Arrivati alla seconda domenica di quaresima, dovremmo fare il proposito di essere più attenti all’invito di Dio lasciando da parte le nostre sicurezze, e come Abramo e gli apostoli dobbiamo imparare a spogliarci delle cose superflue per riscoprire il vero volto di Cristo.
La prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, ci presenta la vocazione di Abramo. Vediamo come Dio prende l’iniziativa per riavvicinarsi all’uomo e sceglie Abramo, a cui promette una numerosa discendenza, e gli annuncia che in lui saranno benedette tutte le nazioni della terra. Abramo si affida totalmente a Dio, lascia tutto e parte verso l’ignoto. Alla fede di Abramo è legata la storia della salvezza.
Nella seconda lettura, dalla sua lettera a Timoteo, Paolo ricorda al suo discepolo prediletto, come alla base della vocazione cristiana vi sia una chiamata alla fede, che non è frutto di opere umane, ma dono di grazia.
Nel Vangelo di Matteo troviamo il racconto della Trasfigurazione di Gesù, il cui significato si coglie pienamente solo alla luce della fede pasquale, a cui si riferisce l’esortazione finale di Gesù: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». Dio stesso manifesta la vera identità di Gesù, la cui umanità viene momentaneamente trasfigurata e avvolta dalla luce radiosa della divinità, quale anticipazione della sua gloria pasquale.
Dal libro della Genesi
In quei giorni, il Signore disse ad Abram:
«Vàttene dalla tua terra,
dalla tua parentela
e dalla casa di tuo padre,
verso la terra che io ti indicherò.
Farò di te una grande nazione
e ti benedirò,
renderò grande il tuo nome
e possa tu essere una benedizione.
Benedirò coloro che ti benediranno
e coloro che ti malediranno maledirò,
e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra».
Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.
Gn 12,1-4ª
Nella seconda parte della Genesi (Gn 12-50) si narrano le vicende dei Patriarchi, i quali sono presentati non solo come i progenitori, ma anche come i modelli di Israele nel suo rapporto con Dio. Il primo di essi è Abram, al quale Dio cambierà il nome in Abramo (Gn 17,5). Nelle vicende di Abramo si intrecciano due temi di grandissima importanza, quello relativo alle promesse divine e quello della fede con cui l’uomo si apre a Dio e alla Sua iniziativa salvifica.
La storia di Abramo si apre con la sua chiamata da parte di Dio e il brano liturgico ne riporta solo i primi versetti. Dio si rivolge ad Abramo con queste parole: “Vàttene dalla tua terra,dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre,verso la terra che io ti indicherò.”
Dio chiede in pratica ad Abramo di abbandonare tutti i suoi legami naturali, (a quel tempo ciò significava trovarsi soli di fronte a un mondo ostile e pieno di pericoli) e di avviarsi verso un paese di cui Dio non gli indica né il nome né il luogo. Si può supporre che si tratti della terra di Canaan, ma Dio non lo dice, e neppure spiega quale sarà il suo rapporto con tale paese.
Ad Abramo non resta altro che andare verso l’ignoto, lasciandosi guidare ciecamente da quel Dio che gli si è rivelato.
Alle richieste divine corrispondono delle promesse: “Farò di te una grande nazione e ti benedirò,renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò,e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”.
Abramo dunque sarà il progenitore di un grande popolo. Umanamente parlando questa promessa può sembrare impossibile, perché, come è stato riportato nei versetti precedenti (Gn11,30), la moglie di Abramo, Sarai, era sterile. Inoltre Dio benedirà Abramo, cioè, secondo la mentalità biblica, lo riempirà di favori e di benessere sia in campo materiale che spirituale. Inoltre renderà grande il suo nome, cioè lo renderà celebre.
Questa promessa ci ricorda il racconto della torre di Babele, dove si dice che l’umanità, ancora indivisa, aveva voluto farsi un nome, e con esso una potenza, mediante la costruzione della torre (Gn 11,4), e proprio per questo era stata dispersa.
Abramo così diventerà anche strumento di quell’unità che gli uomini avevano invano cercato di ottenere. Inoltre Dio farà di Abramo una benedizione perché benedirà quelli che lo benediranno, e maledirà quelli che lo malediranno.
Ciò significa che Abramo troverà in Dio la sua incessante protezione, in quanto coloro che vorranno fargli del male saranno immediatamente puniti da Dio. Inoltre in lui tutte le famiglie della terra “si diranno benedette”.
Il nome di Abramo viene dunque usato per benedire e, di conseguenza, la benedizione di Abramo passerà a una moltitudine sterminata di gente, ed è chiaro che ciò avverrà mediante la sua discendenza. Questa promessa appare subito in contrasto con l’insicurezza a cui Abramo deve andare incontro lasciando la propria famiglia e con il fatto che egli umanamente non può avere un figlio dalla moglie Sarai, sterile ed avanzata negli anni..
Nella risposta silenziosa di Abramo emergono i segni essenziali di una autentica esperienza di fede: ascolto, abbandono delle proprie sicurezze, fiducia, disponibilità a mettersi in cammino. Il suo atteggiamento non ha nulla però di una sottomissione cieca. L’obbedienza a un comando preciso è una metafora per indicare la piena partecipazione di Abramo ad un progetto divino che supera la sua umana comprensione, che forse non capirà mai bene fino in fondo, ma che dà un senso alle sue scelte di vita.
Questo progetto consiste nella nascita di una nuova umanità la cui forza non sarà il potere ma l’amore. L’obbedienza incondizionata a questo progetto di Dio dovrà essere la caratteristica fondamentale del popolo che da lui nascerà.
Salmo 32 Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.
Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.
Il salmo comincia con un’esortazione alla gioia. Infatti la tentazione della tristezza è sottile, porta l’anima a stancarsi nel perseverare nel bene e, alla fine, a rivolgersi al male come fonte sicura di consolazioni. La tristezza non s’accompagna con la lode, ma con la lamentosità, e dunque bisogna mantenersi nella gioia per lodare il Signore, e del resto lodare il Signore mantiene nella gioia, quella vera, che non è euforia, ma realtà dell’amore.
Il salmista esorta ad allontanarsi dalla tristezza accompagnando la lode con la cetra, con l’arpa a dieci corde. La lode sia canto. Canto che nasce dall’amore, dal cuore, da un cuore puro. Non canto di bella voce, ma canto di bel cuore. “Cantate un canto nuovo”, esorta il salmista; il che vuol dire che il canto sia nuovo nell’amore. Si potranno usare le stesse parole, ma il canto sarà sempre nuovo se avrà la novità dell’amore. Non c’è atto d’amore che non possa dirsi nuovo se fatto con tutto il cuore. “Con arte”, bisogna suonare, nell’esultanza e non nell’esaltazione.
Il salmista dice il perché della lode a Dio; perché “retta è la parola del Signore”, cioè non mente, costruisce, guida, dà luce, dà pace e gioia. E ogni opera sua è segnata dalla fedeltà all’alleanza che egli ha stabilito col suo popolo.
Egli ama il diritto e la giustizia, cioè la pace tra gli uomini, la comunione della carità, il rispetto dei diritti dell’uomo.
Egli ha creato le cose come dono all’uomo, per cui ogni cosa ha una ragione d’amore: “dell'amore del Signore è piena la terra”. La creazione procede dal suo volere, dalla sua Parola. Tutte le cose sono state create con un semplice palpito del suo volere. Le stelle, che nella volta celeste si muovono (moto relativo al nostro punto di vista) come schiere. Le acque del mare sono ferme come dentro un otre: esse non possono dilagare sulla terra. Nelle cavità profonde della terra ha confinato parimenti le acque abissali, che sfociano in superficie nelle sorgenti. Esse sono chiuse (“chiude in riserve gli abissi ”), e non diromperanno sulla terra unendosi a quelle dei mari e del cielo per sommergere la terra (Cf. Gn 1,6-10; 7,11).
Il salmista proclama il suo amore a Dio a tutta la terra, invitando tutti gli uomini a temere Dio, cioè a temere di offenderlo perché egli è infinitamente amabile. Gli abitanti del mondo tremino davanti a lui, perché misericordioso, ma è anche giusto giudice e non lascia impunito chi si ribella a lui. Egli è l’Onnipotente perché: “parlò e tutto fu creato, comandò e tutto fu compiuto”.
I popoli, le nazioni, che vogliono costruirsi senza di lui non avranno che sconfitta. I loro progetti sono vani, non avranno successo. Al contrario il disegno salvifico ed elevante del Signore rimane per sempre. Nessuno lo può arrestare. Esso procede dal suo cuore, cioè dal suo amore - “i progetti del suo cuore” - e rimane per sempre, per tutte le generazioni.
Il salmista poi celebra Israele; il nuovo Israele, quello che ha come capo Cristo, e del quale Israele un giorno farà parte (Rm 11,15).
Nessuno sfugge allo sguardo del Signore: “guarda dal cielo: egli vede tutti gli uomini”. E lui sa ben vedere il cuore dell’uomo poiché lui l’ha creato, e sa “comprendere tutte le sue opere”, perché sa vedere il merito o il demerito sulla base dell’adesione all’orientamento al bene del cuore, e alla grazia che egli dona.
La sua grazia è la forza dell’uomo nelle situazioni di difficoltà. L’uomo non deve credere di salvarsi dalle catastrofi sociali perché possiede cavalli, ma deve rivolgersi a Dio, che può “liberarlo dalla morte e nutrirlo in tempo di fame”.
Il salmista, unito ai giusti, esprime una dolce professione di fede in Dio, una dolce speranza in lui: “L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo”; conclude poi con un’ardente invocazione: “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo”.
Commento di P.Marco Berti
Dalla II lettera di S.Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.
2Tm 1,8b-10
La seconda lettera a Timoteo si distingue dalla prima soprattutto perché testimonia una tenera relazione di paternità spirituale di Paolo con il discepolo Timoteo.
L’Apostolo la scrive quando è di nuovo prigioniero a Roma nel 67: le condizioni della prigionia sono dure, ben differenti da quelle della prima volta, quando predicava liberamente, in domicilio coatto (At 28,16)
In questo particolare brano Paolo, dopo aver esortato Timoteo a non vergognarsi di rendere testimonianza al Signore e neppure del suo rapporto con Paolo che è prigioniero per Lui, continua con queste parole:
“Figlio mio, con la la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo”.
Il coinvolgimento di Timoteo, nell’opera che Paolo sta svolgendo in favore del vangelo, comporta anche per lui sofferenze, provocate da persecuzioni e umiliazioni. Però anche il discepolo, come il suo maestro, non dovrà scoraggiarsi perché sarà aiutato da una forza che viene da Dio stesso.
Anzitutto si mette in luce l’iniziativa gratuita e efficace di Dio per la salvezza:
“Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità”.
La salvezza consiste dunque in una “vocazione santa”, e si sottolinea che ciò è dovuto non a opere buone compiute da noi, ma ad una precisa volontà di Dio, che si è attuata mediante la grazia che Egli ci ha concesso in Cristo e questo dono è tale dall’eternità. Si tratta dunque dell’attuazione nel tempo di un progetto che risale al momento stesso della creazione.
Paolo passa quindi a delineare la manifestazione o realizzazione del progetto salvifico di Dio: essa “è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo”.
Questo brano mette fortemente in luce l’origine divina della salvezza, che non si guadagna solo con opere buone, ma è un dono totalmente gratuito. In questa prospettiva si evidenzia l’importanza della fede. Credere significa discernere la grazia di Dio dovunque si manifesti, valorizzarla e farla diventare sorgente di altre grazie nei rapporti con gli altri. Una fede matura porta a vedere il dono di Dio in tutte le cose che ci circondano
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».
Mt 17, 1-9
Questo brano del Vangelo di Matteo, che viene dopo la confessione di Pietro, il primo annunzio della Passione, e le condizioni per seguire Gesù, inizia con questa precisazione:
“Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte.”
Anche se non è specificato, si è sempre pensato che il monte fosso il Tabor, comunque, trattandosi di una scena simbolica, ciò che conta non è il luogo ma il significato della parola “monte”, che esprime la vicinanza a Dio: (su un monte hanno avuto luogo secondo Matteo la tentazione di Gesù (4,8), il discorso inaugurale (5,1) e le apparizioni del Risorto (28,16).
Matteo poi ci riporta che: “E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.” Per spiegare la nuova forma assunta da Gesù, Matteo aggiunge il dettaglio del volto splendente come il sole, mentre per quanto riguarda le sue vesti afferma che esse divennero bianche, ma come secondo termine di paragone prende la luce e non l’opera del lavandaio, come fa Marco.
Alla trasfigurazione di Gesù fa seguito l’apparizione di due personaggi biblici, Mosè ed Elia La presenza dei due personaggi esprime la totalità della rivelazione veterotestamentaria (Legge e Profeti). Il racconto prosegue con la reazione dei discepoli: “Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Pietro interviene anche a nome anche degli altri due discepoli presenti, e chiama Gesù “Signore” (Kyrios) e non “rabbi”, come riferisce Marco, mettendo così più in luce la trascendenza. Infine Matteo evita di mettere in cattiva luce Pietro omettendo l’osservazione riportata da Marco circa lo stato confusionale in cui si trovava per la paura.
Si può osservare però che la tenda richiama il luogo in cui Mosè riceveva gli oracoli del Signore (Es 33,7-11) e su questo sfondo l’intenzione di fare tre tende potrebbe significare il desiderio di mettere Gesù sullo stesso piano dei due personaggi biblici, rinchiudendo così la sua persona e il suo messaggio nell’ottica dell’AT.
Questo brano del Vangelo di Matteo, che viene dopo la confessione di Pietro, il primo annunzio della Passione, e le condizioni per seguire Gesù, inizia con questa precisazione:
“Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte.”
Anche se non è specificato, si è sempre pensato che il monte fosso il Tabor, comunque, trattandosi di una scena simbolica, ciò che conta non è il luogo ma il significato della parola “monte”, che esprime la vicinanza a Dio: (su un monte hanno avuto luogo secondo Matteo la tentazione di Gesù (4,8), il discorso inaugurale (5,1) e le apparizioni del Risorto (28,16).
Matteo poi ci riporta che: “E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.” Per spiegare la nuova forma assunta da Gesù, Matteo aggiunge il dettaglio del volto splendente come il sole, mentre per quanto riguarda le sue vesti afferma che esse divennero bianche, ma come secondo termine di paragone prende la luce e non l’opera del lavandaio, come fa Marco.
Alla trasfigurazione di Gesù fa seguito l’apparizione di due personaggi biblici, Mosè ed Elia La presenza dei due personaggi esprime la totalità della rivelazione veterotestamentaria (Legge e Profeti). Il racconto prosegue con la reazione dei discepoli: “Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Pietro interviene anche a nome anche degli altri due discepoli presenti, e chiama Gesù “Signore” (Kyrios) e non “rabbi”, come riferisce Marco, mettendo così più in luce la trascendenza. Infine Matteo evita di mettere in cattiva luce Pietro omettendo l’osservazione riportata da Marco circa lo stato confusionale in cui si trovava per la paura.
Si può osservare però che la tenda richiama il luogo in cui Mosè riceveva gli oracoli del Signore (Es 33,7-11) e su questo sfondo l’intenzione di fare tre tende potrebbe significare il desiderio di mettere Gesù sullo stesso piano dei due personaggi biblici, rinchiudendo così la sua persona e il suo messaggio nell’ottica dell’AT.
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“Il Vangelo ci presenta l’evento della Trasfigurazione di Gesù . Presi in disparte tre degli apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, Egli salì con loro su un monte alto, e là avvenne questo singolare fenomeno: il volto di Gesù «brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» In tal modo il Signore fece risplendere nella sua stessa persona quella gloria divina che si poteva cogliere con la fede nella sua predicazione e nei suoi gesti miracolosi. E alla trasfigurazione si accompagna, sul monte, l’apparizione di Mosè e di Elia, «che conversavano con lui» .
La “luminosità” che caratterizza questo evento straordinario ne simboleggia lo scopo: illuminare le menti e i cuori dei discepoli affinché possano comprendere chiaramente chi sia il loro Maestro. È uno sprazzo di luce che si apre improvviso sul mistero di Gesù e illumina tutta la sua persona e tutta la sua vicenda.
Ormai decisamente avviato verso Gerusalemme, dove dovrà subire la condanna a morte per crocifissione, Gesù vuole preparare i suoi a questo scandalo – lo scandalo della croce -, a questo scandalo troppo forte per la loro fede e, al tempo stesso, preannunciare la sua risurrezione, manifestandosi come il Messia, il Figlio di Dio. E Gesù li prepara per quel momento triste e di tanto dolore. In effetti, Gesù si stava dimostrando un Messia diverso rispetto alle attese, a quello che loro immaginavano sul Messia, come fosse il Messia: non un re potente e glorioso, ma un servo umile e disarmato; non un signore di grande ricchezza, segno di benedizione, ma un uomo povero che non ha dove posare il capo; non un patriarca con numerosa discendenza, ma un celibe senza casa e senza nido. È davvero una rivelazione di Dio capovolta, e il segno più sconcertante di questo scandaloso capovolgimento è la croce. Ma proprio attraverso la croce Gesù giungerà alla gloriosa risurrezione, che sarà definitiva, non come questa trasfigurazione che è durata un momento, un istante.
Gesù trasfigurato sul monte Tabor ha voluto mostrare ai suoi discepoli la sua gloria non per evitare a loro di passare attraverso la croce, ma per indicare dove porta la croce. Chi muore con Cristo, con Cristo risorgerà. E la croce è la porta della risurrezione. Chi lotta insieme a Lui, con Lui trionferà. Questo è il messaggio di speranza che la croce di Gesù contiene, esortando alla fortezza nella nostra esistenza. La Croce cristiana non è una suppellettile della casa o un ornamento da indossare, ma la croce cristiana è un richiamo all’amore con cui Gesù si è sacrificato per salvare l’umanità dal male e dal peccato. …
La Vergine Santa ha saputo contemplare la gloria di Gesù nascosta nella sua umanità. Ci aiuti lei a stare con Lui nella preghiera silenziosa, a lasciarci illuminare dalla sua presenza, per portare nel cuore, attraverso le notti più buie, un riflesso della sua gloria.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 12 marzo 2017
1. Giovedì 5 marzo dalle ore 21,00 alle ore 24,00 in chiesa ci sarà l'Adorazione Eucaristica silenziosa, con l'intenzione particolare di preghiera per le vocazioni sacerdotali, religiose e missionarie.
2. Come comunità parrocchiale vogliamo collaborare con i volontari che si impegnano ogni 2° sabato del mese nel servizio ai poveri che vivono per strada. Si può collaborare portando in chiesa quanto segue: scatole di pomodori per sugo, pasta, scatole di fagioli o legumi, merendine, tonno, succhi di frutta. Grazie.
3. Ogni venerdì di quaresima alle ore 17,45 si celebra il pio esercizio della Via Crucis.
Siamo entrati in quaresima, “tempo forte” dell’anno liturgico. La quaresima ci è donata per aiutarci a smascherare e rifiutare i nostri idoli, cioè le nostre false speranze e scoprire sempre di più l'unico vero Dio, cioè l'unico che è in grado di darci una speranza per il futuro e un sostegno nel presente.
Nella prima lettura, tratta dal Libro della Genesi, leggiamo che Adamo ed Eva, cedendo alla tentazione del serpente, si allontanano da Dio, facendo entrare il peccato nel mondo.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, Paolo afferma che da Adamo vennero la disobbedienza, la condanna e la morte, da Cristo, nuovo Adamo e origine di una nuova umanità, è scaturita una sovrabbondanza di ricchezza e di grazia, che ci ha riconciliati con Dio.
Nel Vangelo di Matteo troviamo il racconto delle tentazioni che Gesù ebbe dopo quaranta giorni di digiuno nel deserto. In quella situazione di debolezza il demonio osò provarlo con tentazioni che ogni creatura umana di ogni tempo può subire. Gesù non si lascò sedurre dalle lusinghe del diavolo e rispose affidandosi interamente al Padre. La vittoria di Gesù diventa così speranza per ogni uomo che vuole combattere e vincere le tentazioni.
Dal libro della Genesi
Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.
Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
Gn 2,7-9; 3,1-7
Il Libro della Genesi (in ebraico בראשית bereshìt, "in principio"), è il primo libro del Pentateuco (cinque libri; in origine tutti in un unico rotolo: la Torà) e tratta delle origini dell’universo, del genere umano, del peccato originale, della storia dei patriarchi prediluviani, della chiamata di Abramo fino alla morte di Giacobbe. È stato scritto in ebraico e, secondo gli esperti, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Nei primi 11, dei suoi 50 capitoli, descrive la cosiddetta "preistoria biblica" (creazione, peccato originale, diluvio universale), e nei rimanenti la storia dei patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe-Israele e di Giuseppe, le cui vite si collocano nel vicino oriente del II millennio a.C. (attorno al 1800-1700 a.C).
Questo brano tratto dal 2^ capitolo appartiene alla fonte jahvista. Non è, come si dice spesso, un “secondo racconto della creazione” seguito da un “racconto della caduta”, sono, invece, due racconti combinati insieme e che utilizzano tradizioni diverse; ossia un racconto della creazione dell’uomo distinta dalla creazione del mondo e che non è completa se non con la creazione della donna e l’apparizione della prima coppia umana. Ossia è un racconto sul paradiso perduto, la caduta e il castigo. Dio plasma l’uomo servendosi della terra (’adamah), dalla quale appunto viene fatto derivare il suo nome (’adam, uomo) In forza del soffio vitale ricevuto da Dio, l’uomo diventa un «essere vivente»
Dopo aver compiuto la sua prima opera, “Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato..(oriente naturalmente rispetto agli israeliti, che vivono in Palestina). Le caratteristiche del giardino e la collocazione in esso dell’uomo sono descritte in modo dettagliato nei versetti 9-15, omessi dalla liturgia. Gli alberi del giardino hanno frutti che sono “graditi alla vista e buoni da mangiare”. In mezzo al giardino vi è “l’albero della vita” e “l’albero della conoscenza del bene e del male”. Nel racconto che prosegue nei versetti omessi dalla liturgia, dopo aver creato il giardino, Dio “prende” l’uomo creato nella terra arida, e lo “colloca” nel giardino con lo scopo di “coltivarlo e custodirlo”. L’uomo dunque, anche prima del peccato, deve svolgere, nel luogo assegnatogli da Dio, un ruolo attivo ed è logico considerare il giardino come il luogo in cui l’uomo esercita la propria fedeltà a Dio.
Il primo uomo riceve da Dio un comando: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”.«(vv. 16-17). Chi scrive intende qui semplicemente affermare che l’uomo, come risposta al dono ricevuto da Dio, era chiamato a rendere visibile e concreta la comunione con Lui mediante un’obbedienza incondizionata.
I versetti riportati dal brano liturgico presentano due soli personaggi: la donna e il serpente, fra i quali si apre un dialogo pieno di tensione. Il serpente entra in azione ed è descritto come una delle bestie selvatiche che Dio aveva creato: non è dunque un essere soprannaturale decaduto ma piuttosto l’immagine di una inclinazione cattiva che si trova nell’uomo.
Solo in un secondo tempo il serpente sarà identificato con il “diavolo” (Sap 2,24). Il ruolo di tentatore è assegnato proprio al serpente a motivo della sua fama di animale scaltrissimo, e soprattutto al fatto che nel mondo orientale esso fosse, come il toro, una raffigurazione del dio della fecondità; in Israele il culto del serpente era stato introdotto persino nel tempio di Gerusalemme (2Re 18,4)
Il racconto della tentazione rivela una fine psicologia: anzitutto il serpente insinua che Dio abbia proibito di mangiare tutti i frutti del giardino e la donna apre il dialogo con lui per respingere con fermezza l’insinuazione del serpente affermando che Dio ha proibito di mangiare il frutto di un solo albero, dopo aver messo a disposizione quelli di tutti gli altri.
Visto che il suo tentativo di negare il dono di Dio è stato respinto, il serpente, fa la seconda mossa e insinuando il dubbio afferma: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” Se mangiando il frutto dell’albero non si incorre in conseguenze negative, ciò significa che Dio, togliendo questa possibilità, dimostra di essere un tiranno geloso, che mente per difendere le proprie prerogative. Alla seconda insinuazione del serpente la donna non risponde, in lei si era insinuato il dubbio: se Dio aveva mentito, dall’essere Dio positivo era diventato un incubo da cui fuggire. Il testo riporta: “vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” Per chi scrive la responsabilità dell’uomo non è per nulla inferiore a quella della donna e come conseguenza del loro peccato, i progenitori si rendono conto di essere nudi e questo è il segno di un turbamento interiore che d’ora in poi condizionerà i loro rapporti.
In questo brano si parla solo apparentemente di eventi capitati all’inizio della storia. In realtà chi scrive usa uno stile simile a quello dei miti, ha voluto dire qualcosa che riguarda l’uomo di tutti i tempi e di tutte le culture, e cioè ha voluto spiegare la sua situazione di sofferenza e di morte. A tale scopo egli ha immaginato che all’inizio della storia l’uomo si trovasse in una situazione ideale, dalla quale è decaduto a causa di un suo peccato. Così facendo egli vuol far vedere che la presenza del male, in tutti i suoi aspetti, non deriva da Dio, ma dall’uomo stesso, il quale si è precluso quella felicità che Dio gli aveva concesso sin dall’inizio.
Questo modo di presentare il racconto, tendente in un certo senso a scagionare Dio, ha uno scopo ben preciso: mostrare come Dio, non essendo responsabile del male presente in questo mondo, continua a offrire all’uomo la possibilità di superare i suoi limiti e di raggiungere una condizione di vita adeguata alla sua dignità. Emerge così che Dio sin dal principio ha creato l’uomo per vivere in un dialogo di amore con lui; ma l’ha voluto anche realizzatore del suo destino.
Salmo 50 - Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.
Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10). Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato. Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti. E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Rm 5,12-19
San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere istituiti a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo parchè affronta grandi temi teologici: l'universalità e la gratuità del dono della salvezza che si ottiene per mezzo della fede in Cristo; la fedeltà di Dio; i rapporti tra giudaismo e cristianesimo; la libertà di aderire alla legge dello Spirito che dà vita. Nei primi 4 capitoli Paolo ha affrontato la giustificazione che si ottiene mediante la fede e non più attraverso l'osservanza della legge e attraverso la fede e la giustificazione si ottiene la vita. .
In questo brano, in particolare Paolo tratta la dottrina del peccato originale e afferma che il peccato stesso è entrato nell’umanità per mezzo di questa colpa iniziale.
“Fratelli, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato”.
Dopo aver descritto la consolante situazione di coloro che sono stati giustificati grazie alla fede (5,1-11), Paolo illustra il dramma dell'opposto destino morte-vita che attende l'umanità in Adamo e quella riscattata da Cristo. Il paragone è fondato su Adamo e Cristo. E' stato Adamo con la sua disobbedienza a far entrare il peccato nel mondo e come conseguenza del peccato la morte. Tutti i discendenti di Adamo perciò sono partecipi del peccato e anche della morte.
“Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge”,
Paolo riconosce però una certa cronologia. Da Adamo a Mosè, cioè fin quando Dio non ha dato una legge al Suo popolo, il peccato c'era ma chi lo commetteva non aveva capo di imputazione. Era una situazione di caos, una mancanza di ordine, un peccato che si commetteva senza sapere, una morte inconsapevole.
“la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire”
Quindi non c'era la legge ma c'era il peccato e gli uomini continuavano a peccare come aveva fatto Adamo, la cui unica caratteristica positiva è quella di essere stato figura (tipo) di Gesù Cristo, l'uomo perfetto, il capostipite di “Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio, e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti.”.
Il parallelo Gesù-Adamo però non è giusto Si somigliano solo per il loro essere a capo di una numerosa discendenza. Il dono della grazia che viene da Gesù è molto più grande delle conseguenze della caduta.
“E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione”
Paolo ribadisce nuovamente la superiorità del dono che ci viene dato in Cristo. Questo dono ci giustifica, ci rende giusti davanti a Dio.
“Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo”.
Così tutti quelli che ricevono la grazia in virtù del sacrificio di Cristo e sono giustificati non solo riceveranno la vita, ma regneranno, cioè saranno resi partecipi della signoria di Cristo sul tutto il mondo.
“Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita”.
L'opera giusta di uno solo dona a tutti gli uomini la giustificazione che dà vita, ma questo uno solo non è un uomo qualsiasi, è Gesù Cristo.
“Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.”
Come la disobbedienza di Adamo ha reso tutti peccatori, così l'obbedienza di Gesù Cristo ha reso tutti giusti.
E’ stupendo il parallelo che l’apostolo fa tra l’opera nefasta del primo Adamo e la riparazione sovrabbondante dell’ultimo Adamo. Il primo Adamo volle essere signore del bene e del male ed ottenne come risultato la morte. Cristo, al contrario, riconobbe la propria dipendenza da Dio, fu sempre fedele e obbediente al Padre e divenne Signore della vita. Tutti coloro che lo seguono e ne imitano l’obbedienza saranno costituiti giusti. Fra questi due modi di essere uomini ognuno è invitato a fare la sua sceltauna nuova generazione.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».
Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”».
Gesù gli rispose: «Sta scritto anche:
“Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti:
“Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.
Mt 4, 1-11
Matteo, dopo aver presentato i racconti dell’infanzia di Gesù, apre il suo vangelo con tre quadri che riguardano la predicazione di Giovanni il Battista, il battesimo di Gesù e la tentazione nel deserto che è presente in tutti e tre i vangeli sinottici.
Il brano si apre presentando Gesù che viene condotto nel deserto dallo Spirito, ed è lo stesso Spirito che era disceso su di lui in occasione del battesimo.
“Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».”
Si può subito notare che sebbene sia lo Spirito a condurre Gesù nel deserto, colui però che lo sottopone alla tentazione è il diavolo; viene inoltre precisato che nel deserto Gesù rimane quaranta giorni e quaranta notti. Quaranta è un termine di tempo biblico che richiama sia i quarant’anni trascorsi dal popolo di Israele nel deserto (v. Dt 8,2), sia i quaranta giorni e quaranta notti in cui Mosè è rimasto sul monte Sinai, prima di ricevere le tavole della Legge (Es 24,18). .
Il sintomo naturale della fame, che subentra al lungo digiuno, fornisce l’occasione della prima tentazione. Il tentatore si avvicina a Gesù e gli chiede di dimostrare la sua qualifica di Figlio di Dio trasformando le pietre in pane.
A questa tentazione Gesù risponde con una citazione biblica: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3).
La seconda tentazione ha come sfondo il tempio di Gerusalemme, quello che era il centro spirituale del giudaismo. Essa si svolge sul pinnacolo del tempio, dove si incrociavano le mura del portico di Salomone e di quello regio, con uno strapiombo nella vallata del Cedron. Da lì venivano precipitati i bestemmiatori.
Qui il diavolo fa la sua richiesta: “Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”, cita la Scrittura (salmo 91,11-12) dove si parla del soccorso che gli angeli garantiscono a chi confida in Dio. Gesù risponde: “Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”». ed anche questa è citazione della Scrittura, che rievoca l’episodio dell’acqua scaturita dalla roccia (Dt 6,16).
La terza tentazione costituisce il culmine dell’assalto diabolico contro Gesù . Il tentatore lo porta su di un monte assai alto, dal quale si possano contemplare tutti i regni del mondo e qui il diavolo gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». con questa richiesta vuole non solo che Gesù si sottometta a lui, ma che riconosca il suo potere sul mondo.
Gesù allora smaschera il seduttore, e gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Chiamandolo con il suo vero nome, satana, Gesù gli ordina energicamente di andarsene via. Anche questa volta Gesù fa ricorso a una citazione biblica,” Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”. rifacendosi al testo in cui Mosè esorta il popolo di Israele a non dimenticare il Signore, che l’aveva liberato dall’Egitto, e temere e a servire Lui solo (Dt 6,13).
Queste tre tentazioni abbracciano in sintesi tutti i tipi di tentazione che ogni creatura umana di ogni tempo e di ogni luogo può subire: la tentazione materialistica, la tentazione spiritualistica e la tentazione del dominio sugli altri.
Gesù ha replicato alle tre sfide di satana con un’unica arma, quella della Parola di Dio., non ha usato nessuna parola Sua ma solo quella della Sacra Scrittura.
Anche il cristiano, sia religioso che laico, che cammina nella “foresta” della vita, popolata dalle provocazioni sottili o evidenti del benessere, del successo e del potere, deve avere come guida la Parola di Dio.
*****
“In questa prima domenica di Quaresima, il Vangelo ci introduce nel cammino verso la Pasqua, mostrando Gesù che rimane per quaranta giorni nel deserto, sottoposto alle tentazioni del diavolo .
Questo episodio si colloca in un momento preciso della vita di Gesù: subito dopo il battesimo nel fiume Giordano e prima del ministero pubblico. Egli ha appena ricevuto la solenne investitura: lo Spirito di Dio è sceso su di Lui, il Padre dal cielo lo ha dichiarato «Figlio mio, l’amato» (Mt 3,17). Gesù è ormai pronto per iniziare la sua missione; e poiché essa ha un nemico dichiarato, cioè Satana, Lui lo affronta subito, “corpo a corpo”.
Il diavolo fa leva proprio sul titolo di “Figlio di Dio” per allontanare Gesù dall’adempimento della sua missione: «Se tu sei Figlio di Dio…», gli ripete e gli propone di fare gesti miracolosi - di fare il “mago” - come trasformare le pietre in pane per saziare la sua fame, e buttarsi giù dalle mura del tempio facendosi salvare dagli angeli. A queste due tentazioni, segue la terza: adorare lui, il diavolo, per avere il dominio sul mondo.
Mediante questa triplice tentazione, Satana vuole distogliere Gesù dalla via dell’obbedienza e dell’umiliazione – perché sa che così, per questa via, il male sarà sconfitto – e portarlo sulla falsa scorciatoia del successo e della gloria. Ma le frecce velenose del diavolo vengono tutte “parate” da Gesù con lo scudo della Parola di Dio, che esprime la volontà del Padre.
Gesù non dice alcuna parola propria: risponde soltanto con la Parola di Dio. E così il Figlio, pieno della forza dello Spirito Santo, esce vittorioso dal deserto.
Durante i quaranta giorni della Quaresima, come cristiani siamo invitati a seguire le orme di Gesù e affrontare il combattimento spirituale contro il Maligno con la forza della Parola di Dio. Non con la nostra parola, non serve. La Parola di Dio: quella ha la forza per sconfiggere Satana. Per questo bisogna prendere confidenza con la Bibbia: leggerla spesso, meditarla, assimilarla.
La Bibbia contiene la Parola di Dio, che è sempre attuale ed efficace. Qualcuno ha detto: cosa succederebbe se trattassimo la Bibbia come trattiamo il nostro telefono cellulare? Se la portassimo sempre con noi, o almeno il piccolo Vangelo tascabile, cosa succederebbe? ; se tornassimo indietro quando la dimentichiamo: tu ti dimentichi il telefono cellulare - oh!, non ce l’ho, torno indietro a cercarlo; se la aprissimo diverse volte al giorno; se leggessimo i messaggi di Dio contenuti nella Bibbia come leggiamo i messaggi del telefonino, cosa succederebbe?
Chiaramente il paragone è paradossale, ma fa riflettere. In effetti, se avessimo la Parola di Dio sempre nel cuore, nessuna tentazione potrebbe allontanarci da Dio e nessun ostacolo ci potrebbe far deviare dalla strada del bene; sapremmo vincere le quotidiane suggestioni del male che è in noi e fuori di noi; ci troveremmo più capaci di vivere una vita risuscitata secondo lo Spirito, accogliendo e amando i nostri fratelli, specialmente quelli più deboli e bisognosi, e anche i nostri nemici.
La Vergine Maria, icona perfetta dell’obbedienza a Dio e della fiducia incondizionata al suo volere, ci sostenga nel cammino quaresimale, affinché ci poniamo in docile ascolto della Parola di Dio per realizzare una vera conversione del cuore.”
Papa Francesco Angelus 5 marzo 2017
Il Mercoledì delle Ceneri segna, nella tradizione cristiana, l'inizio della Quaresima, il tempo di preparazione alla Pasqua. Il carattere penitenziale della Quaresima si rende visibile proprio in questo giorno attraverso l’austero rito dell’imposizione delle ceneri che ha la sua origine nel battesimo poiché la penitenza è nell’insieme fondata sulla stessa realtà battesimale per il perdono dei peccati ed è poi ripresa e resa segno espressivo, per quanti ricadono nel peccato, nel sacramento della Riconciliazione.
L’invito alla riconciliazione è naturalmente il filo conduttore di tutte e tre le letture liturgiche.
Nella prima lettura, tratta dal Libro del profeta Gioele, il Signore ci invita a tornare a Lui con tutto il cuore…. Non basta offrire a Dio le primizie della terra, ma bisogna che l’uomo riconosca i propri limiti e offra a Dio il suo cuore pentito.
Nella seconda lettura, nella seconda lettera di S.Paolo ai Corinzi, l’apostolo si presenta come ambasciatore di Cristo ed esorta i Corinzi a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro.
Nel brano del Vangelo Matteo, Gesù ci rivela il senso profondo delle pratiche religiose e penitenziali che prima erano del giudaismo e del cristianesimo: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù ci incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso.
Dal libro del profeta Gioèle
Così dice il Signore: « ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti.
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio,
perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male».
Chi sa che non cambi e si ravveda
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libagione per il Signore, vostro Dio.
Suonate il corno in Sion, proclamate un solenne digiuno, convocate una riunione sacra.
Radunate il popolo, indite un’assemblea solenne,
chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
Tra il vestibolo e l’altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
«Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al ludibrio
e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov’è il loro Dio?».
Il Signore si mostra geloso per la sua terra
e si muove a compassione del suo popolo.
Gl 2,12-18
Il Libro del profeta Gioele è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh) che quella cristiana. E’ stato scritto in ebraico e secondo l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi, la redazione del libro è avvenuta nel Regno di Giuda, forse tra la fine VII - inizio VI secolo a.C.. E’ un libro breve, di appena 4 capitoli in cui nella prima parte presenta l'invasione delle cavallette e il ritorno del popolo a Dio che, nel peccato, ha riconosciuto la causa di questa calamità; nella seconda parte predice l'intervento futuro di Dio che, con il perdono, concede il dono dello Spirito santo che fa nuove tutte le cose
Sappiamo molto poco del profeta Gioele, che visse sicuramente a Gerusalemme, il cui nome significa “Yahweh è Dio”, tutto ciò che ci viene detto a suo riguardo si trova in Gioele 1:1: “Parola del Signore, rivolta a Gioele, figlio di Petuel.”Da alcuni è definito il profeta della Pentecoste per la profezia sull'effusione dello Spirito Santo avveratasi il giorno della Pentecoste (Atti 2). È molto difficile stabilire il periodo in cui Gioele profetizzò; comunque, la maggior parte degli studiosi lo considera il primo dei profeti minori, visse durante il regno di Joas (circa 800 a.C.); si è scelta questa datazione perché si ritiene che Amos (760-747) abbia usato i testi di Gioele (v,Amos 9:13). Il tema centrale del messaggio di Gioele è il “Giorno del Signore”, sia sotto l'aspetto negativo sia sotto quello positivo. Egli ne parla negativamente presentando la collera divina, le tenebre e la vendetta contro i malvagi, citando avvenimenti naturali come siccità e invasione di insetti. Ne parla anche positivamente quando presenta la riabilitazione per i giusti, quando Dio invierà a tutti i membri del suo popolo il dono dello Spirito. In questo contesto Gioele parla della valle di Giosafat (dall'ebraico Jehôshafat, «Jahweh giudica»), parola usata per indicare il luogo ideale dove convergeranno tutte le genti. Ogni profeta ha un suo punto di vista e vuole raggiungere dei precisi obiettivi, e Gioele, di fronte ad una grande carestia provocata dall'invasione delle cavallette, che ha colpito la terra di Giuda, non si sente di considerarla un fatto naturale, ma un segno del giudizio di Dio e a questo giudizio non basta prepararsi con un semplice rito penitenziale.
In questo brano egli esprime con queste parole il messaggio del Signore: “ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti,ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore, pronto a ravvedersi riguardo al male”.
L'invito a lacerarsi il cuore, è un termine che richiama la sofferenza dello strappo da cui si vorrebbe fuggire, ma a leggerlo in profondità, accostandolo ad altri passi biblici, vi troviamo non un invito alla morte ma alla vita, alla pienezza della vita.
Come ultima nota possiamo sottolineare che Gioele è anche un poeta che sa gridare il proprio messaggio con un linguaggio chiaro e tono lirico. E’ il profeta della quaresima e della Pentecoste. Durante le settimane che precedono la Pasqua i testi di Gioele ci esortano ad una seria conversione. Il racconto stesso della Pentecoste vede diffondersi sul mondo itnero i doni dello Spirito che questo profeta promette (At 2,17-21)
Salmo 50- Perdonaci, Signore: abbiamo peccato.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.
Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.
Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Questo salmo la tradizione lo dice scritto da Davide dopo il suo peccato, e mi pare di dovere aggiungere durante la congiura del figlio Assalonne, dove Davide vide avverarsi la sventura sulla sua casa annunciatagli dal profeta Natan (2Sam 12,10). Fa un po’ di difficoltà all’attribuzione a Davide del salmo l’ultimo versetto dove l’orante invoca che siano rialzate le mura di Gerusalemme, poiché questo porterebbe al tempo del ritorno dall’esilio. E’ comune, tuttavia, risolvere il caso dicendo che è un’aggiunta messa durante l’esilio per un adattamento del salmo alla situazione di distruzione di Gerusalemme.
Ma considerando che il salmo non poteva essere adatto in tutto alla situazione dell’esilio, poiché sacrifici ed olocausti (“non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, non li accetti”) in terra straniera non potevano essere fatti, bisogna pensare che le mura abbattute sono un’immagine drammatica della presa di possesso di Gerusalemme da parte di Assalonne; Gerusalemme era conquistata e come “Città di Davide” veniva a finire.
L’orante si apre a Dio in un invocazione di misericordia. Domanda pietà.
Si sente imbrattato interiormente. Il rimorso lo attanaglia, si sente nella sventura. Non ricorre alla presentazioni di circostanze, di spinte al peccato, lui coscientemente l’ha fatto: “Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto”. Tuttavia presenta a Dio la sua debolezza di creatura ferita dall’antica colpa che destò al senso la carne: “Ecco, nella colpa sono io stato nato, nel peccato mi ha concepito mia madre”. Con ciò non intende scusarsi poiché aggiunge che Dio vuole la sincerità nell'intimo, cioè nel cuore, e che anche illumina intimamente il cuore dell’uomo affinché non ceda alle lusinghe del peccato: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”.
Ancora l’orante innalza a Dio un grido per essere purificato, per essere liberato dalle sventure che lo colpiscono.
Egli prosegue la sua supplica chiedendo: “Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo”. Il peccato lo ha indebolito, gli sta sempre dinanzi e vorrebbe non averlo commesso.
E’ umile, pienamente umile, e domanda a Dio di non essere respinto dalla sua presenza e privato del dono del suo “santo spirito”; quel “santo spirito” che aveva ricevuto al momento della sua consacrazione a re. Quel “santo spirito” che gli dava forza e sapienza nel governare e nel guidare i sudditi al bene, all’osservanza della legge.
Consapevole della sua debolezza ora domanda umilmente di essere aiutato: “sostieni con me un spirito generoso”.
Ha creato del male ad Israele col suo peccato, ma rimedierà, con l’aiuto di Dio: “Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”.
Ma il peccato veramente gli “sta sempre dinanzi”. Egli non solo è stato adultero, ma anche omicida: “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza”. Salvato dal peccato che l’opprime, egli esalterà la giustizia di Dio, che si attua nella misericordia. Salvato, dal peso del peccato e dalla rottura con Dio egli potrà di nuovo lodare Dio: “La mia bocca proclami la tua lode”.
Ha provato a presentare a Dio sacrifici e olocausti, ma è stato rifiutato. Così ha percependo il rifiuto di Dio è arrivato al massimo del dolore, e questo dolore di contrito lo presenta a Dio: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio”. Egli sa che Dio non disprezza “un cuore contrito e affranto”.
Davide presenta infine Sion, Gerusalemme, che è stata occupata e con ciò è stata messa in difficoltà l’unità di Israele che con tanta fatica aveva saputo costruire.
Riedificate le mura di Gerusalemme, nel senso di ricomposta la forza di Gerusalemme, sede dell’arca e del trono, e attuato un risveglio religioso in Israele, allora i sacrifici e gli olocausti torneranno ad essere graditi a Dio perché fatti nell’osservanza alla legge, nella corrispondenza al dono dell’alleanza.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla seconda lettera di S.Paolo Apostolo ai Corinzi
Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta.
Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio.
Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!
2Cor 5,20-6,2
Paolo scrisse la seconda lettera al Corinzi, spinto dai gravi avvenimenti che avevano scosso la comunità di Corinto. Nell’anno 56 Paolo è a Efeso (At 19) e viene a sapere che alcuni contestatori giudeo-cristiani stanno sollevando la comunità contro di lui. Vi fa una breve visita, ma è ricevuto freddamente, stanco e forse implicato troppo personalmente nel conflitto, non riesce ad aggiustare nulla, anzi la sua visita accresce piuttosto il disordine, si ripromette allora di ritornare in seguito.
Meno ricca della prima in insegnamenti dottrinali, la seconda lettera ai Corinzi ha il grande merito di introdurci nella vita interiore dell’Apostolo, in cui traspare il suo carattere appassionato. E’ una lettera ardente che può essere considerata come il suo diario intimo, le sue “confessioni”.
Nei primi 6 capitoli Paolo ripercorre la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto. I contorni veri di questo malinteso non sono chiari , ma questo diventa per Paolo un motivo per ricordare le motivazioni del suo impegno a favore del Vangelo.
Il brano che abbiamo è la parte finale in cui ritroviamo il motivo fondamentale della lettera: la riconciliazione tra Dio e gli uomini.
“…in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”.
Qui Paolo ricorda che la salvezza operata da Cristo, si può considerare come una grande opera di riconciliazione di cui lui, Paolo, ne è ambasciatore. Egli quindi esorta i Corinzi fino a supplicarli a riconciliarsi senza indugio con Dio, ricordando quanto sia stato grande l’amore di Dio per loro. E continua affermando:”Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”. L'opera della riconciliazione si è potuta realizzare attraverso la morte in croce di Gesù, che pur non avendo peccato è stato trattato da peccato, ha subito la morte del malfattore, perché noi, i veri peccatori, potessimo diventare giusti davanti a Dio.
“Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio”
Di nuovo Paolo ricorda la propria qualità di collaboratore di Dio e in questa veste comunica che questa grazia della riconciliazione richiede una pronta risposta. Non si può rimandare l'adesione a Dio perché si tratta di una realtà davvero importante.
“Egli dice infatti: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!”
Questa citazione è tratta da Is 49,8. Paolo la rilegge come promessa divina che si attua al presente: “ecco ora il il momento favorevole!” Riconciliarsi con Dio per l'apostolo è esigenza improrogabile, perché per la storia umana è suonata l'ora in cui Dio ha deciso di accogliere come amici coloro che gli erano diventati nemici. E' il giorno della pace con il Padre e tra gli uomini!
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando pregate, non siate simili agli ipòcriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipòcriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».
Mt 6,1-6,16-18
Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte del discorso della montagna, in cui Gesù presenta le nove Beatitudini. Il discorso segue quanto detto prima nel versetto 5,20; “ se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”, e questo brano inizia con il monito: “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli.”
Il termine giustizia è usato nella Bibbia per riassumere i rapporti dell'uomo con Dio, la pietà, la religiosità, la fede e con questo termine Gesù intendeva un comportamento che sia conforme alla volontà divina.
Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipòcriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
Gesù non voleva dire che non bisogna mai compiere azioni buone in pubblico, dato che aveva esortato prima i discepoli a far ‘risplendere la loro luce davanti agli uomini’. (Mt. 5:14-16) , ma non avremo nessuna “ricompensa’” dal nostro Padre celeste se facciamo le cose “per essere osservati” e ammirati, come attori che recitano a teatro.
I “doni di misericordia” erano offerte a favore dei bisognosi. (v. Isaia 58:6, 7). Gesù e gli apostoli avevano un fondo comune da usare per aiutare i poveri. (Gv. 12:5-8; 13:29), dato che prima di fare l’elemosina non si suonava letteralmente la tromba, Gesù evidentemente usò un esempio esagerato quando disse che non dobbiamo “suonare la tromba” ( ) davanti a noi quando facciamo “l’elemosina” . Non dobbiamo cioè sbandierare la nostra generosità, come facevano i farisei. Gesù li chiama ipocriti perché rendevano note le loro offerte “nelle sinagoghe e nelle strade”. Quegli ipocriti ‘hanno già ricevuto la loro ricompensa”, ossia avrebbero ricevuto soltanto il plauso degli uomini non certo il premio del Signore.
Come dovevano agire invece i discepoli ed anche noi oggi? Gesù dice: “quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” .
Ci ricompensa permettendoci di stringere un’intima relazione con Lui, perdonando i nostri peccati e concedendoci la vita eterna. (Prov. 3:32; Giov. 17:3; Efes. 1:7) Questo è decisamente meglio che ricevere l’approvazione degli uomini. Gesù incoraggia a fare tutto il bene possibile, però nel segreto del proprio cuore, per avere l'approvazione solo dal Padre misericordioso.
Nel capitolo precedente Gesù ha esortato ad essere perfetti come è perfetto il Padre celeste (5,48), ora Egli spiega ai suoi discepoli che è la relazione con il Padre la sorgente del nostro essere e agire; solo in Lui essi si possono sentire come figli liberi, amati e felici, capaci di portare tanto frutto di bontà verso gli altri.
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Messaggio del Santo Padre Francesco per la Quaresima 2020
“Cari fratelli e sorelle,
la Quaresima è un tempo di rinnovamento per la Chiesa, le comunità e i singoli fedeli. Soprattutto però è un “tempo di grazia” (2 Cor 6,2). Dio non ci chiede nulla che prima non ci abbia donato: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). Lui non è indifferente a noi. Ognuno di noi gli sta a cuore, ci conosce per nome, ci cura e ci cerca quando lo lasciamo. Ciascuno di noi gli interessa; il suo amore gli impedisce di essere indifferente a quello che ci accade. Però succede che quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una globalizzazione dell’indifferenza. Si tratta di un disagio che, come cristiani, dobbiamo affrontare.
Quando il popolo di Dio si converte al suo amore, trova le risposte a quelle domande che continuamente la storia gli pone. Una delle sfide più urgenti sulla quale voglio soffermarmi in questo Messaggio è quella della globalizzazione dell’indifferenza. L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione anche per noi cristiani. Abbiamo perciò bisogno di sentire in ogni Quaresima il grido dei profeti che alzano la voce e ci svegliano. Dio non è indifferente al mondo, ma lo ama fino a dare il suo Figlio per la salvezza di ogni uomo. Nell’incarnazione, nella vita terrena, nella morte e risurrezione del Figlio di Dio, si apre definitivamente la porta tra Dio e uomo, tra cielo e terra. E la Chiesa è come la mano che tiene aperta questa porta mediante la proclamazione della Parola, la celebrazione dei Sacramenti, la testimonianza della fede che si rende efficace nella carità (cfr Gal 5,6). Tuttavia, il mondo tende a chiudersi in se stesso e a chiudere quella porta attraverso la quale Dio entra nel mondo e il mondo in Lui. Così la mano, che è la Chiesa, non deve mai sorprendersi se viene respinta, schiacciata e ferita. Il popolo di Dio ha perciò bisogno di rinnovamento, per non diventare indifferente e per non chiudersi in se stesso. Vorrei proporvi tre passi da meditare per questo rinnovamento.
1. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono” (1 Cor 12,26) – La Chiesa
La carità di Dio che rompe quella mortale chiusura in se stessi che è l’indifferenza, ci viene offerta dalla Chiesa con il suo insegnamento e, soprattutto, con la sua testimonianza. Si può però testimoniare solo qualcosa che prima abbiamo sperimentato. Il cristiano è colui che permette a Dio di rivestirlo della sua bontà e misericordia, di rivestirlo di Cristo, per diventare come Lui, servo di Dio e degli uomini. Ce lo ricorda bene la liturgia del Giovedì Santo con il rito della lavanda dei piedi. Pietro non voleva che Gesù gli lavasse i piedi, ma poi ha capito che Gesù non vuole essere solo un esempio per come dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. Questo servizio può farlo solo chi prima si è lasciato lavare i piedi da Cristo. Solo questi ha “parte” con lui (Gv 13,8) e così può servire l’uomo.
La Quaresima è un tempo propizio per lasciarci servire da Cristo e così diventare come Lui. Ciò avviene quando ascoltiamo la Parola di Dio e quando riceviamo i sacramenti, in particolare l’Eucaristia. In essa diventiamo ciò che riceviamo: il corpo di Cristo. In questo corpo quell’indifferenza che sembra prendere così spesso il potere sui nostri cuori, non trova posto. Poiché chi è di Cristo appartiene ad un solo corpo e in Lui non si è indifferenti l’uno all’altro. “Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1 Cor 12,26).
La Chiesa è communio sanctorum perché vi partecipano i santi, ma anche perché è comunione di cose sante: l’amore di Dio rivelatoci in Cristo e tutti i suoi doni. Tra essi c’è anche la risposta di quanti si lasciano raggiungere da tale amore. In questa comunione dei santi e in questa partecipazione alle cose sante nessuno possiede solo per sé, ma quanto ha è per tutti. E poiché siamo legati in Dio, possiamo fare qualcosa anche per i lontani, per coloro che con le nostre sole forze non potremmo mai raggiungere, perché con loro e per loro preghiamo Dio affinché ci apriamo tutti alla sua opera di salvezza.
2. “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9) – Le parrocchie e le comunità
Quanto detto per la Chiesa universale è necessario tradurlo nella vita delle parrocchie e comunità. Si riesce in tali realtà ecclesiali a sperimentare di far parte di un solo corpo? Un corpo che insieme riceve e condivide quanto Dio vuole donare? Un corpo, che conosce e si prende cura dei suoi membri più deboli, poveri e piccoli? O ci rifugiamo in un amore universale che si impegna lontano nel mondo, ma dimentica il Lazzaro seduto davanti alla propria porta chiusa? (cfr Lc 16,19-31). Per ricevere e far fruttificare pienamente quanto Dio ci dà vanno superati i confini della Chiesa visibile in due direzioni. In primo luogo, unendoci alla Chiesa del cielo nella preghiera. Quando la Chiesa terrena prega, si instaura una comunione di reciproco servizio e di bene che giunge fino al cospetto di Dio. Con i santi che hanno trovato la loro pienezza in Dio, formiamo parte di quella comunione nella quale l’indifferenza è vinta dall’amore. La Chiesa del cielo non è trionfante perché ha voltato le spalle alle sofferenze del mondo e gode da sola. Piuttosto, i santi possono già contemplare e gioire del fatto che, con la morte e la resurrezione di Gesù, hanno vinto definitivamente l’indifferenza, la durezza di cuore e l’odio. Finché questa vittoria dell’amore non compenetra tutto il mondo, i santi camminano con noi ancora pellegrini. Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, scriveva convinta che la gioia nel cielo per la vittoria dell’amore crocifisso non è piena finché anche un solo uomo sulla terra soffre e geme: “Conto molto di non restare inattiva in cielo, il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime” (Lettera 254 del 14 luglio 1897).
Anche noi partecipiamo dei meriti e della gioia dei santi ed essi partecipano alla nostra lotta e al nostro desiderio di pace e di riconciliazione. La loro gioia per la vittoria di Cristo risorto è per noi motivo di forza per superare tante forme d’indifferenza e di durezza di cuore. D’altra parte, ogni comunità cristiana è chiamata a varcare la soglia che la pone in relazione con la società che la circonda, con i poveri e i lontani. La Chiesa per sua natura è missionaria, non ripiegata su se stessa, ma mandata a tutti gli uomini. Questa missione è la paziente testimonianza di Colui che vuole portare al Padre tutta la realtà ed ogni uomo. La missione è ciò che l’amore non può tacere. La Chiesa segue Gesù Cristo sulla strada che la conduce ad ogni uomo, fino ai confini della terra (cfr At 1,8). Così possiamo vedere nel nostro prossimo il fratello e la sorella per i quali Cristo è morto ed è risorto. Quanto abbiamo ricevuto, lo abbiamo ricevuto anche per loro. E parimenti, quanto questi fratelli possiedono è un dono per la Chiesa e per l’umanità intera. Cari fratelli e sorelle, quanto desidero che i luoghi in cui si manifesta la Chiesa, le nostre parrocchie e le nostre comunità in particolare, diventino delle isole di misericordia in mezzo al mare dell’indifferenza!
3. “Rinfrancate i vostri cuori!” (Gc 5,8) – Il singolo fedele
Anche come singoli abbiamo la tentazione dell’indifferenza. Siamo saturi di notizie e immagini sconvolgenti che ci narrano la sofferenza umana e sentiamo nel medesimo tempo tutta la nostra incapacità ad intervenire. Che cosa fare per non lasciarci assorbire da questa spirale di spavento e di impotenza?
In primo luogo, possiamo pregare nella comunione della Chiesa terrena e celeste. Non trascuriamo la forza della preghiera di tanti! L’iniziativa 24 ore per il Signore, che auspico si celebri in tutta la Chiesa, anche a livello diocesano, nei giorni 13 e 14 marzo, vuole dare espressione a questa necessità della preghiera. In secondo luogo, possiamo aiutare con gesti di carità, raggiungendo sia i vicini che i lontani, grazie ai tanti organismi di carità della Chiesa.
La Quaresima è un tempo propizio per mostrare questo interesse all’altro con un segno, anche piccolo, ma concreto, della nostra partecipazione alla comune umanità. E in terzo luogo, la sofferenza dell’altro costituisce un richiamo alla conversione, perché il bisogno del fratello mi ricorda la fragilità della mia vita, la mia dipendenza da Dio e dai fratelli.
Se umilmente chiediamo la grazia di Dio e accettiamo i limiti delle nostre possibilità, allora confideremo nelle infinite possibilità che ha in serbo l’amore di Dio. E potremo resistere alla tentazione diabolica che ci fa credere di poter salvarci e salvare il mondo da soli.
Per superare l’indifferenza e le nostre pretese di onnipotenza, vorrei chiedere a tutti di vivere questo tempo di Quaresima come un percorso di formazione del cuore, come ebbe a dire Benedetto XVI (Lett. enc. Deus caritas est, 31).
Avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio. Un cuore che si lasci compenetrare dallo Spirito e portare sulle strade dell’amore che conducono ai fratelli e alle sorelle. In fondo, un cuore povero, che conosce cioè le proprie povertà e si spende per l’altro.
Per questo, cari fratelli e sorelle, desidero pregare con voi Cristo in questa Quaresima: “Fac cor nostrum secundum cor tuum”: “Rendi il nostro cuore simile al tuo” (Supplica dalle Litanie al Sacro Cuore di Gesù). Allora avremo un cuore forte e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza.
Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.
Papa Francesco
(1) Sul termine “suonare la tromba” un esegeta ha dato un’ulteriore spiegazione: il tempio di Gerusalemme aveva fuori le fessure da cui entravano le monete e all’interno del tempio c’era una piccola stanzetta, dove andava chi voleva fare un’offerta senza essere visto. Quando la gente voleva essere notata, l’offerta la faceva fuori, non soltanto perché era visibile, ma perché le monete entrando scivolavano e facevano un rumore come di tromba molto forte, e tutti si giravano per ammirare. Realmente c’era un’acustica ed era stato fatto apposta perché si lodasse e si evidenziasse la persona.
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)