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S.Messe (settimana)
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Questa domenica, la prima che viene tra il Natale e il primo dell'anno, si celebra la festa della santa Famiglia di Nazareth con la speranza che in questo periodo la gente non sia troppo distratta dalle feste natalizie e quindi poco disposta a fissare l'attenzione sulla icona della santa Famiglia, esempio e modello di ogni famiglia cristiana e umana. Comunque la liturgia con le letture che ci propone ci dà preziosi insegnamenti, sempre validi in ogni tempo.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del Siracide, vengono raccomandati i doveri dei figli verso i genitori: Onorare il padre, la madre... prendersi cura di loro nella vecchiaia e anche quando dovessero perdere il senno. Frutti di questi gesti di pietà: Il Padre celeste esaudirà la preghiera, concederà lunga vita, donerà gioia dai figli...
Nella seconda lettura S. Paolo, scrivendo ai Colossesi, consiglia ad ogni famiglia di vivere nel Signore. Il vero legame della famiglia cristiana non sono tanto i sentimenti che passano, tramontano e cambiano, quanto quella comunione profonda che avviene tra i coniugi nella fede nel Signore Gesù che insegna a onorare, amare e rispettare nell'altro/a la sua immagine.
Il brano del Vangelo di Matteo ci ricorda come la famiglia di Nazareth non fu estranea alla sofferenza: la persecuzione di Erode la costrinse già nei primi giorni di vita di Gesù, ad affrontare rischi e disagi che non intaccarono la fede di Maria e di Giuseppe. Questo brano è un invito per le famiglie credenti a vedere in Giuseppe un modello straordinario da imitare, un uomo consapevole delle proprie responsabilità, totalmente distaccato dai propri interesse, che accetta con fede l’invito del Signore a mettersi in cammino, per difendere la vita della sua famiglia e vegliare su di essa.

Da libro del Siracide
II Signore ha glorificato il padre al di sopra dei figli
e ha stabilito il diritto della madre sulla prole.
Chi onora il padre espìa i peccati e li eviterà
e la sua preghiera quotidiana sarà esaudita.
Chi onora sua madre è come chi accumula tesori.
Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli
e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera.
Chi glorifica il padre vivrà a lungo,
chi obbedisce al Signore darà consolazione alla madre.
Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia,
non contristarlo durante la sua vita.
Sii indulgente, anche se perde il senno,
e non disprezzarlo, mentre tu sei nel pieno vigore.
L’opera buona verso il padre non sarà dimenticata,
otterrà il perdono dei peccati, rinnoverà la tua casa.
Sir 3,3-7.14-17a (NV) [gr. 3,2-6.12-14]

Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo.
È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C. .
È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.
Nel prologo l'anonimo nipote dell'autore spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C..
Fatta questa premessa, per comprendere meglio lo stile dell’aurore, si può dire che in questo brano, Siracide cerca di spiegare ai figli già adulti i due aspetti presenti già in Esodo 20.12: Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio. Mettendo in pratica il primo tema si sottolinea che onorare, riverire, soccorrere, compatire nella vecchiaia i genitori, è adempimento del volere di Dio, è come obbedire al Signore. Il secondo tema è invece sviluppato e spiritualizzato in relazione al testo dell’Esodo. L’osservanza del comandamento di Dio non solo dà lunga vita, ma è anche espiazione dei peccati e dà sicurezza di essere ascoltati nella preghiera, di avere gioia dai propri figli e, soprattutto, di non essere dimenticati da Dio.

Salmo 127 - Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie.

Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.

La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.

Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita!

Il salmo presenta l'intima gioia famigliare concessa da Dio all'uomo che lo teme e cammina nelle sue vie. “Teme il Signore”; non è qui il timor servile, cioè il timore di incorrere nella punizione che ha il servo di fronte al padrone, ma è il timore che un figlio deve avere verso un Padre buono. Il timore di Dio è principio di sapienza (Pr 1,7; 9,10; 15,23; Gb 28,28; Sir 1,14.16.18.20), cioè di conoscenza della parola di Dio nell'impegno di tradurla in viva esistenza, camminando così “nelle sue vie”.
"Della fatica delle tue mani ti nutrirai" cioè il tuo lavoro avrà buon esito.
“Nell'intimità della casa”, avrà gioia dalla sposa, presentata nella bella immagine di una vite feconda; feconda di gioia, di vivacità, di operosità e di affetto. A ciò si aggiunge la gioia data dai figli presentati come virgulto d'ulivo attorno alla mensa.
Il salmo presenta un'invocazione di benedizione sull'uomo giusto: “Ti benedica il Signore da Sion...”, dove Sion è il monte simbolo della stabilità delle promesse di Dio.
Veramente è giunta a noi la benedizione di Dio da Sion nel sacrifico redentore del Figlio.
Tale benedizione è per tutti i popoli, e ha costituito la Chiesa, chiamata ad estendersi su tutta la terra per l'avvento globale della civiltà dell'amore, che è la Gerusalemme messianica (Ap 21,9s), la Gerusalemme senza le mura (Zc 2,8) .
“Pace su Israele”, invoca il salmo. E noi diciamo pace sulla Chiesa, l'Israele di Dio (Gal 6,16); come pace - quella che sgorga dall'accoglienza di Cristo - invochiamo su l'Israele etnico, cioè secondo la carne (1Cor 10,18), e su tutti i popoli.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossesi
Fratelli, scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro.
Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!
La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori. E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre.
Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non trattatele con durezza. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino.
Col 3,12-21

La Lettera ai Colossesi, è stata scritta da S.Paolo durante la sua prigionia a Roma, attorno al 62; (altri esperti sostengono che l’autore della lettera sia un suo discepolo e che l’abbia scritta dopo la morte dell’Apostolo (64-67), verso fine I secolo). Probabilmente Paolo non si era mai recato a Colosse, che era una piccola cittadina che si trovava nella regione della Caria, nella zona sud-ovest dell'attuale Turchia (circa 124 km a nord di Efeso) e il Vangelo era stato portato lì da alcuni missionari da Efeso, fra questi Èpafra, al quale Paolo dà la sua approvazione all’inizio della lettera (1,7).
La comunità di Colossi era bene organizzata e celebrava regolarmente le riunioni liturgiche in casa di Ninfa e di Filemone. Però c'era un pericolo: alcuni "falsi maestri" andavano predicando la necessità di tornare ad alcune pratiche legate ai riti pagani: ricorrenze settianali, noviluni, culto degli angeli, tutte cose che stridevano con l'unicità di Dio e con la salvezza che viene dalla croce di Cristo. Paolo dunque nella sua lettera mette in guardia i Colossesi dal tornare a queste usanze e riafferma in modo deciso la centralità di Gesù Cristo all'interno della creazione.
Il brano inizia con l’esortazione:
”Fratelli, scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità,”
Paolo usa parole prese dal linguaggio battesimale. I battezzati sono stati scelti da Dio, quindi devono rimanere rivestiti di alcune virtù importanti che riguardano l'amore fraterno che scaturisce dall'amore gratuito e salvifico di Dio.
“sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi”.
Come i Colossesi anche noi oggi siamo chiamati a sopportaci e perdonarci a vicenda. Non è sempre facile, ma per riuscirci dobbiamo sempre tenere in mente che il Signore ci ha perdonato per primo, e per questo anche noi dobbiamo perdonare.
“Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!
Vi sono poi tre esortazioni più generiche, ma molto significative che definiscono la fisionomia spirituale e le strutture essenziali di una comunità di battezzati. La prima è la carità fraterna (agape), che viene definita “vincolo che unisce in modo perfetto”. La seconda esortazione richiama alla pace tra i membri dell'unico corpo di Cristo. Il vincolo dell'agape porta alla pace, ed è proprio la pace che il Messia è venuto a portare che deve suscitare nei cuori il rendimento di grazie.
E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre”.
Ma la lode di Dio non si deve limitare ai momenti celebrativi, bensì si estende ad ogni attività quotidiana,
ad ogni parola ad ogni opera. Tutto deve essere pervaso di gratitudine, riconoscenza verso il Padre per la salvezza che ha operato per noi per mezzo di Cristo.
Nei versetti che seguono Paolo , dà un vero e proprio codice di morale domestica, che viene chiamata tradizionalmente "codice o tavoletta domestica“, dove le mogli, i mariti e i figli devono avere rispetto reciproco:
“Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore.
L'esortazione riguardante le mogli si richiama alla norma morale dell'ambiente antico che apprezzava l'ordine stabilito dalla tradizione e dalle convenienze. Questo ordine richiedeva che le mogli fossero "sottomesse" ai mariti, ma questo può essere inteso in senso nuovo alla luce della fede, che non implica inferiorità o sudditanza.
“Voi, mariti, amate le vostre mogli e non trattatele con durezza”.
L'esortazione rivolta ai mariti può sembrare ovvia, ma dobbiamo pensare che al tempo in cui fu espressa, non era poi così chiaro che il marito dovesse amare la moglie, da qui deriva anche l'invito a non trattare con durezza le mogli, cosa che evidentemente succedeva spesso.
“Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore”.
Anche le indicazioni ai figli potrebbero sembrare superflue, ma danno una nuova motivazione all'obbedienza: non per paura né per obbligo, ma per la fede e l’amore nel Signore.
“Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino”.
Infine i padri vengono invitati a non trattare in modo troppo rigido i figli perché non perdano l'entusiasmo e la fiducia nella vita. Anche qui dobbiamo ricordare che i figli, anche se con buone intenzioni, venivano trattati molto duramente, talvolta ricorrendo a punizioni corporali pesanti, come è riportato nel Siracide (30,12 ).
Oggi come veri cristiani possiamo dire che il vero legame della famiglia non sono tanto i sentimenti che passano, tramontano e cambiano, quanto quella comunione profonda che avviene tra i coniugi (e dai coniugi viene comunicata, fatta vivere, ai figli) nella fede nel Signore Gesù che insegna a onorare, amare e rispettare nell'altro, o nell’altra, la Sua immagine. Si potrà naturalmente anche discutere, bisticciare, ma quello che conta è che alla fine di tutto prevalga l’amore, il rispetto e la solidarietà: sono questi i sentimenti che devono reggere tutte le famiglie del mondo.

Dal Vangelo secondo Matteo
I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».
Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio».
Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino».
Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».
Mt 2,13-15.19-23

Nel primo capitolo del suo Vangelo, Matteo per spiegare chi fosse Gesù, ha riportato prima il lungo elenco dei suoi ascendenti, poi di come Giuseppe assume la paternità legale di Gesù, nel secondo porta la nostra attenzione sul luogo dove avvenne la sua nascita, la stella e la ricerca affannosa dei Magi, il tranello di Erode, l’arrivo a Betlemme e alla casa, dove “videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono”.
Questa domenica dedicata alla Santa Famiglia, in questo brano Matteo racconta un fatto che vide protagonisti tutti e tre i membri di questa Famiglia: Giuseppe, Maria e Gesù. Fin dal principio la vita di Gesù non fu facile e l’evangelista ci tiene a sottolineare le analogie che vi furono tra l'esperienza di Mosè e quella di Gesù, il nuovo legislatore e liberatore del popolo di Israele.
Il brano inizia riportando:
“I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo». “
Appena i Magi partono, di nuovo l'angelo appare in sogno a Giuseppe per spingerlo a partire e lo fa in tono perentorio: Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto ….
L'Egitto, passato sotto il dominio romano nel 30 a.C., era fuori della giurisdizione di Erode. Da sempre era il luogo tradizionale in cui gli Ebrei avevano trovato rifugio. L'intenzione di Erode, un uomo estremamente spietato, ricorda la decisione del faraone di uccidere Mosè (Es 2,15).
“Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto”,
Come suo solito, Giuseppe esegue quanto gli viene ordinato, senza parlare. Giuseppe non risponde alla Parola con parole, ma con i fatti, eseguendo alla lettera il comando.
“dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio».
I tre rimasero in Egitto fino alla morte di Erode. Erode morì nel marzo-aprile del 4 a.C. (come si sa, i calcoli che stabilirono l'anno della nascita di Cristo furono poco esatti. Gesù nacque con tutta probabilità nel 7 a.C.).
Il brano di Osea citato si riferisce a Israele, visto come figlio di Dio. Qui il versetto è applicato a Gesù, il figlio di Dio per eccellenza, e dà la chiave di lettura di tutto questo brano. Gesù viene identificato con il popolo di Israele, che ha dovuto soffrire la schiavitù e la persecuzione in Egitto per poi entrare nella t“Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino»”.
L'angelo con le stesse parole invita Giuseppe a ritornare nella terra di Israele. Matteo è l'unico autore del NT a parlare di "terra d'Israele" e a parlare più spesso di "terra".
L’espressione “quelli che cercavano di uccidere il bambino” indica oltre ad Erode anche i capi dei sacerdoti e gli scribi, da lui consultati per sapere dove sarebbe nato il re di Giuda (Mt 2,3). Però Matteo in questo modo, sembra voler richiamare un passaggio della storia di Mosé: "Il Signore disse a Mosè in Madian: “Và, torna in Egitto, perché sono morti quanti insidiavano la tua vita!”. (Es 4,19). Gesù viene così paragonato non solo al popolo di Israele che deve vivere l'esodo dall'Egitto, ma anche a Mosè, la cui vita fu più volte perseguitata (innanzitutto con l'uccisione dei bambini ebrei da parte del faraone).
“Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea”
La situazione politica è mutata, ma non per questo più favorevole. I figli di Erode si sono divisi la terra d'Israele: Archelao ha potere sulla Giudea e la Samaria, Erode Antipa sulla Galilea e la Perea, Filippo sulla Gaulanitide e la Traconitide. Anziché tornare in Giudea, Giuseppe preferisce "ritirarsi“ in Galilea. Comincia qui la vita umile e ritirata nel quotidiano di Gesù, che durerà trent'anni. E' questo il mistero del Dio-con-noi che rende divina ogni quotidianità: nella fatica e nel riposo, nella gioia e nel dolore.
“e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».”
L’Evangelista vuole sottolineare questo particolare perché quel bambino “sarà chiamato Nazareno”, secondo le antiche profezie. Non è chiaro a quale profezia si riferisca Matteo, per lui il fatto che Gesù venisse da Nazareth, corrisponde però al piano di Dio, che Giuseppe nella sua fedeltà alla voce della coscienza, unita alla sua prudenza e saggezza umana compie in silenzio e senza indugi.
Gesù ripercorre la storia del popolo d’Israele come un nuovo Mosè che scampa la strage degli innocenti, permane in Egitto, ritorna in patria e va in esilio a Nazareth. Gesù è un messia solidale con il suo popolo, con la sofferenza di ogni uomo. Il cammino di Israele con Mosè era stato segnato dal peccato e dalla morte, Gesù grazie a Giuseppe “salvatore del Salvatore”, apre un nuovo cammino verso la vita senza fine.

 

*****

 

“In questa prima domenica dopo Natale, la Liturgia ci invita a celebrare la festa della Santa Famiglia di Nazareth. In effetti, ogni presepio ci mostra Gesù insieme con la Madonna e san Giuseppe, nella grotta di Betlemme. Dio ha voluto nascere in una famiglia umana, ha voluto avere una madre e un padre, come noi.
E oggi il Vangelo ci presenta la santa Famiglia sulla via dolorosa dell’esilio, in cerca di rifugio in Egitto. Giuseppe, Maria e Gesù sperimentano la condizione drammatica dei profughi, segnata da paura, incertezza, disagi (cfr Mt 2,13-15.19-23). Purtroppo, ai nostri giorni, milioni di famiglie possono riconoscersi in questa triste realtà. Quasi ogni giorno la televisione e i giornali danno notizie di profughi che fuggono dalla fame, dalla guerra, da altri pericoli gravi, alla ricerca di sicurezza e di una vita dignitosa per sé e per le proprie famiglie.
In terre lontane, anche quando trovano lavoro, non sempre i profughi e gli immigrati incontrano accoglienza vera, rispetto, apprezzamento dei valori di cui sono portatori. Le loro legittime aspettative si scontrano con situazioni complesse e difficoltà che sembrano a volte insuperabili. Perciò, mentre fissiamo lo sguardo sulla santa Famiglia di Nazareth nel momento in cui è costretta a farsi profuga, pensiamo al dramma di quei migranti e rifugiati che sono vittime del rifiuto e dello sfruttamento, che sono vittime della tratta delle persone e del lavoro schiavo. Ma pensiamo anche agli altri “esiliati”: io li chiamerei “esiliati nascosti”, quegli esiliati che possono esserci all’interno delle famiglie stesse: gli anziani, per esempio, che a volte vengono trattati come presenze ingombranti. Molte volte penso che un segno per sapere come va una famiglia è vedere come si trattano in essa i bambini e gli anziani.
Gesù ha voluto appartenere ad una famiglia che ha sperimentato queste difficoltà, perché nessuno si senta escluso dalla vicinanza amorosa di Dio. La fuga in Egitto a causa delle minacce di Erode ci mostra che Dio è là dove l’uomo è in pericolo, là dove l’uomo soffre, là dove scappa, dove sperimenta il rifiuto e l’abbandono; ma Dio è anche là dove l’uomo sogna, spera di tornare in patria nella libertà, progetta e sceglie per la vita e la dignità sua e dei suoi familiari.
Quest’oggi il nostro sguardo sulla santa Famiglia si lascia attirare anche dalla semplicità della vita che essa conduce a Nazareth. E’ un esempio che fa tanto bene alle nostre famiglie, le aiuta a diventare sempre più comunità di amore e di riconciliazione, in cui si sperimenta la tenerezza, l’aiuto vicendevole, il perdono reciproco. Ricordiamo le tre parole-chiave per vivere in pace e gioia in famiglia: permesso, grazie, scusa.
Quando in una famiglia non si è invadenti e si chiede “permesso”, quando in una famiglia non si è egoisti e si impara a dire “grazie”, e quando in una famiglia uno si accorge che ha fatto una cosa brutta e sa chiedere “scusa”, in quella famiglia c’è pace e c’è gioia. …
Vorrei anche incoraggiare le famiglie a prendere coscienza dell’importanza che hanno nella Chiesa e nella società. L’annuncio del Vangelo, infatti, passa anzitutto attraverso le famiglie, per poi raggiungere i diversi ambiti della vita quotidiana.
Invochiamo con fervore Maria Santissima, la Madre di Gesù e Madre nostra, e san Giuseppe, suo sposo. Chiediamo a loro di illuminare, di confortare, di guidare ogni famiglia del mondo, perché possa compiere con dignità e serenità la missione che Dio le ha affidato.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 29 dicembre 2013

Pubblicato in Liturgia
Domenica, 22 Dicembre 2019 19:40

NATALE DEL SIGNORE - 25 dicembre 2019

Siamo giunti a Natale con tutto il carico di gioie e dolori che abbiamo accumulato anche quest’anno che fra poco terminerà.
Un’antica consuetudine prevede per questo giorno di festa tre messe, dette la prima “della notte”, la seconda “dell’aurora” e la terza “del giorno”. In ognuna, tramite le letture proposte, viene presentato un’immagine diversa del mistero, in modo da avere di esso una visione in un certo senso tridimensionale.
La Messa della Notte, ci presenta la nascita di Gesù e le circostanze in cui avvenne.
La Messa dell’aurora, con i pastori che vanno a Betlemme, ci indica quale deve essere la nostra risposta al richiamo degli angeli: andare senza indugio anche noi ad adorare il bambino.
La Messa del giorno è riservata ad una riflessione più approfondita del mistero.
Nelle prime due messe era l’evangelista Luca a narrarci la nascita di Gesù da Maria, mentre la Messa del giorno, è l’evangelista Giovanni con il glorioso inno del Prologo del suo Vangelo a rivelarci la realtà di Colui che è nato: il Verbo eterno di Dio esistente prima della creazione del mondo.
Vi allego le presentazioni della prima e terza messa e come lo scorso anno mi sento di fare il bilancio del cammino percorso che segna il ritmo della mia e in un certo senso anche della vostra vita. E’ sempre forte il desiderio di ringraziarvi perchè grazie a voi, ed anche a coloro che non conosco personalmente, mi sento spinta ad andare avanti nel cammino della conoscenza e più vado avanti e più mi rendo conto di non conoscere abbastanza, comprendo solo che siamo circondati dal Mistero, da un gran Mistero di Amore che se ancora non possiamo comprendere pienamente, possiamo però liberamente e incondizionatamente amare.

 

*****

Messa della Notte


Dal libro del profeta Isaia
Il popolo che camminava nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia,hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete
e come si esulta quando si divide la preda.
Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva,
la sbarra sulle sue spalle,
e il bastone del suo aguzzino,
come nel giorno di Madian.
Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando
e ogni mantello intriso di sangue
saranno bruciati, dati in pasto al fuoco.
Perché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà:
Consigliere mirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace.
Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine
sul trono di Davide e sul suo regno,
che egli viene a consolidare e rafforzare
con il diritto e la giustizia, ora e per sempre.
Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.
Is 9,1-6

Isaia (il cui nome in ebraico vuol dire Jahvè salva ) nacque verso il 770 a. C., probabilmente a Gerusalemme, città che conosceva molto bene. Si pensa appartenesse a una famiglia aristocratica, date le strette relazioni con la corte di Giuda. Era sposato con una profetessa e padre di almeno due figli.
Profetizzò per circa 60 anni. Fu chiamato a diventare profeta “nell’anno della morte del re Uzzia” (6:1) e cioè intorno al 740 a. C. e il libro che porta il suo nome riporta in modo emozionante questa chiamata alla quale Isaia risponde immediatamente proclamando il suo messaggio con tono vivo e incisivo.
Durante il suo ministero Isaia assiste alla crescente minaccia degli Assiri, vede la caduta di Samaria e del regno del Nord nel 721 a.C. e passerò alla storia come colui che ha mantenuto la speranza durante l’assedio di Gerusalemme nel 701 a.C. Fra tutti questi avvenimenti Isaia proclama una certezza che per lui è folgorante: la grandezza e la santità di Dio. Forte di questa sicurezza affronta i potenti che considera i primi responsabili dello sfaldamento politico e religioso. Patriota ardente, Isaia crede nella perennità di Gerusalemme e nel ceppo dinastico inaugurato da Davide. Qualunque cosa accada, la discendenza di Davide e il popolo di Dio non possono perire definitivamente. L’Alleanza rimane e un “Resto” sopravvivrà per portare la promessa del Signore a tutte le genti. Animato da questa convinzione Isaia diviene il cantore del Messia, egli sarà il vero rappresentante di Dio e su lui si poserà lo Spirito del Signore.
Il questo celebre brano, Isaia, dopo le minacce e i tristi presagi che prima aveva espresso, si apre ad un canto di speranza e di liberazione per confortare gli ebrei deportati dal Re di Assiria nel 732 a.C. (2Re 15,29). All’umanità che cammina nelle tenebre, simbolo del nulla e del male, annuncia che apparirà una grande luce, che il profeta accompagna con tre grandi promesse.
La prima è la gioia, una felicità primitiva, intatta, quasi istintiva e genuina: “come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda.”
La seconda sorpresa della luce di Dio è rappresentata dalla pace e dalla libertà : “Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva,la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Madian.” Le catene, le sbarre, i bastoni dei torturatori e degli oppressi sono finalmente spezzati dal Signore dei poveri e degli oppressi,
Ma la sorpresa più straordinaria è la terza: “un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”. Un bimbo straordinario, segno di un mondo nuovo, i cui nomi saranno: “Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace.”.
Questo principe senza pari, sapiente come Salomone, coraggioso come Davide, di cui assicura la successione, inaugura il tempo della felicità. La certezza e la gioia dissipano ora il dolore.
Il profeta Isaia, sette secoli prima di Cristo, oltre ad anticiparci il giubilo per i giorni in cui il Messia si manifesterà e dissiperà le tenebre, per la natività di Colui che porterà sulla terra la pace, ci lascia anche percepire qualche cosa del mistero e della missione del Cristo.

Salmo 96 (95) Oggi è nato per noi il Salvatore.

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.

Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.
Gioiscano i cieli, esulti la terra,
risuoni il mare e quanto racchiude;
sia in festa la campagna e quanto contiene,
acclamino tutti gli alberi della foresta

Davanti al Signore che viene:
sì, egli viene a giudicare la terra;
giudicherà il mondo con giustizia
e nella sua fedeltà i popoli.

Il salmo è un invito all'assemblea dei popoli a riconoscere la grandezza di Dio. L'universalismo del salmo ha come base l'unicità di Dio, e la consapevolezza che tutti i popoli della terra hanno un'origine comune, e che, allontanatisi da Dio, ne hanno in qualche misura un ricordo nelle loro concezioni religiose, infettate di politeismo e di idolatria. Ora Dio chiama a raccolta tutte le famiglie dei popoli a ritornare a lui (Cf. Ps 21,28), che ha formato un popolo quale suo testimone, radunato attorno al tempio di Gerusalemme.
Il popolo di Israele è invitato a diffondere la conoscenza del vero Dio in mezzo ai popoli. Una certezza deve avere Israele, che egli è “terribile sopra tutti gli dei”, e che “tutti gli dei dei popoli sono un nulla”. Dietro gli dei concepiti dalle nazioni sono presenti i demoni sui quali Dio esercita pieno dominio.
L'invito ai popoli non è solo quello di aprirsi a Dio, ma di andare pellegrini “nei suoi atri”, e prostrarsi davanti a lui. Il “suo atrio santo”, sono quelli del tempio di Gerusalemme. I “sacri ornamenti”, sono vesti degne del tempio.
Tutta la terra deve essere presa dal timore di Dio: “Tremi davanti a lui tutta la terra”.
L'annuncio di Israele ai popoli deve affermare la regalità di Dio su di loro: “Dite tra le genti: ”.
Egli è colui che con la sua provvidenza regge il mondo, e agisce con giustizia sui popoli: “È stabile il mondo, non potrà vacillare! Egli giudica i popoli con rettitudine”.
Il Signore “viene a giudicare la terra”; questo avverrà con la venuta di Cristo, re di giustizia e di pace il quale affermerà la giustizia (Cf. Ps 93). “Viene”, dice il salmista. Ora è venuto il Cristo, il Figlio di Dio incarnatosi nel grembo verginale di Maria. Egli viene continuamente con la sua grazia (Ap 1,8); poi, alla fine del mondo, verrà per il giudizio finale: “Giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli”. “Nella sua fedeltà”, cioè per dare la risurrezione gloriosa a coloro che lo hanno accolto.
Difficile poter dire la data di composizione del salmo; probabilmente è stato scritto in un tempo di grande compattezza di Israele, poco dopo la costruzione del tempio di Salomone, prima che avvenisse lo scisma delle tribù del nord (1Re 11,26s).
Commentodi P.Paolo Berti

Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito
Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.
Tt 2,11-14

Durante la sua prigionia a Roma attorno all’anno 66, è possibile che Paolo, o un suo discepolo qualche anno dopo, abbia scritto questa lettera a Tito, collaboratore di Paolo e da lui convertito. Tito fu presente alla grande assemblea di Gerusalemme (50 d.C.) e Paolo lo prepose alla comunità cristiana di Creta quale “vescovo”. La lettera a Tito fa parte del gruppo delle tre lettere "pastorali" (La lettera a Tito e le due a Timoteo), così chiamate perché rivolte a dei capi responsabili di comunità con un discorso di carattere ufficiale e autorevole che riguarda l'intera comunità. Più che delle lettere sembrano delle raccolte di norme per l'organizzazione della comunità, di consigli per le varie categorie di persone e suggerimenti generali per la vita pratica o la soluzione di problemi ecclesiali..
Nella lettera a Tito si trovano due brani che fanno riferimento all'incarnazione del Verbo di Dio e per questo motivo sono inserite nella liturgia di Natale.
In questo brano Paolo indica a Tito il motivo per cui deve impegnarsi a fondo nella sua opera pastorale. Egli si riferisce a un evento di importanza determinante per tutta l’umanità: “è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”. Tutto è cominciato per iniziativa di Dio, il quale ha manifestato la Sua grazia, cioè la Sua bontà e il Suo amore conferendo la “salvezza” a tutti gli uomini. Tramite la Sua grazia, Dio ha dato una profonda regola di vita: “ ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo”. L’insegnamento di Dio non consiste in norme o leggi imposte con la sua autorità, ma in una istruzione analoga a quella data dai saggi, che si incarna nella vita e nell’esperienza umana. L’insegnamento di Dio ha come effetto una rottura con il passato, che consiste nel rinnegamento dell’empietà, cioè della negazione di Dio, e dei desideri mondani cioè dell’attaccamento alle cose di questo mondo. In positivo esso dà al credente la possibilità di vivere in questo mondo con sobrietà, giustizia e pietà, cioè esercitando correttamente il proprio rapporto con se stesso, con il prossimo e con Dio. Da questo dono di Dio in Cristo deriva per i credenti la possibilità di distaccarsi dai desideri egoistici tipici dell’umanità per vivere una vita santa. L’esercizio delle virtù non deriva dunque né dalla legge né dallo sforzo della volontà, ma da un dono interiore che trasforma l’uomo cambiando in profondità la sua mentalità e spingendolo spontaneamente al bene.

Dal Vangelo secondo Luca
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».
Lc 2,1-14

Luca, riporta nel secondo capitolo del suo Vangelo fatti storici paralleli a quelli umili in cui stava per nascere il Figlio di Dio. Non si può fare a meno di considerare che mentre a Roma si decidevano le sorti del mondo, mentre le legioni romane mantenevano la pace con la spada, in questo meccanismo burocraticamente e apparentemente perfetto, capita qualcosa imprevisto dai potenti: nasce un bambino, che cambia la direzione della storia.
“In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra.”
Luca è il primo a collocare la nascita di Gesù all'interno della storia. Le indicazioni che dà però non sono precise e hanno fatto molto discutere gli studiosi. Il suo intento forse non era tanto quello della precisione storica, quanto quello di inserire la nascita di Gesù nella storia universale. L'imperatore era certamente Ottaviano Augusto, poiché egli regnò dal 27 a.C. al 14 d.C. Egli ordinò due censimenti dei cittadini romani, nel 27 e nell'8 a.C.. Il censimento di cui parla Luca dovette essere piuttosto il giuramento di fedeltà che Erode chiese ai suoi sudditi nel 6/7 a.C. (ricordiamo che Gesù non è nato proprio nell'anno 0, come aveva calcolato Dionigi il Piccolo, bensì qualche anno prima cioè nel 6/7 a.C.).
Le parole di Luca hanno però un senso teologico. Gesù doveva essere compreso nel censimento di tutta la terra, anche lui ormai faceva parte dell'umanità.
“ Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria.”
Il primo censimento fatto sotto Erode sicuramente doveva interessare la Palestina, però anche qui possiamo far prevalere il senso teologico, il primo censimento del Primogenito Gesù, la primizia della salvezza che interessa tutta la terra!
Anche la menzione di Quirinio pone qualche problema perchè egli fu legato in Siria solo dal 6 d.C. ed effettivamente in quel periodo fece un censimento. Può darsi che Luca si sia confuso un po' nell'attribuzione dei censimenti. E’ da tenere presente che egli scriveva 70 anni dopo i fatti e le informazioni storiche non erano così facilmente reperibili come al giorno d'oggi.
“Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.”
Non era usuale che per il censimento si andasse nella propria città di origine. Probabilmente, assecondando l'importanza che gli orientali davano al proprio clan, ed Erode chiese lo chiese in questa forma.
“Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta”
Tutte queste indicazioni preliminari permettono comunque a Luca di affermare due elementi molto importanti riguardo la nascita di Gesù: egli era discendente di Davide e nacque a Betlemme, così che si compisse la profezia di Michea
“E tu, Betlemme di Efrata così piccola per essere fra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele” (5,1) .
“Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”
Il termine alloggio non è facile tradurlo. Si può pensare ad un ricovero di passaggio per i viaggiatori, una specie di caravanserraglio. Ma nel racconto di Luca sembra che l’unico luogo possibile potesse essere una povera abitazione con accanto una stalla. Questo per sottolineare che non c'era posto per loro a Betlemme e che quindi Gesù, pur essendo discendente di Davide, viene al mondo in una situazione di povertà e insicurezza.
“C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge”.
Dal luogo chiuso della stalla si passa ai campi nei dintorni di Betlemme dove vi erano dei pastori che vegliavano il proprio gregge. E’ poco verosimile che Gesù sia nato in inverno, visto che i greggi passavano la notte all'aria aperta da marzo a novembre (la festa del Natale è stata fissata al 25 dicembre per soppiantare la festività pagana del Sol invictus che celebrava dopo il solstizio di inverno, il riprendersi della luce del sole dopo la notte più lunga dell'anno).
“Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore,”
i pastori allora erano considerati gli ultimi nella scala sociale, erano disprezzati e considerati gente rude e ignorante e la loro testimonianza non era ammessa in tribunale. Solo Dio poteva scegliere proprio loro per il primo annuncio dell'incarnazione!. E’ probabile che questo annuncio ai pastori è motivato anche dal fatto che pure Davide fosse pastore prima di diventare re di Israele. Quindi la presenza dei pastori, come la città di Betlemme e la sua discendenza da Davide, sottolinea nuovamente la messianicità di Gesù.
“ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: “
L'angelo li rassicura, come Gabriele ha rassicurato Zaccaria (Lc 1,13) e Maria (1,30).. L'annuncio è di gioia, la gioia caratteristica dei tempi nuovi e che percorre tutto il vangelo. Anche il popolo ha una parte importante nel vangelo di Luca. E' lo spettatore delle opere di Gesù e lo segue nel suo cammino verso Gerusalemme, fin sotto la croce (Lc 23,35).
“ oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”
Il tema dell'oggi chiude tutto il periodo delle promesse e delle attese. E' l'oggi che diventa presente in ogni epoca nella Chiesa. Il lieto annuncio riguarda la nascita del Messia. Per ora l'annuncio degli angeli rimane nell'ambito delle attese di Israele.
“Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”
Il segno dato dagli angeli ai pastori contrasta con quanto essi hanno annunciato: la gloria di Dio si rivela nella povertà terrena, in un neonato avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia.
E' il mistero di un Dio che si avvicina all'umanità nel bisogno, un segno che prefigura l'insegnamento, il comportamento e la morte di Gesù. Un segno che mette l'uomo davanti alla scelta di convertirsi. Appare il rovesciamento dei valori che costituisce la base della fede cristiana: Gesù crocifisso.
“E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».”
Improvvisamente lo schema dell'annunciazione si apre in un inno di lode cantato dalle schiere angeliche: il cantico nuovo della liturgia celeste che celebra la nascita del Messia, sul modello della lode che nella letteratura giudaica accompagna l'opera divina della creazione.
La parola "pace" esprime tutto il contenuto della salvezza che è iniziata a Betlemme. Questa PACE non è assenza di guerra, ma comunione piena con Dio che si ripercuote in rapporti giusti e pieni tra gli uomini e con se stessi.
La pace scende sugli uomini che Dio ama, cioè coloro che Dio ha scelto, non solo l'Israele storico, ma il popolo di Dio al quale tutte le nazioni sono chiamate ad aderire.

 

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NATALE del Signore 2019
Messa del giorno

Dal libro del profeta Isaia
Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace,
del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio».
Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce,
insieme esultano,
poiché vedono con gli occhi
il ritorno del Signore a Sion.
Prorompete insieme in canti di gioia,
rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo,
ha riscattato Gerusalemme.
Il Signore ha snudato il suo santo braccio
davanti a tutte le nazioni;
tutti i confini della terra vedranno
la salvezza del nostro Dio.
Is 52,7-10

Questo brano fa parte dei testi contenuti nei capitoli 40-55, attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Di lui si sa solo che il suo messaggio si colloca attorno al 538 a.C., l’anno in cui Ciro, re dei Persiani, ha permesso agli Ebrei, esiliati a Babilonia, di ritornare al loro paese. Gli è stato dato questo nome perchè il suo pensiero s’ispirava a una tradizione che risale al grande profeta Isaia (740-700 a.C.).
Questo brano, in particolare, fa parte del libro della Consolazione, e annunzia come nei due precedenti brani della Messa “della notte” e “dell’aurora”, la buona novella. Si apre con l’immagine di un messaggero che, correndo sui monti, porta a Gerusalemme il lieto messaggio del ritorno degli esuli. La bellezza di questo messaggio viene proiettata sui piedi stessi del messaggero, che gli permettono di raggiungere velocemente la città santa. Il messaggio che egli porta ha direttamente come oggetto la salvezza, che si attua mediante un nuovo esodo non più dall’Egitto ma da Babilonia. Questa salvezza coincide con la pace, intesa qui come simbolo di prosperità e di gioia. Infine questa salvezza viene attribuita al fatto che il Signore regna. Nel versetto successivo viene ripreso il tema del messaggero, ma questa volta non si tratta però di un messaggero che giunge correndo, ma delle sentinelle, poste a custodia della città, le quali prorompono di gioia e lanciano forti grida perché vedono l’arrivo degli esuli. Il profeta però non parla direttamente delle carovane che giungono a Gerusalemme, ma del ritorno del Signore in Sion.
(Secondo Ezechiele (10,18-22) prima della caduta di Gerusalemme il Signore aveva abbandonato il tempio e la città e si era diretto nel luogo in cui si trovavano gli esiliati; ora è il Signore stesso che ritorna portando con sé coloro che ritornano dall’esilio).
Alla gioia delle sentinelle fa eco quella della città santa, di cui sono rimaste solo delle rovine. Il profeta immagina che queste rovine cantino di gioia perché il Signore ha consolato il suo popolo (Is 40,1), e ha riscattato Gerusalemme, cioè le ha dato nuovamente il privilegio di essere il luogo della sua dimora.
La regalità del Signore si manifesta non tanto nel fatto di aver reso possibile il ritorno dei giudei nella loro patria, quanto piuttosto nell’aver riunito un popolo ormai disperso, incapace di ritrovare la sua identità. La sua forza, rappresentata nel suo santo braccio snudato che si alza contro i nemici, non si riferisce come altre volte ad eventi di guerra, ma alla rinascita religiosa e civile del Suo popolo.
Per noi cristiani la risposta di Dio ai problemi del mondo è un bambino nella mangiatoia, il segno della misericordia di Dio sulla storia dell'umanità e di ogni singolo uomo. Segno che, se rimane rifiutato e ignorato, lascia nel buio e nella solitudine; mentre se é compreso e accolto, fa rinascere la gioia di sapere che la vita – ogni vita dal suo sorgere fino al suo spegnersi - è nelle mani del Signore.

Salmo 98 (97) - Tutta la terra ha veduto la salvezza del nostro Dio

Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele
Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Cantate inni al Signore con la cetra,
con la cetra e al suono di strumenti a corde;
con le trombe e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19):
“I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo. La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera agli Ebrei
Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto:
«Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»?
E ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»?
Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice:
«Lo adorino tutti gli angeli di Dio».
Eb 1,1-6

L’ autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perché conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
Questo brano, presenta la venuta di Cristo come il culmine della rivelazione che Dio ha fatto agli uomini. Inizia con una frase magistrale: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti,”
In questo primo versetto il protagonista è Dio, che durante i secoli ha parlato di sé agli uomini. Si tratta di una lunga storia, fatta di diverse tappe, diversi incontri tra Dio e i nostri padri. ossia i nostri antenati. Ha parlato attraverso degli intermediari, cioè i profeti e a tutti coloro con cuore sincero che si avvicinavano a Lui.
“ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo”
Ultimamente e definitivamente Dio ha parlato attraverso il Figlio, che è la Sua parola vivente. Nella tradizione biblica l'eredità era molto importante e già a partire da Abramo il popolo di Israele viveva in situazioni precarie in cui avere un erede non era sempre facile (la storia di Abramo ce lo insegna). Il Figlio qui è l'erede universale, il legittimo Signore dell'universo ma anche Colui nel quale si compiono le promesse messianiche di pace e libertà. Inoltre il Figlio sta all'origine dell'universo creato e della storia, poiché è associato in modo intimo e unico al primo gesto salvifico di Dio: la creazione del mondo.
L’ autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perché conosce perfettamente la Sacra Scrittura, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se sono rimaste sconosciute.
Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
Questo brano, presenta la venuta di Cristo come il culmine della rivelazione che Dio ha fatto agli uomini. Inizia con una frase magistrale: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti,”

Dal vangelo secondo Giovanni
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue né da volere di carne
né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: “Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me è avanti a me,
perché era prima di me”.
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità
vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.
Gv 1, 1-18

L’Antico Testamento conosceva il tema della Parola (Verbo) di Dio e quello della Sapienza, che, in Dio, esisteva prima della creazione del mondo. Mediante la Sapienza ogni cosa è stata creata, ed è stata mandata sulla terra per rivelare i segreti della volontà divina.
In questo mirabile prologo, c’è il riassunto concentrato del contenuto del vangelo di Giovanni. L’evangelista presenta il Verbo in Dio, sottolineandone la preesistenza eterna, l'intimità di vita con il Padre e la Sua natura divina. Il Verbo non solo è vicino al Padre, ma rivolto verso il Padre in atteggiamento di ascolto e di obbedienza. Giovanni afferma con chiarezza, fin dalle prime parole del suo vangelo, che nel Dio unico esiste una pluralità di persone.
Dopo i primi due versetti introduttivi, Giovanni ci presenta il ruolo del Verbo nella creazione dell'universo e nella storia della salvezza: " tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.”Tutta la storia appartiene a Lui: tutte le cose sono opera del Figlio di Dio, di Gesù di Nazareth! Ogni uomo è fatto per la luce ed è chiamato ad essere illuminato dal Verbo con la luce eterna di Dio, che è la vita stessa del Padre donata al Figlio. La luce di Cristo splende su ogni uomo che viene nel mondo e le tenebre combattono per eliminarla. Tuttavia l'ambiente del male, che si oppone alla luce di Dio e alla parola di Gesù-Verbo, non riesce ad avere il sopravvento e a vincere.
La luce venuta nel mondo è preceduta da un testimone, Giovanni il Battista, che ha la missione di parlare a favore della luce. Il ruolo del Battista è unico: " Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.” Giovanni è il testimone di Gesù che riceve la testimonianza che il Padre dà al Figlio nel battesimo e che vede lo Spirito scendere e rimanere su Gesù. Gesù è la luce autentica e perfetta che appaga le aspirazioni umane; la sola che dà senso a tutte le altre luci che appaiono nella scena del mondo.
Gesù-Verbo, presente tra gli uomini con la Sua venuta, è vicino ad ogni uomo. Benché fosse già nel mondo come creatore e come centro della storia, "… il mondo non lo ha riconosciuto, cioè gli uomini non hanno creduto nel Verbo incarnato e nella Sua missione di Salvatore. Al rifiuto del mondo, c’è un rifiuto ancora più grave: " Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.“ ossia la Parola del Signore è venuta nel popolo ebraico, ma Israele l'ha respinta. Vediamo qui il lungo cammino dell'umanità che, nonostante il progetto di amore e di vita voluto da Dio, ha perso col peccato l'orientamento di tutto il suo essere e non ha riconosciuto il piano salvifico di Dio.
Se il comportamento dell'umanità, e in particolare quello d'Israele, è stato di netto rifiuto di Gesù-Verbo, tuttavia, un gruppo di persone, un "resto di Israele", l'ha accolto e ha risposto al Suo messaggio, stabilendo un nuovo rapporto con Dio: " A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” Solo coloro che accolgono il Verbo e credono nella Sua persona divina diventano figli di Dio, perché sono nati da Dio.
Questo dono della figliolanza divina si accoglie credendo nel Cristo e approfondendo la nostra vita di fede in Lui. Accogliere il Verbo significa "credere nel nome" di Gesù, ossia aderire pienamente alla Sua persona, impegnare la propria vita al Suo servizio.
Ciò che segue è come la sintesi di tutto l'inno perché vi si afferma solennemente l'incarnazione del Figlio di Dio. Il vangelo afferma che " E il Verbo si fece carne “cioè che la Parola si è fatta uomo, nella sua fragilità e impotenza come ogni creatura, nascendo da una donna, Maria.
L'espressione "e venne ad abitare in mezzo a noi” sottolinea lo scopo dell'incarnazione: Dio dimora con il Suo popolo stabilmente e per sempre . La Sua presenza è nella vita stessa dell'uomo e nella carne visibile di Gesù..
I discepoli hanno contemplato nella fede il mistero di Gesù-Verbo, cioè la gloria che Egli possiede come Unigenito venuto dal Padre. Gesù è la rivelazione di Dio, ma in un modo nascosto e umile. Nel vangelo di Giovanni la gloria del Signore è qualcosa di interiore che solo l'uomo di fede può comprendere.
“Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia”. Le due grazie sono la legge di Mosè e quella di Cristo. Per Giovanni, la storia della salvezza abbraccia due momenti fondamentali: il dono della legge nella rivelazione provvisoria del Sinai e "la grazia della verità" nella rivelazione definitiva di Gesù. Le due tappe della rivelazione non sono in contrasto tra loro: Mosè è il rivelatore imperfetto della legge e il mediatore umano tra Dio e Israele, Gesù invece è il Rivelatore perfetto e definitivo della Parola e il Mediatore umano-divino tra il Padre e l'umanità.
Infine il versetto finale del prologo offre un'ulteriore spiegazione: Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
Il "seno" del Padre nel linguaggio biblico è l'immagine tipica dell'amore e dell'intimità: tutta la vita di Gesù si svolse come vita filiale in un atteggiamento di ascolto e di obbedienza al Padre, in un rapporto di amore con il Padre e come Sua manifestazione.

 

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 Le Parole di Papa Francesco

“Lungo il cammino della storia, la luce che squarcia il buio ci rivela che Dio è Padre e che la sua paziente fedeltà è più forte delle tenebre e della corruzione. In questo consiste l’annuncio della notte di Natale. Dio non conosce lo scatto d’ira e l’impazienza; è sempre lì, come il padre della parabola del figlio prodigo, in attesa di intravedere da lontano il ritorno del figlio perduto; e tutti i giorni, con pazienza. La pazienza di Dio.
[…] Il “segno” è proprio l’umiltà di Dio, l’umiltà di Dio portata all’estremo; è l’amore con cui, quella notte, Egli ha assunto la nostra fragilità, la nostra sofferenza, le nostre angosce, i nostri desideri e i nostri limiti. Il messaggio che tutti aspettavano, quello che tutti cercavano nel profondo della propria anima, non era altro che la tenerezza di Dio: Dio che ci guarda con occhi colmi di affetto, che accetta la nostra miseria, Dio innamorato della nostra piccolezza.
[…] siamo invitati a riflettere. Come accogliamo la tenerezza di Dio? Mi lascio raggiungere da Lui, mi lascio abbracciare, oppure gli impedisco di avvicinarsi? “Ma io cerco il Signore” – potremmo ribattere. Tuttavia, la cosa più importante non è cercarlo, bensì lasciare che sia Lui a cercarmi, a trovarmi e ad accarezzarmi con amorevolezza. Questa è la domanda che il Bambino ci pone con la sua sola presenza: permetto a Dio di volermi bene?
E ancora: abbiamo il coraggio di accogliere con tenerezza le situazioni difficili e i problemi di chi ci sta accanto, oppure preferiamo le soluzioni impersonali, magari efficienti ma prive del calore del Vangelo? Quanto bisogno di tenerezza ha oggi il mondo! Pazienza di Dio, vicinanza di Dio, tenerezza di Dio.
La risposta del cristiano non può essere diversa da quella che Dio dà alla nostra piccolezza. La vita va affrontata con bontà, con mansuetudine. Quando ci rendiamo conto che Dio è innamorato della nostra piccolezza, che Egli stesso si fa piccolo per incontrarci meglio, non possiamo non aprirgli il nostro cuore, e supplicarlo: “Signore, aiutami ad essere come te, donami la grazia della tenerezza nelle circostanze più dure della vita, donami la grazia della prossimità di fronte ad ogni necessità, della mitezza in qualsiasi conflitto”.”
Papa Francesco Parte dell’Omelia del 25 dicembre 2018

Pubblicato in Liturgia

Siamo ormai vicini al Natale e la liturgia della IV domenica di Avvento ci porta a considerare il mistero dell’origine di Gesù.
Nella prima lettura, il profeta Isaia, volendo distogliere il re Acaz dai suoi propositi deliranti, gli propone di chiedere a Dio un segno della sua presenza. Ma Acaz manifestando una falsa religiosità, rifiuta, allora Dio annuncia ad Acaz il castigo, ma allo tesso tempo conferma la sua fedeltà a Davide con un segno: la nascita di un figlio da una vergine.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nel prologo della lettera ai Romani, ha un chiaro aggancio con la 1^ lettura che, in questa luce, si presenta come parte di quel “Vangelo di Dio”, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nella sacre Scritture, riguardo al Figlio suo. Il Cristo, nato dalla stirpe di Davide, è quindi il segno tangibile della fedeltà di Dio. .
Il Vangelo di Matteo, citando alla lettera il testo di Isaia della prima lettura, dichiara che Gesù è nella linea delle promesse fatta a Davide e quindi figlio di Davide secondo la carne, anche se la sua nascita verginale esclude l’opera dell’uomo ed è giuridicamente figlio di Davide, solo attraverso Giuseppe, che fisicamente non è suo padre. Giuseppe, dopo l’intervento dell’angelo, riconosce Gesù come suo figlio e gli trasmette, dandogli il nome, tutti i diritti di un discendente di Davide. Questo dimostra come Dio agisce per la salvezza, ma anche come questa non si realizzi sulla terra senza la cooperazione dell’uomo.

Dal libro del profeta Isaia
In quei giorni, il Signore parlò ad Acaz:
“Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli ìnferi oppure dall’alto”.
Ma Acaz rispose: “Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore”.
Allora Isaìa disse:“Ascoltate, casa di Davide!
Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”.
Is 7,10-14

Per capire meglio questo brano dobbiamo risalire alla situazione storica che c’è dietro.
Acaz fu uno dei re di Giuda, (descritto nel secondo libro delle Cronache c.28 e nel secondo libro dei Re c.16, vissuto intorno al 740 a.C.) A causa della sua idolatria, il regno di Acaz fu conquistato prima da Razim, re della Siria, e poi da Oshea, re d'Israele. In seguito, Razin e Oshea strinsero un'alleanza con lo scopo di detronizzare la casa di Davide in Giudea e di far diventare re il figlio di Tabeèl, in impostore della corte di Damasco. La dinastia davidica, a cui sono legate le promesse, è dunque in pericolo! Acaz invece di chiedere aiuto a Dio, fa immolare agli idoli suo figlio (2Re 16,3) e cerca alleanze in Assiria.
Inizia qui il brano liturgico, nel quale si narra il secondo intervento di Isaia che propone ad Acaz di chiedere un segno, qualunque esso sia “dal profondo degli ìnferi oppure dall’alto” che gli garantisca l'assistenza divina. Il re però si rifiuta, con la scusa che così facendo tenterebbe Dio, dimostrando un’apparente religiosità, in realtà egli ha già deciso di chiedere l'aiuto dell'Assiria (v. 2Re 16,7-9), venendo meno così al rapporto di alleanza che lo lega al Signore.
Il profeta allora rimprovera Acaz per la sua infedeltà e ostinazione e predice la prima distruzione di Gerusalemme e tutto il periodo di invasioni e deportazioni. Poi però annuncia che Dio non viene meno alle Sue promesse e parla del segno che sarà dato agli uomini
“Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele”
La bontà di Dio supera l’ipocrisia di Acaz e il segno è ugualmente donato sotto forma di questo oracolo-annunzio per la nascita di un eroe-salvatore. Gli ascoltatori di Isaia di allora hanno cercato di identificare questo segno secondo le loro speranze umane: la dinastia davidica, luogo della presenza viva e storica di Dio, continuerà con la nascita di un nuovo re, il giusto, saggio e buon re Ezechia, figlio di Acaz (2 Cronache 29:1-34) che cercò di realizzare in modo più concreto la presenza dell’Emmanuele, cioè del Dio compagno di viaggio del suo popolo.
Ma il segno ha un’altra, più esaltante dimensione, quando si apre alla visione cristiana, e questo oracolo viene accostato al Vangelo di Matteo con il sogno di Giuseppe, che la liturgia di questa domenica ci presenta. E’ così che dietro il volto del re Ezechia, probabilmente pensato da Isaia, emerge la figura del Cristo Salvatore, presenza perfetta di Dio nella carne e nel tempo dell’uomo.
A differenza di Acaz, che ha rifiutato il segno di Dio, Giuseppe, accogliendo l’annunzio dell’angelo, attraverso la sua paternità legale, introduce Gesù nella stirpe di Davide, in sintonia con la profezia di Isaia, diventando così intimo collaboratore di Dio nel grande progetto dell’incarnazione.

Salmo 23/24
Del Signore è la terra e quanto contiene,
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l'ha fondata sui mari,
e sui fiumi l'ha stabilito.

Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli.

Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.

Il salmo presenta il momento in cui Israele ritorna dell’esilio. Ora è consapevole, dopo la distruzione di Gerusalemme e del tempio, che per salire al tempio e per abitare alla sua ombra bisogna essere puri di cuore; il tempio non salva nessuno se non c’è la fedeltà alla legge.
Il Signore è di maestà infinita, e sua “è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti”.
Dalla considerazione della grandezza e potenza di Dio parte l’esame delle qualità di chi andrà ad abitare all’ombra del tempio del Signore.
Il tempio è stato distrutto e un coro dice alle porte di ristabilire se stesse. Esse sono state distrutte, ma sono pure “eterne” (traduzione letterale), e perciò saranno rifatte.
Dalle porte del tempio, comprese quelle dell’atrio degli olocausti, entrerà il re della gloria a prendere dimora con la sua gloria nel tempio, nel santo dei santi.
E’ il Signore potente in battaglia, che vince i suoi nemici. “Il Signore degli eserciti” è il Signore delle schiere dei valorosi nella fede.
Il “sensus plenior" del salmo è per salire il monte santo, cioè giungere alla mensa Eucaristica, salire in un cammino d’iniziazione, alla partecipazione piena all’altare, e dimorare nella fede e nell’amore nella casa del Signore richiede rettitudine di vita. Occorre cercare colui che già si è fatto trovare; cercarlo per più conoscerlo e amarlo, in un tendere all’infinito a lui.
E i cieli sono aperti. Le porte del cielo ostruitesi per il peccato dell’uomo ora si sono riaperte. I cori angeli hanno proclamato: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria…”. Entri il “Signore valoroso in battaglia”, quella che ha condotto contro le tenebre lanciategli da Satana e i dolori della croce. “E’ il Signore degli eserciti il re della gloria”, il Signore delle schiere apostoliche della Chiesa, che porta la luce del vangelo ovunque.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio - che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dai morti, Gesù Cristo nostro Signore; per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia di essere apostoli, per suscitare l'obbedienza della fede in tutte le genti, a gloria del suo nome; e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo – a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.
Rm 1,1-7

In questo brano viene riportato il prescritto della lettera ai Romani, in cui Paolo si presenta e indicando chi sono i destinatari della sua lettera, porge loro i suoi saluti. Paolo si presenta subito come “servo di Cristo Gesù”, cioè una persona che gli appartiene e che gli è totalmente sottomessa.
In forza del carisma apostolico Paolo è “scelto per annunciare il vangelo di Dio”, cioè la buona notizia che Dio ha rivolto a tutta l’umanità. L’accenno al vangelo offre a Paolo l’occasione per spiegarne il significato e i contenuti. Anzitutto egli afferma che esso era già stato “promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture” e delinea poi i contenuti del vangelo che ha come tema centrale “il Figlio suo”. Nella seconda frase si afferma che lo stesso Figlio di Dio è stato “costituito Figlio di Dio con potenza”, cioè ha potuto esercitare in modo effettivo i suoi poteri, “secondo lo Spirito di santità”, ossia in forza di un dono speciale dello Spirito, nel quale si manifesta la potenza stessa e la santità di Dio. Ciò si è attuato in virtù della risurrezione dai morti.
Questa espressione può indicare, come altrove la risurrezione dai morti, oppure la risurrezione di Cristo in quanto modello e causa (1Cor 15,20 dove si parla di primizia) della risurrezione finale, con la quale giunge a compimento il piano salvifico di Dio.
Paolo conclude affermando che il Figlio di Dio di cui parla il vangelo è “Gesù Cristo nostro Signore”. Questo appellativo significa la piena partecipazione al potere stesso di Dio (V.Fil 2,6-11) e i due titoli sono uniti nell’espressione “Cristo è Signore”, che rappresenta la più incisiva professione di fede dei primi cristiani (V. Rm 10,9; 1Cor 12,3)
Il riferimento a “Gesù Cristo nostro Signore” offre a Paolo l’occasione per ritornare alla sua autopresentazione. Sottolinea infatti che per mezzo di questo Signore che egli ha ricevuto “la grazia di essere apostolo”, cioè quel dono speciale che consiste nell’essere l’inviato (apostolo) di Dio; egli è incaricato di “suscitare l'obbedienza della fede in tutte le genti” e proprio a costoro Paolo è stato inviato come apostolo con il compito di annunziare il vangelo.
Con il termine “fede” l’apostolo indica la piena fiducia in Dio che nel corso della sua lettera presenterà come la via maestra attraverso cui ogni essere umano può ottenere la giustificazione. Il compito che gli è affidato ha come scopo finale la “gloria del suo nome” cioè il riconoscimento di Dio come unica fonte di salvezza per tutta l’umanità.
L’accenno a “tutte le genti” dà a Paolo lo spunto per rivolgere la sua attenzione ai destinatari. Anch’essi appartengono infatti a questa categoria, ma sono stati “chiamati da Gesù“, cioè hanno aderito a Lui e al Suo messaggio.
A questo punto Paolo nomina espressamente i destinatari della lettera, “tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata” . Con queste due espressioni egli li designa come coloro che sono chiamati da Dio a formare il nuovo Israele, il popolo che Dio ha amato in modo speciale e che, in forza dell’alleanza, è diventato partecipe della sua stessa santità ( Es 19,6). L’appellativo di “santi”, prerogativa speciale dei cristiani di Gerusalemme (V . At 9,13) è estesa anche a “tutti” i membri della comunità di Roma, che condividono la loro stessa vocazione.
A questi santi Paolo augura grazia ..e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo. In questa espressione egli unisce la formula greca di saluto (chaire) con quella ebraica (shalôm, eirênê), trasformandole però nell’augurio dei doni messianici (la grazia e la pace), già annunziati dai profeti ed espressi nella benedizione sacerdotale dell’AT (Nm 6,24-27). È sullo sfondo di questa stima che Paolo affronterà alla fine della lettera i loro problemi per aiutarli ad entrare in un’ottica evangelizzatrice e per essere aiutato da loro nel suo prossimo viaggio in Spagna. Tutta la lettera rappresenta così un contributo alla crescita nella fede di questi fratelli amati, anche se per lui ancora così lontani.

Dal vangelo secondo Matteo
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo: ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
"Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio, a lui sarà dato il nome di Emmanuele", che significa "Dio con noi". Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.
Mt 1, 18-24

L’evangelista Matteo presenta il racconto dell’infanzia di Gesù in quattro brani: la genealogia di Gesù (1,1-17), l’annunzio a Giuseppe (1,18-25); la visita dei magi (2,1-12), la fuga in Egitto (2,13-23.
Matteo comincia il suo racconto mettendo in luce un fatto imbarazzante: Maria, promessa sposa di Giuseppe, è incinta per opera dello Spirito Santo . Secondo i costumi dell’epoca, il matrimonio avveniva in due tempi. Dopo l’impegno scambievole che legava gli sposi legalmente, la sposa restava sotto il tetto paterno per circa un anno, fino al giorno in cui lo sposo la portava a casa sua per iniziare la vita comune. Durante l’anno in cui la sposa restava ancora sotto la tutela del padre, non erano, in genere, ammessi i rapporti sessuali, almeno in Galilea. E’ da tener presente che le ragazze si sposavano o piuttosto venivano promesse in matrimonio tra i 12 e i 15 anni e che i ragazzi non erano molto più anziani. Giuseppe doveva essere anche lui poco più che un ragazzo.
Il fatto che Maria, mentre stava ancora nella casa paterna, si trovasse incinta risultava quindi strano e Matteo esclude subito la paternità di Giuseppe attribuendo la gravidanza di Maria a un intervento speciale dello Spirito santo. Definisce Giuseppe “uomo giusto” e vediamo subito che la giustizia di Giuseppe non è quella "secondo la legge" che autorizza a ripudiare la propria moglie, ma quella "secondo la fede e l’amore" che chiede a Giuseppe di accettare in Maria l'opera di Dio, ma di sua iniziativa Giuseppe però non ritiene di poter prendere con sé una persona che Dio si è riservata.
La crisi di Giuseppe in un certo senso ha lo stesso significato dell'obiezione di Maria che era turbata perché non sapeva che cosa significasse il saluto dell'angelo. Giuseppe dunque è incerto perché non sa spiegarsi ciò che è avvenuto in Maria, che ha però potuto chiedere la spiegazione all'angelo, ma Giuseppe non sa a chi rivolgersi; per questo decide di mettersi in disparte aspettando che qualcuno venga a liberarlo dalle sue perplessità.
La difficoltà in cui si trovava Giuseppe poteva essere risolta solo da Dio, che in sogno gli manda un angelo che gli dice: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo: ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. L’assegnazione del nome appare spesso nei racconti di annunciazione. Anche il nome di Gesù è rivelato direttamente da Dio in quanto rivela un aspetto determinante della persona che lo porta. Il nome di Gesù (in ebraico Jehoshûa “Jahve salva”) contiene già nel significato stesso del nome la promessa di salvezza e viene presentata in termini spirituali come salvezza dai peccati.
Dopo l’annuncio divino, Matteo fa osservare che tutto ciò è avvenuto perché “si compisse” un’importante profezia messianica: "Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio, a lui sarà dato il nome di Emmanuele ", che significa "Dio con noi".
Dando la traduzione del nome Emmanuele, “Dio con noi”, l’evangelista vuole sottolineare l’importanza di questo appellativo che egli richiama alla fine del vangelo quando riferisce che Gesù, prima di lasciare per l’ultima volta i suoi discepoli, ha detto loro: io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (V 28,20). Tutto il vangelo appare così come la manifestazione in Cristo del Dio-con-noi. Matteo conclude il racconto osservando che Giuseppe, destatosi dal sonno, “fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa”.
Con questa espressione Matteo vuol darci l'idea del compimento delle intenzioni di Dio contenute nella Scrittura, ed è importante notare che attraverso il profeta ha parlato Dio. Giuseppe, omo giusto, destandosi dal sonno agisce e la sua azione testimonia la sua obbedienza.

 

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“La liturgia di oggi, che è la quarta e ultima domenica di Avvento, è caratterizzata dal tema della vicinanza, la vicinanza di Dio all’umanità. Il brano del Vangelo ci mostra due persone, le due persone che più di ogni altra sono state coinvolte in questo mistero d’amore: la Vergine Maria e il suo sposo Giuseppe. Mistero di amore, mistero di vicinanza di Dio con l’umanità.
Maria è presentata alla luce della profezia che dice: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio» . L’evangelista Matteo riconosce che ciò è avvenuto in Maria, la quale ha concepito Gesù per opera dello Spirito Santo .
Il Figlio di Dio “viene” nel suo seno per diventare uomo e Lei lo accoglie. Così, in modo unico, Dio si è avvicinato all’essere umano prendendo la carne da una donna: Dio si avvicinò a noi e ha preso la carne da una donna. Anche a noi, in modo diverso, Dio si avvicina con la sua grazia per entrare nella nostra vita e per offrirci in dono il suo Figlio.
E noi che cosa facciamo? Lo accogliamo, lo lasciamo avvicinarsi oppure lo rifiutiamo, lo cacciamo via? Come Maria, offrendo liberamente sé stessa al Signore della storia, gli ha permesso di cambiare il destino dell’umanità, così anche noi, accogliendo Gesù e cercando di seguirlo ogni giorno, possiamo cooperare al suo disegno di salvezza su noi stessi e sul mondo.
Maria ci appare dunque come modello a cui guardare e sostegno su cui contare nella nostra ricerca di Dio, nella nostra vicinanza a Dio, in questo lasciare che Dio si avvicini a noi e nel nostro impegno per costruire la civiltà dell’amore.
L’altro protagonista del Vangelo di oggi è san Giuseppe. L’evangelista mette in evidenza come Giuseppe da solo non possa darsi una spiegazione dell’avvenimento che vede verificarsi sotto i suoi occhi, cioè la gravidanza di Maria. Proprio allora, in quel momento di dubbio, anche di angoscia, Dio gli si fa vicino – anche a lui –con un suo messaggero ed egli viene illuminato sulla natura di quella maternità: «Il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». Così, di fronte all’evento straordinario, che certamente suscita nel suo cuore tanti interrogativi, si fida totalmente di Dio che gli si avvicina e, seguendo il suo invito, non ripudia la sua promessa sposa ma la prende con sé e sposa Maria.
Accogliendo Maria, Giuseppe accoglie consapevolmente e con amore Colui che in lei è stato concepito per opera mirabile di Dio, a cui nulla è impossibile. Giuseppe, uomo umile e giusto, ci insegna a fidarci sempre di Dio, che ci si avvicina: quando Dio ci si avvicina dobbiamo fidarci. Giuseppe ci insegna a lasciarci guidare da Lui con volontaria obbedienza.
Queste due figure, Maria e Giuseppe, che per primi hanno accolto Gesù mediante la fede, ci introducono nel mistero del Natale. Maria ci aiuta a metterci in atteggiamento di disponibilità per accogliere il Figlio di Dio nella nostra vita concreta, nella nostra carne. Giuseppe ci sprona a cercare sempre la volontà di Dio e a seguirla con piena fiducia. Tutti e due si sono lasciati avvicinare da Dio.
«Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio-con-noi» (Mt 1,23). Così dice l’angelo: “Emmanuele si chiamerà il bambino, che significa Dio-con-noi”, cioè Dio vicino a noi. E a Dio che si avvicina io apro la porta - al Signore - quando sento una ispirazione interiore, quando sento che mi chiede di fare qualcosa di più per gli altri, quando mi chiama alla preghiera? Dio-con-noi, Dio che si avvicina. Questo annuncio di speranza, che si compie a Natale, porti a compimento l’attesa di Dio anche in ciascuno di noi, in tutta la Chiesa, e in tanti piccoli che il mondo disprezza, ma che Dio ama e a cui Dio si avvicina.”
Papa Francesco Angelus 18 dicembre 2016

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La terza domenica di Avvento chiamata “Gaudete”, cioè “rallegrativi” è caratterizzata dal tema della gioia. La gioia qualifica il cristiano: non in quanto non sente più la sofferenza, ma per il fatto che è consapevole che il Padre lo ama, fino a dare Suo Figlio per lui.
Nella prima lettura, il profeta Isaia, indica al popolo di Israele la fonte della vera gioia nell’intervento di Dio, che lo ricondurrà in patria dopo il lungo esilio. Il profeta sintetizza questo evento con la frase finale del brano: felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.
Nella seconda lettura, l’apostolo Giacomo, nell’attesa della venuta del Signore, invita anche noi oggi ad operare con coraggio nella pazienza, nella sincerità e nella costanza.
Il Vangelo di Matteo, ci riporta il dialogo a distanza tra Gesù e Giovanni Battista che nei suoi dubbi è sempre alla ricerca della verità. Gesù capisce le perplessità di Giovanni e tiene a rassicurarlo dicendogli di confrontare le opere che sta compiendo con le Scritture. Poi Gesù loda Giovanni e lo chiama beato, dicendo che tra i nati da donna non ce n'è uno più grande di lui nella ricerca di Dio, ma nel Regno dei cieli, il più piccolo è più grande di Giovanni, perché gode già del frutto di questa ricerca. Giovanni Battista indica a tutti noi le caratteristiche del cammino cristiano: nel dubbio, non fermarsi mai perché il cammino della ricerca della verità su questa terra non conosce limiti.

Dal libro del profeta Isaia
Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.
Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo.
Le è data la gloria del Libano,lo splendore del Carmelo e di Saron.
Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio.
Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete!
Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta,la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto.
Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa.
Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo;
felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno
e fuggiranno tristezza e pianto.
Is 35,1-6.8.10.

Questo brano, tratto da una raccolta di oracoli chiamata “piccola apocalisse”, contiene il secondo oracolo di Isaia ed inizia con un invito rivolto da Dio, per bocca del profeta:
“Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa.
Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo.”
Questi versetti li ha ripresi anche il Deuteroisaia per esultare per l’abbondanza di acqua nel deserto e nella terra, un tempo arida e senza vegetazione (Is 41,18).
L’esultanza del deserto si manifesta attraverso la nascita improvvisa di fiori insoliti in quella regione. Il deserto di cui si parla è quello che separa la Mesopotamia dalla Palestina: attraverso di esso gli esuli ritornano nella loro terra. Il rifiorire del deserto è un’immagine che viene usata non soltanto per indicare la facilità con cui il deserto viene percorso dagli esuli, ma anche per evidenziare la trasformazione interiore degli esuli, che prendono coscienza di sé e della propria realtà di popolo.
All’invito corrisponde una promessa:
“Le è data la gloria del Libano,lo splendore del Carmelo e di Saron. Essi vedranno la gloria del Signore, la magnificenza del nostro Dio.”
Il deserto sarà reso simile alle regioni più note per la loro fertilità e vegetazione, e la promessa più grande consiste nel vedere la gloria di Dio.
La venuta del Signore viene nuovamente annunziata con un invito:
“Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta,la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».
Il messaggio chiaramente è rivolto agli esuli che si sono messi in cammino. Essi sono ancora infiacchiti dal lungo periodo di esilio, non hanno fiducia in se stessi, e soprattutto non hanno la sicurezza di poter riuscire nella loro impresa. Vengono perciò incoraggiati con la promessa della presenza del Signore che li guida come aveva fatto un tempo con gli israeliti durante l’esodo dall’Egitto. Egli porta con sé oltre alla salvezza, riservata al Suo popolo, anche il castigo per i loro nemici che sono anche i Suoi nemici. La ricompensa divina non consiste in un premio guadagnato con le proprie opere buone, ma nella salvezza donata gratuitamente da Dio al Suo popolo.
Alla venuta del Signore corrisponde la guarigione di persone afflitte da diverse infermità :
“Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto”.
Gli esuli che si mettono in cammino sono paragonati a persone afflitte da mali che impediscono loro la possibilità stessa di fare un lungo cammino a piedi. Nonostante la loro inabilità, essi si mettono in cammino senza difficoltà per raggiungere la meta.
Dopo viene annunziata la creazione di una grande strada:
“Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa”.
Dopo un ulteriore accenno alla trasformazione del deserto vengono descritti coloro che camminano nella grande strada:
“Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.”
Coloro che si mettono in cammino vengono chiamati i “riscattati”, in quanto sono considerati come schiavi per la cui liberazione Dio stesso simbolicamente ha pagato un prezzo.
Il profeta sintetizza questa “risurrezione” nella frase finale: felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto.
L’immagine del deserto che rifiorisce al passaggio degli esuli dà l’idea di un rinnovamento che, partendo dal cuore umano, si estende a tutto il creato. I giudei esuli in Babilonia hanno visto nel loro ritorno nella terra dei loro padri un dono meraviglioso di Dio, che ha dato compimento alle Sue promesse.
La storia ci dice che in realtà il ritorno dall’esilio ha deluso in parte le attese dei rimpatriati, i quali si sono trovati di nuovo immersi nei problemi di sempre. Inoltre essi erano portati tendenzialmente a chiudersi in se stessi, difendendosi dalle influenze esterne e così sono stati costretti a proiettare in un futuro ipotetico quella felicità che avevano atteso per la fine dell’esilio.
Hanno dovuto capire a loro spese che il regno di Dio non è una realtà che si attua nella storia, ma una meta a cui tendere, mantenendo vivi i valori in cui si crede e cercando continuamente di concretizzarli nell’oggi.

Salmo 145 Vieni, Signore, a salvarci.
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Questo salmo è stato composto nel tardo postesilio e fa pensare a un tempo di pace, di normalità, quale si ebbe verso la fine dell'epoca persiana quando Giuda divenne uno stato teocratico autonomo con propria moneta fino alla persecuzione di Antioco IV Epifane (2Mac 4,1s).
Il salmista allo scopo di rendere testimonianza e di lodare il Signore per tutta la vita, fa seguire un'ammonizione basilare: Il Signore rimane fedele per sempre ossia mai manca alla sua parola, e il suo governo è giustizia e bontà: rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati.
Poi il salmista con ritmo incalzante presenta tutti i motivi di confidenza in Dio.
“Libera i prigionieri”; intendendo ciò in senso largo: deportati, carcerati ingiustamente, irretiti in trame di calunnia.
“Ridona la vista ai ciechi”, dove il cieco è colui che ha smarrito la via della verità
“Rialza chi è caduto”, cioè chi è caduto nel peccato.
“Ama i giusti”, cioè li guida nel giusto cammino e protegge nei loro passi.
“Protegge i forestieri, egli sostiene l'orfano e la vedova”, cioè tre categorie di persone deboli, con scarsi punti di riferimento.
Poi segue una severa osservazione: “Ma sconvolge le vie dei malvagi”.
Il Signore è re, “regna per sempre”. Nessuno lo può contrastare, limitare il suo potere sovrano, nessuno può sperare di vincerlo; e il suo regnare è segnato dalla giustizia, dalla bontà e dalla misericordia.
“Il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione”; Dio ha fatto alleanza con Sion, ma l'alleanza è diventata nuova in Cristo; Sion ha rifiutato la nuova ed eterna alleanza, ma Cristo non rinuncia al popolo di Sion, ora tronco morto dell'unico popolo di Dio, il cui tronco vivo è la Chiesa, ma un giorno il tronco morto diventerà vivo, accogliendo Cristo e facendo parte della Chiesa (Rm 11,25).
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina.
Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore.
Gc 5,7-10

La lettera di Giacomo, che la tradizione cristiana attribuisce a Giacomo il minore figlio di Alfeo, fratello del Signore, sarà sempre citata per la sua attenzione ai deboli, e agli afflitti, il suo senso della povertà e la sua diffidenza per la ricchezza, la sua viva denuncia dell’ingiustizia sociale, i suoi avvertimenti agli operatori commerciali. Giacomo detenne un posto di primo piano nella comunità di Gerusalemme, e Paolo lo cita fra i testimoni della risurrezione. Prese parte al Concilio di Gerusalemme in maniera determinante e nonostante la sua mentalità prettamente giudaica, dà prova di conciliazione e di accoglienza nei riguardi dei convertiti provenienti dal paganesimo (At15,13-29).
Se la lettera quindi è di questo Giacomo, si può datare attorno all’anno 60, anche se influenze ellenistiche e l’affinità con scritti cristiani più tardivi, non rendono certa questa datazione.
La lettera è rivolta alle dodici tribù disperse nel mondo ed è una maniera per dire che è indirizzata alla Chiesa sparsa nel mondo, al vero Israele. Infatti il termine “dispersione”, in greco “diàspora ”, designava l’insieme dei giudei soggiornanti fuori della Palestina. Si tratta quindi di cristiani di origine giudaica, dispersi nel mondo greco-romano.
Il brano inizia con un invito alla costanza: “Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore”. Questo invito ha come sfondo la crisi determinata dal ritardo della parusia. Dopo la prima generazione cristiana, che riteneva imminente la venuta del Signore Gesù, i cristiani si rassegnano poco per volta all’idea che il Signore non ritornerà in tempi brevi come loro si erano immaginati. Per dare valore alla sua esortazione, Giacomo porta un esempio: “Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge”. L’agricoltore non sa quando verranno le piogge, necessarie perché la terra produca i suoi frutti preziosi, ma aspetta senza scoraggiarsi, sapendo che al momento giusto esse non mancheranno. Da questo esempio Giacomo trae un motivo per dire: “Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina”.. Nonostante tutto, Giacomo continua a ritenere che la venuta del Signore sia vicina.
Questa convinzione deve quindi infondere coraggio perchè non si tratta di un’attesa inoperosa, ma di un impegno costante per superare le prove e mettere a frutto la propria fede.
Poi continua dicendo: Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Il fatto che il ritorno del Signore non sia imminente non deve essere però un motivo per lamentarsi gli uni degli altri, cioè per scaricare sull’altro il proprio malessere.
Giacomo sottolinea ancora che Gesù ritornerà come giudice, e allora chi avrà giudicato gli altri sarà lui stesso sottoposto al Suo giudizio. Ciò che sta a cuore a Giacomo è un’autentica vita comunitaria, che consista nella sopportazione vicendevole che è il frutto più importante dell’amore. Perché ciò avvenga l’apostolo propone come modello i profeti: “Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore”.
Proprio perché erano investiti di una missione a favore di tutto il popolo, i profeti sono stati perseguitati, ma hanno accettato con pazienza tutte le sofferenze a loro inflitte. Anche per i cristiani, che hanno ricevuto una missione analoga a quella dei profeti, la pazienza nei confronti delle prove, da qualsiasi parte giungano, è un atteggiamento fondamentale per prepararsi al ritorno di Gesù.
Pur affermando che il ritorno di Gesù è vicino, Giacomo mette in guardia facendo comprendere che esso può essere ancora molto lontano nel tempo. Egli perciò consiglia soprattutto la pazienza, che consiste nella capacità di fare fronte ai rischi di un’attesa prolungata. La pazienza consiste per lui nel restare saldi nella fede e di impegnarsi pienamente in una vita comunitaria, in cui tutti si accettano e si rispettano.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? «Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto:
“Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero,
davanti a te egli preparerà la tua via”.
In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».
Mt 11, 2-11

In questo brano l’evangelista Matteo ci presenta Giovanni in carcere che ha notizie sull'attività di Gesù. Egli è sorpreso di vedere realizzarsi un tipo di Messia così diverso da quello che egli attendeva. La domanda che Giovanni si pone che sia davvero lui il Messia, rispecchia il suo dubbio e l’ora cupa che sta passando.
Ogni credente riconoscerà in questo atteggiamento l’oscura tenebra che anche altri santi hanno passato e passeranno: fede e ragione devono camminare insieme per conoscere sempre più e meglio Colui al quale si è detto “sì”, per poterlo conoscere e amare più intensamente.
Gesù nel compiere la Sua missione non corrisponde ai connotati del Messia che Giovanni aveva in mente e annunziato: colui che esercita il terribile giudizio di Dio, colui che tiene in mano la "scure" e il "ventilabro" per fare piazza pulita di quanti operano il male. Gesù infatti impiega il suo tempo nell'accogliere i peccatori e nel soccorrere gli ultimi, i malati, i poveri. Giovanni in un momento di vera crisi o comunque di dubbio profondo (che lo rende molto umano, vicino a noi) decide di interpellare Gesù stesso attraverso i suoi discepoli: " Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù nel rispondere ai suoi inviati indica la via : si confrontino le sue opere con le Scritture, e, citando gli oracoli di Isaia, mostra che le sue opere inagurano veramente l’era messianica, ma sotto forma di benefici di salvezza e non di forza e di castigo. Termina poi la sua risposta dicendo "E beato colui che non si scandalizza di me", cioè non trova nel mio comportamento un ostacolo a credere. In altre parole, Gesù non si presenta come il "forte" che scatena contro i peccatori la collera di Dio, ma è la rivelazione della Sua misericordia verso i poveri, i sofferenti, i lontani. Giovanni perciò sarà beato se accetta Gesù, anche se non risponde alle sue attese che sconvolgono i suoi schemi, se si fida di Lui, insomma se si converte a Gesù, se crede in Lui.
Poi Gesù, quando gli inviati si allontanano per portare a Giovanni la risposta, fa l’elogio del Battista, ma applicando a lui il detto di Malachia “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”, dichiarando non solo che Giovanni è il Suo precursore, ma anche che Egli stesso è il Messia, e poi termina dicendo: “fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui”. Ossia la grandezza di Giovanni sta prima nel fatto di essere precursore del Messia, ma anche di aver continuato a cercare la Verità, anche dopo aver conosciuto in Gesù il Cristo. E Gesù quando afferma che nel Regno dei cieli il più piccolo è più grande di Giovanni, è perché chi è nel Regno dei cieli gode già del frutto di questa ricerca.
Si adatta al Battista l’intercessione del salterio: “A quanti cercano la verità, concedi Signore la gioia di trovarla, e il desiderio di cercarla ancora, dopo averla trovata.”

 

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“… In questo brano l’evangelista Matteo ci presenta Giovanni in carcere che ha notizie sull'attività di Gesù. Egli è sorpreso di vedere realizzarsi un tipo di Messia così diverso da quello che egli attendeva. La domanda che Giovanni si pone che sia davvero lui il Messia, rispecchia il suo dubbio e l’ora cupa che sta passando.
Ogni credente riconoscerà in questo atteggiamento l’oscura tenebra che anche altri santi hanno passato e passeranno: fede e ragione devono camminare insieme per conoscere sempre più e meglio Colui al quale si è detto “sì”, per poterlo conoscere e amare più intensamente.
Gesù nel compiere la Sua missione non corrisponde ai connotati del Messia che Giovanni aveva in mente e annunziato: colui che esercita il terribile giudizio di Dio, colui che tiene in mano la "scure" e il "ventilabro" per fare piazza pulita di quanti operano il male. Gesù infatti impiega il suo tempo nell'accogliere i peccatori e nel soccorrere gli ultimi, i malati, i poveri. Giovanni in un momento di vera crisi o comunque di dubbio profondo (che lo rende molto umano, vicino a noi) decide di interpellare Gesù stesso attraverso i suoi discepoli: " Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. Gesù nel rispondere ai suoi inviati indica la via : si confrontino le sue opere con le Scritture, e, citando gli oracoli di Isaia, mostra che le sue opere inagurano veramente l’era messianica, ma sotto forma di benefici di salvezza e non di forza e di castigo. Termina poi la sua risposta dicendo "E beato colui che non si scandalizza di me", cioè non trova nel mio comportamento un ostacolo a credere. In altre parole, Gesù non si presenta come il "forte" che scatena contro i peccatori la collera di Dio, ma è la rivelazione della Sua misericordia verso i poveri, i sofferenti, i lontani. Giovanni perciò sarà beato se accetta Gesù, anche se non risponde alle sue attese che sconvolgono i suoi schemi, se si fida di Lui, insomma se si converte a Gesù, se crede in Lui.
Poi Gesù, quando gli inviati si allontanano per portare a Giovanni la risposta, fa l’elogio del Battista, ma applicando a lui il detto di Malachia “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”, dichiarando non solo che Giovanni è il Suo precursore, ma anche che Egli stesso è il Messia, e poi termina dicendo: “fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui”. Ossia la grandezza di Giovanni sta prima nel fatto di essere precursore del Messia, ma anche di aver continuato a cercare la Verità, anche dopo aver conosciuto in Gesù il Cristo. E Gesù quando afferma che nel Regno dei cieli il più piccolo è più grande di Giovanni, è perché chi è nel Regno dei cieli gode già del frutto di questa ricerca.
Si adatta al Battista l’intercessione del salterio: “A quanti cercano la verità, concedi Signore la gioia di trovarla, e il desiderio di cercarla ancora, dopo averla trovata.””
Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’ 11 dicembre 2016

Pubblicato in Liturgia

Celebriamo oggi, nella seconda domenica di Avvento la solennità dell’Immacolata Concezione della beata Vergine Maria, il cui dogma fu promulgato da Pio IX nel 1854, ma già nel IX secolo si celebrava in Inghilterra e Normandia una festa della Concezione di Maria e il Concilio di Basilea (1439) sancì questo evento come verità di fede. Si afferma che Maria è nata senza colpa originale, concepita senza peccato: colei che doveva dare alla luce il Figlio di Dio fu preservata da ogni macchia di peccato per essere la degna dimora di Gesù.
Celebrare l’Immacolata Concezione nel tempo di Avvento è quanto mai rilevante perché ci prepara a rivivere il “mistero della Redenzione” in avvenimenti dove la grazia fa irruzione in modo sovrabbondante sull’umanità.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Genesi al primo peccato, dovuto alla disobbedienza di Adamo ed Eva, Dio non rimane indifferente e nella pienezza dei tempi manda la nuova Eva, Maria, che schiaccerà la testa al serpente.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S. Paolo agli Efesini, possiamo comprendere che ciò che si è realizzato in Maria attende oggi di realizzarsi in ciascuno di noi, anche se non come lei al momento del concepimento, ma a quello del battesimo. E’ un dono e una chiamata che ci proietta nella meravigliosa avventura della costruzione prima di noi stessi e poi del mondo, secondo il progetto di Dio e quindi nella direzione dell’amore che non conosce tramonto.
Nel Vangelo di Luca troviamo il racconto dell’annunciazione dell’Angelo Gabriele a Maria, che obbedì totalmente all’annunzio della sua maternità divina.
In questa giornata che celebra la sua concezione, e quindi tutta la sua esistenza immacolata e gradita a Dio, la liturgia ci conduce nelle viuzze di questa cittadina della Galilea, alla ricerca delle tracce di Maria e di quel grande giorno in cui ha pronunciato il suo sì e nella onniscienza di Dio tutti noi eravamo presenti.

Dal Libro della Genesi
Dopo che l'uomo ebbe mangiato del frutto dell'albero, il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente:
«Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici!
Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».
L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi.
Gen 3,9-15.20


Il Libro della Genesi (che significa: "nascita", "creazione", "origine"), è il primo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana. E’ stato scritto in ebraico, e secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata intorno al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11 dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente (soprattutto in Palestina) del II millennio a.C. (la datazione dei patriarchi, tradizionale ma ipotetica, è attorno al 1800-1700).
Il libro della Genesi è suddiviso in due grandi sezioni. La prima, corrispondente ai capitoli 1-11, comprende il racconto della creazione e la storia del genere umano. La seconda sezione, dal capitolo 12 al capitolo 50, narra la storia del popolo eletto, mediante i racconti sui patriarchi.
Questo brano tratto dal Capitolo 3 descrive la convinzione d’Israele che la condizione umana (quale appariva allora) fosse una partecipazione alla punizione meritata dalla prima trasgressione.
La scena inizia subito dopo che Adamo ebbe mangiato dell’albero, quando Dio scende nel giardino e l'uomo e la donna si nascondono per non farsi vedere. La venuta di Dio evidenzia l'intimità, ormai distrutta, che univa Dio ai nostri progenitori! Dio chiama l'uomo come se non sapesse cosa fosse successo e gli chiede persino “Dove sei?”. L'uomo risponde di aver avuto paura e di essersi nascosto perché era nudo. Più che la paura del castigo, possiamo anche pensare che ciò che lo trattiene dal presentarsi a Dio è anche il timore reverenziale, lo stesso che in Israele impediva di esporre il proprio corpo in un luogo sacro (v. Es 20,26).
Dio allora gli chiede: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”. L'uomo però non si assume la responsabilità di ciò che ha fatto e risponde: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”, quasi per evidenziare che il vero colpevole è Dio stesso, che gliel'ha data come compagna. Il peccato, invece di provocare solidarietà fra coloro che lo commettono, li pone inevitabilmente l'uno contro l'altro.
Anche la donna non assume la sua responsabilità quando risponde: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato” gettando la colpa sul serpente.
Dio emettendo la sentenza comincia col condannare il serpente, anche se non era stato neppure interrogato, che viene maledetto con una sentenza irrevocabile: “Sul tuo ventre camminerai
e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita”. Poi Dio continua affermando: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”,
Leggendo questo brano nel contesto di tutta la Bibbia, che narra la storia della salvezza, il testo diventa un annunzio di speranza per l'umanità peccatrice. Il racconto termina riportando alcuni dettagli complementari.: “L’’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi”.
La donna è chiamata Eva (vita), poiché è destinata a diventare la madre di tutti i viventi: nonostante il peccato continua dunque la vita, che è il più grande dono di Dio!
Leggiamo poi che l'uomo e la donna sono rivestiti da Dio con tuniche di pelle, e ciò vuol dire che l’amore di Dio per loro non è venuto meno. Infine, perché l'uomo non abbia accesso all'albero della vita, Dio lo scaccia dal giardino e lo manda a coltivare la terra “perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto” (3,23)
I cherubini posti a custodia del giardino e dell'albero della vita sono figure mitologiche reminiscenza delle figure babilonesi, mentre la fiamma della spada folgorante rappresenta il fulmine (vv. 22-24). L'allontanamento dal giardino si ispira al tema della rottura dell'alleanza, che comportava per Israele l'abbandono della terra donatagli da Dio (Vv. Dt 11,17; 28,15-68).
L’autore con questo racconto ha voluto dirci qualcosa riguardo l’uomo di tutti i tempi e di tutte le culture, e cioè ha voluto spiegare la sua situazione di sofferenza e di morte. A tale scopo egli ha immaginato che all’inizio della storia l’uomo si trovasse in una situazione ideale, dalla quale è decaduto a causa di un suo peccato. Così facendo egli vuol far vedere che la presenza del male, in tutti i suoi aspetti, non deriva da Dio, ma dall’uomo stesso, il quale si è precluso quella felicità che Dio gli aveva concesso all’inizio. Questo modo di raccontare, tendente in qualche modo a scagionare Dio, ha uno scopo ben preciso: mostrare come Dio, non essendo responsabile del male presente in questo mondo, continua ad offrire all’uomo la possibilità di superare i suoi limiti e di raggiungere una condizione di vita adeguata alla sua dignità.
I profeti annunzieranno una salvezza piena che si attuerà in un futuro imprecisato (vv. Is 11,6-9) e quello che per l’autore della Genesi era un paradiso perduto, per i profeti diventa un paradiso che Dio donerà un giorno al Suo popolo e a tutta l’umanità: agli esseri umani non resta che prepararsi a questo evento finale. Mediante questi due modi simbolici di esprimersi gli autori biblici vogliono semplicemente far comprendere che l’uomo è chiamato alla felicità, ma la raggiunge solo se saprà distaccarsi da tutta una serie di pesanti condizionamenti, che provengono dal suo intimo e dalla società in cui vive.
Il rapporto con Dio ha quindi significato e deve essere vissuto in questa prospettiva: il “paradiso terrestre” è sempre disponibile a tutta l’umanità, pur in mezzo a tante difficoltà e sofferenze, a patto però che sia fedele a quei principi di amore e di giustizia che Dio ha scritto nel cuore di ogni uomo.

Salmo 98 (97) Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Il tempo della composizione di questo salmo è probabilmente quello del postesilio. Il motivo del suo invito ad un “canto nuovo” non è però ristretto al solo ritorno dall'esilio, ma nasce da tutti gli interventi di Dio per la liberazione di Israele dagli oppressori e dai nemici.
E' Dio stesso che, come prode guerriero, ha vinto i suoi nemici, che sono gli stessi nemici di Israele: “Gli ha dato vittoria la sua destra”.
Il “canto nuovo” celebra le “meraviglie” di Dio, tuttavia è aperto al futuro messianico, che abbraccerà tutti i popoli.
“La sua salvezza”, mostrata ai popoli per mezzo di Israele, ridonda già su di loro: “Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio”. Il Signore è colui che viene, che viene costantemente a giudicare la terra; e che verrà nel futuro per mezzo dell'azione del Messia, al quale darà il potere di giudicare nell'ultimo giorno la terra: “Giudicherà il mondo con giustizia e i popoli con rettitudine”.
Ogni episodio di liberazione il salmo lo vede come preparazione della diffusione a tutte le genti della salvezza del Signore. E' una salvezza universale che tocca anche il creato, che deve fremere di fronte agli eventi finali che lo sconvolgeranno: “Frema il mare...”; ma anche esultare, perché sarà sottratto dalla caducità introdotta da Adamo (Cf. Rm 8,19): “I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne”.
Noi, in Cristo, recitiamo il salmo nell'avvento messianico. La salvezza di Dio, quella che ci libera dal peccato - male supremo - è quella donataci per mezzo di Cristo.
La giustizia che si è mostrata a noi è Cristo, che per noi è morto e ci ha resi giusti davanti al Padre per mezzo del lavacro del suo sangue. Dio, è il Dio che viene (Cf. Ap 1,7; 4,8) per mezzo dell'azione dello Spirito Santo, che presenta Cristo, nostra salvezza e giustizia.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Benedetto Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati
di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui siamo stati fatti anche eredi,
predestinati – secondo il progetto di colui
che tutto opera secondo la sua volontà –
a essere lode della sua gloria,
noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
Ef 1,3-6.11-12

La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina,forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato
Il brano che abbiamo, è uno dei tre grandi inni Cristologici, che preghiamo anche durante i Vespri ogni settimana e che ci fa riflettere sul ruolo di Gesù nel progetto di amore del Padre. In particolare questo inno ci parla della predestinazione dei credenti. E' il Padre che sin dall'inizio dei tempi aveva pensato a noi, per renderci santi, per renderci suoi figli. Questo inno si adatta bene in particolare a Maria che nel piano della creazione-redenzione del mondo ha avuto un ruolo molto importante perché Dio Padre l‘ha scelta per essere santa e immacolata sin dal concepimento.
Il brano inizia con una invocazione benedicente: “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.”
La benedizione di Dio significa comunicazione di vita, e trova il suo compimento quando torna a Dio sotto forma di benedizione da parte dell'uomo. Il movimento della benedizione è prima discendente, poi ascendente: il dono è infatti completo solo quando è riconosciuto come tale, e il segno del riconoscimento è la lode. La comunicazione di vita, la benedizione, consiste nella chiamata alla santità. C’è un invito a contemplare in Maria la primizia, colei in cui il sogno di Dio ha trovato piena attuazione.
“In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità”,
Paolo ci spiega ora in cosa consista questa benedizione: Dio ci ha scelti, ci ha eletto, come aveva scelto il popolo di Israele. C'è un'iniziativa gratuita di Dio che previene ogni pretesa umana. E' una gratuità che parte dal Padre e ha avuto inizio prima della creazione del mondo!
“predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”.
Il progetto di Dio si attua per mezzo di Gesù Cristo e consiste nel far partecipare tutti i credenti alla sua condizione di figlio unico e amato. Se si parla di adozione, non è per sminuire la realtà dell'essere figli ma per sottolineare la differenza con la figliolanza di Gesù, che è modello e fonte di quella di tutti gli altri figli. C'è un amore gratuito che si espande in tutta la sua pienezza!
“In lui siamo stati fatti anche eredi,predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo”
Non sono riportati i vv 7-10, che parlano del perdono dei peccati che abbiamo ricevuto grazie a Cristo. Con il v. 11 torniamo all'argomento dell'adozione e dell'eredità che riceviamo in quanto figli di Dio.
L’essere preservata immacolata fin dal concepimento non ha esonerato Maria dall’impegno di corrispondere alla grazia. Se l’onda che aveva preso a scorrere in lei ha potuto diventare torrente e traboccare benefica su tutta l’umanità, è stato per il suo incondizionato abbandonarsi allo Spirito. Questo è il potere di un “Sì” che eleva a collaboratori di Dio, non solo nel tessere la nostra santità, ma anche nel portare avanti il Suo disegno di salvezza a favore dell’umanità intera.
Ciò che si è realizzato in Maria attende oggi di realizzarsi in ciascuno di noi, anche se non come lei al momento del concepimento, ma a quello del battesimo. Ognuno di noi è chiamato a questa via di santità, cioè a quella relazione di amore forte e incondizionato che ha legato Maria con il Signore. Riflettendo su di lei, sulla sua esperienza di vita e di fede riusciremo a camminare nelle vie che portano alla nostra pienezza e felicità.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Sato scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
Lc 1,26-38

L’evangelista Luca inizia così il suo racconto:“l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.” L’angelo Gabriele, il cui nome derivante dall’ebraico significa “la forza di Dio” “Dio è forte”, viene mandato da Dio a Nazareth, che era in realtà un piccolo villaggio rurale della Galilea, ad una vergine , e al tempo stesso promessa sposa.
L’angelo apparendo a Maria si rivolge a lei con l’usuale saluto greco: kaire, che significa “Rallègrati” e aggiunge un elogio inusuale, unico “piena di grazia: il Signore è con te”. Le parole che l’angelo le rivolge, provocano il turbamento di Maria, per cui l’angelo la invita a non temere, sottolineando che ha “trovato grazia presso Dio” per cui Dio vuole stabilire un rapporto speciale con lei per assegnarle un compito unico e straordinario nel Suo progetto di salvezza.
L’angelo glielo annunzia con queste parole: “concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”
Queste parole alludono all’oracolo di Isaia 7,14: Maria è dunque la vergine di cui parla il profeta e suo figlio,
non è un semplice discendente della casa davidica, ma il Messia atteso per gli ultimi tempi. In sintonia poi con il testo ebraico dell’oracolo e in forza del ruolo di madre che le è assegnato, sarà lei che gli darà il nome.
All’annunzio messianico dell’angelo, Maria risponde con una domanda: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?”
In risposta alla domanda di Maria, l’angelo dà i chiarimenti che, solo chi è immerso completamente nel mistero di Dio, può accettare senza comprendere pienamente: “Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Dopo aver indicato nel nascituro il Figlio dell’Altissimo, l’angelo spiega che questo appellativo è dovuto al fatto che lo Spirito santo interverrà in modo speciale nel momento stesso del suo concepimento.
Al termine del suo annunzio l’angelo rivela a Maria la gravidanza di Elisabetta, sua parente. Questo evento, tenuto gelosamente segreto dai diretti interessati, diventa il segno visibile che conferma l’autenticità della rivelazione dell’angelo. Esso infatti mostra nel modo più convincente che ”nulla è impossibile a Dio” (Gen 18,14).
Alle parole dell’angelo Maria risponde: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola”.
Maria si rende così disponibile al progetto di Dio e ne diventa partecipe fino in fondo.
Il termine“serva” con cui Maria si autodefinisce non deve far pensare ad esortazioni sull’umiltà, la modestia, o il nascondimento. Maria ha la coscienza che in lei donna semplice e comune, Dio ha realizzato l’intervento definitivo e grandioso del suo progetto di salvezza “atteso da tutte le generazioni”.
Nella sua preghiera, il “Magnificat” che pronuncerà nell’incontro con Elisabetta, Maria intuisce di essere il terreno ideale in cui Dio celebrerà i trionfi e offrirà la salvezza del Suo Regno: “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente …” L’immacolata concezione è, allora, la storia di una donazione totale ad un piano tracciato da Dio, è la storia di una grazia e di una vocazione eccezionale.
Alla luce di questo modello di “serva del Signore”, oggi l’Adamo-Eva che è in ognuno di noi è invitato a ritornare allo splendore del paradiso terrestre, cioè alla grazia. Là potrà incontrare Dio in un dialogo familiare, intimo, di amore, là potrà vivere in armonia con il creato e con il suo prossimo.

*****************

Madre Immacolata,
nel giorno della tua festa, tanto cara al popolo cristiano,
vengo a renderti omaggio nel cuore di Roma.
Nel mio animo porto i fedeli di questa Chiesa
e tutti coloro che vivono in questa città, specialmente i malati
e quanti per diverse situazioni fanno più fatica ad andare avanti.
Prima di tutto vogliamo ringraziarti
per la premura materna con cui accompagni il nostro cammino:
quante volte sentiamo raccontare con le lacrime agli occhi
da chi ha sperimentato la tua intercessione,
le grazie che chiedi per noi al tuo Figlio Gesù!
Penso anche a una grazia ordinaria che fai alla gente che vive a Roma:
quella di affrontare con pazienza i disagi della vita quotidiana.
Ma per questo ti chiediamo la forza di non rassegnarci, anzi,
di fare ogni giorno ciascuno la propria parte per migliorare le cose,
perché la cura di ognuno renda Roma più bella e vivibile per tutti;
perché il dovere ben fatto da ognuno assicuri i diritti di tutti.
E pensando al bene comune di questa città,
ti preghiamo per coloro che rivestono ruoli di maggiore responsabilità:
ottieni per loro saggezza, lungimiranza, spirito di servizio e di collaborazione.
Vergine Santa,
desidero affidarti in modo particolare i sacerdoti di questa Diocesi:
i parroci, i viceparroci, i preti anziani che col cuore di pastori
continuano a lavorare al servizio del popolo di Dio,
i tanti sacerdoti studenti di ogni parte del mondo che collaborano nelle parrocchie.
Per tutti loro ti chiedo la dolce gioia di evangelizzare
e il dono di essere padri, vicini alla gente, misericordiosi.
A te, Donna tutta consacrata a Dio, affido le donne consacrate nella vita religiosa e in quella secolare,
che grazie a Dio a Roma sono tante, più che in ogni altra città del mondo,
e formano un mosaico stupendo di nazionalità e culture.
Per loro ti chiedo la gioia di essere, come te, spose e madri,
feconde nella preghiera, nella carità, nella compassione.
O Madre di Gesù,
un’ultima cosa ti chiedo, in questo tempo di Avvento,
pensando ai giorni in cui tu e Giuseppe eravate in ansia
per la nascita ormai imminente del vostro bambino,
preoccupati perché c’era il censimento e anche voi dovevate lasciare il vostro paese, Nazareth, e andare a Betlemme…
Tu sai, Madre, cosa vuol dire portare in grembo la vita
e sentire intorno l’indifferenza, il rifiuto, a volte il disprezzo.
Per questo ti chiedo di stare vicina alle famiglie che oggi
a Roma, in Italia, nel mondo intero vivono situazioni simili,
perché non siano abbandonate a sé stesse, ma tutelate nei loro diritti,
diritti umani che vengono prima di ogni pur legittima esigenza.
O Maria Immacolata,
aurora di speranza all’orizzonte dell’umanità,
veglia su questa città,
sulle case, sulle scuole, sugli uffici, sui negozi,
sulle fabbriche, sugli ospedali, sulle carceri;
in nessun luogo manchi quello che Roma ha di più prezioso,
e che conserva per il mondo intero, il testamento di Gesù:
“Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (cfr Gv 13,34).
Amen.

preghiera che Papa Francesco ha recitato l’8 dicembre 2018 all’Immacolata a Piazza di Spagna

Pubblicato in Liturgia

Con questa I domenica di Avvento si apre il nuovo anno liturgico e inizia con un invito che dà un senso di inquietudine: Vigilate! Tenetevi pronti!
Nella prima lettura, il profeta Isaia, considerando il giorno del Signore, predice che tutti i popoli si incammineranno da ogni angolo della terra verso il colle luminoso di Sion, verso Gerusalemme, la città santa.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo, nella sua lettera ai Romani, dopo aver parlato prima e a lungo dell’agire salvifico di Dio in Cristo, invita i cristiani alla consapevolezza del momento. Il kairòs di Dio, cioè il momento in cui Dio agisce per la salvezza, impone al cristiano un preciso comportamento che si concretizza nella vigilanza, nel fare le opere della luce, e nell’essere operatori di pace e non di contese.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù ci esorta a vigilare in vista della fine dei tempi, del giudizio finale, infatti dice: tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo” Vigilare e operare bene significa fare la volontà del Padre, significa vivere le parole del Vangelo, prendersi cura del prossimo che avviciniamo, pregare e avere fede in Dio, riconoscendo la Sua presenza nella nostra vita, in modo da poter affrontare tutte le difficoltà che si presentano con calma e serenità. Questo modo di vivere l’attesa è l’elemento distintivo proprio del cristiano, che dovrebbe attendere e vivere il Natale non solo per “tradizione”, ma sentendolo con gioia come un incontro con il Signore che viene.

Dal libro del profeta Isaia
Messaggio che Isaìa, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.
Alla fine dei giorni,
il monte del tempio del Signore
sarà saldo sulla cima dei monti
e si innalzerà sopra i colli,
e ad esso affluiranno tutte le genti.
Verranno molti popoli e diranno:
“Venite, saliamo sul monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe,
perché ci insegni le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri”.
Poiché da Sion uscirà la legge
e da Gerusalemme la parola del Signore.
Egli sarà giudice fra le genti
e arbitro fra molti popoli.
Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
e delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione,
non impareranno più l'arte della guerra.
Casa di Giacobbe, venite,
camminiamo nella luce del Signore.
Is 2,1-3

Il profeta Isaia (Primo Isaia) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C, quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal buon re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini.
La prima parte del libro che porta il suo nome (cc. 1-39) contiene in gran parte oracoli che con una certa sicurezza sono stati da lui composti. Essa si apre con una serie di poemi composti nel 740-736, durante il periodo in cui Iotam era re di Giuda (Is 1-5). In essi, dopo una forte requisitoria contro il popolo ribelle, divenuto preda di una completa desolazione, il profeta prospetta la pace futura, a cui corrisponde l’abbassamento dei potenti di questo mondo. Vengono poi riportati altri oracoli riguardanti la situazione drammatica di Gerusalemme, con al termine l’annunzio della venuta di un “germoglio giusto”, che è messaggio tardivo di speranza per gli esuli in Babilonia (Is 3-4). Come conclusione della raccolta si trova il “canto della vigna”, seguito da una serie di minacce (Is 5).
Nel brano che abbiamo il profeta riporta una visione contenente un messaggio che riguarda Giuda e Gerusalemme. Nell’oracolo si prospetta per questo regno, in contrasto con la drammatica situazione descritta negli oracoli precedenti, un futuro meraviglioso: “Alla fine dei giorni,il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e si innalzerà sopra i colli,”. L’espressione “fine dei giorni “ indica un imprecisato momento della storia in cui il progetto divino giunge a compimento. Si tratta dunque di un evento che rappresenta la meta a cui è necessario orientarsi nel corso della storia. Esso giunge al termine di un processo di cui Dio è l’autore, ma che si attua progressivamente con la collaborazione umana.
Nell’ambiente siro-palestinese i tempietti delle divinità locali venivano costruiti sulle alture. Anche il Signore ha la Sua dimora sulla montagna di Sion, nel tempio costruito in Suo onore e il profeta immagina questa montagna come un luogo particolarmente saldo e decisamente più alto delle montagne circostanti.
“ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno:“Venite, saliamo sul monte del Signore,al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Tre volte all’anno tutti gli israeliti dovevano recarsi al tempio portando i loro doni (Es 23,17; 34,23) e secondo questo oracolo chi si mette in cammino verso la montagna sono tutte le “genti” e molti “popoli”.
Nel testo parallelo del profeta Michea viene riportato che le nazioni sono identificate come “coloro che camminano con i propri dèi”, quindi anche i pagani(Mi 4,5). Lo scopo di questo pellegrinaggio viene colto nelle parole di coloro che si mettono in cammino. Essi vanno al “tempio del Dio di Giacobbe perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. La salita dei popoli ha una ragione: “Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli.” Il desiderio delle nazioni viene esaudito: da Sion ossia da Gerusalemme, dal luogo in cui si trova il santuario, escono sia la “la legge” che “la parola» del Signore.
L’incontro con il Signore provoca una trasformazione radicale nei rapporti fra i popoli: “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,e delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione,non impareranno più l'arte della guerra”. L’effetto del governo del Signore è la pace fra i popoli. Convertire le spade in aratri e le lance in falci è il risultato di un cambiamento di vita per tutti. In forza della parola del Signore le nazioni non solo rinunziano a farsi la guerra, ma trasformano le armi in strumenti con cui produrre ciò che è necessario per l’alimentazione della gente. La pace porta con sé un incremento del benessere anche materiale di tutti.
L’oracolo termina con un invito rivolto a Israele:”Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore”. Implicitamente si dice che la promessa di pace potrà realizzarsi solo se coloro che hanno cominciato ormai a imparare dal Signore a lasciarsi guidare da Lui prenderanno veramente a cuore il camminare nel Suo insegnamento.
Questo oracolo è ripreso in Giovanni 4,22 dove Gesù parlando con la samaritana afferma che” la salvezza viene dai Giudei”, e in Luca 24,47 dopo la Sua resurrezione dice ai suoi discepoli che “nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.”

Salmo 121- Andiamo con gioia incontro al Signore

Quale gioia, quando mi dissero:
“Andremo alla casa del Signore”.
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!

E’ là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge di Israele,
per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i troni del giudizio,
i troni della casa di Davide.

Chiedete pace per Gerusalemme:
vivano insieme sicuri quelli che ti amano,
sia pace nelle tue mura,
sicurezza nei tuoi palazzi.

Per i miei fratelli e i miei amici
Io dirò: « Su di te sia pace!».
Per la casa del Signore nostro Dio,
Chiederò per te il bene.

Questo salmo era usato per i pellegrinaggi annuali a Gerusalemme. Probabilmente venne scritto dopo la ricostruzione del tempio e delle mura di Gerusalemme al tempo del ritorno dall'esilio; infatti la grande gioia alla notizia che “Andremo alla casa del Signore”, presuppone un fatto straordinario, lungamente atteso, e non uno dei tre pellegrinaggi annuali prescritti dalla legge (Es 23,17; 34,23).
Lo stupore di fronte alla compattezza che presenta la città si apre alla lode di Dio: “Gerusalemme è costruita come città unita e compatta”. La città viene celebrata come il centro dell'unità religiosa per la presenza del tempio e come centro del governo civile: “E' là che salgono le tribù, le tribù del Signore (...) per lodare il nome del Signore. Là sono posti i troni del giudizio, i troni della casa di Davide”: benché politicamente non autonoma Gerusalemme è retta dalle leggi di Israele; la menzione di Davide dice che per l'Israelita Gerusalemme rimane legata a Davide, e quindi al futuro Messia.
Il salmista non manca di rivolgersi ai pellegrini invitandoli a pregare: “Chiedete pace per Gerusalemme”; e invoca pace su quanti la amano, cioè su quanti credono nel disegno di Dio su Gerusalemme. La pace invocata è quella che verrà portata dal Principe della pace.
A Gerusalemme si è formata la prima Chiesa particolare, che è stata la madre delle altre Chiese particolari, poiché il Vangelo è partito dalla comunità di Gerusalemme. Ma tutte le Chiese particolari, compresa quella di Gerusalemme, formano e sussistono nell'unica Chiesa di Cristo, che ha come vincolo di unità il successore di Pietro. Il pellegrinaggio dei popoli, delle dodici tribù della terra, trova il suo gioioso approdo alle “porte” della Gerusalemme messianica, pronta ad accogliere tutte le genti. La Gerusalemme messianica è la “civitas cristiana”, che ha come costitutivo fondante la Chiesa (Cf. Ap 21,9s).
Per la “civitas cristiana”, o società dell'amore, bisogna sempre pregare perché tragga costantemente dal Cristo la sua pace e la diffonda estendendosi a tutta la terra.
Il pellegrinaggio, tuttavia, non è cessato perché terminerà solo con l'ingresso nella Gerusalemme celeste.
Lo stupore di potere andare nella “casa del Signore” i cristiani lo hanno avuto nell'erezione delle prime basiliche a Roma, dopo le ondate di persecuzione per annullare la Chiesa.
Il primo stupore di fronte alla Gerusalemme messianica, o civiltà dell'amore, i cristiani lo hanno avuto quanto hanno visto il potere politico di Roma aprirsi a Cristo e alla Chiesa.
Ora il potere politico delle nazioni si sta sempre più chiudendo alla Chiesa, ma non si annullerà il germe della “civitas cristiana”; verrà infatti il giorno in cui su tutta la terra fiorirà la civiltà della verità e dell'amore.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.
La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo
Rm 13,11-14a

San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere istituiti a Gerusalemme. La Lettera ai Romani è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo perchè affronta grandi temi teologici: l'universalità e la gratuità del dono della salvezza che si ottiene per mezzo della fede in Cristo; la fedeltà di Dio; i rapporti tra giudaismo e cristianesimo; la libertà di aderire alla legge dello Spirito che dà vita.
In questo brano Paolo, dopo avere esortato a non avere altro debito se non quello dell’amore vicendevole, fa una considerazione riguardante i tempi della salvezza: “questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti”. Il credente deve praticare l’amore del prossimo consapevole del “momento speciale” (kairos) in cui sta vivendo. Come per chi dorme l’arrivo del mattino segna l’ora in cui deve ormai svegliarsi dal sonno, così per il credente il tempo attuale è quello in cui deve rendersi conto che la salvezza finale è ormai più vicina di quando ha aderito alla fede. Paolo si rifà qui alla convinzione, ampiamente diffusa tra i primi cristiani, secondo cui il ritorno del Signore fosse imminente (1Ts 4,13-18), e ogni momento che passava lo rendeva più vicino.
Il confronto del mattino che si avvicina viene poi ulteriormente sviluppato: “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce”. Come coloro per i quali la notte sta ormai per passare devono disporsi alla giornata che comincia, così i credenti devono disfarsi delle “opere delle tenebre” e “rivestire le armi della luce”. Il paragone della notte che lascia il posto al giorno ispira a Paolo un’altra esortazione: “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie” .
Il credente deve “comportarsi” onestamente, come in pieno giorno. Ciò significa l’abbandono degli atteggiamenti negativi che caratterizzano quelli che operano nelle tenebre. Questo comportamento negativo viene delineato mediante un piccolo elenco che comprende tre abbinamenti di vizi, che hanno come ambito la mancanza di autocontrollo (orge e ubriachezze), i rapporti sessuali (lussurie e impurità), i rapporti vicendevoli (litigi e gelosie): ad essi Paolo si è richiamato all’inizio della lettera descrivendo il comportamento dell’umanità lontana da Cristo (Rm 1,29-30).
I credenti non devono cedere di fronte ad essi, ma reagire in modo deciso e coerente:“Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo”. Rivestirsi del Signore Gesù Cristo (Gal 3,27) significa diventare una sola cosa con Lui, cioè partecipare pienamente alla Sua esperienza di morte e di risurrezione assumendo il Suo modo di pensare e il Suo comportamento: è questo il modo migliore per resistere alle lusinghe del male.
Il credente non è uno che è già arrivato alla meta, ma uno che si dirige quotidianamente verso di essa, lottando coraggiosamente contro tutti gli ostacoli e le tentazioni che gli rendono difficile il cammino.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti, così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà portata via e l'altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo”.
Mt 24, 37-44

E’ la prima domenica di Avvento del ciclo A e il Vangelo di Matteo (il secondo per lunghezza, dopo quello di Luca), ci condurrà per tutto il percorso dell’anno liturgico.
E’ il primo dei Vangeli, non tanto per l’antichità, attribuita oggi al Vangelo di Marco, quanto per il suo strettissimo legame con l’Antico Testamento. Riporta infatti 43 citazioni veterotestamentarie, e presenta Gesù come il vero Messia che adempie le Scritture, e la Chiesa come il vero Israele. Il Vangelo di Matteo, è il frutto della predicazione dell’apostolo, ma la composizione definitiva appartiene alla sua scuola e si fa risalire intorno agli anni 80. Ambiente di origine sembra una comunità cristiana composta in maggioranza di cristiani giudei-convertiti, che attraversava un momento di particolare crisi e difficoltà.
Questo brano fa parte del discorso escatologico di Gesù, che si trova anche negli altri due vangeli sinottici. La liturgia riporta solo i versetti nei quali Matteo insiste sulla necessità della vigilanza, prendendo a tal fine come esempio il diluvio universale e altre situazioni della vita quotidiana.
Il paragone del diluvio è utilizzato da Gesù, non in quanto castigo per la corruzione prevalente al tempo di Noè, ma soltanto per il suo carattere improvviso e inatteso. Gli uomini di allora, inconsapevoli della tragica sorte che li attendeva, si preoccupavano solo di ciò che riguardava la loro sopravvivenza in tempi normali: mangiavano e bevevano, e si sposavano. Improvvisamente però, quando Noè entrò nell’arca, furono spazzati via dal diluvio. Poi l’altro paragone :… due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà portata via e l'altra lasciata è tratto dalla realtà quotidiana, dove a volte capitano disgrazie che colpiscono una persona e non un’altra, che si trova nello stesso luogo e nelle stesse condizioni. (L’immagine del “giorno del Signore” è stata immortalata dal profeta Amos in una e propria sceneggiata piena di tensione: è come quando uno fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde.(Am5,19) Questo per far capire che il giorno del Signore è inevitabile: è il punto della storia in cui Dio entra in scena in modo decisivo e inaugura il suo regno di giustizia e di pace)
Gesù insiste poi dicendo: Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa.
Questo: “cercate di capire”, ci fa pensare quanto Gesù ha a cuore la nostra sorte.. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo. Per rafforzare quanto detto prima, Gesù dice che il Figlio dell’uomo verrà nel momento in cui non si pensa: Dio ha i Suoi tempi che non sono quelli dell’uomo e viene quando meno lo si aspetta.
L’ora di cui parla Matteo richiama il giorno e il tempo di cui Paolo parla nella seconda lettura, non un semplice tempo cronologico, ma un kairos, il tempo che appartiene a Dio e in cui Dio agisce, rimane all’uomo nella sua libertà riconoscerlo vivendo la sua vita con impegno, perché all’interno anche della sua storia personale, maturi il progetto di Dio.

 

*****

“Oggi nella Chiesa inizia un nuovo anno liturgico, cioè un nuovo cammino di fede del popolo di Dio. E come sempre incominciamo con l’Avvento. La pagina del Vangelo ci introduce in uno dei temi più suggestivi del tempo di Avvento: la visita del Signore all’umanità. La prima visita – sappiamo tutti – è avvenuta con l’Incarnazione, la nascita di Gesù nella grotta di Betlemme; la seconda avviene nel presente: il Signore ci visita continuamente, ogni giorno, cammina al nostro fianco ed è una presenza di consolazione; infine, ci sarà la terza, l’ultima visita, che professiamo ogni volta che recitiamo il Credo: «Di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti». Il Signore oggi ci parla di quest’ultima sua visita, quella che avverrà alla fine dei tempi, e ci dice dove approderà il nostro cammino.
La Parola di Dio fa risaltare il contrasto tra lo svolgersi normale delle cose, la routine quotidiana, e la venuta improvvisa del Signore. Dice Gesù: «Come nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti»: così dice Gesù. Sempre ci colpisce pensare alle ore che precedono una grande calamità: tutti sono tranquilli, fanno le cose solite senza rendersi conto che la loro vita sta per essere stravolta. Il Vangelo certamente non vuole farci paura, ma aprire il nostro orizzonte alla dimensione ulteriore, più grande, che da una parte relativizza le cose di ogni giorno ma al tempo stesso le rende preziose, decisive. La relazione con il Dio-che-viene-a-visitarci dà a ogni gesto, a ogni cosa una luce diversa, uno spessore, un valore simbolico.
Da questa prospettiva viene anche un invito alla sobrietà, a non essere dominati dalle cose di questo mondo, dalle realtà materiali, ma piuttosto a governarle. Se, al contrario, ci lasciamo condizionare e sopraffare da esse, non possiamo percepire che c’è qualcosa di molto importante: il nostro incontro finale con il Signore: e questo è l’importante. Quello, quell’incontro. E le cose di ogni giorno devono avere questo orizzonte, devono essere indirizzate a quell’orizzonte. Quest’incontro con il Signore che viene per noi. In quel momento, come dice il Vangelo, «due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato» . È un invito alla vigilanza, perché non sapendo quando Egli verrà, bisogna essere sempre pronti a partire.
In questo tempo di Avvento, siamo chiamati ad allargare l’orizzonte del nostro cuore, a farci sorprendere dalla vita che si presenta ogni giorno con le sue novità. Per fare ciò occorre imparare a non dipendere dalle nostre sicurezze, dai nostri schemi consolidati, perché il Signore viene nell’ora in cui non immaginiamo. Viene per introdurci in una dimensione più bella e più grande.
La Madonna, Vergine dell’Avvento, ci aiuti a non considerarci proprietari della nostra vita, a non fare resistenza quando il Signore viene per cambiarla, ma ad essere pronti a lasciarci visitare da Lui, ospite atteso e gradito anche se sconvolge i nostri piani. “

Papa Francesco Parte dell’Omelia del 27 novembre 2016

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
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