Programma
Ogni domenica, la liturgia ci propone determinate letture, che se anche non hanno un filo conduttore tra loro, ci aiutano sempre a conoscere meglio il Signore Gesù. Sono come un mosaico che formano un dipinto, un’opera d’arte che trova il suo compimento solo alla fine.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, il Signore, per bocca di Mosè, promette al popolo di suscitare tra di loro in continuità, un profeta, cioè un uomo non compromesso con centri di potere politico e religioso, che possa essere un porta-parola di Dio. Sulla base di questo testo i Giudei hanno atteso il Messia come un nuovo Mosè.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo continua ad indicare i motivi che gli fanno ritenere la verginità superiore al matrimonio. L’apostolo non pensa certo che il celibato possa eliminare del tutto le preoccupazioni legate alla vita in questo mondo, ma sembra convinto che possa attenuarle, affinché il credente sia unicamente preoccupato per le cose del Signore. Secondo Paolo chi ha rinunziato al matrimonio ha trovato la sua unità profonda nell’appartenere totalmente a Cristo, chi invece è sposato deve tendere anche lui alle realtà ultime del regno, ma servendosi di un mezzo, il proprio coniuge, che facilmente, per la debolezza umana, tende a separarlo da Cristo e a porsi come fine autonomo della sua vita.
L’evangelista Marco, nel brano del suo Vangelo, ci racconta che la gente osserva che Gesù insegna con autorità e che la sua dottrina è nuova, confrontata con quella degli scribi. Quando poi Gesù libera l’uomo posseduto dallo spirito impuro sono presi da timore e si chiedono chi sia mai costui che persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
Oggi ricorre la 71^giornata dei malati di lebbra-
Dal libro del Deuteronomio
Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto.
Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb , il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.
Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene. Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».
Dt 18,15-20
Il Deuteronomio è il quinto e ultimo libro del Pentateuco e ha la funzione di concludere la storia delle origini di Israele, e di fornire una sintesi delle tradizioni di fede contenute nella Torah. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte
È’ composto da 34 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.) e contiene varie leggi religiose e sociali (nella Torah, o “Legge mosaica”, sono enumerati anche un insieme di 613 mitzvòt, o precetti). Dopo la Prima Legge, data da Dio sul Sinai, il Deuteronomio (Deuteros nomos) si presenta come la "Seconda Legge", la nuova Legge che Mosè consegna al popolo poco prima di morire e invita a tradurre l'amore per Dio nella vita sociale e familiare, non limitandosi dunque allo stretto compimento della Legge.
E’ uno dei libri più intensi di tutto l’Antico Testamento, e presenta una lettura teologica della storia del popolo eletto: Mosè, prima di morire, ricorda a Israele gli avvenimenti passati, mostrando come essi facciano parte di una economia salvifica che ha come punti centrali la promessa ai Padri, l’elezione d’Israele fra tutti i popoli della terra e l’alleanza sinaitica. Questa consapevolezza di appartenere a Dio, privilegio unico ed esclusivo, fa nascere nel popolo l’esigenza di una risposta decisa e libera a favore di Dio e della Sua legge.
In questo brano, dopo aver messo in guardia il popolo contro coloro che praticano la divinazione e la magia, Mosè indica come alternativa il ruolo dei profeti, presentandoli come i più immediati continuatori della sua opera e indica i criteri da adottare per provare la loro autenticità
Mosè esordisce con una promessa: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto”, vale a dire i profeti suscitati da Dio saranno “simili a Mosè”, cioè avranno le sue stesse prerogative: ciò significa che i veri continuatori dell’opera di Mosè non saranno i re o i sacerdoti, ma uomini scelti di volta in volta da DIO e dotati di un carisma particolare.
L’origine divina del ruolo del profeta fa sì che il popolo sia tenuto ad ascoltare le loro parole per cui obbedire al profeta significa infatti obbedire a Dio.
Alla promessa iniziale Mosè aggiunge una motivazione: “Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.
Quanto descritto si riferisce al racconto della teofania avvenuta ai piedi del Sinai, quando il popolo, spaventato dai lampi e dai tuoni mediante i quali Dio si faceva sentire e dettava personalmente il decalogo, aveva chiesto a Mosè “Parla tu a noi e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!”.(Es 20,19). Tutto questo Mosè l’aveva fatto durante la sua vita e i profeti faranno dopo la sua morte.
Mosè riprende poi la promessa appena fatta mettendola direttamente sulla bocca di Dio, il quale dice di aver concesso quanto gli israeliti gli avevano chiesto durante la teofania e conferma quanto Mosè ha detto e continua precisando: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò.”
L’immagine è suggestiva: il profeta dovrà parlare, ma le parole che dirà non saranno sue, ma di DIO che parlerà attraverso di lui., per cui le parole umane del profeta saranno a tutti gli effetti parole di Dio. Questo intervento speciale del Signore in favore del profetismo ha importanti conseguenze, sia per il popolo che per lo stesso profeta.
Anzitutto per il popolo: “Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto”.
Poi per il profeta: “Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”.
Non viene richiesta un’obbedienza cieca, ma piuttosto una capacità di discernimento, il cui criterio principale è che il profeta parli a nome di DIO, e non degli idoli.
Il profeta è dunque un uomo che parla in nome di Dio e che agisce solo sotto la Suo azione, ma è anche uno che scopre la parola di Dio attraverso un cammino di riflessione umana alla luce della fede sugli eventi di cui è testimone.
Ciò appare chiaro dal fatto che, secondo il Deuteronomio, anche il profeta può sbagliare: se ciò dovesse accadere, egli dovrà rendere conto del proprio errore; ma anche il popolo, se si lascerà condurre per strade errate, sarà responsabile del proprio comportamento. Questa affermazione dunque rende responsabile anche il popolo che dovrà così essere dotato di un carisma profetico.
La stessa ispirazione che agisce nel profeta dunque deve illuminare chi lo ascolta affinché sappia discernere nelle sue parole la parola di Dio.
Salmo 95 (94) Ascoltate oggi la voce del Signore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere».
Il salmo è un invito alla preghiera durante una visita al tempio, probabilmente durante la festa delle capanne, che celebrava il cammino nel deserto (Cf. Dt 31,11), visto che il salmo ricorda l'episodio di Massa e Meriba.
Dio è presentato come “roccia della nostra salvezza”, indicando la roccia la sicurezza data da Dio di fronte ai nemici.
Egli è “grande re sopra tutti gli dei”; sono gli dei concepiti dai pagani, dietro i quali striscia l'azione dei demoni
Egli è colui che ha in suo potere ogni cosa: “Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti...”.
Il gruppo orante è invitato ad accostarsi a Dio, cioè ad entrare nell'atrio del tempio. Successivamente il gruppo è invitato a prostrarsi davanti al Signore. Segue l'invito ad ascoltare la voce del Signore. Nel silenzio dell'adorazione davanti al tempio Dio muove il cuore (“la sua voce”) indirizzandolo al bene, all'obbedienza dei comandamenti, al cambiamento della vita.
“Non indurite il cuore”; il cuore indurito non ascolta la voce del Signore e segue i suoi pensieri, ma si troverà a vagare nei deserti di un'esistenza senza Dio, senza alcun riposo.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”
Dalla prima lettera di San Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!
Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.
1Cor 7,32-35
Paolo scrivendo ai Corinzi, continua a rispondere ai loro quesiti, riguardante la vita sessuale nel matrimonio e nel celibato. In questo brano in particolare esordisce così:
“io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore;”
Torna il termine preoccupazioni, cioè le realtà alle quali occorre porre grande attenzione. Chi ha abbracciato la fede cristiana deve chiaramente impegnarsi ogni giorno per comprendere cosa è bene e cosa è male, cosa conduce al Signore e ciò che invece ci distoglie da Lui e dal Suo amore. Secondo Paolo chi non è sposato ha maggiori possibilità di dedicarsi alle cose del Signore. L'esempio che Paolo porta è lui stesso che si è dedicato totalmente alla predicazione del Vangelo, per cui ha evidenti pregiudizi riguardo al matrimonio
“chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! “
Paolo sente gli effetti della mentalità dualista della sua epoca, che contrappone il mondo presente e il mondo di Dio. E’ bene ricordare che nel matrimonio i due coniugi assumono dei doveri l'uno verso l'altro e che quindi è una scelta che va presa in modo serio e vissuta fino in fondo. Non si rinuncia al Signore, se si sceglie il matrimonio, anzi si può comprendere ancora di più come Dio è il compendio di ogni amore, e amando Lui per primo si riesce ad amare nel modo giusto gli altri.
“Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.”
Paolo ripete il concetto indirizzandolo al femminile. Egli presenta il coniuge come un immaginabile concorrente di Dio in amore. Se è vero che l’impegno per il coniuge e per la famiglia può ostacolare il completo interesse per Dio e per i fratelli, non si può non ammettere che anche il celibato comporta il rischio di uno spiritualismo che non è il linea con le esigenze reali delle persone. Il matrimonio infatti impone un continuo e diretto confronto con l’altro (il coniuge, i figli e la società), al quale il celibe può facilmente sottrarsi.
“Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni”.
Paolo si rende conto che sostenendo la superiorità del celibato potrebbe urtare la sensibilità di quanti vivono la vita matrimoniale, ma di fatto tutte le realtà di questo mondo, se vissute con troppa apprensione o troppo materialismo possono distoglierci dal servire bene il Signore.
La nostra umana sensibilità ci porta oggi a ritenere che entrambe le scelte (sia quella della castità, come quella matrimoniale) sono vocazioni di vita, che se vissute nel bene, nulla tolgono al regno di Dio, per cui sono sempre efficaci per seguire Gesù. Ciascuno ha il suo proprio dono, come afferma sempre Paolo (1 Cor 7,7) e in quanto reciproco dono, ciascuno, per la sua parte, collabora alla crescita del corpo di Cristo che è la Chiesa.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.
Mc 1,21-28
L’evangelista Marco dopo aver raccontato la chiamata dei quatto pescatori, riporta una serie di brani ambientati a Cafarnao, località che Gesù ha scelto come centro della Sua attività in Galilea. Gli eventi narrati sono distribuiti nell’arco di una giornata-tipo, che Gesù viveva.
Il brano liturgico propone il primo episodio di questa piccola serie, la liberazione di un indemoniato.
L’evangelista presenta Gesù che insegna in un giorno di sabato nella sinagoga di Cafarnao e sottolinea che i presenti “erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi”,quando insegnavano nelle sinagoghe.
Dopo questa introduzione sull’insegnamento di Gesù, l’evangelista racconta il fatto dell’indemoniato che è presentato come un uomo posseduto da uno “spirito impuro”. Impressiona subito il fatto che questo spirito impuro stia in un luogo di culto come una sinagoga, e ci stia tranquillo, senza essere scoperto, fino all’arrivo di Gesù, e solo al Suo arrivo gli si rivolge chiedendogli, con tono ostile : “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!”. L’espressione “che vuoi da noi” oltre ad indicare che non aveva nulla in comune con Gesù, il demonio lo accusa di essere venuto a mettere in pericolo il suo potere, e usando la prima persona plurale, dimostra di rappresentare un numero molto vasto di forze opposte a Dio, ma soprattutto mostra anche di conoscere la vera identità di Gesù.
L’appellativo “santo di Dio” che gli attribuisce, mette in luce il particolare rapporto che Egli ha con Dio: il demonio dunque considera Gesù come colui che, in quanto rappresentante di Dio, possiede un potere opposto al suo. Gesù allora sgrida duramente il demonio e gli “ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!»”.
E’ questa la prima volta in cui l’evangelista introduce, per iniziativa dello stesso Gesù, il velo del segreto messianico. E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.”
Lo “spirito impuro” non può far altro che obbedire, pur provocando urla e contorsioni nel povero posseduto. In tal modo Gesù dimostra di avere un potere superiore a quello dei demoni.
Al termine del racconto viene ripreso il tema iniziale: la gente è meravigliata, rendendosi conto che egli propone una dottrina nuova e la insegna con autorità. La dottrina nuova insegnata da Gesù consiste naturalmente nell’annunzio dell’imminente venuta del regno di Dio e con la liberazione dell’indemoniato la Sua autorità viene qualificata non solo più in rapporto al Suo modo di insegnare, ma anche perchè “comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono”. Il gesto da Lui compiuto fa sì che la Sua fama si diffonda in tutta la regione della Galilea.
L’evangelista sottolinea così per la prima volta che Gesù comincia ad essere conosciuto anche al di fuori della Sua regione, cioè in zone abitate quasi esclusivamente da pagani. Si parlerà in seguito di folle venute appunto dalle regioni confinanti con la Galilea, di pagani che si mescolano ai giudei.
La «dottrina nuova» di Gesù non è una vaga teoria filosofica, ma una forza creatrice e liberatrice. Noi tutti ne abbiamo bisogno per sterminare i demoni segreti che abbiamo dentro di noi e che si chiamano come diceva Gesù: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. (Mc 7,21-22) . In questo ultimo periodo purtroppo siamo diventati spettatori inermi provando orrore per certi fatti che la cronaca quotidianamente ci riporta .
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“L’odierno brano evangelico racconta una giornata-tipo del ministero di Gesù, in particolare si tratta di un sabato, giorno dedicato al riposo e alla preghiera, la gente andava in sinagoga. Nella sinagoga di Cafarnao, Gesù legge e commenta le Scritture. I presenti sono attirati dal suo modo di parlare; la loro meraviglia è grande perché dimostra un’autorità diversa da quella degli scribi. Inoltre, Gesù si rivela potente anche nelle opere. Infatti, un uomo nella sinagoga gli si rivolta contro interpellandolo come l’Inviato di Dio; Lui riconosce lo spirito maligno, gli ordina di uscire da quell’uomo e così lo scaccia .
Si vedono qui i due elementi caratteristici dell’azione di Gesù: la predicazione e l’opera taumaturgica di guarigione: predica e guarisce. Entrambi tali aspetti risaltano nel brano dell’evangelista Marco, ma il più evidenziato è quello della predicazione; l’esorcismo viene presentato a conferma della sua singolare “autorità” e del suo insegnamento. Gesù predica con autorità propria, come chi possiede una dottrina che trae da sé, e non come gli scribi che ripetevano tradizioni precedenti e leggi tramandate. Ripetevano parole, parole, parole, soltanto parole – come cantava la grande Mina –. Erano così: soltanto parole. Invece in Gesù, la parola ha autorità, Gesù è autorevole. E questo tocca il cuore. L’insegnamento di Gesù ha la stessa autorità di Dio che parla; infatti, con un solo comando libera facilmente l’ossesso dal maligno e lo guarisce. Perché? Perché la sua parola opera quello che dice. Perché Egli è il profeta definitivo. Ma perché dico questo, che è il profeta definitivo? Ricordiamo la promessa di Mosè. Mosè dice: “Dopo di me, tempo avanti, verrà un profeta come me – come me! – che vi insegnerà” (cfr Dt 18,15). Mosè annuncia Gesù come il profeta definitivo. Per questo [Gesù] parla non con l’autorità umana, ma con quella divina, perché ha il potere di essere il profeta definitivo, cioè il Figlio di Dio che ci salva, ci guarisce tutti.
Il secondo aspetto, quello delle guarigioni, mostra che la predicazione di Cristo è rivolta a sconfiggere il male presente nell’uomo e nel mondo. La sua parola punta direttamente contro il regno di Satana, lo mette in crisi e lo fa indietreggiare, lo obbliga ad uscire dal mondo. Quell’ossesso – quell’uomo posseduto, ossesso – raggiunto dal comando del Signore, viene liberato e trasformato in una nuova persona. Inoltre, la predicazione di Gesù appartiene a una logica opposta a quella del mondo e del maligno: le sue parole si rivelano come lo sconvolgimento di un ordine sbagliato di cose. Il demonio presente nell’ossesso, infatti, grida all’avvicinarsi di Gesù: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?» . Queste espressioni indicano la totale estraneità tra Gesù e Satana: sono su piani completamente diversi; tra loro non c’è nulla in comune; sono uno opposto all’altro. Gesù, autorevole, che attira con la sua autorevolezza la gente, e anche il profeta che libera, il profeta promesso che è il Figlio di Dio che guarisce. Ascoltiamo, noi, le parole di Gesù che sono autorevoli? Sempre, non dimenticatevi, portate in tasca o nella borsa un piccolo Vangelo, per leggerlo durante la giornata, per ascoltare quella parola autorevole di Gesù. E poi, tutti abbiamo dei problemi, tutti abbiamo peccati, tutti abbiamo delle malattie spirituali. Chiediamo a Gesù: “Gesù, tu sei il profeta, il Figlio di Dio, quello che è stato promesso per guarirci. Guariscimi!”. Chiedere a Gesù la guarigione dei nostri peccati, dei nostri mali.
La Vergine Maria ha custodito sempre nel suo cuore le parole e i gesti di Gesù, e lo ha seguito con totale disponibilità e fedeltà. Aiuti anche noi ad ascoltarlo e seguirlo, per sperimentare nella nostra vita i segni della sua salvezza.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 31 gennaio 2021
PROGRAMMA SETTIMANALE dal 22 al 28 gennaio 2024
Le letture che la liturgia di questa domenica ci propone hanno come filo conduttore la chiamata, e questa iniziativa è sempre di Dio. Come nella precedente domenica del battesimo del Signore alle rive del Giordano, anche in questa domenica il protagonista è Giovanni il Battista, ma le sue parole profetiche puntano verso un’altra meta: Gesù Cristo, l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo.
Nella prima lettura, tratta dal libro di Samuele, viene raccontata la storia della chiamata di Samuele, quando era ancora un bambino. Samuele all’inizio confonde la
voce di Dio con quella di Eli, che lo aiuta a discernere la parola di Dio e lo educa a coltivare atteggiamenti consoni ad ascoltarla e obbedirle. L’esperienza di Dio è sempre personale, ma abbiamo tutti bisogno di qualcuno che ci accompagni e ci aiuti a comprenderla .
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo invita i cristiani di Corinto, città famosa per i costumi immorali, a riflettere sulla dignità del proprio corpo, destinato alla gloria della risurrezione.
L’evangelista Giovanni, nel brano del suo Vangelo ci parla della chiamata dei primi discepoli, che incontrano Gesù. Andrea e il “suo compagno” vivono un incontro personale con Gesù, espresso con l’immagine stupenda del dimorare con lui nella stessa casa. Anche Pietro vive l’esperienza personale dello sguardo di Gesù che posandosi su di lui lo trasforma fino a capovolgerne la vita. Un semplice incontro, l’autenticità dei gesti e delle parole, lo sguardo di amore del Signore sono sufficienti per trasformare tutta la vita di ogni persona
Dal primo libro di Samuèle
In quei giorni, Samuèle dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio. Allora il Signore chiamò: «Samuèle!» ed egli rispose: «Eccomi», poi corse da Eli e gli disse: «Mi hai chiamato, eccomi!». Egli rispose: «Non ti ho chiamato, torna a dormire!». Tornò e si mise a dormire.
Ma il Signore chiamò di nuovo: «Samuèle!»; Samuèle si alzò e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Ma quello rispose di nuovo: «Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!». In realtà Samuèle fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore.
Il Signore tornò a chiamare: «Samuèle!» per la terza volta; questi si alzò nuovamente e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane. Eli disse a Samuèle: «Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”». Samuèle andò a dormire al suo posto.
Venne il Signore, stette accanto a lui e lo chiamò come le altre volte: «Samuèle, Samuèle!». Samuèle rispose subito: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta».
Samuèle crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole.
1Sam 3,3b-10.19
I due libri di Samuele sono due testi contenuti anche nella Bibbia ebraica dove sono contati come un testo unico e costituiscono, con i successivi due Libri dei Re, un'opera continua. Sono stati scritti in ebraico e secondo molti studiosi, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Sia i libri di Samuele che quelli dei Re hanno come unico progetto, quello di tratteggiare la vicenda storica di Israele dalla fine dell'epoca dei Giudici fino alla fine della monarchia con l'invasione babilonese di Nabucodonosor: un arco di tempo che comprende ben sei secoli.
Il primo libro di Samuele, descrive l'abbandono dell'ordinamento giuridico dei Giudici, con cui spesso le tribù si governavano in modo indipendente l'una dall'altra, e la nascita dell'ordinamento monarchico. Esso abbraccia un periodo di tempo che va dal XII secolo fino al 1010 a.C. circa, anno presunto della morte di Saul.
Questo brano ci riporta la chiamata di Samuele quando era ancora un ragazzo. Egli era nato da Elkana e Anna, una donna che era sterile, ma che aveva ottenuto da Dio un figlio, dopo tante preghiere e suppliche. Anna, fedele alla promessa, aveva consacrato Samuele, il figlio tanto atteso, al Signore e Lui, il Signore, ne fece uno strumento di grande bene.
All’inizio del capitolo 3, da dove è tratto questo brano, viene narrato che il giovane Samuele continuava a servire il Signore sotto la guida del sacerdote Eli, come aveva cominciato a fare fin dalla sua infanzia (V.2,21.26). Poi chi scrive fa notare che la “parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti”. Questa annotazione sta a significare che l’assenza di voci profetiche è segno di sventura, in quanto significa che il popolo si è allontanato dal suo Dio. “In quel tempo Eli stava riposando in casa, perché i suoi occhi cominciavano a indebolirsi e non riusciva più a vedere”.
Da questo momento inizia il brano liturgico:
“Samuèle dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio”. La situazione è quindi in apparenza critica: il sacerdote, a cui spetta la guida del popolo, è vecchio e cadente, Dio non fa sentire la sua voce, mentre l’arca dell’alleanza è affidata a un fanciullo. Unico segno di speranza sta nel fatto che la lampada di Dio continua a brillare.
In una situazione così disperata “il Signore chiamò: «Samuèle!»” Questo fatto avviene precisamente nel tempio, dove si trova l’arca dell’alleanza e la lampada continua a splendere ed ha come destinatario proprio quel giovinetto riposava nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca. Dio si rivolge a lui chiamandolo tre volte. Dopo la prima e la seconda volta Samuele, pensando che fosse Eli a chiamarlo, corre da lui e si mette volenterosamente a sua disposizione, ma Eli lo rimanda a riposare.
A questo punto il narratore spiega che “Samuèle fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore” Questo non vuol dire che Samuele non conoscesse le tradizioni di Israele che parlavano delle azioni potenti compiute dal Signore in favore del suo popolo. Samuele sicuramente le conosceva, ma non aveva avuto un’esperienza personale di Dio. La sua situazione ricorda quella di Giobbe, uomo integro e retto, che temeva Dio (Gb 1,1), ma dopo l’apparizione del Signore riconosce che prima lo conosceva solo per sentito dire (Gb 42,5).
Quando Samuele si precipita per la terza volta da Eli chiedendogli se lo avesse chiamato, Eli si rende conto che è il Signore lo stava chiamando, perciò gli dice di tornare a dormire e gli suggerisce, se dovesse sentire nuovamente la voce, di rispondere: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”»..
Anche se con ritardo, Eli si rende conto che la voce sentita da Samuele è la voce di Dio. Forse Eli nella sua giovinezza, aveva fatto un’esperienza personale di Dio: la vecchiaia e l’infedeltà al suo ruolo di guida nei confronti dei figli e, di riflesso, anche nei confronti di tutto il popolo, non gli impediscono di riconoscere l’intervento divino. Il fatto che Dio si rivolga a Samuele e non a lui non gli suscita gelosia, anzi si rende conto che è naturale ed anche giusto che Dio non si rivolga a lui, che porta su di sé il segno della disapprovazione divina, ma a uno che, proprio perché sta già servendo Dio, sarà capace di ascoltare la Sua voce.
Nei versetti successivi, non riportati nel brano liturgico, si racconta che Samuele fa come gli aveva suggerito Eli, e il Signore gli affida un messaggio per lui e tutta la sua casa. Dio non gli spiega dettagliatamente che cosa capiterà, ma si limita a confermargli che tutto ciò che era stato preannunziato si compirà al più presto, perché Eli ha visto ciò che i suoi figli compivano e non li ha puniti (vv. 12-14) Il riferimento è senza dubbio al brano precedente (2,27-36), in cui vengono preannunziate le sventure che colpiranno la famiglia di Eli. Chi scrive ha preferito anticipare questo messaggio in modo da suggerire che Dio ha lasciato a Eli il tempo di cambiare comportamento e si è mosso solo quando è apparso chiaro che non c’era più nulla da fare. Da ciò si capisce come mai Dio affermi che “non sarà mai espiata l’iniquità della casa di Eli né con i sacrifici né con le offerte! (3,13)
Al mattino Samuele inizia il suo servizio quotidiano al tempio. Ma Eli gli chiede che cosa gli ha detto Dio nella notte, presagendo che si tratta di cose dolorose, Eli lo incoraggia e al tempo stesso lo minaccia: se non parla, potranno capitare a lui cose peggiori di quelle che, probabilmente, riguardano soltanto Eli e la sua casa. A malincuore Samuele gli dice tutto e Eli risponde:”Egli è il Signore! Faccia ciò che a lui pare bene”. Questa risposta ricorda quella di Giobbe dopo essere stato colpito dalla prova: “Il Signore ha dato, il Signore a tolto, sia benedetto il nome del Signore”(Gb 1,21). Con questa frase egli rivela, questa volta senza ambiguità, di essere un vero uomo di Dio, anche se sconvolto dagli eventi negativi.
Il brano liturgico termina con questi versetti : "Samuèle crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole”.
Per la sua chiamata Samuele appare come il vero capo carismatico del popolo e saprà svolgere non solo il ruolo profetico, ma anche quello di sacerdote e di giudice perché il suo cuore e la sua volontà erano una cosa sola con il Signore a cui aveva consacrato tutto se stesso.
Il ruolo di guida di Samuele subirà un cambiamento con la richiesta da parte del popolo di un re. Questo evento implicherà la divisione dei compiti, che però non metterà in crisi il carattere teocratico del governo di Israele; anche il re infatti sarà un rappresentante di Dio e dovrà continuamente interagire con figure profetiche che gli indicheranno la strada da percorrere per essere fedele al Signore.
Salmo 40 (39) Ecco, io vengo, Signore, per fare la tua volontà.
Ho sperato, ho sperato nel Signore,
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo,
una lode al nostro Dio.
Ho sperato, ho sperato nel Signore,
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo,
una lode al nostro Dio.
«Nel rotolo del libro su di me è scritto
di fare la tua volontà:
mio Dio, questo io desidero;
la tua legge è nel mio intimo».
Il salmo inizia con una lode a Dio per la liberazione da grandi difficoltà. E’ una lode piena di giubilo, di forza, di annuncio della bontà del Signore. Il salmista è giunto ad una grande intimità con Dio, e Dio gli ha posto “sulla bocca un canto nuovo”. Egli con uno sguardo lieto verso il futuro afferma che “molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore”. Egli crede che tutta la terra conoscerà il tempo della pace.
Egli presenta la beatitudine dell’uomo che rimane col Signore e “e non si volge verso chi segue gli idoli”, di coloro che si credono autosufficienti e seguono così la menzogna. Il salmista nel suo giubilo ricorda le opere del Signore fatte a favore del suo popolo: “Quante meraviglie hai fatto, tu, Signore, mio Dio, quanti progetti in nostro favore”.
Egli afferma che il culto a Dio non è una semplice ritualità, ma deve scaturire dal cuore, da un vero amore a Dio, che si esprime nell’obbedienza alla sua parola. Egli ha capito - “gli orecchi mi hai aperto” - come il culto al tempio, senza l’obbedienza del cuore, disgusta Dio: “Sacrificio e offerta non gradisci”. “Gli orecchi mi hai aperto”, è traduzione che legge l’ebraico “karatta”, “forato”, come “aperto”. Questa lettura si collega a 1Samuele 9,15 e a Isaia 50,5 ed è stata promossa da autorevoli esegeti (Podechard e Dorme).
Ha capito perché ha ascoltato la Scrittura (Il rotolo del libro), e quindi ha obbedito alla Parola la quale lo ha illuminato sul vero culto da rendere a Dio. L’orecchio è organo dell’ascoltare, ma qui è pure simbolo dell’obbedire.
L’espressione “gli orecchi mi hai aperto”, si trova con versione diversa nella traduzione greca detta dei LXX : “un corpo invece mi hai preparato”. Questa versione è poi entrata nella lettera agli Ebrei (10,5), che dipende quanto a citazioni del Vecchio Testamento dalla traduzione dei LXX. La spiegazione di questa diversità va ricercata in una deficienza introdotta da un copista nel manoscritto, o più manoscritti di derivazione, a disposizione dei LXX, i quali dovettero superare l’incertezza letteraria con un pensiero teologico, affermando che nell’adorazione a Dio, nel vero culto a Dio, tutto l’uomo entra in gioco; il corpo deve essere sottomesso con decisa volontà ai comandamenti di Dio. I sacrifici, gli olocausti del tempio, sono un appello “al sacrificio, all’olocausto”, di dominio del proprio corpo. Sulla base di questo pensiero teologico i LXX fecero la loro traduzione; e questa è entrata nella lettera agli Ebrei riguardo l’Incarnazione.
Il salmista ha letto che nella Legge (Il rotolo del libro) è comandato di fare la volontà di Dio, che è amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; dunque non un culto dove sia assente il cuore, dove il senso non sia dominato, dove non ci sia obbedienza alla Parola, e non amore verso i fratelli. Egli dice: “su di me è scritto”; poiché “Il rotolo del libro” non chiede solo l’adesione della collettività, ma innanzi tutto l’adesione personale.
Fare la volontà di Dio è il desiderio intimo del salmista.
Egli nel giubilo non si dimentica del dovere di annunciare agli altri quanto Dio ha fatto per lui: “Non ho celato il tuo amore e la tua fedeltà alla grande assemblea”.
E il suo giubilo scaturisce dall’umiltà; perciò non è euforia. Egli, umile, si dichiara colpevole davanti a Dio, e chiede a lui sostegno per sostenere e uscire dai mali che lo circondano: “La tua fedeltà e la tua grazia mi proteggano sempre, poiché mi circondano mali senza numero”.
Anche se “povero e bisognoso”, il salmista non dubita affatto che Dio ha cura di lui e perciò termina il salmo con un grande atto di fiducia: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare”
Commento tratto da “Perfetta Letizia”
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?
Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!
1Cor 6,13b-15a, 17-20
La Paolo scrisse la prima lettera ai Corinzi durante la sua permanenza ad Efeso negli anni 54-55. E’ una delle più lunghe scritte dall’apostolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli. Paolo si era deciso a scriverla dopo aver ricevuto notizie sulla comunità da parte di conoscenti della famiglia di Cloe e dopo che gli era anche pervenuta una lettera dagli stessi Corinzi. Corinto era un’importante grande città, (famosa per il suo porto), centro di cultura greca, dove si affrontavano correnti di pensiero e di religione molto differenti tra loro. Il contatto della fede cristiana con questa capitale del paganesimo, anche celebre per il rilassamento dei costumi, poneva nei neofiti numerosi e delicati problemi. Pur essendo passati solo pochi anni dalla sua fondazione, la comunità di Corinto si era dimostrata molto vivace e nello stesso tempo anche molto problematica.
Nella lettera, dopo la lunga analisi al problema dei partiti a Corinto (1,10–4,21) Paolo affronta nei cc. 5-6 tre abusi che si erano verificati nella comunità: un caso di incesto (c. 5); l’appello ai tribunali civili (6,1-11); la fornicazione (6,12-20) il cui testo viene ripreso quasi integralmente dal brano liturgico.
Dopo una breve introduzione, non riportata dalla liturgia, Paolo pone le premesse della sua argomentazione che inizia riprendendo e confutando alcune affermazioni, che certamente circolavano a Corinto e venivano utilizzate da alcuni per giustificare il loro permissivismo sessuale. La prima era che :”Tutto mi è lecito”. che forse poteva essere ricavata dalla tesi paolina secondo cui il cristiano è liberato dalla legge (Gal 5,1; Rm 8,2-4), ma in realtà ha le sue radici nella mentalità e nella cultura greca in cui sussisteva l’idea che al saggio è permesso fare tutto ciò che vuole, perché lui solo sa che cosa è giusto, buono e vantaggioso (Dione Crisostomo, Orazioni 64,13-17). Che questo fosse il modo di pensare dei corinzi è confermato dal fatto che lo stesso slogan era utilizzato anche per giustificare la libertà di mangiare carni sacrificate agli idoli (v 10,23). Paolo lo cita qui due volte senza negarne la validità, ma ponendo delle forti riserve.
La prima volta egli osserva che “Tutto mi è lecito!”. Ma non tutto giova. “Tutto mi è lecito!”. Ma io non mi lascerò dominare da nulla. “(6,12) Di questo concetto, Paolo si serve anche altrove per sottolineare che non tutto ciò che in teoria è lecito fare, è utile per il bene della persona e per l’edificazione della comunità (v 7,35; 10,33; 12,7) perchè la libertà non significa rendersi schiavo nei confronti di qualsiasi realtà terrena. In queste brevi risposte c’è in embrione tutta la morale cristiana, la quale da una parte esclude il legalismo e dall’altra si oppone nettamente a ogni forma di libertinismo.
Un altro motto che presenta è: “I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!” (v. 13a). Anche questo motto può essere stato una male interpretazione di ciò che sosteneva Paolo quando diceva che ogni cibo è puro (v. 1Cor 8,8; Rm 14,14). I corinzi invece lo avevano interpretato nel senso che i bisogni naturali del corpo, e tra questi anche quello sessuale, devono essere soddisfatti senza problemi; la sessualità era così ridotta ad una naturale funzione fisiologica, di conseguenza non era considerato biasimevole aver rapporti con qualsiasi persona.
Inizia qui il brano liturgico. Anzitutto l’Apostolo osserva : “il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo” ossia il corpo è stato creato da Dio non per “l’impurità” cioè in funzione di un piacere egoistico, ma “per il Signore”. Il corpo non è uno strumento da usare a proprio piacimento, ma è parte integrante della persona stessa, che le permette di entrare in rapporto con gli altri, e prima di tutto con “il Signore”, poi aggiunge: Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza”.Tutto l’essere umano, e non solo la sua anima, come forse i corinzi erano portati a pensare (v 1Cor 15), parteciperà alla risurrezione di Cristo, ed è in questa prospettiva che la dimensione fisica dell’essere umano viene totalmente valorizzata.
La profonda solidarietà che lega il credente a Cristo l’Apostolo la presentata in questi termini: “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?” L’idea che i corpi dei credenti, cioè tutta la loro personalità da cui non è separabile l’aspetto fisico, siano membra di Cristo è ispirata a Paolo sia dall’esperienza battesimale (v. 12,12-13.27), sia da quella eucaristica (v. 10,17).
Paolo fa poi questa affermazione: “Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito”.Con queste parole conclude l’argomento e prosegue poi con l’esortazione: “State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo”.
Questa affermazione si basa sul fatto che, mentre negli altri peccati il corpo è usato solo come strumento di azioni illecite, nella fornicazione è il corpo stesso, in quanto simboleggia tutta la persona, che viene direttamente coinvolto in un rapporto immorale.
Due ulteriori domande servono ad approfondire questo argomento: Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Il termine “tempio” indica la parte interna del santuario, dove era localizzata la presenza di Dio. La comunità era già stata presentata come tempio di Dio e dello Spirito santo; in modo analogo anche il singolo cristiano, proprio in forza del suo rapporto con Cristo e con la Chiesa, rappresenta il luogo in cui Dio abita. Lo Spirito è il dono di Dio e in forza dello Spirito che opera in loro, i credenti appartengono a Lui, e non più a se stessi.
L’accenno allo Spirito suscita un’ultima considerazione: siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo! Paolo usa qui il verbo “comprare” sicuramente come sinonimo di un altro verbo, che indica il riscatto (redenzione) e siccome il riscatto avviene mediante la morte di Cristo, si può dire che a Lui la salvezza dell’umanità è costata un “caro prezzo” il prezzo del suo sangue. I credenti di conseguenza devono glorificare Dio ”nei loro corpi”, vivendo cioè in un profondo rapporto con Dio che coinvolge tutta intera la loro persona.
Per concludere si può dire che la risposta di Paolo alle tendenze lassiste dei corinzi mette in luce una concezione della persona umana in forza della quale la dimensione spirituale e quella fisica formano un’unità inseparabile. Per Paolo il corpo del credente non è una realtà separata dal resto della persona perchè anche il corpo un giorno entrerà nel regno di Dio, ma già fin d’ora esso è unito, mediante l’eucaristia, al corpo di Cristo, e quindi porta con sé il germe della risurrezione. Il sesso fa parte delle attività profonde della persona, e deve essere subordinato al rapporto che, mediante il battesimo, si è instaurato con Cristo.
In questo campo Paolo dimostra di essere un uomo del suo tempo, legato a una certa cultura e a una particolare visione dell’uomo e del mondo. Ma al di là di questo bisogna però riconoscere che ha ragione quando indica nella sessualità uno dei campi più importanti in cui si vive la fedeltà al vangelo.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.
Gv 1,35-42
Il Vangelo di Giovanni, ossia il quarto Vangelo, fu scritto in greco, ed è alquanto differente dai tre Vangeli sinottici che riportano racconti, miracoli, parole di Gesù fino a darcene un aspetto familiare che tutti conosciamo. Si presenta come il frutto della testimonianza del "discepolo che Gesù amava”, ma oggi molti studiosi fanno spesso riferimento ad una scuola giovannea nella quale sarebbe maturata la redazione del vangelo tra il 60 ed il 100 e delle lettere attribuite all'apostolo. E’ composto da 21 capitoli e come gli altri vangeli narra il ministero di Gesù. Anche se è notevolmente diverso dagli altri tre vangeli sinottici, sembra presupporre la conoscenza almeno del Vangelo di Marco, di cui riproduce talvolta espressioni particolari. Mentre i Vangeli sinottici sono più orientati sulla predicazione del Regno di Dio da parte di Gesù, il quarto vangelo approfondisce la questione dell'identità del Cristo, inserendo ampie parentesi teologiche.
Sin dal prologo l’Evangelista accenna alla testimonianza di Giovanni il Battista e all’esperienza fatta dai discepoli a contatto con Gesù. Descrive poi la testimonianza di Giovanni nel brano che segue immediatamente il prologo e subito dopo racconta l’esperienza dei primi tre discepoli che hanno incontrato Gesù.
All’inizio di questo brano l’evangelista riporta una nuova testimonianza di Giovanni in favore di Gesù. Questa seconda testimonianza, che ha luogo il giorno dopo, nello stesso posto, si distingue dalla precedente per alcuni dettagli. Mentre si suppone che la prima volta Giovanni parlasse alla folla di coloro che andavano a farsi battezzare, adesso Giovanni è solo con due discepoli. Gesù non va direttamente verso di lui, come era accaduto la volta precedente ma si trova, quasi casualmente, a passare di lì.
Giovanni lo “fissa intensamente” ! Questo sguardo fa pensare ad un sentimento particolarmente intenso nei confronti di Gesù e al tempo stesso è un segnale rivolto ai discepoli.
Il brano inizia riferendo che “Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio”. La testimonianza di Giovanni è veramente di poche parole: “Ecco l’agnello di Dio!”. Questa volta non si tratta più di spiegare chi è Gesù, ma di suggerire ai discepoli le conseguenze che devono trarre dalle indicazioni del maestro. In questa breve introduzione si vuole far comprendere che Giovanni non solo ha indicato Gesù alle folle, ma gli ha messo a disposizione i suoi discepoli.
I due discepoli di Giovanni, “sentendolo parlare così, seguirono Gesù”. Il verbo “seguire” è quello normalmente usato per indicare l’atteggiamento dei discepoli nei confronti del maestro. Il verbo all’aoristo indica una decisione definitiva, che i due non metteranno più in discussione. A prima vista sono loro che, indirizzati da Giovanni, prendono la decisione di mettersi al seguito di Gesù. Invece non è così: è Gesù che, quando si accorge che essi lo seguono, si rivolge a loro chiedendo: “Che cosa cercate?”. Essi sebbene lo seguano , danno l’impressione di essere ancora in cerca di qualcosa che non possiedono. È Gesù per primo che stabilisce con loro un rapporto personale. Alla domanda di Gesù rispondono con un’altra domanda: : “«Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Essi dimostrano così di sapere che Gesù è il vero Maestro (e l’evangelista lo sottolinea dando il termine in ebraico e traducendolo poi in greco) e sanno che quanto cercano può essere dato solo da lui.
La risposta di Gesù è molto significativa: “Venite e vedrete”. E’ Gesù che li invita ad andare da lui affinché possano “vedere”. In queste due parole è contenuto il senso profondo della loro vocazione. L’evangelista conclude bruscamente il dialogo dicendo che i due “Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio”.
È strano che l’evangelista, che sembra conoscere i particolari che possono venire solo da un testimone oculare, non riporti quello che Gesù ha detto a quelli che saranno i suoi primi discepoli. Ciò non deve stupire: quella conversazione conteneva in germe tutto quello che egli riferirà nel seguito del suo vangelo. Ora però l’evangelista non sembra tanto interessato a quello che Gesù ha detto, ma al fatto che i due hanno fatto una profonda esperienza personale di Lui. La sequela sta precisamente nel rapporto che si instaura tra maestro e discepolo, in forza del quale il secondo si unisce al primo e fa proprie la sua mentalità e le sue scelte, fino a formare una cosa sola con lui.
Solo a questo punto l’evangelista rivela l’identità dei primi due discepoli che “lo avevano seguito: Andrea, fratello di Simon Pietro”. Del suo compagno non si dice il nome, ma è corretto pensare che fosse il discepolo a cui è attribuito il quarto vangelo: di lui infatti non si dice mai il nome, ma si sottolinea il rapporto privilegiato che aveva con Gesù (“Il discepolo che Gesù amava”) che la tradizione lo identificherà con l’apostolo Giovanni.
Andrea “incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù”.
La definizione di Gesù come “Messia” contiene già un’esplicita professione di fede. È strano che in così poco tempo il discepolo abbia scoperto l’identità profonda di Gesù. Secondo il vangelo di Marco (il più antico) la dignità messianica di Gesù è stata nascosta durante la Sua vita pubblica ed è stata rivelata solo nel processo davanti al sommo sacerdote (v. Mc 14,61).
Secondo il quarto vangelo invece Gesù la manifesta subito all’inizio e i suoi la riconoscono senza difficoltà.
Andrea conduce poi Simone da Gesù, che “ Fissando lo sguardo su di lui, …disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro”. Sia lo sguardo che il cambiamento di nome indicano dunque la vocazione di Pietro e sottolineano il fatto che, tra i discepoli, egli sarà un punto di riferimento a quella roccia che è Dio, rappresentato ora da Gesù, la sua Parola fatta carne
E’ interessante notare che il gioco degli occhi, particolarmente importante nel Vangelo di Giovanni, percorre tutto il racconto ed è pieno di allusioni interiori e di rimandi spirituali. Il Battista “fissa lo sguardo su Gesù”, “Gesù si volta ed osserva”, i due che lo seguono “sono invitati a venire e vedere” ed essi “videro dove egli dimorava” e da ultimo Gesù “fissa lo sguardo su Pietro”, cambiandogli completamente l’esistenza.
Non si tratta quindi di un semplice intrecciarsi di sguardi, è un dialogo profondo che porta alla pienezza dell’incontro e della vocazione. L’incontro con Dio sconvolge sempre i piani modesti che l’uomo ha progettato, travolge le resistenze e coinvolge la vita in un impegno gioioso e totale.
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“Il Vangelo di questa seconda domenica del Tempo Ordinario presenta l’incontro di Gesù con i suoi primi discepoli. La scena si svolge presso il fiume Giordano, il giorno dopo il battesimo Gesù. È lo stesso Giovanni Battista a indicare a due di loro il Messia con queste parole: «Ecco l’agnello di Dio!» . E quei due, fidandosi della testimonianza del Battista, vanno dietro a Gesù. Lui se ne accorge e chiede: «Che cosa cercate?», e loro gli domandano: «Maestro, dove dimori?» .
Gesù non risponde: “Abito a Cafarnao o a Nazaret”, ma dice: «Venite e vedrete» . Non un biglietto da visita, ma l’invito a un incontro. I due lo seguono e quel pomeriggio rimangono con Lui. Non è difficile immaginarli seduti a farGli domande e soprattutto ad ascoltarLo, sentendo che il loro cuore si riscalda sempre più mentre il Maestro parla. Avvertono la bellezza di parole che rispondono alla loro speranza più grande. E all’improvviso scoprono che, mentre intorno si fa sera, in loro, nel loro cuore, esplode la luce che solo Dio può donare. Una cosa che attira l’attenzione: uno di loro, sessant’anni dopo, o forse di più, scrisse nel Vangelo: «Erano circa le quattro del pomeriggio» , scrisse l’ora. E questa è una cosa che ci fa pensare: ogni autentico incontro con Gesù rimane nella memoria viva, non si dimentica mai. Tanti incontri tu li dimentichi, ma l’incontro vero con Gesù rimane sempre. E questi, tanti anni dopo, si ricordavano anche l’ora, non avevano potuto dimenticare questo incontro così felice, così pieno, che aveva cambiato la loro vita. Poi, quando escono da questo incontro e ritornano dai loro fratelli, questa gioia, questa luce straripa dai loro cuori come un fiume in piena. Uno dei due, Andrea, dice al fratello Simone – che Gesù chiamerà Pietro quando lo incontrerà –: «Abbiamo trovato il Messia». Sono usciti sicuri che Gesù era il Messia, certi.
Fermiamoci un momento su questa esperienza dell’incontro con Cristo che chiama a stare con Lui. Ogni chiamata di Dio è un’iniziativa del Suo amore. Sempre è Lui che prende l’iniziativa, Lui ti chiama. Dio chiama alla vita, chiama alla fede, e chiama a uno stato particolare di vita: “Io voglio te qui”. La prima chiamata di Dio è quella alla vita, con la quale ci costituisce come persone; è una chiamata individuale, perché Dio non fa le cose in serie. Poi Dio chiama alla fede e a far parte della sua famiglia, come figli di Dio. Infine, Dio chiama a uno stato particolare di vita: a donare noi stessi nella via del matrimonio, in quella del sacerdozio o della vita consacrata. Sono modi diversi di realizzare il progetto di Dio, quello che Lui ha su ciascuno di noi, che è sempre un disegno d’amore. Dio chiama sempre. E la gioia più grande per ogni credente è rispondere a questa chiamata, offrire tutto sé stesso al servizio di Dio e dei fratelli.
Fratelli e sorelle, di fronte alla chiamata del Signore, che ci può giungere in mille modi anche attraverso persone, avvenimenti lieti e tristi, a volte il nostro atteggiamento può essere di rifiuto – “No… Ho paura… –, rifiuto perché essa ci sembra in contrasto con le nostre aspirazioni; e anche la paura, perché la riteniamo troppo impegnativa e scomoda: “Oh non ce la farò, meglio di no, meglio una vita più tranquilla… Dio là, io qua”. Ma la chiamata di Dio è amore, dobbiamo cercare di trovare l’amore che è dietro ogni chiamata, e si risponde ad essa solo con l’amore. Questo è il linguaggio: la risposta a una chiamata che viene dall’amore è solo l’amore. All’inizio c’è un incontro, anzi, c’è l’incontro con Gesù, che ci parla del Padre, ci fa conoscere il suo amore. E allora anche in noi sorge spontaneo il desiderio di comunicarlo alle persone che amiamo: “Ho incontrato l’Amore”, “ho incontrato il Messia”, “ho incontrato Dio”, “ho incontrato Gesù”, “ho trovato il senso della mia vita”. In una parola: “Ho trovato Dio”.
La Vergine Maria ci aiuti a fare della nostra vita un canto di lode a Dio, in risposta alla sua chiamata e nell’adempimento umile e gioioso della sua volontà. Ma ricordiamo questo: per ognuno di noi, nella vita, c’è stato un momento nel quale Dio si è fatto presente più fortemente, con una chiamata. Ricordiamola. Andiamo indietro a quel momento, perché la memoria di quel momento ci rinnovi sempre nell’incontro con Gesù.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 17 gennaio 2021
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)