vengono fatte contro di lui. Anzitutto rivela che molti riprendono con sarcasmo il suo messaggio di minaccia:
«Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo”. La sventura che egli annunzia è l’imminente conquista di Gerusalemme da parte dei babilonesi e la sua distruzione, che egli presenta come castigo di DIO per i peccati del popolo.
Geremia immagina il pensiero dei suoi amici che spiano la sua caduta: ”Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta”. Se questi “amici” erano le persone di cui lui si fidava, cosa dovevano essere i nemici! Geremia sperimentò così anche l'offesa e il dolore atroce del tradimento. L’abbattimento morale del profeta dovette durare a lungo ed essere ben visibile ai suoi avversari, i quali osservano le sue sofferenze ma con l’intento di coglierlo in fallo, cioè di fargli dire qualcosa di compromettente per riferirlo poi alle autorità e così demolirlo definitivamente.
“Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile”.
Qui sembra che il cielo si spalanchi, il Signore appare accanto al suo profeta umiliato ed emarginato e gli offre la sua protezione quasi militare, lui che è il «prode» difensore dei deboli e dei poveri.
Geremia aveva certamente presente la promessa fattagli dal Signore al momento della sua vocazione
«Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti” (1.19) e questo lo rende sicuro della sua vittoria. Egli sa che il Signore è giudice implacabile e inesorabile nei confronti di chi ha violato i diritti dei suoi assistiti. Guidato dalla sua incrollabile fiducia in Dio, Geremia fa una preghiera,
“Signore degli eserciti, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa!”
Il profeta sa che il Signore è “colui che prova il giusto e scruta il cuore e la mente” ( la prerogativa del Dio di Israele è precisamente quella di non fermarsi alle apparenze, ma di scrutare il cuore e la mente, cioè l’intimo dell’uomo) ed è certo di fare gli interessi di Dio e quindi non ha paura del Suo giudizio. A Dio egli chiede di poter vedere la sua vendetta sui suoi avversari, poiché a Lui ha affidato la sua causa. Egli non pensa di vendicarsi personalmente, ma attende da Dio la vendetta, cioè la giusta punizione dei suoi persecutori. E per di più chiede una vendetta che riguarda non lui personalmente, ma Dio. Egli si è talmente identificato con Lui da ritenere che la sua causa non è altro che la causa di Dio e la sua vendetta la vendetta di Dio!!. Qui è evidente che il profeta sembra avere un eccesso di zelo, in quanto dimentica che Dio non vuole arrivare alla vendetta, ma al perdono.
Il brano termina con un invito a cantare inni al Signore “perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori”.
Ma subito dopo, nei versetti non riportati dalla liturgia, il profeta prorompe in una terribile maledizione, imprecando persino contro il giorno in cui è nato (vv. 14-18).
Questo brano è il più drammatico delle confessioni, perché vi appare il rifiuto non solo della vita, ma anche e soprattutto della vocazione profetica, che aveva ricevuto fin dal seno materno (1,5).
Le confessioni di Geremia mettono in luce la profonda umanità del profeta. Egli non è un uomo violento o aggressivo, se ne starebbe volentieri per proprio conto, non cerca notorietà o potere. Invece è coinvolto in una situazione drammatica, nella quale è costretto, per il bene dei suoi connazionali, ad annunziare una terribile sciagura che potrà essere evitata solo con un gesto che poteva sembrare un tradimento della patria: aprire le porte ai nemici.
La sofferenza più grande del profeta non è stata quella di essere incompreso e perseguitato, ma di vedere avvicinarsi la rovina del suo popolo senza poterla impedire.
Geremia si può dire che è il profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù. Quando si sente abbandonato sembra scorgere in lui il Cristo nell’orto del Getsemani. Egli rimane per il suo popolo, ed anche per tutti i cristiani, un testimone della speranza e fedeltà alla propria vocazione nonostante le sofferenze fisiche e morali.

Salmo 68 - Nella tua grande bontà rispondimi, o Dio.
Per te io sopporto l’insulto e la vergogna mi copre la faccia;
sono diventato un estraneo ai miei fratelli,
uno straniero per i figli di mia madre.
Perché mi divora lo zelo per la tua casa,
gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me.

Ma io rivolgo a te la mia preghiera,
Signore, nel tempo della benevolenza.
O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi,
nella fedeltà della tua salvezza.
Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore;
volgiti a me nella tua grande tenerezza

Vedano i poveri e si rallegrino;
voi che cercate Dio, fatevi coraggio,
perché il Signore ascolta i miseri
non disprezza i suoi che sono prigionieri.
A lui cantino lode i cieli e la terra,
i mari e quanto brùlica in essi.

La lettura attenta del salmo porta a datarlo al tempo di Ezechia, dopo la campagna di Sennacherib contro la Giudea e il fallito assedio di Gerusalemme (ca. 701) a causa di un’epidemia nell’esercito (2Re 18,13s.35). L’azione militare di Sennacherib aveva devastato la Giudea. Gli annali di Sennacherib rivelano che furono espugnate 46 città. In questo contesto il pio giudeo del salmo si trova ad urtare contro coloro che guardano all’Egitto come soluzione dei mali nazionali mettendo in dubbio Dio, la fedeltà di Dio, e abbracciando il relativismo religioso. Il pio giudeo prega, digiuna, indossa un abito di sacco, segno penitenziale, e zela per la “casa del Signore”, cioè il tempio, e ciò che il tempio significa. Egli propone la conversione a Dio e ha un certo numero di persone che guardano a lui. E’ il tempo della benevolenza, cioè l’anno sabbatico, ed egli spera la pace nei cuori: “Ma io rivolgo a te la mia preghiera, Signore, nel tempo della benevolenza”. Per noi il tempo della benevolenza è quello che ha promulgato Cristo e che durerà sino alla fine del mondo (Cf. Mt 4,19). Il pio giudeo però è osteggiato e perseguitato da molti; proprio a causa della sua fede. Viene beffeggiato e deriso nella sua azione penitenziale, e quando entra a Gerusalemme quelli che mercanteggiano e sostano divertendosi alla porta, dalla quale passa per entrare in città, lo deridono, senza che alcuno si metta dalla sua parte: “Sparlavano di me quanti sedevano alla porta, gli ubriachi mi deridevano”. La sua situazione si presenta drammatica perché viene calunniato di furto: “Quanto non ho rubato, dovrei forse restituirlo?”. Tutto ciò gli ha creato il vuoto attorno: “Sono diventato un estraneo ai miei fratelli, un straniero per i figli di mia madre“. Egli avverte tutta la sua debolezza e invoca Dio affinché gli dia forza, poiché non vuole diventare una delusione per coloro che fanno riferimento a lui: “Per causa mia non si vergogni chi ti cerca, Dio d’Israele”. Le espressioni che usa per presentare a Dio la sua situazione sono di un’intensità pari alla drammaticità della sua situazione: “L’acqua mi giunge alla gola. Affondo in un abisso di fango, non ho nessun sostegno... Sono sfinito dal gridare, la mia gola è riarsa…”. Ma il pio giudeo non desiste dalla preghiera, dalla fiducia in Dio; ed è sostenuto dalla speranza che Dio continuerà a difendere Sion, e che le città di Giuda saranno riedificate: “Perché Dio salverà Sion, ricostruirà le città di Giuda”. Questa speranza rimarrà nel nucleo fervente d’Israele anche quando, a causa dei peccati e della loro mancata penitenza, Israele sperimenterà la distruzione di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Riguardo la Chiesa, di cui Sion è una figura, risuonano queste parole di Gesù: (Mt 16,18) “Le potenze degli inferi non prevarranno su di essa”.
Questo salmo è ricco di profezia riguardo le sofferenze di Cristo (Cf. Gv 2,17; 15,25).
Commento tratto da “Perfetta Letizia”

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato…
Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti.
Rm 5,12-15

Nei primi 4 capitoli della Lettera ai Romani, Paolo ha affrontato la giustificazione che si ottiene mediante la fede e non più attraverso l'osservanza della legge. Questo brano tratto dal capitolo 5 rappresenta l’ultimo anello della lunga esposizione riguardante la giustificazione mediante la fede che aveva avuto inizio al capitolo 1. In esso l’apostolo, dopo aver messo in luce la prospettiva escatologica della giustificazione (vv. 1-11), passa a trattare il tema della vittoria sul peccato che essa comporta (vv. 12-21). Egli aveva già affrontato questo secondo tema quando, dopo aver descritto la rivelazione dell’ira di Dio, causata appunto dal peccato dell’uomo, aveva presentato l’opera di Cristo come una redenzione e una espiazione (3,21-26). Ora lo riprende sottolineando come la liberazione dal peccato implichi il passaggio dell’uomo dalla solidarietà con l’umanità peccatrice (vv. 12-14) alla solidarietà con Cristo (vv. 15-19).
Il brano inizia con questa affermazione: “come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato”.
In questo versetto la situazione in cui si trovava l’umanità prima di Cristo viene descritta alla luce di quanto la Genesi dice di colui che è stato il primo peccatore. Il brano inizia con un “come” esemplificativo, mediante il quale Paolo ricollega quanto sta per dire al brano precedente, indicando così l’intenzione di dare ulteriori spiegazioni circa il ruolo svolto da Cristo nella riconciliazione dell’umanità con Dio. L’apostolo prosegue con un “così”, che introduce il confronto tra Adamo e Cristo.
Dopo aver qualificato Adamo come colui che ha introdotto il peccato e la morte nel mondo, Paolo prosegue con il secondo termine di paragone, cioè la figura e il ruolo di Cristo, ma approfondisce ulteriormente le conseguenze del gesto di Adamo. Il peccato di Adamo ha avuto effetti devastanti in quanto tutti gli uomini, con i loro peccati personali, si sono resi partecipi e corresponsabili di quella situazione di morte a cui egli ha dato inizio.
Dopo aver segnalato l’ingresso nel mondo del peccato e della morte, Paolo prosegue: “Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, …La situazione di peccato e di morte determinata dal primo uomo si è protratta fino al momento in cui Dio ha conferito la legge a Israele.
Paolo pone però un’obiezione: come è possibile ciò “se il peccato non può essere imputato quando manca la legge?” Se non c’è una legge che proibisce una certa azione, il commetterla non può essere considerato come peccato, se si intende per peccato la trasgressione di un precetto. Ma per Paolo non esiste nessun essere umano che non abbia avuto, se non la legge mosaica, almeno qualcosa di simile: tutti infatti hanno conosciuto Dio, venendo così a conoscere quella legge morale che hanno trasgredito.
Perciò risponde all’obiezione osservando che “la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo”. Ossia siccome la morte, vista come un fatto non solo fisico ma anche spirituale, ha manifestato i suoi effetti devastanti anche su coloro che non avevano ricevuto come Adamo un precetto esplicito, ciò è sufficiente per dire che anch’essi non sono esenti dal peccato. Dopo aver nominato espressamente due volte il nome di Adamo, Paolo aggiunge che egli “è figura di colui che doveva venire”. Con queste parole riporta il discorso all’intenzione originaria, che era quella di confrontare Adamo con Cristo.
Tutti gli uomini si sono resi corresponsabili del peccato commesso dal primo uomo, cioè si sono lasciati liberamente coinvolgere nella situazione che da lui ha avuto origine.
Paolo sviluppa la sua dimostrazione mediante tre argomenti. Anzitutto egli afferma: “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti”.
La superiorità di Cristo su Adamo appare anzitutto dal fatto che “il dono di grazia” non è come la “caduta”: infatti se la caduta di uno solo ha fatto sì che “tutti” morissero, molto di più grazie a un solo uomo, Gesù Cristo, la grazia di Dio ha abbondato “su tutti”. In altre parole, proprio per la sua funzione di Uomo (Figlio dell’uomo, nuovo Adamo), Cristo ha portato a tutta l’umanità una realtà di grazie che supera immensamente la realtà di morte di cui è stato portatore Adamo.
Paolo non pensa dunque che il peccato di Adamo si trasmetta misteriosamente da lui a ognuno dei suoi discendenti, ma lo considera come l’inizio di una “situazione di peccato” in cui tutti, non senza loro colpa e con le debite eccezioni, sono coinvolti.
Circa Adamo e il suo peccato, Paolo riprende questa suggestiva immagine biblica per mostrare come Dio abbia inviato un nuovo Adamo, capostipite di un’umanità riconciliata, al quale ognuno è chiamato ad associarsi mediante la fede.
Riguardo al rapporto tra peccato e morte, Paolo non vuole certo affermare che, senza il peccato di Adamo, la morte in senso fisico non sarebbe esistita, al contrario egli ritiene che, a causa del peccato, la morte cambi profondamente significato: senza di esso l’uomo avrebbe terminato la sua esistenza terrena nella comunione con Dio e nella serena fiducia di una sopravvivenza in Lui; il peccato, invece, fa sì che la morte diventi il simbolo e il marchio del suo fallimento, trasformandola quindi in una realtà ostile, che l’uomo tende continuamente a rimuovere.
In questa sua opera, che lo accomuna al Servo del Signore, Gesù appare come il nuovo Adamo da cui ha origine un’umanità riconciliata con Dio.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.
E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:voi valete più di molti passeri!
Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Mt 10,26-33

Questo brano tratto dal capitolo 10 del Vangelo di Matteo continua il discorso missionario che Gesù fa ai suoi discepoli prima di inviarli in missione. Matteo raccoglie una serie di massime, che mettono in luce l’atteggiamento che il discepolo deve assumere di fronte alle pressioni che gli vengono dall’esterno.
Gesù inizia con l’invitare il discepolo a non temere coloro che lo perseguitano:
“Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto”.
Dai termini usati possiamo capire che quanto viene detto si rifà al genere apocalittico: Dio rivela gli avvenimenti futuri al suo inviato, affinché li scriva in un libro che sarà letto quando staranno per avverarsi. La persecuzione degli apostoli, come è detto nel versetto precedente,(non riportato dalla liturgia) sarà inevitabile: “è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (Mt 10,25).
Quello che si afferma in questo versetto è in sintonia con quanto detto nei versetti precedenti. Il discepolo deve raggiungere il livello del suo maestro, deve essere disponibile ad annunciare il vangelo con tutta franchezza, senza lasciarsi intimorire dalle minacce dei suoi oppositori.
Gesù fa un altro invito ai discepoli: “Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze”.
L'insegnamento di Gesù ha sempre qualcosa di misterioso, qualcosa che Egli dice ai suoi discepoli e non alle folle (es. l'utilizzo delle parabole invece dei discorsi espliciti, Mt 13,10-11), ma questo messaggio Lui vuole che deve essere poi predicato dalle terrazze che fanno da tetto alle case della Palestina, cioè da luoghi alti e scoperti, in modo che tutti lo possano sentire.
Infine Gesù invita i discepoli a non avere “paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”; ma piuttosto di “colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo”.
Egli così prospetta loro la possibilità di una morte violenta, ma li esorta a non temere gli uomini che possono al massimo privarli della vita fisica. Devono temere piuttosto Dio che nel giudizio può condannarli alla dannazione eterna nell'inferno (= geenna). La vita terrena non è nulla in confronto alla vita imperitura che il Padre darà loro in cielo.
Benché Matteo distingua l'anima dal corpo, non prende in considerazione l'esistenza dell'anima separata dal corpo dopo la morte, cioè nel tempo intermedio prima della parusia di Gesù. Per il semita è inconcepibile la vita senza il corpo. Il detto si riferisce quindi alla totalità della vita dell'uomo, che può essere conservata da Dio anche dopo la morte.
L’esortazione si prolunga in un detto riguardante positivamente la fiducia.
Gesù afferma: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro”
Il "soldo" è la moneta romana più piccola. Il passero, il piccolo uccello mangiato dai poveri, era il genere di carne meno cara che si poteva trovare sul mercato. Eppure la caduta a terra del passero, cioè la sua morte, non avverrà senza che Dio lo sappia e lo permetta. Se Dio si prende cura dei passeri, quanta maggiore cura avrà per gli uomini!
E prosegue “Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura:voi valete più di molti passeri!
Gesù illustra con questi esempi la cura premurosa di Dio per i discepoli: essi non potranno subire alcun danno senza che egli lo permetta, e se lo permette ciò è certamente per poter attribuire loro un bene maggiore.
Gli ultimi due versetti contengono un parallelismo antitetico: “chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli.“
Il detto riguarda la confessione pubblica di Gesù, (quella che Pietro non aveva saputo fare al momento del processo), e nell’annunzio del vangelo. Si può notare che mentre nel detto precedente Gesù parlava di Dio come “Padre vostro”, ora lo definisce “Padre mio”. Il richiamo insistente del Padre richiama il motivo della paternità divina che rappresenta la novità centrale del messaggio evangelico: Gesù ha fatto per primo l’esperienza del rapporto speciale che Dio ha stabilito con l’umanità e l’ha comunicata ai suoi discepoli.
La bontà di Dio deve essere di conforto e di incoraggiamento nelle sofferenze e nella morte che aspettano i discepoli e con Dio nel cuore la paura non ha più ragione di essere.
È vero che Gesù accenna al timore che bisogna avere per “colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo“, ma questo riferimento alla paura serve a sottolineare la responsabilità del discepolo e a fargli capire che il rinnegare può avere conseguenze negative sia per lui stesso che per gli altri. Non deve però essere la paura a motivare le sua scelte, ma la fiducia nel Padre e soprattutto la solidarietà con Gesù, il quale ha dimostrato che proprio attraverso la sofferenza si attua la salvezza.
In questo senso Gesù è il modello e la guida di tutti coloro che cercano Dio. Rinnegare Gesù, quando lo si è conosciuto, significa rifiutare il progetto divino di salvezza.

*****

“Nel Vangelo di questa domenica risuona l’invito che Gesù rivolge ai suoi discepoli a non avere paura, ad essere forti e fiduciosi di fronte alle sfide della vita, preavvisandoli delle avversità che li attendono.
Il brano odierno fa parte del discorso missionario, con cui il Maestro prepara gli Apostoli alla prima esperienza di annuncio del Regno di Dio. Gesù li esorta con insistenza a “non avere paura”. La paura è uno dei nemici più brutti della nostra vita cristiana. Gesù esorta: “Non abbiate paura”, “non abbiate paura”. E Gesù descrive tre situazioni concrete che essi si troveranno ad affrontare.
Anzitutto, la prima, l’ostilità di quanti vorrebbero zittire la Parola di Dio, edulcorandola, annacquandola, o mettendo a tacere chi la annuncia. In questo caso, Gesù incoraggia gli Apostoli a diffondere il messaggio di salvezza che Lui ha loro affidato. Per il momento, Lui lo ha trasmesso con cautela, quasi di nascosto, nel piccolo gruppo dei discepoli. Ma loro dovranno dire “nella luce”, cioè apertamente, e annunciare “dalle terrazze” – così dice Gesù – cioè pubblicamente, il suo Vangelo.
La seconda difficoltà che i missionari di Cristo incontreranno è la minaccia fisica contro di loro, cioè la persecuzione diretta contro le loro persone, fino all’uccisione. Questa profezia di Gesù si è realizzata in ogni tempo: è una realtà dolorosa, ma attesta la fedeltà dei testimoni. Quanti cristiani sono perseguitati anche oggi in tutto il mondo! Soffrono per il Vangelo con amore, sono i martiri dei nostri giorni. E possiamo dire con sicurezza che sono più dei martiri dei primi tempi: tanti martiri, soltanto per il fatto di essere cristiani. A questi discepoli di ieri e di oggi che patiscono la persecuzione, Gesù raccomanda: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima». Non bisogna lasciarsi spaventare da quanti cercano di spegnere la forza evangelizzatrice con l’arroganza e la violenza. Nulla, infatti, essi possono contro l’anima, cioè contro la comunione con Dio: questa, nessuno può toglierla ai discepoli, perché è un dono di Dio. La sola paura che il discepolo deve avere è quella di perdere questo dono divino, la vicinanza, l’amicizia con Dio, rinunciando a vivere secondo il Vangelo e procurandosi così la morte morale, che è l’effetto del peccato.
Il terzo tipo di prova che gli Apostoli si troveranno a fronteggiare, Gesù la indica nella sensazione, che alcuni potranno sperimentare, che Dio stesso li abbia abbandonati, restando distante e silenzioso. Anche qui esorta a non avere paura, perché, pur attraversando queste e altre insidie, la vita dei discepoli è saldamente nelle mani di Dio, che ci ama e ci custodisce. Sono come le tre tentazioni: edulcorare il Vangelo, annacquarlo; seconda, la persecuzione; e terza, la sensazione che Dio ci ha lasciati da soli. Anche Gesù ha sofferto questa prova nell’orto degli ulivi e sulla croce: “Padre, perché mi hai abbandonato?”, dice Gesù. Alle volte si sente questa aridità spirituale; non ne dobbiamo avere paura. Il Padre si prende cura di noi, perché grande è il nostro valore ai suoi occhi. Ciò che importa è la franchezza, è il coraggio della testimonianza, della testimonianza di fede: “riconoscere Gesù davanti agli uomini” e andare avanti facendo del bene.
Maria Santissima, modello di fiducia e di abbandono in Dio nell’ora dell’avversità e del pericolo, ci aiuti a non cedere mai allo sconforto, ma ad affidarci sempre a Lui e alla sua grazia, perché la grazia di Dio è sempre più potente del male.”

Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 21 giugno 2020

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

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